15.3.06

Berlusconi "socialista" e la Nuova Destra in Italia


di Valerio Evangelisti

26 gennaio 2006
(tratto da Carmilla on line)

La versione italiana del fenomeno mondiale chiamato “nuova destra”, e comprendente aspetti disparati ma coerenti come il neoconservatorismo statunitense, il fondamentalismo cristiano, il revisionismo storico, in Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Non perché questo monopolista industriale passato alla politica sia individualmente all’origine del fenomeno, ma perché ha saputo farsene il catalizzatore nella penisola, e radunarne in un’unica compagine – almeno per un certo tempo – le diverse espressioni. Ciò malgrado l’assenza di un pensiero univoco e di una cultura unificante, sostituiti da tutta una gamma di atteggiamenti e di prese di posizione contingenti, a brevissimo respiro.

Ora che il governo Berlusconi sembra volgere al fine, è il momento di interrogarsi con pacatezza e lucidità su ciò che ha rappresentato in Italia. Esiste tutta una letteratura che si è concentrata sul personaggio, per sottolinearne le caratteristiche sgradevoli o equivoche, e che ne ha interpretato l’opera, quale presidente del consiglio, in chiave di instaurazione di un regime semi-totalitario.
Chi fa propria questa interpretazione di solito non dispone di strumenti critici storico-economici capaci di raggiungere il livello strutturale dei fenomeni; e ciò in quanto per lo più professa un’ideologia liberale o neoliberale – vale a dire la stessa ideologia di cui Berlusconi è alfiere, sia pure in una variante estremistica e tinta di populismo. Se si compartiscono le coordinate ideologiche, diventa difficile situare con precisione sotto il profilo storico o delle idee l’oggetto studiato, perché le strutture contestuali appariranno date e non discutibili. Ci si arresterà quindi all’epifenomeno – specie se un’analisi più approfondita approderebbe al riconoscimento di una responsabilità propria, per non dire di una corresponsabilità.
Chi adotta il taglio epifenomenico, tra l’altro, finge di dimenticare che Berlusconi è stato regolarmente eletto, e che i provvedimenti che lui e i suoi alleati di governo hanno adottato, inclusi i decreti e le leggi più aberranti, sono passati non in virtù di presunti “colpi di mano”, bensì con un uso totalmente legale della maggioranza schiacciante offerta loro dal sistema elettorale maggioritario. Chi si è battuto per quest’ultimo ha pochi titoli per denunciare il “regime” di Berlusconi, visto che ha approntato o approvato gli strumenti di cui l’avversario si è poi servito.
Dovrebbe piuttosto chiedersi perché gli elettori abbiano votato un personaggio simile, dotato di un programma teso solo a soddisfare egoismi propri e altrui. L’ “offerta Berlusconi” non si sarebbe affermata se non avesse trovato nella società una domanda corrispondente, essenzialmente suscitata da altri.

Di norma, chi critica il Berlusconi “autocrate” e instauratore di un regime è consapevole del fatto che il personaggio gode delle simpatie di una parte consistente dell’elettorato, in alcuni momenti maggioritaria. Tende ad attribuire un consenso così largo al monopolio sui mezzi di comunicazione, e soprattutto sulla televisione (i canali Mediaset, poi, dopo l’ascesa alla presidenza del consiglio, anche quelli Rai). Lo stesso Berlusconi ha d’altra parte dimostrato di attribuire al controllo dei media un valore strategico, e il recente abbandono di ogni parvenza di par condicio in tema di interventi elettorali basta a dimostrarlo.
Tuttavia, se l’egemonia sui media costituisce condizione necessaria per creare consenso, non è condizione sufficiente. L’Italia non è l’unico paese occidentale in cui, nel campo della comunicazione, esistono condizioni di monopolio pieno, parziale o di fatto. E’ stata l’Unione Europea, e non già il governo italiano, a esigere che le trasmissioni satellitari avessero in Rupert Murdoch (Sky) un gestore unico.
D’altro lato, si è visto ripetutamente come l’unanimità dei media non sempre riesca a condizionare la società, quanto meno di fronte a scelte di fondo. Ne è esempio recente il rifiuto francese della costituzione neoliberale europea, malgrado infinite pressioni medianiche. E che dire, quanto all’Italia, della ripulsa popolare della guerra all’Iraq, fino a obbligare un’opposizione reticente a farla propria, seppure tra mille ambiguità? Di converso, quando un presunto opinion leader come Giuliano Ferrara, con l’appoggio di quasi tutte le forze politiche e di quasi tutti i media, ha indetto una manifestazione a sostegno di Israele, è riuscito a radunare solo una manciata di simpatizzanti.
Non basta il potere mediatico a dare ragione delle fortune di Berlusconi, così come non bastano le troppo facili tesi cospiratorie. Bisogna andare più a fondo, il che significa partire da più addietro nel tempo.

