6.10.01

I tre pilastri dell'egemonia di Washington

di MICHAEL T. KLARE *
Le Monde Diplomatique, luglio 2001

Con l'arrivo al potere di George W. Bush, stiamo assistendo ad una vera e propria svolta nel pensiero strategico americano. D'ora in poi verrà data priorità allo sviluppo e allo spiegamento di forze «high-tech» flessibili, capaci di intervenire ovunque nel mondo, e alla corsa tecnologica. Obiettivo: garantire in modo permanente il primato delle forze armate americane.

Fresco vincitore delle presidenziali del 2000, George W. Bush ha incaricato il suo segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, di «rimettere in discussione lo status quo all'interno del Pentagono» e di elaborare «la strategia (americana) di guerra per il XXI secolo» (1). Una strategia che vediamo già profilarsi a grandi linee, anche se restano da definire i dettagli.
La nuova architettura della difesa americana poggerà su tre pilastri.
Prima di tutto, l'america-centrismo, cioè una dottrina di impiego delle forze che massimizzi gli interessi nazionali, anche nelle operazioni congiunte con gli alleati. In secondo luogo, la global reach, la capacità di proiettare la potenza militare Usa ovunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza. Infine, la supremazia perpetua, o per meglio dire l'utilizzo della scienza, della tecnologia e delle risorse economiche per assicurare sempre e comunque la superiorità delle forze e degli armamenti americani.
Intendiamoci, non sono idee totalmente nuove: già in passato altre amministrazioni hanno privilegiato un principio o l'altro. La novità viene piuttosto dalla loro formulazione in toni così articolati ed appassionati, al punto da configurare un'autentica svolta nel pensiero strategico degli Stati uniti.
Seguendo una prassi largamente diffusa, la dottrina militare americana ha sempre voluto che lo spiegamento di forze armate all'estero obbedisse agli interessi fondamentali della sicurezza nazionale. Ma gli obiettivi strategici si ammantavano di nobili ideali, focalizzando l'attenzione, di volta in volta, sulla difesa della democrazia, la lotta contro il totalitarismo, il mantenimento della pace. Se non sono completamente scomparse con l'avvento di George W. Bush alla presidenza, queste finalità sono ormai rigorosamente subordinate all'affermazione degli interessi nazionali.
Consapevoli di non dover più affrontare una minaccia globale, i leader americani attuali non vedono più nessun motivo imprescindibile per cui un qualche progetto di difesa collettiva debba prevalere sui loro interessi nazionali. «L'America dev'essere presente nel mondo» affermava Bush già nel 1999, «ma questo non vuol dire che le nostre forze armate siano la risposta a tutte le situazioni difficili in politica estera». Il ricorso alla forza per lui si giustifica solo alla luce degli «interessi nazionali permanenti» (2). Fuor di metafora, l'intervento degli Stati uniti dovrà sempre servire a realizzare i loro obiettivi chiave: proteggere i flussi di petrolio dei paesi del Golfo, garantire la sicurezza di Israele e di Taiwan, reprimere il traffico di stupefacenti in America latina, e via dicendo.
Contrastare gli stati-canaglia La priorità riconosciuta ai soli interessi nazionali comporta una ridefinizione della partecipazione Usa alle operazioni multilaterali di peacekeeping, attività secondaria agli occhi di Bush: «L'eccessiva esposizione [delle nostre forze armate] nelle operazioni [di peacekeeping] ha creato un grave problema per il morale delle truppe» (3). In realtà, le preoccupazioni presidenziali, più che dal morale delle truppe, derivano dal fatto che tali operazioni non sembrano giovare granché agli «interessi nazionali permanenti».
Anche il vice presidente, Dick Cheney, aveva dichiarato nell'agosto del 2000, in piena campagna elettorale: «Il problema consiste nel definire i nostri interessi strategici, quelli che meritano la mobilitazione di risorse e l'eventuale perdita di vite americane» (4). È evidente che molte delle operazioni di peacekeeping intraprese da Clinton non rientrano in questa definizione; di conseguenza, gli Stati uniti intendono rimettere in discussione la loro partecipazione alla forza multinazionale in Bosnia.
Una prospettiva analoga ispira la posizione dell'amministrazione Usa sulle armi antimissile (il progetto di un sistema di missili antibalistici noto come National Missile Defense, Nmd). Anche se il presidente ha affermato a più riprese che la realizzazione di tale sistema andrà a vantaggio non solo degli Stati uniti, ma anche dei loro alleati, il ragionamento di fondo punta in un'altra direzione.
