17.11.04

Rapporto salariale e contrattuale

Vittorio Rieser

Relazione tenuta il 19/6/04 al seminario organizzato dal Dipartimento Lavoro del Partito della Rifondazione Comunista

1. il rapporto salariale: alcune chiavi di lettura
Il salario è l’elemento costitutivo “originario” della contrattazione sindacale, che nasce appunto come contrattazione del prezzo della forza-lavoro. Ma, al tempo stesso, è un elemento centrale del rapporto di classe, attraverso il quale si possono “leggere” aspetti centrali di questo rapporto, con i loro mutamenti.
In questa relazione cercherò – sia pure in modo sommario ed approssimativo – di intrecciare queste due “facce” del salario. Con ciò, da un lato, escludo un’analisi del salario come “variabile economica”, dall’altro, non mi addentro nei dettagli “tecnici” e nei problemi operativi della contrattazione sindacale. Propongo quindi 4 “chiavi di lettura” del salario, che mi pare riflettano bene l’intreccio tra le due “facce” indicate prima, e che permettano quindi un’analisi dell’azione sindacale alla luce di un’analisi dei rapporti di classe. (Naturalmente si tratta di una “selezione” con tutti i caratteri di parzialità che ne derivano). I primi due caratteri si riferiscono al livello “macro”, cioè all’economia generale. L’aspetto dei rapporti di classe che questi primi due “criteri di lettura” pongono maggiormente in luce è il conflitto distributivo, cioè il conflitto tra le classi sulla distribuzione del reddito (posto in luce già da David Ricardo, prima ancora che da Marx).
a) Il rapporto tra andamento dei salari e inflazione (costo della vita): in sostanza, l’andamento del salario reale. Questo è il primo e il più elementare criterio di analisi del salario, che risponde all’esigenza “primordiale” di difendere il livello di sussistenza dei lavoratori (che, non dimentichiamolo, è storicamente determinato e quindi variabile).
b) Il rapporto tra andamento dei salari e andamento della produttività (ci riferiamo qui sempre a un livello “macro”, cioè alla produttività generale del sistema o, al massimo, della produttività di un settore). Questo rapporto determina l’andamento della distribuzione del reddito: se i salari crescono più della produttività, si ha una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori; se avviene l’inverso, si ha una redistribuzione a favore dei profitti. (Ovviamente, se salari e produttività crescono di pari passo, la distribuzione del reddito rimane inalterata – come vedremo, questa era l’ipotesi originaria della “politica dei redditi”). Gli altri due criteri di “lettura” si riferiscono principalmente al livello “micro”, cioè quello dell’impresa (anche se con addentellati che riguardano il mercato del lavoro).
L’aspetto dei rapporti di classe che questi due criteri di lettura contribuiscono maggiormente a illuminare è il comando capitalistico sul lavoro.
c) Il rapporto tra salario e professionalità: come e da chi vengono riconosciute/misurate/retribuite le differenze di qualificazione tra i lavoratori? Questo ci riconduce al problema del valore del lavoro: vedi la distinzione marxiana tra lavoro semplice e lavoro complesso. Ma, in termini più concreti, questo aspetto ha uno stretto rapporto, da un lato, con il controllo dell’impresa sul lavoratore, dall’altro, con il problema dei rapporti interni alla classe lavoratrice. A seconda delle risposte che si danno a questo rapporto, il controllo dell’azienda sul lavoratore può aumentare o diminuire; i rapporti tra diversi strati di lavoratori possono diventare più unitari o far emergere divisioni.
d) Infine, il rapporto tra salario e prestazione lavorativa. A seconda del modo in cui e impostato, questo rapporto può divenire strumento di controllo dell’impresa sul lavoratore, o (insieme ad altri strumenti: da solo non basta) strumento di controllo del lavoratore sulla prestazione e l’organizzazione del lavoro. Il cottimo tradizionale è un esempio della prima funzione; i premi di produzione possono (se accompagnati da altri strumenti di controllo contrattuale) essere coerenti con la seconda. E’ chiaro che questi criteri di lettura riguardano non solo il livello del salario ma la sua struttura interne. Ed è chiaro che, al di là degli specifici criteri di lettura, ve n’è un altro più generale e “trasversale”: quanta parte del salario (“macro” e “micro”) è controllata dalla contrattazione sindacale, e quanta invece è sottratta (in varie forme) al controllo contrattuale?