Silvio Berlusconi non ha mai nascosto il proprio debito verso Bettino Craxi, per i molti favori ricevuti dal defunto leader socialista. Il debito andrebbe però esteso ad altri lasciti di natura immateriale. L’epoca dei governi di centrosinistra guidati da Craxi fu quella in cui le classi medie italiane presero coscienza di se stesse e rivendicarono il ruolo propulsivo che, fino agli anni Ottanta, era sembrato appartenere agli operai, usciti vincitori dal lungo autunno caldo ’69-’70.
Il segnale era venuto dalla marcia dei 40.000 quadri intermedi della Fiat contro l’occupazione della fabbrica, nel 1980. Craxi completò l’opera sfidando direttamente i sindacati sul tema della scala mobile e riportando una vittoria schiacciante. Nello stesso tempo, a partire dal laboratorio di Milano, incoraggiò in ogni maniera l’ascesa di ceti di derivazione medio borghese e impiegatizia, spinti a investire in ambiti non direttamente legati alla produzione, come l’edilizia, le attività di servizio, la borsa; campi nei quali anche capitali modesti, se bene impiegati, potevano condurre a un rapido arricchimento.
Craxi, malgrado l’ideologia apparentemente diversa, fu l’equivalente italiano di Margaret Thatcher. Come lei indebolì fortemente le organizzazioni operaie, spingendole a politiche di conciliazione con il padronato; come lei agevolò la nascita di una borghesia di nuovo tipo, arrogante, intraprendente, sicura ormai di costituire il cuore della società. Si passò dalla timidezza dei ceti medi inferiori e dall’aristocratica distanza di quelli superiori a esibizioni sguaiate, in una corsa alla ricchezza che attribuiva ogni virtù al vincitore e ogni colpa al vinto. Se non si approdò a un vero e proprio “reaganismo” fu solo perché lo stato sociale non fu manomesso che marginalmente. Solo, si cominciò a metterne in discussione, se non la legittimità, quanto meno l’utilità.

Simili tendenze rimasero operanti anche dopo che Craxi fu costretto all’esilio e i maggiori partiti politici italiani furono travolti e distrutti dai processi per corruzione. La prima repubblica, a ben vedere, andava stretta proprio ai nuovi ceti medi rampanti, infastiditi da un’intelaiatura istituzionale che, ancora modellata su basi ideologiche “storiche”, non coincideva con la loro spregiudicatezza.
Nella seconda repubblica fu proprio a quei ceti che si rivolse l’attenzione ossessiva delle forze politiche obbligate a ristrutturarsi. Sinistra e destra abbandonarono connotazioni classiste e retaggi ideali per fare delle classi medie l’unico referente, mentre, sul piano delle scelte internazionali, sopravviveva quale solo orizzonte un Occidente mitizzato, a sua volta visto come paradiso dei ceti medi.
I governi di centrosinistra della fase post-craxiana fecero ogni sforzo per spostare il risparmio dei cittadini dai tradizionali titoli di Stato al mercato azionario, mentre cercavano di abbellire la nozione di “flessibilità” per renderla appetibile a ciò che rimaneva della classe operaia – e spingerla così al suicidio definitivo. Questo, certo, in obbedienza ai dettami dell’economia mondiale dopo la caduta del muro di Berlino; ma anche quale scelta ideologica propria, conseguente all’opzione per i ceti medi quale primario referente sociale.
Sotto il profilo culturale, cominciarono rapidamente a essere messi in discussione tutti i parametri su cui la prima repubblica era stata edificata, a iniziare da quello fondante: l’antifascismo. Già Craxi aveva promosso lo “sdoganamento” degli ex fascisti, invitati a partecipare attivamente alla vita politica dopo che avevano, a loro volta, eletto i ceti medi a referente e rinunciato alle asperità della loro ideologia (tipo il discorso antidemocratico, sostituito da un blando autoritarismo di tipo presidenzialista, o l’antisemitismo). Durante i governi di centrosinistra del dopo Craxi si moltiplicarono le rivelazioni di “crimini” antifascisti, a opera di comunisti pentiti, e si fece strada la tesi di una pari dignità di chi, nel 1943-45, aveva combattuto su fronti opposti. Tesi che trovò cordiale accoglienza in ambito accademico e nella pubblicistica corrente.
Ovviamente, non era nell’interesse di nessuno – nemmeno dei post-fascisti – una piena rivalutazione di Mussolini. Era invece nell’interesse di tutti sommare +1 (antifascismo) a –1 (fascismo), per avere come risultato 0. Bisognava insomma azzerare ogni ideologia, per crearne una nuova, priva di addentellati storici, corrispondente alla richiesta dei nuovi ceti medi. Inclini per natura, come è ovvio, al puro pragmatismo.