E l'ha indicato lo stesso Bush, dichiarando che «la protezione dell'America diventerà una grande priorità nel prossimo secolo», il che comporta, dal suo punto di vista, lo spiegamento del sistema Nmd «al più presto possibile» (5). A dar credito al discorso politico, l'Nmd dovrebbe proteggere il territorio americano dagli «stati canaglia», cioè da quei paesi dotati di missili balistici e governati da leader irrazionali, come l'Iran o la Corea del Nord. Si tratterebbe semplicemente di una reazione prudente e difensiva degli Stati uniti di fronte al comportamento imprevedibile di altri paesi.
In realtà, da un'attenta lettura delle dichiarazioni ufficiali si evince che il programma Nmd è una pedina fondamentale in una strategia attiva ed offensiva. Neutralizzando i missili nemici, l'attuazione dell'Nmd eviterebbe ogni rischio che un futuro presidente americano sia dissuaso dall'attaccare un particolare «stato canaglia», per il timore di esporre gli Stati uniti alle rappresaglie di tale stato, armato di missili a testata chimica o nucleare. Nulla è detto esplicitamente, nero su bianco, ma molto si legge fra le righe, soprattutto nelle dichiarazioni di Rumsfeld. A suo dire, forse gli Stati uniti non avrebbero lanciato l'operazione Tempesta del Deserto contro l'Iraq nel 1991, se avessero saputo che Saddam Hussein poteva disporre di missili intercontinentali a testata nucleare.
«Se non ci dotiamo di mezzi antimissile, vi è un forte rischio di venir indotti a modificare il nostro comportamento e a non servire al meglio i nostri interessi in un eventuale scontro con uno stato-canaglia armato di missili (6)». Su questo america-centrismo si innesta la volontà di potenziare le capacità d'intervento degli Stati uniti nel mondo. La loro strategia ha sempre privilegiato una capacità globale di proiezione delle forze: i militari americani vivevano la guerra fredda come una lotta globale in cui era necessario disporre di mezzi ingenti, adatti ad affrontare le forze nemiche in tutte le regioni del globo. Ma il teatro principale delle operazioni era comunque l'Europa, e quindi le forze americane erano strutturate in vista di una guerra terrestre su vasta scala nelle pianure della Mitteleuropa. Una guerra che avrebbe richiesto un grande spiegamento di carri armati, di artiglieria pesante, e via dicendo. All'epoca, il trasporto di tali mezzi pesanti non poneva alcun problema, in quanto gli Stati uniti potevano immagazzinare i loro sistemi d'arma nelle loro basi europee.
La fine della guerra fredda ha ribaltato questo scenario. Gli Stati uniti non prevedono più di dover affrontare una lunga guerra impegnativa, nell'Europa centrale o altrove; pensano piuttosto a campagne militari brevi ma intense, in località sparse da un capo all'altro del pianeta.
Stante l'impossibilità di far stazionare uomini e mezzi in ogni parte del mondo (e sapendo, peraltro, che ben pochi paesi l'accetterebbero), è giocoforza sviluppare mezzi d'intervento e di trasporto rapidi, partendo dalle basi sul territorio americano. Anche questa non è una novità assoluta, ma resta il fatto che la maggior parte delle armi del Pentagono sono state ideate e prodotte ai tempi della guerra fredda, e il loro trasporto risulta assai difficile. Il problema si è posto in tutta la sua evidenza durante la guerra del Kosovo, in cui gli spostamenti dei mezzi pesanti sono stati particolarmente lenti e laboriosi. A guerra finita, gli strateghi americani non hanno fatto mistero delle loro preoccupazioni al riguardo (7). Se il Congresso voterà gli stanziamenti richiesti, Bush darà la priorità a forze di combattimento flessibili e molto mobili. Per l'esercito questo segna la fine delle grandi unità di mezzi blindati, soppiantate da unità più piccole e manovrabili. Per compensare le loro dimensioni ridotte, queste ultime saranno dotate di munizioni guidate ad alta precisione (Precision Guided Munitions, Pgm). Analogamente, per la Marina, anziché puntare sulle navi da guerra di grandi dimensioni - portaerei, incrociatori - il Pentagono si doterà di «navi arsenale», piccole, invisibili ai radar, e armate di missili guidati di ogni tipo. L'aviazione subirà minori cambiamenti, data la sua mobilità, ma dovrà potenziare le sue capacità di rifornimento in volo e di trasporto delle truppe su lunga distanza.