2. I livelli di contrattazione del salario
Fin dall’immediato dopoguerra, e fino all’inizio degli anni ’90, in Italia i livelli di contrattazione del salario sono stati tre (sia pure con alterne vicende):
- a livello nazionale interconfederale si contrattava la scala mobile, cioè il rapporto tra salario e inflazione;
- nei contratti nazionale di categoria si contrattava la paga-base nazionale di categoria, che di fatto (anche se non in modo formale e regolamentato) si collegava alla produttività media del settore;
- nella contrattazione aziendale si contrattavano gli aspetti salariali legati alla produttività aziendale (di fatto, ciò avveniva nelle aziende la cui produttività superava la media del settore), alla prestazione e alla professionalità (su quest’ultimo aspetto era però il contratto nazionale di categoria a fornire il quadro di riferimento).
Dicevamo “con alterne vicende”. Il peso salariale e la struttura interna della scala mobile sono varianti nel tempo, raggiungendo un “culmine” con l’accordo della vertenza generale del 1975, in cui il punto di contingenza fu rivalutato e divenne uguale per tutti; a partire dal 1984, questo istituto fu progressivamente “depotenziato”. Per quanto riguarda la contrattazione aziendale, sono stati continui i tentativi padronali di eliminarla o “addomesticarla”, e quindi il suo spazio e il suo peso salariale sono variati, anche se non sono mai scomparsi. Negli anni ’80, si è avviato il tentativo di erosione e progressiva demolizione di questa struttura contrattuale. Il padronato ha cercato di bloccare la contrattazione aziendale: non ci è mai riuscito, ma è riuscito a circoscriverla in ampiezza (le imprese deve c’erano adeguati rapporti di forza) e in rilevanza. Il governo (d’accordo col padronato) ha, dalla famigerata “notte di San Valentino” del 1984, iniziato l’opera di demolizione della scala mobile. Questi tentativi hanno avuto il loro coronamento nell’accordo del 31 luglio 1992, firmato unitariamente dai sindacati sotto il governo di Giuliano Amato, in una fase di acute difficoltà economiche e monetarie dell’Italia. In questo accordo, non solo si sanciva la definitiva abolizione della scala mobile, ma si bloccava (sia pure temporaneamente) la contrattazione aziendale. Cadevano così ben due dei tra “pilastri” su cui si reggeva la contrattazione sindacale, e in particolare (per quel che ci interessa) la contrattazione del salario. Su queste “macerie”, l’accordo del 23 luglio 1993 (governo Ciampi), ricostruisce un nuovo sistema contrattuale, basato su due livelli di contrattazione:
- il contratto nazionale di categoria, a cui sono principalmente (per quanto riguarda il salario) demandati i compiti prima assolti dalla scala mobile;
- la contrattazione aziendale, in cui – per quanto riguarda il salario – viene sancito il diritto di contrattare “premi di risultato” collegati in vario modo alla produttività aziendale. Il riconoscimento ufficiale del diritto di contrattazione aziendale (unitamente a quello del ruolo contrattuale delle Rappresentanze Sindacali Unitarie) incontra, non a caso, una tenace resistenza del padronato, che solo alla fine e “obtorto collo” firma l’accordo. Viene così ricostruito, e riconosciuto da tutte le parti sociali, un sistema contrattuale: ma – come vedremo meglio più in seguito – è un sistema contrattuale per certi versi “monco” rispetto a quello che nei fatti (anche se con diversi gradi di riconoscimento formale) aveva caratterizzato le relazioni industriali dei decenni precedenti.
3. Le strategie salariali del sindacato e i loro cambiamenti
Le stesse strutture di contrattazione del salario, ma soprattutto il modo in cui esse sono utilizzate, dipendono anche dalle strategie sindacali in materia. “Anche”, non “solo”: pensiamo ad es. al peso che esercitano la congiuntura economica e il mercato del lavoro, che condiziona la stessa gamma di scelte praticabili dal sindacato. Vediamo dunque (sia pure per “flashes”) alcuni passaggi significativi delle strategie sindacali, in riferimento ai 4 “criteri di lettura” enunciati all’inizio.