E’ in questo contesto che Berlusconi poté affermarsi quale uomo politico di largo seguito e, nel 1994, accedere una prima volta al governo. Molti rimasero stupiti di come fosse stato capace di costituire il proprio partito praticamente da un giorno all’altro, e attribuirono l’evento al solo potere su televisioni e giornali (questi ultimi peraltro di scarso prestigio, almeno nel caso dei quotidiani). In realtà, Berlusconi intuì meglio di ogni altro che, nel vuoto e nella confusione lasciati dalla prima repubblica, ogni avventura politica era possibile, inclusa la costituzione di un partito fondato su palesi schemi aziendali.
I quadri che raccolse, oltre che cooptati dal suo stesso impero economico, provenivano proprio da quella classe media “d’assalto” che si era coagulata nei due decenni precedenti e che avvertiva la mancanza di forme di rappresentanza adeguate – rimpolpati da figure secondarie di professionisti della politica sopravvissuti all’ecatombe di “mani pulite”.
Ciò, come era avvenuto con Margaret Thatcher, provocò il disgusto dei conservatori tradizionali (ben rappresentati, in Italia, dal giornalista Indro Montanelli), che preferirono trarsi in disparte. Non erano più i ceti medi o medio alti a cui si riferivano a esercitare un’egemonia sociale. Era invece una piccola e media borghesia, spesso giovanile, di recente estrazione plebea, priva di solida cultura, dagli appetiti famelici, incline alla volgarità e allo strepito, edonista, spudorata nell’esibire il proprio cinismo.
Che di “egemonia” si trattasse lo rivelarono i risultati elettorali, in cui si vide che la nuova classe era capace di mobilitare le altre, sia superiori che inferiori, anche contro i loro interessi immediati. Quanto al tessuto ideologico, esso era quanto mai confuso e cangiante. I nemici erano chiari: la “sinistra” (Berlusconi sembra non avere mai annoverato in tale schieramento il suo padre putativo, il socialista Bettino Craxi) e il suo equivalente semantico, “i comunisti”. Dove per “comunisti” devono intendersi anche i più timidi keynesiani, i riformisti all’acqua di rose e persino i liberali e i conservatori di vecchio stampo.
Quanto alla pars construens, essa era molto meno definita. Si trattava, almeno in origine, di accentuare il liberismo già operante in economia, riducendo ulteriormente le remore poste dallo Stato all’azione imprenditoriale, soprattutto sul piano delle normative e della fiscalità. A ciò, in politica, corrispondeva solo in parte il liberalismo, visto che esso era temperato, da un lato, da una vistosa tendenza al bonapartismo e, dall’altro, da influenze clericali per ciò che atteneva ai diritti civili. La politica estera, per sua parte, era interamente delegata agli Stati Uniti, di cui l’Italia ambiva a essere una sorta di rappresentante in Europa, anche a scapito dei rapporti con gli altri paesi dell’Unione.
Se vogliamo cercare analogie, le troviamo, bizzarramente, fuori dal vecchio continente, nelle politiche del presidente messicano Vicente Fox. Ma si tratta di un esercizio sterile. In realtà il “modello Berlusconi”, se tale si può definire, non ha base ideologica dai contorni netti. In certi momenti diverrà catalizzatore di ogni tipo di tendenza reazionaria; in altri si colorirà di populismo. Unica costante, la base sociale di cui dicevo, blandita in tutte le maniere, e un perenne pragmatismo, nemico dei progetti di troppo lunga portata.
Le nuove classi medie, giunte al governo dopo avere schiacciato le vecchie, e con esse tutte le altre classi, adottarono dunque – nel leader carismatico prescelto – il punto di vista dettato dalla loro nascita recente. Insofferenza per le costrizioni istituzionali; ricerca dell’impunità; soddisfazione degli interessi immediati a scapito della nozione di “bene comune”; visione incapace di spingersi nel futuro. Ciò che viene di solito attribuito a Berlusconi, appartiene invece ai ceti di cui questi era ed è espressione.
Più di recente, alcuni intellettuali di modesta levatura hanno cercato di strutturare questo coacervo di impulsi e di cercare vincoli col pensiero neocon statunitense. Tempo perso. La base che sostiene Berlusconi è irriducibile a un sistema ideologico qualsiasi, e costituisce una specie di “destra apolitica”. In questo senso, e solo in questo, si può parlare di una “nuova destra” in Italia.