In generale, come ha dichiarato il presidente Bush il 13 febbraio scorso, la strategia americana vuole forze di terra «più leggere e più letali»; forze aree «più adatte a colpire con estrema precisione obiettivi in ogni parte del mondo» e «forze navali in grado di massimizzare [le] capacità di intervento sul terreno» (8). È un impegno che comporta cambiamenti importanti nel programma di spesa del Pentagono e susciterà malcontento in ambienti militari e industriali influenti. Le resistenze non mancheranno, ma la nuova amministrazione è ben decisa ad innovare, dando ai militari i mezzi per combattere e vincere ovunque, e in particolare nell'est asiatico.
Il terzo elemento di questa visione strategica è la volontà di conservare la supremazia militare nel tempo. Indubbiamente, gli Stati uniti vantano una superiorità schiacciante, che nessun altro paese può pensare di sfidare nei prossimi decenni, ma l'amministrazione è proiettata ancora più lontano nel futuro e vuole assicurare che gli Stati Uniti resteranno la potenza militare dominante nell'arco di tutto il XXI secolo. «È un nostro obiettivo chiave, proiettare l'influenza pacifica americana sia nello spazio che nel tempo», dichiarava Bush nel 1999 (9), precisando che era necessario «mantenere una posizione di forza» per scongiurare che una singola potenza o una coalizione di paesi potesse minacciare la stabilità internazionale, in particolare in Asia. Le origini di questa posizione si trovano in un documento riservato del Pentagono, Defense Planning Guidelines 1992-1994 redatto nel 1992 (si legga in proposito l'articolo di Philip S. Golub). Per mantenere questa posizione di forza, Bush intende sfruttare l'enorme potenziale scientifico e tecnologico del paese, di modo che le sue armi, offensive e difensive, siano sempre una o due generazioni più avanzate rispetto a qualsiasi eventuale nemico.
In questo, Bush segue i teorici della cosiddetta «rivoluzione negli affari militari» (Rma), che intendono ridefinire la tecnologia bellica puntando sugli sviluppi più avanzati: munizioni autoguidate, impiego di satelliti e di mezzi sofisticati di ricognizione aerea, armi nucleari di bassa potenza, sistemi d'arma controllati da robot, e il famoso sistema anti-missile Nmd.
Una scommessa rischiosa Come si è visto, lo scudo antimissile Nmd serve per permettere alle forze militari americane di attaccare eventuali paesi nemici nel momento e con i mezzi di loro scelta. A livello regionale, in zone strategiche sensibili ciò comporta lo spiegamento di sistemi antimissile di intervento - Theatre Missile Defense (Tmd). Indubbiamente, l'Nmd rappresenta un elemento essenziale di questa strategia di supremazia permanente. E quindi il progetto dell'amministrazione Bush ha immense implicazioni per l'Europa e per tutto il mondo. La richiesta dell'Unione europea di un dialogo paritetico sulla sicurezza si scontrerà costantemente con coloro che, a Washington, sono abituati a stabilire le priorità americane, e ad informare i leader europei soltanto in seconda battuta.
Analogamente, i tentativi di migliorare le relazioni degli Stati uniti con la Russia e la Cina susciteranno comprensibilissimi sospetti sia a Mosca che a Pechino, timorose di venir relegate fra le potenze di secondo piano.
Quella di Bush quindi è una scommessa molto rischiosa. Il passato ci insegna che, quando una potenza dominante ha tentato di prolungare all'infinito la propria supremazia, altre potenze in ascesa hanno sempre reagito innescando spesso una corsa agli armamenti o guerre su vasta scala.

note:
* Professore all'Hampshire College (Massachusetts), autore di Resource Wars: the New Landscape of Global Conflict, Metropolitan Books, New York, 2001.
(1) Citato dal New York Times, 29 dicembre 2000.
(2) Discorso del 23 settembre 1999 a Charleston, (South Carolina).
(3) Discorso del 14 febbraio 2001 a Charleston (West Virginia).
(4) Citato dal New York Times del 1° settembre 2000.
(5) Discorso già citato del 23 settembre 1999.
(6) Testimonianza dell'11 gennaio 2001 alla Commissione Difesa del Senato.
(7) Vedi The Economist, Londra, 11 novembre 2000, pp. 29-33, e The Wall Street Journal, New York, 4 maggio 2001.
(8) Discorso del 13 febbraio 2001 a Norfolk (Virginia)
(9) Discorso già citato del 23 settembre 1999.
(Traduzione di R.I.)

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