3.1 Il salario reale (rapporto salario/inflazione)
Fin dall’immediato dopoguerra fu istituita la scala mobile, per evitare che ogni aumento consistente del costo della vita dovesse tradursi, per difendere il salario reale, in conflitto sindacale. La “copertura” dell’inflazione offerta dalla scala mobile era limitata, ed era differenziata in rapporto al livello professionale. La svolta avviene con l’accordo nella vertenza generale aperta dalle confederazioni sindacali nel 1975 (accordo firmato, per la parte padronale, da Giovanni Agnelli): il punto di contingenza viene fortemente rivalutato e diviene uguale per tutti. (Gli anni seguenti, caratterizzati da forte inflazione, determinarono alcune “conseguenze non attese” di questo accordo. Da un lato, esso fu “provvidenziale”, perché fornì, alle qualifiche più basse, una copertura adeguata del salario reale. Dall’altro, il punto di contingenza “uguale per tutti” determinò una riduzione del salario reale per le qualifiche più alte: questo aspetto – unitamente al peso crescente della “parte automatica” della dinamica salariale – contribuì ad aprire spazio per le erogazioni salariali unilaterali delle aziende). Negli anni ’80, cominciarono gli attacchi alla scala mobile come fattore di acutizzazione dell’inflazione. Anche in risposta a questi, Ezio Tarantelli (un economista vicino al movimento operaio e sindacale, poi assassinato dalle Brigate Rosse) elaborava un’ipotesi non dissimile da quella poi recepita nell’accordo del 23 luglio. Quest’ipotesi, dopo un travagliato dibattito, venne scartata dai sindacati. ma, in proposito, non va dimenticata una cosa: l’”ipotesi Tarantelli” era rivolta a mantenere il meccanismo della scala mobile 8sia pure attraverso meccanismi di dilazionamento nel tempo dei suoi effetti), lasciando così, alla contrattazione di categoria, lo “spazio” per contrattare il rapporto tra salario e produttività di settore; l’accordo del 23 luglio, concluso “a scala mobile defunta”, scarica sul contratto di categoria i compiti prima svolti dalla scala mobile, togliendo spazio alla contrattazione nazionale del rapporto tra salari e produttività. Poco dopo aver scartato l’ipotesi Tarantelli, il sindacato subisce in maniera ben più pesante gli attacchi alla scala mobile: all’inizio la CGIL si oppone (rifiutando di firmare l’accordo proposto da Craxi nel febbraio 84), poi si allinea, accettando alla fine dei 91 che Confindustria denunci gli accordi su questo istituto contrattuale, e infine firmando unitariamente l’accordo del 31/7/92 (vi risparmio il racconto delle giravolte di Trentin su queste vicende).
3.2 Il rapporto tra salario e produttività
All’inizio degli anni ’80, anche a causa di un’impetuosa avanzata salariale, gli economisti e i politici legati al centro-sinistra di allora proposero la “politica dei redditi”: per quanto riguardava il salario (non era questo il solo tema di tale politica), essa proponeva che i salari crescessero di pari passo con la produttività. In tal caso, “ceteris paribus”, la distribuzione del reddito sarebbe rimasta invariata. Questa ipotesi fu allora respinta in genere dal sindacato, e in particolare dalla CGIL, perché si riteneva – giustamente – che un obiettivo “fondante” del sindacato fosse una redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori, e che quindi andassero rifiutate regole vincolanti che chiudessero tale possibilità (o la rimandasse, nel caso, a misure legislative esterne alla contrattazione).
Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti... Non a caso, oggi – molto spesso – quando si parla, anche da parte sindacale, di “politica dei redditi” ci si riferisce alla pura difesa del salario reale (peraltro, neanche questa si è riusciti ad attuare negli ultimi anni). Di fatto il riferimento del salario all’andamento della produttività è oggi – come vedremo meglio in seguito – drasticamente depotenziato. Ci troviamo per certi versi in una situazione simile agli anni ’50, quando la CISL proclamava il rapporto tra salari e produttività (la CGIL aveva ancora “chiusure demagogiche” in proposito), ma non riusciva a realizzarlo per la subordinazione dei padroni.