Sotto il profilo culturale, continuò ovviamente la voga revisionista, in sintonia del resto con tendenze restauratrici operanti su scala mondiale. La complicità di parte del mondo universitario fu in questo senso determinante, dato che è nelle università che si elaborano le tesi destinate poi a essere riprese, se in sintonia col clima politico, dagli editorialisti dei media più influenti.
In Italia ciò assunse le forme – tuttora operanti – di una vera e propria offensiva tesa a ribaltare giudizi consolidati, su momenti storici in cui erano in gioco rapporti di forza. Ancora oggi, nelle università italiane, opera una minoranza molto agguerrita di docenti che riabilita l’Inquisizione contro il libero pensiero, il colonialismo contro le idee di autodeterminazione, i moti reazionari plebei contro i riflessi in Italia della Rivoluzione francese, il franchismo contro la “repubblica dei senza Dio”, ecc. Tesi prontamente riprese e divulgate dai quotidiani, non sempre e solo di destra, e dai (pochi) programmi “culturali” televisivi.
Naturalmente, cuore di ogni revisione resta il giudizio sull’antifascismo, e cioè sulle idee fondanti della repubblica italiana. Qui si è manifestato con maggior vigore uno dei fenomeni che hanno accompagnato le fortune di Silvio Berlusconi: il “pentitismo” di non pochi esponenti, veri o presunti, della sinistra. Tra i sostenitori del premier si contano a dozzine gli ex comunisti, gli ex antifascisti, gli ex militanti dell’estrema sinistra. Nel campo del revisionismo storico, sono stati costoro a giocare un ruolo fondamentale.
Un caso tipico è quello del giornalista Giampaolo Pansa. Con un passato di antifascista, collaboratore del settimanale di sinistra (più un tempo che oggi) L’Espresso, si è specializzato in volumi, partoriti a getto continuo, sui “crimini” della Resistenza. La documentazione è dubbia o lacunosa, le imprecisioni sono innumerevoli, ogni episodio è isolato dal contesto. Ma ciò non conta, rispetto allo scopo; che non è rivalutare il fascismo, quanto fare tabula rasa di ogni sistema di valori e di ogni valutazione autenticamente storica, sostituita da una sorta di cronaca nera a posteriori.
Un sistema già adottato, da parte della sinistra moderata, nei confronti dei sommovimenti sociali degli anni ’70, letti solo in base al concetto di legalità, strappati al quadro temporale, ridotti a fatti di interesse solamente giudiziario – fino ad approdare, nei casi peggiori, alle teorie cospirative che sono il surrogato, in ambito neoliberale, della filosofia della storia.
E’ triste dirlo, ma la “nuova destra” italiana non sarebbe mai sorta senza il concorso attivo della sinistra.

Malgrado uno scenario estremamente favorevole, il progetto di Silvio Berlusconi ha raccolto in ambito culturale risultati miserabili. Sono intellettuali di levatura secondaria quelli accorsi al suo appello, commentatori giornalistici e televisivi, divulgatori senza peso che non sia epidermico, spesso strappati agli alleati di destra o agli avversari di sinistra. Appaiono con frequenza ossessiva nei talk show, nelle trasmissioni sportive, nei programmi di varietà. E’ chiaro che la dimensione mediatica è la più confacente a chi è portatore di un pensiero la cui unica base, liberismo economico a parte, è la guerra contro la memoria e contro ogni forma di profondità.
Ancora peggio è andata a Berlusconi e ai suoi seguaci in ambito letterario. Non vi è in Italia alcuno scrittore di rilievo che si dica “berlusconiano”, a parte il manipolo di ignoti che si ritrova sulle pagine della rivista Il Domenicale, stampata in migliaia di copie che regolarmente rimangono invendute (completamente diverso sarebbe il discorso su chi invece si colloca più a destra di Berlusconi e rifiuta il centrodestra in nome della destra pura).
Se il calibro mediocre degli intellettuali è sintomatico della non-ideologia di Berlusconi, l’assenza di scrittori alla mensa del premier indica molto di più. Vuole dire che la colonizzazione dell’immaginario degli italiani non è stata totale, visto che non ha coinvolto quanto meno un segmento dei fabbricanti di immaginario. E il discorso potrebbe essere esteso, con differenti articolazioni, a cinema, teatro, arti figurative ecc. Strumenti comunicativi meno immediati della televisione o dei quotidiani, ma capaci di lasciare un’impronta più profonda.
L’essere “estranei” a Berlusconi, naturalmente, non significa essere “contro”, né avere colto la sostanza ideologica e sociale del suo sistema. Sta di fatto che il mancato controllo dell’ambito letterario e culturale tradizionale, malgrado il possesso di alcune delle principali case editrici (che pubblicano autori ostili al massimo azionista sia per indipendenza propria, sia perché sono i soli richiesti dal mercato), costituisce un fattore di debolezza. A esso Berlusconi non può porre rimedio, perché la cultura “di lunga durata”, con le sue dinamiche, è ignota a lui e alla maggior parte dei suoi collaboratori.
L’ostilità del mondo culturale e letterario può essere valutata, in tutta la sua pericolosità, solo da chi con essa abbia dimestichezza.

Silvio Berlusconi è in crisi e la sua caduta, al momento, appare ineluttabile. Non che i nuovi ceti medi che ha saputo rappresentare per alcuni anni siano scomparsi; tutt’altro, la loro egemonia perdura. Solo che, in una fase in cui le possibilità di arricchimento rapido si restringono, manifestano la necessità di qualcosa di più solido di una forma di governo fatta di nulla, priva di programma, di ideologia, di proposte che non siano contingenti, di visioni ampie. Sicuramente quei ceti, all’allievo di Craxi, preferirebbero oggi un nuovo Craxi. In mancanza di meglio, si volgono al centrosinistra.
Un giorno bisognerà riconoscere che Berlusconi è stato, a suo modo, un “rivoluzionario”. Ha sovvertito la vita politica, la comunicazione, lo Stato, ogni istituzione che ha potuto sovvertire. Ma il suo ruolo ricorda quello che gli agitatori giocano agli inizi di una rivoluzione, salvo essere messi in disparte pochi anni dopo da chi possiede un progetto più duraturo.
La “nuova destra” italiana, il neoliberalismo, non sono morti, ma certo non hanno più in Berlusconi il loro esponente di punta. Se anche, per miracolo, vincesse nuovamente le elezioni, sarebbe comunque già morto. Ha eretto un sistema fondato sulla finzione, operazione di sicuro successo nel paese che ha dato i natali alla commedia dell’arte e ha un culto per i Pulcinella. Ha reinventato i comunisti per avere un nemico identificabile, ha simulato basi ideologiche per giustificare il proprio empirismo, ha evocato mete chiaramente irraggiungibili credendo di farle concrete attraverso la reiterazione del rituale evocativo, ha spacciato sogni suoi nel tentativo di renderli collettivi. In simultanea – ed è tratto caratteristico – modificava se stesso attraverso ripetuti interventi di chirurgia plastica, nello sforzo (in parte riuscito) di far dimenticare la propria identità di settantenne.
Di Berlusconi e della sua “insurrezione” neoliberale, dopo l’abbandono da parte dei ceti medi, rimarrà una maschera. Ma con lui non sparirà la “nuova destra” italiana. Al contrario. La destra vera deve ancora venire.

(Relazione pronunciata a Siviglia, il 27 ottobre 2005, al convegno Nueva derecha: ideas y medios para la contrarrevolución, organizzato dalla rivista Archipiélago e dalla 'Università Internazionale dell'Andalusia - Sezione Arteypensamiento.)

11.3.06

Santi subito! "Infoibati" veri e presunti

Da: Claudia Cernigoi, Operazione foibe. Tra storia e mito, Edizioni Kappa Vu, Udine 2005.


Il fenomeno del collaborazionismo a Trieste assunse dei livelli talmente vasti da disgustare persino Christian Wirth, “der wilde Christian” [Christian il selvaggio, nella foto], il primo “organizzatore” del lager della Risiera:

«i collaboratori superstiti... hanno ben riferito del compiacimento e del disgusto espressi dal Wirth per avere trovato in questa città ed in Fiume tanta gente disposta a concretamente favorire, per motivi il più delle volte non politici, la realizzazione dei suoi piani in questo specifico tema» [l’eliminazione degli Ebrei, n.d.a.]. [1]

Racconta lo storico Giuseppe Piemontese, che s’era trovato a lavorare, durante l’occupazione tedesca, presso l’ufficio traduzioni della cassa di malattia dell’amministrazione germanica assieme ad un amico di famiglia, il dott. Degner, «il quale, pur non avendo precise convinzioni politiche, era fondamentalmente antinazista»: «Ebbene, egli mi faceva vedere ogni tanto lettere anonime indirizzate a Rainer (e non erano poche, a disonore della città), nelle quali si denunziavano cittadini, solitamente per bassi rancori personali»[2]. Piemontese passava i nominativi dei denunciati ad altri impiegati della cassa di malattia che provvedevano a mettere sull’avviso gli interessati, salvandone così diversi dalla deportazione e dall’arresto. Ma purtroppo non tutti i triestini erano come questi impiegati.

Uno studio serio sul collaborazionismo triestino non è mai stato fatto, ma basta spulciare un po’ tra i testi che parlano della Risiera di S. Sabba o dare un’occhiata agli atti dei processi contro i responsabili dei crimini commessi in Risiera, conservati presso l’Archivio dell’Istituto Regionale per lo Studio del Movimento di Liberazione di Trieste, per comprendere a quale livello fossero giunti i nostri concittadini di cinquant’anni fa. C'erano i delatori di Ebrei che per ogni Ebreo consegnato ricevevano un “premio” di 10.000 lire, c'erano quelli che “vendevano” partigiani, per non parlare di vari bottegai che, sentendo di sfuggita nei loro negozi parole “critiche” nei confronti del regime, si adoperavano per far arrestare gli incauti che avevano parlato troppo. Ma oltre a questa “collaborazione diffusa”, c’erano anche quelli che si applicavano seriamente a lavorare coi nazisti.