Oggi, quando un sindacato come la FIOM (basandosi, tra l’altro, anche sulla “lettera” dell’accordo del 23/7/93) tenta di inserire negli aumenti salariali del contratto di categoria un (parzialissimo) recupero degli aumenti di produttività, succede il finimondo, e alla fine si arriva a un accordo separato.
3.3 Salario e professionalità
Alla radice di questo problema sta un aspetto importante del comando capitalistico sul lavoro: la professionalità (e il suo riconoscimento salariale) è in qualche modo un “patrimonio del lavoratore” , o dipende principalmente – nella sua stessa esistenza e nel suo riconoscimento salariale – dal padrone? Naturalmente, tutto ciò non dipende esclusivamente dalla contrattazione (classificazione professionale e suo riscontro salariale), ma da fattori assai “potenti” quali lo sviluppo tecnologico, le trasformazioni organizzativi dell’impresa, il tipo di mercato del lavoro.

Tuttavia, la contrattazione ha un ruolo importante, sia nel definire tipi e criteri di inquadramento professionale sia nel definire come si rapporta a questi la contrattazione del salario. Su questo complesso intreccio di problemi, ci limitiamo a qualche considerazione sull’ugualitarismo salariale che ha caratterizzato la politica del sindacato italiano dalla fine degli anni ’60 fino a buona parte degli anni ’70. La strategia salariale ugualitaria, è bene ricordarlo, non riguardava soltanto il rapporto tra salario e professionalità. Essa investiva (puntando a ridurre od eliminare) le differenze salariali tra aree geografiche (le famose “zone salariali” – che oggi si propone di ripristinare, vedi “Libro Bianco” di Biagi) e le differenze salariali tra settori. In ciò, rispondeva ad elementari criteri di equità sociale. Noi però ci soffermeremo esclusivamente sul rapporto tra salario e qualificazione.
La richiesta di aumenti salariali uguali per tutti, che dal ’69 caratterizza per molti anni la strategia salariale del sindacato, ha forti basi strutturali e “soggettive”. Da un lato, essa riflette la crescente “ugualizzazione al ribasso” delle qualifiche nella fabbrica fordista- taylorista. Dall’altro, essa corrisponde alla ribellione degli operai contro differenze di qualificazione “fittizie”, gestite dal padrone. Questo è il punto che non è stato capito dalle ideologizzazioni dell’egualitarismo salariale (presenti non solo nella sinistra extra- parlamentare ma in parti del sindacato): la spinta egualitaria dei lavoratori non corrispondeva a un “egualitarismo assoluto” (salari tendenzialmente uguali per tutti), ma era la ribellione a un sistema salariale e di classificazione in cui le differenze erano stabilite unilateralmente dal padrone, ed erano spesso “fittizie”, cioè non corrispondenti a differenze di qualificazione reali. Chi si opponeva agli aumenti salariali uguali per tutti (come Trentin, allora segretario generale della FIOM) obiettava che, così facendo, si sarebbe aperto uno spazio per le erogazioni unilaterali delle aziende volte a “premiare” le categorie più alte. Questa obiezione, nell’immediato, fu smentita dai fatti; ma risultò pertinente, per una serie di fattori, nel periodo più lungo. Si creava infatti una “contraddizione latente”:
- da un lato, cresceva il controllo sindacale sull’inquadramento professionale, sottraendolo all’arbitrio del padrone;
- dall’altro, le differenze salariali legate all’inquadramento risultavano sempre più irrisorie (anche, in seguito, per l’effetto del nuovo meccanismo di scala mobile), riducendo così la rilevanza del controllo sindacale sull’inquadramento: a che pro esercitare il diritto di contrattare il mio passaggio di livello, se poi ciò significa poche lire in più di salario? Verso la fine degli anni ’70, inizia una “correzione di rotta” rispetto all’egualitarismo salariale, ma ciò apre una contraddizione “simmetrica e opposta”: si cominciano a rivalutare le differenze salariali legate alla professionalità, ma proprio nel momento in cui il controllo sindacale su questi aspetti (professionalità e suo inquadramento) comincia a declinare. Queste due – susseguenti – contraddizioni aprono uno spazio crescente a una “valorizzazione della professionalità” gestita dalle imprese attraverso erogazioni unilaterali (superminimi individuali e “una tantum”). La profezia di Trentin si avvera, sia pure con una decina di anni di ritardo. Naturalmente, questa problematica ha a che fare col problema della unità dei lavoratori. Su questo, hanno torto sia le ideologie egualitarie (“l’egualitarismo salariale riflette e rafforza l’unità dei lavoratori”) sia quelle anti-egualitarie (“l’egualitarismo produce divisioni tra qualificati e non qualificati, tra operai specializzati e operai comuni, tra impiegati e operai”).