«Così a Trieste, capitale del Litorale e sede dei principali comandi e uffici nazisti, una schiera di centinaia di civili entrò a far parte dell'organico del Supremo Commissariato di Rainer e di quello dello SD-SIPO [Sicherheit Dienst - Sicherheits-Polizei] e dello stesso EKR [Einsatz-Kommando-Reinhardt] di Wirth e di Allers, con una molteplicità di mansioni: dall’interprete di fiducia che procedeva anche agli interrogatori degli arrestati ed alla compilazione di veri e propri rapporti informativi, all’amministratore di beni mobili e immobili sequestrati alle vittime, dal segretario di vari comandanti S.S. e Polizia al centralinista, dal semplice impiegato all’addetto a lavori di manutenzione».[3]

Nel corso delle indagini per il processo del lager della Risiera il giudice Serbo di Trieste scoprì presso gli archivi dell’INPS alcuni elenchi di impiegati civili dipendenti dall’SD-SIPO per i quali i tedeschi pagavano regolari contributi previdenziali e per l’assistenza malattie. Erano 156 i dipendenti con varie mansioni dal comando SD-SIPO del Litorale Adriatico e 212 dipendenti dal capo di polizia ed SS Globocnik, e dalla Gestapo, questi ultimi classificati tutti genericamente come “personale impiegatizio”, mentre dei primi 156, 74 erano classificati come interpreti, v’erano poi impiegati, autisti ed altro ed 8 erano “freiwillig”, ovvero “volontari”, denominazione data ai «partigiani disertori passati al servizio della polizia tedesca e stipendiati» [4].

Nello stesso capitolo del testo sul processo per la Risiera sopra citato, troviamo due nomi di “deportati” a Lubiana [e colà processati e giustiziati eppure tuttora figuranti negli elenchi di "infoibati" nella provincia di Trieste, N.d.R.]. Il primo è Antonio Micolini, che dai dati dello stato civile avevamo come “insegnante”: in realtà «era il principale collaboratore del maggiore Mätzger dell'Ufficio IV (Gestapo), partecipando agli interrogatori condotti dai nazisti con ogni sorta di sevizie».
Il secondo è il giornalista Ettore Testore, già agente dell’OVRA e squadrista, che nel 1932 aveva fatto arrestare diversi antifascisti. All’arrivo dei tedeschi Testore si offrì come “collaboratore” scrivendo una lettera [5] direttamente al Supremo Commissario della Zona di operazioni Litorale Adriatico. In questa lettera Testore

«in considerazione delle sue capacità di giornalista politico antinglese o antibolscevico (cita ad esempio tutti i suoi scritti pubblicati in questi ultimi anni dal giornale Il Piccolo), coerente alle proprie opinioni..., simpatizzando integralmente per il nazionalsocialismo, si offre per una collaborazione ai Servizi Stampa e Propaganda di Codesto Supremo Commissariato».

Testore specificava d’altra parte che si trovava senza «incarico serio» e doveva «provvedere d'urgenza alla propria sistemazione», giacché al momento aveva soltanto una collaborazione a Radio Litorale (la radio di propaganda dei nazisti). Evidentemente il Supremo Commissario accolse l’offerta di Testore e gli diede degli incarichi, infatti troviamo Testore (che si firmava anche Tito o Lucio Speri), alla direzione di “radio Franz”, la radio che trasmetteva dalla stessa sede di radio Litorale (il vecchio palazzo della Telve in piazza Oberdan). Questa emittente, alla quale collaborò anche l’attore Giacomo Pellegrina [6], oltre a fare «trasmissioni politiche a sfondo reazionario», trasmetteva ordini ai partigiani e «tali ordini trasmessi da radio Franz ai partigiani erano del tutto falsi e tendevano a far cadere gli stessi in imboscate nazifasciste» [7].

Un altro esempio di che tipo di persone si trovino nei vari elenchi di "scomparsi" finora pubblicati: nel corso delle nostre ricerche abbiamo trovato più volte il nome di Crisa Ottocaro: vorremmo ora usarlo come esempio dello sviluppo di quella che spesso ci è apparsa anche come un’indagine investigativa oltre che come una ricerca storica.
Negli elenchi di "scomparsi" inseriti [nel libro di Pirina] avevamo trovato un Crisa Ottocaro, civile, ed un Ottocaro non meglio identificato; negli elenchi di scomparsi pubblicati dall'IFSML risultava solo un Crisa Ottocaro, odontotecnico, deportato in Jugoslavia. Papo nomina un Crisa Ottocaro, interprete, ma anche un Ottocaro agente della Polizia Militare, deceduto a Lubiana come il precedente Crisa [8]. Da una testimonianza raccolta da Samo Pahor risulta che Crisa faceva l'interprete presso le SS di piazza Oberdan; lo abbiamo trovato poi anche in un elenco di collaboratori dell’Ispettorato Speciale di PS ed in un altro elenco di appartenenti alle SS conservati ambedue presso l'archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste.
Come si vede, quando si legge “civile” nella qualifica dei “deportati e scomparsi” bisogna andare un po’ coi piedi di piombo, difatti dal primo controllo da noi effettuato sui dati forniti dallo stato civile alla stesura finale del nostro elenco, il numero dei “civili” è drasticamente diminuito (ed i supposti “civili” sono andati ad ingrossare soprattutto le file dell’Ispettorato Speciale ed in parte minore quelle dei militari e degli squadristi). Va anche precisato che abbiamo lasciato tra gli scomparsi “civili” anche un ex-prefetto ed un ex-podestà, per i quali la denominazione di “civile” sarebbe impropria, così come persone che pur non vestendo divisa avevano comunque dei comportamenti “squadristici”. A questo proposito citiamo il caso della maestra Rosa Vendola, insegnante a Trebiciano, sulla quale abbiamo raccolto le seguenti testimonianze. Racconta Lucijan Malalan, di Trebče-Trebiciano che la maestra Vendola insegnava all’asilo da lui frequentato nei primi anni Trenta. Un giorno Malalan si trovò a dire un paio di parole in sloveno ad un suo amichetto, la Vendola li sentì, afferrò il bambino per un orecchio e lo trascinò a forza attraverso tutta l’aula per punirlo di avere parlato in quella “sporca lingua”. Esiste anche documentazione [9] di un esposto fatto da un sacerdote di Trebče-Trebiciano contro la maestra Vendola che, avendo sentito il sacerdote rivolgersi in sloveno ai fedeli, aveva obbligato i bambini ad uscire dalla chiesa perché non dovevano sentir parlare la lingua “proibita”. [...]


Note.

1. ANED Ricerche, S. Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera, ANED/Mondadori 1988, pag. 161/II
2. Dall'introduzione a Il movimento operaio a Trieste, Ed. Riuniti 1974
3. S. Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera, op. cit., pag.32/I
4. Ibidem, pag. 32/I. Deposizione in istruttoria del teste Italo Montanari (19/8/70)
5. Archivio dell'Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste, X-762
6. Su Giacomo Pellegrina si veda il cap. sulla foiba Plutone
7. Documento n.769-busta XXI archivio IRSMLT.
8. L. Papo, Albo d'oro, Unione degli Istriani di Trieste, 1995
9. Testimonianza di Sabo Pahor. Si tratta di un esposto presentato dal sacerdote alla Commissione per l'accertamento dei crimini di guerra istituita in Jugoslavia all'inizio del 1944.



Oltre alla "lotta antipartigiana" i membri dell'Ispettorato [di Pubblica Sicurezza di Trieste] si occupavano anche di prelevare gli Ebrei da deportare in Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da prelevare, in genere in seguito a denuncie di solerti vicini di casa o bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con 10.000 lire - dell'epoca! - i delatori per ogni denuncia che portava ad un arresto) [1], i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e da lì "smistati" in Risiera.
Uno dei membri dell'Ispettorato che, secondo le teorie storiche descritte più sopra, viene considerato "infoibato" in quanto incarcerato a Lubiana e probabilmente fucilato, è l'agente Alessio Mignacca, specializzato nella ley de fuga, come leggiamo in alcuni documenti raccolti nel "carteggio processuale Gueli".
Ad esempio uccise Francesco Potocnik, che «rotto un vetro della finestra saltava dal I piano nel cortile interno e cercava di fuggire. Fatto segno a vari colpi di pistola da parte dell'agente Mignacca e raggiunto da un proiettile cadeva ucciso» [2]; e ferì gravemente Roberto Caprini che «tentava di darsi alla fuga saltando da una finestra al primo piano nel sottostante giardino ove veniva raccolto dalla guardia di PS Mignacca Alessio».

Mignacca partecipava anche agli "interrogatori", come nel caso di Umberta Giacomini, che quando fu arrestata era incinta di quattro mesi: fu "interrogata" da Collotti in persona, che la picchiò selvaggiamente assieme ad altri agenti, tra i quali Mignacca, che la colpì con un calcio ed in seguito a questo la donna abortì.
Nei ranghi dell'Ispettorato entrarono molti volontari, persone che lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente violenze e saccheggi, come nel caso di Mario Fabian, che lasciò il suo posto di tranviere, perché come membro dell'Ispettorato aveva maggiori possibilità di guadagno. Fabian fu ucciso nei primi giorni di maggio '45 ed è l'unica persona che risulta essere stata gettata nel pozzo della miniera di Basovizza [3].