In una prima fase, l’egualitarismo si è inserito, e ne è stato un fattore, in una grande spinta unitaria tra i diversi settori di lavoratori. E questo per due ragioni fondamentali: a) che gli aumenti uguali per tutti erano, anche per i settori più qualificati, più consistenti di quelli “differenziati” che percepivano con la contrattazione precedente; b) che tutto ciò si inseriva in una grande spinta (o speranza) di trasformare il sistema autoritario del lavoro in fabbrica – che spiega anche le grandi mobilitazioni di impiegati all’inizio del periodo. Dalla seconda metà degli anni ’70, la dinamica salariale contrattata si attenua (e cresce quella “automatica”): per gli strati più qualificati, come abbiamo detto, cominciano a pesare di più gli svantaggi che i vantaggi dell’egualitarismo salariale. Ma, soprattutto, si affievolisce la speranza di “trasformare la fabbrica”, che aveva costruito (sia pure in forma embrionale ed approssimativa) un tessuto connettivo tra i lavoratori di diversa collocazione professionale.
Oggi, il problema sembra scomparso dall’orizzonte. Il problema dell’inquadramento professionale viene periodicamente demandato a fantomatiche commissioni paritetiche, il controllo stesso sull’applicazione dell’inquadramento professionale esistente (e ormai largamente superato) e in mano (salvo importanti meritorie eccezioni) alle direzioni aziendali, e quindi la stessa contrattazione del rapporto tra salario e professionalità viene provata delle sue “radici”
3.4 Salario e prestazione
I due “poli” tra cui si muove il rapporto tra salario e prestazione (che, ovviamente, dà luogo a un salario variabile) sono rappresentati emblematicamente, da un lato, dal cottimo individuale tradizionale, dall’altro dalle varie forme di premio di produzione. Il primo rappresenta un legame diretto tra sforzo lavorativo e retribuzione, e con ciò è uno strumento di controllo autoritario dell’impresa sul lavoratore. Il secondo è legato a un insieme più ampio di variabili, il cui rapporto con lo sforzo lavorativo individuale è molto mediato, e fa sì che il salario non aumenti solo in rapporto allo sforzo lavorativo diretto, ma in conseguenza di investimenti tecnologici, migliore organizzazione del lavoro, ecc. Naturalmente, la distinzione è molto schematica: le forme di cottimo sono (o meglio, sono state) molto diverse, e così le forme di premio di produzione – e il mix tra aspetti di controllo aziendale sul lavoratore e aspetti di controllo del lavoratore sulla prestazione varia in corrispondenza. Quello che ci premeva era indicare due “logiche” diverse e contrapposte che possono stare alla base del rapporto tra salario e prestazione. Non è un caso che, fin dall’immediato dopoguerra, la lotta per i premi di produzione sia stata al centro dell’azione sindacale, e si sia periodicamente ripresentata come elemento qualificante della strategia contrattuale articolata – periodicamente, perché di volta in volta bloccata dalla repressione padronale o da impostazioni centralistiche del sindacato. La progressiva diffusione dei premi di produzione va di pari passo col progressivo declino del cottimo – sotto il duplice effetto dell’azione sindacale e delle trasformazioni tecnologiche e organizzative, che accrescevano l’interdipendenza dei lavori e riducevano i margini per le variazioni individuali del ritmo.
Anche oggi, il premio di produzione – nella nuova etichetta di premio di risultato – è un elemento centrale della strategia salariale del sindacato. Anche per questo, è bene far chiarezza su alcuni aspetti. Attorno al premio di produzione, nel movimento sindacale stesso o “ai bordi” di esso, si sono spesso sviluppate dispute ideologiche. Si è periodicamente detto che il premio di produzione è un elemento che spinge a un’identificazione con l’azienda (ipotesi enunciata speranzosamente dalle direzioni aziendali e denunciata “da sinistra”): in realtà ciò sembra non essersi quasi mai verificato, per il rapporto molto mediato che c’è tra il premio di produzione e la prestazione del singolo lavoratore. Si è anche periodicamente sostenuto (da parte di settori di sinistra del sindacato) che il premio di produzione poteva essere uno strumento di controllo dei lavoratori sulla prestazione e sull’organizzazione del lavoro. Ciò è vero solo in parte. Il premio di produzione non è mai, di per sé, uno strumento di controllo sull’organizzazione del lavoro: può essere compatibile con tale prospettiva, e magari aiutarla, se – parallelamente – il sindacato ha saputo costruire altri e più diretti strumenti di controllo sulla prestazione e sull’organizzazione del lavoro. Ma, naturalmente, molto dipende dai parametri a cui è ancorato il premio di produzione. Se sono parametri “produttivi” (ad. es. produttività, qualità, efficienza degli impianti), essi possono intrecciarsi positivamente con un controllo dei lavoratori sull’organizzazione del lavoro – purché si realizzino le “condizioni di accompagnamento” indicate prima. Se sono parametri puramente finanziari, non offrono alcuna possibilità di controllo – spesso neanche di controllo puramente “conoscitivo”. Se poi il premio viene ancorato alla presenza, esso finisce per assumere una valenza di controllo autoritario sul lavoratore simile a quella che aveva il cottimo tradizionale.
Al di là do questi aspetti specifici, resta un dato molto rilevante: a partire dagli anni ’80, si accresce la parte del salario controllata unilateralmente dalle imprese, o sotto forma di erogazioni unilaterali (superminimi individuali, una tantum) o – più indirettamente – attraverso forme di contrattazione aziendale guidata dall’impresa (ad es. facendo subire al sindacato i parametri di premio di produzione voluti dall’impresa).
4. Dall’accordo del 23/7/93 ad oggi
(Naturalmente – dato l’ambito tematico di questa relazione – concentrerò l’attenzione sugli aspetti dell’accordo relativi al salario).
4.1 La “lettera” dell’accordo e la sua applicazione
Com’è noto, l’accordo del 23/7/93 stabiliva due livelli di contrattazione del salario:
- nei contratti nazionali di categoria, veniva negoziato il recupero dell’inflazione (attraverso un meccanismo in due tempi: aumenti legati all’inflazione programmata nel primo biennio; riaggiustamento e conguaglio in base all’inflazione effettiva nel secondo biennio); inoltre però, è prevista la possibilità che gli aumenti salariali tengano conto anche dell’andamento della produttività del settore;
- nella contrattazione aziendale, si contrattano premi di risultato legati alla performance aziendale, misurata secondo parametri negoziati tra le parti.
L’applicazione concreta dell’accordo è stata, per vari aspetti, al di sotto degli stessi margini (non certo amplissimi) che l’accordo apriva.
A livello di contratti nazionali di categoria, lo stesso recupero dell’inflazione reale (anziché essere un fatto “automatico”) è stato spesso oggetto di duri conflitti, e spesso non si è pienamente realizzato (in particolare nei contratti del settore pubblico in senso lato). In quanto al parziale recupero dell’aumento di produttività del settore, esso non è quasi mai stato preso in considerazione nelle stesse piattaforme sindacali; quando si è trattato si farlo, sia pure in misura ridotta e quasi “simbolica”, com’è avvenuta da parte della FIOM, ciò ha dato luogo a uno scontro durissimo, culminato in un accordo separato.
Veniamo ora alla contrattazione aziendale. Anzitutto (è bene ricordarlo) essa riguarda una minoranza di aziende e di lavoratori. In secondo luogo, anche – dato non concesso – che essa rifletta adeguatamente l’aumento della produttività, ciò incide su una fetta ridotta del salario, corrispondente (in media) a una mensilità o poco più, e non all’intero ammontare del salario. Ma, al di là di questo, i casi in cui il sindacato ha provato a contrattare parametri “reali”, legati in vario modo all’andamento produttivo, sono una minoranza. Prevalgono in genere parametri finanziari, proposti dalle aziende. Inoltre, non sono rari i casi in cui – come abbiamo accennato prima – compare (sottoscritto dal sindacato) il parametro della presenza, insieme ad altri o addirittura come unico parametro.
4.2 Le conseguenze – immediate e tendenziali
Anche per l’”interpretazione al ribasso” dell’accordo del 23/7/93, negli anni ’90 si è determinata una pesante redistribuzione del reddito ai danni dei lavoratori, in quanto i salari sono cresciuti molto meno della produttività. A questo si è aggiunta negli ultimi anni (caratterizzati dall’aumento dell’inflazione) una erosione del salario reale. Tutto questo è documentato con precisione nella relazione di Fabio Rapiti, per cui non mi dilungo ulteriormente. Ma, se questi sono in qualche modo “effetti diretti” del modo in cui è stato applicato l’accordo del 23 luglio, altre conseguenze derivano dall’interazione tra queste regole contrattuali (e il modo in cui il sindacato le ha applicate) e il contesto economico e politico. Ha giocato, ovviamente, la congiuntura economica: la “svolta congiunturale” del 2001 ha contemporaneamente rallentato lo sviluppo e accelerato l’inflazione (con ovvie conseguenze sul potere contrattuale del sindacato). In modo più profondo, ha giocato la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro. Qui accenneremo solo alle sue conseguenze salariali: vale però la pena di notare che, anche in questo caso (come per l’accordo del 23 luglio), le norme iniziali “di flessibilità” (accennate nell’accordo stesso, e precisate poi nel “pacchetto Treu” votato anche dal PRC) sono state progressivamente allentate/allargate dalla contrattazione sindacale di categoria ed aziendale – anziché imporne un’applicazione più controllata e “garantista”.
Sul piano salariale, la proliferazione dei “rapporti atipici” allarga l’area di figure “salarialmente deboli”:
- perché escluse da certi benefici salariali: contratti di formazione-lavoro, apprendisti (condizioni già accettate dal sindacato nel corso degli anni ’80);
- perché ricattabili (tempi determinati) o perché con una “controparte ambigua” (interinali);
- perché fuori dalla contrattazione sindacale (para-subordinati).
La politica del governo Berlusconi, sintetizzata nella famigerata “legge Biagi”, tende a generalizzare ed espandere questa situazione – anche se è ancora presto per valutarne l’impatto concreto, “quantitativo”. La deregulation diviene regola; i lavoratori “atipici” non sono più tali, ma rientrano, come gli assunti a tempo indeterminato, nella moltitudine di “tipi” possibili sul mercato del lavoro.
Ma non di tratta solo di questo. Il governo Berlusconi ha avviato direttamente (e approvato nella linea confindustriale) la pratica degli accordi separati, che come abbiamo visto ha una sua peculiare rilevanza nella contrattazione del salario.
5 Quale strategia salariale oggi?
N.B. – le considerazioni che seguono non sono un tentativo di risposta organica ai problemi individuati nella “parte analitica” della relazione; sono riflessioni individuali disorganiche, anche se ovviamente sono in stretto rapporto con l’analisi fatta prima. I sindacato si è ormai accorto dell’esistenza e della priorità di una questione salariale. Se n’è accorto doppiamente in ritardo: in ritardo rispetto a quanto questa ha cominciato ed emergere, e in ritardo rispetto alla fase congiunturale che avrebbe permesso di affrontarla con maggiori probabilità di successo.
Come affrontarla oggi? La prospettiva dovrebbe essere teoricamente chiara: ricostruire un controllo contrattuale sui 4 “grandi riferimenti” del salario che abbiamo schematizzato all’inizio:
- salario reale (rapporto con il costo della vita)
- rapporto salari/produttività (distribuzione del reddito)
- rapporto salario/professionalità
- rapporto salario/prestazione.
“Teoricamente” chiara, perché il problema concreto è: quali priorità tra questi aspetti? come realizzarli?
A questo punto è bene chiarire che il problema salariale può essere affrontato non solo con la contrattazione, ma con misure legislative.
Personalmente, sono abbastanza scettico in proposito. Anzitutto, perché con l’attuale maggioranza governativa le proposte legislative avrebbero un puro ruolo propagandistico. Esse possono però avere senso se si ritiene di farne elementi prioritari di un possibile accordo programmatico con centro-sinistra. E qui è necessario fare delle distinzioni. Vi sono misure che necessariamente passano per la legislazione prima che per la contrattazione; è il caso delle varie possibili forme di “salario di inserimento” o “di cittadinanza”, e anche delle misure per far accedere alla contrattazione figure che ne sono (totalmente o parzialmente) escluse. Altre misure in qualche modo “si sovrappongono” ad aree già coperte (anche se inadeguatamente) dalla contrattazione: e su queste sono personalmente più dubbioso. L’ipotesi di aumentare il salario reale attraverso detrazioni fiscali per i lavoratori è un’arma a doppio taglio, perché nel clima dominante (europeo) attuale ogni riduzione fiscale apre la via a tagli del welfare. Quanto all’ipotesi di reintrodurre la scala mobile per legge, abbiamo già avuto una bruciante esperienza quando si è tentato di re-introdurla “per referendum”.
Al di là delle personali posizioni su questi aspetti, resta il fatto che la “via maestra” per un recupero salariale passa per la ripresa della contrattazione del salario. Con quali priorità? Data la situazione attuale, di forte e insoddisfatta spinta salariale dei lavoratori e di debolezza sindacale nel controllo sull’organizzazione del lavoro, credo che siano prioritari gli aspetti “quantitativi” (recupero del salario reale e recupero salariale degli aumenti di produttività) rispetto a quelli più “qualitativi” (salario/professionalità e salario/prestazione).
Il terreno “logicamente centrale” per questi obiettivi è il contratto nazionale di categoria. “Logicamente”, ma nella pratica? La situazione congiunturale non aiuta, CISL e UIL sono sempre disponibili ad accordi separati “al ribasso”, e le stesse categorie della CGIL continuano spesso imperterrite (quando non intervenga la Confederazione a bloccarle) a firmare esse stesse accordi al ribasso.
Varrebbe la pena di approfondire questo tema più in generale: le profonde differenze, non solo di sfumatura ma di linea politica, nella politica contrattuale dei diversi “pezzi” della CGIL. Ciò include anche il modo di gestire i rapporti unitari: a Melfi la gestione “unilaterale” coraggiosa della lotta di massa riapre rapporti unitari anche più ampiamente nella categoria: in altre categorie i rapporti unitari nascono dal fatto che la CGIL si appiattisce sulle posizioni CISL e UIL…
Comunque, il livello dei contratti nazionali di categoria è imprescindibile. Però, al di là di questo, può aver senso una sorta di “guerriglia salariale aziendale”, a partire dalle aziende in sviluppo e dove si è più forti. Già in passato, una tattica del genere, con i fenomeni di “wage drift” da essa prodotti, è stata il preludio a un’offensiva salariale (e non solo salariale) più generale. E, in fondo, i “precontratti” della FIOM – al di là del giusto principio generale che li guida – corrispondono nei fatti a una situazione di questo genere. Credo anche che, in quest’ottica, si possa avere una relativa “spregiudicatezza sulle formule”, cioè sulle voci e i meccanismi dell’aumento salariale – purché si escludano fermamente quelli che rafforzano il controllo padronale sui lavoratori.
Innescare un meccanismo di recupero salariale è una condizione- base, forse primaria e più immediata, per ricostruire un rapporto non effimero tra sindacato e lavoratori. Ma, a partire da questo (o contestualmente, dov’è possibile) va ripresa la battaglia per il controllo sulla prestazione e l’organizzazione del lavoro. Senza di questo, non si possono affrontare gli altri aspetti del rapporto salariale, e le stesse conquiste salariali possono essere vanificate o usate contro i lavoratori.

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