[...] Un altro personaggio degno di nota nella storia del confine orientale che andiamo raccontando e legato alla X Mas è Remigio Rebez, detto il “boia” della caserma di Palmanova. Così si legge nell'estratto della sentenza n. 120 del 5/10/46 della Sezione Speciale della corte di Assise di Udine nella causa penale contro Ruggiero Ernesto, Rebez Remigio, Rotigni Giacomo:

«Il primo novembre 1944 fu mandato a Palmanova un reparto della milizia fascista, composto da una cinquantina di uomini, comandato dal capitano Ruggiero Ernesto per coadiuvare il capitano Pakibusch nella lotta antipartigiana. Il reparto stette a Palmanova, nella caserma Piave, fino al 19 aprile 1945 e ad esso si aggregò il sergente Rebez Remigio della X MAS... Durante tale periodo, innumerevoli e feroci delitti furono commessi nei territori dei mandamenti di Palmanova, Udine, Codroipo, Latisana, Cervignano, Monfalcone e Gradisca dal reparto che meglio potrebbe denominarsi... “banda Ruggiero”. Furono arrestate ed imprigionate circa 500 persone e molte centinaia di esse furono percosse e seviziate perché dessero le informazioni che gli aguzzini volevano sull’entità e dislocazione delle forze partigiane e sulle loro armi» [4].

Rebez venne condannato a morte per aver collaborato con il tedesco invasore e per aver privato della libertà «centinaia di persone sottoponendo moltissime di esse a violenze inaudite e cagionando loro lesioni anche gravi e persino la morte mediante torture raccapriccianti...».
[...] In ogni caso Rebez non solo non pagò con la vita i suoi misfatti, ma neanche con il carcere: godette infatti dell’amnistia di Togliatti ed è vissuto libero e indisturbato a Napoli.
Il “Piccolo” di Trieste ha pubblicato, in data 26 marzo 1996 un articolo su di lui dal commovente titolo “Rebez voleva tornare a vivere nella sua Muggia”. Ma, come spiega poi l’articolo, una decina d’anni prima Rebez fu “salvato” dalla polizia, perché «era apparso a una commemorazione funebre nel cimitero di Muggia e, riconosciuto, per poco non venne linciato dalla folla».
Nonostante ciò, Rebez risulta come "infoibato" negli elenchi di "scomparsi" stilati da Gianni Bartoli, Luigi Papo, Marco Pirina. Nessuno di questi evidentemente ha fatto un minimo controllo sui nomi.


Note

1. La maggior parte degli Ebrei triestini fu però "venduta" dal collaborazionista ebreo Grini che, nonostante - o forse proprio per - questo, finì anch'egli bruciato in Risiera proprio al momento in cui i nazisti smobilitarono il lager.
2. "Carteggio processuale Gueli" in archivio IRSMLT XIII 915. Non abbiamo trovato notizie su Francesco Potocnik, ma può darsi che questo fosse il nome risultante dai documenti falsi che l'uomo aveva addosso al momento della cattura e non il suo vero nome.
3. Si legga a questo proposito il capitolo dedicato alla "foiba" di Basovizza.
4. La strage di Stato - Vent'anni dopo, a cura di Giancarlo De Palo e Aldo Giannulli, ed. Associate 1989, pp.39-40.



Altro epigono del revisionismo storico è il pordenonese Marco Pirina [nella foto], nato a Venezia nel '43, di famiglia friulana, figlio di un ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana (Francesco Pirina, insegnante di educazione fisica) ucciso dai partigiani nel luglio del '44.
Negli anni Sessanta Pirina frequenta l'università La Sapienza a Roma, diventa presidente del FUAN romano e poi del Fronte Delta, il gruppo di estrema destra che operava all'Università di Roma e che, stando ai piani del tentato golpe Borghese, avrebbe avuto l’incarico di tenere il controllo dell'Università.
Viene arrestato per coinvolgimento nel tentato golpe e prosciolto e rilasciato nel giro di un mese (estate '75). Ha affermato nel corso di una conferenza tenuta a Cormons nel novembre 1998, di essere stato arrestato solo perché il suo nome era stato trovato nell'agendina del "comandante" (così l'ha chiamato Pirina) Saccucci [1].

Così si racconta in un libro che parla della "strategia della tensione" che ha insanguinato l'Italia nel dopoguerra:

"Nel febbraio del '76, nell’ambito dell'inchiesta sul tentativo di golpe Borghese, uno dei fascisti inquisiti, il dirigente romano del FUAN (e dell’organizzazione Fronte Delta) Marco Pirina, rivelerà di essere stato contattato anni prima da esponenti del Fronte Nazionale (fra cui Mario Rosa e Sandro Saccucci) che gli proponevano di associarsi al tentativo di golpe. Durante tali colloqui il Rosa avrebbe minacciato lo sconcertato Pirina ricordando che il F.N. aveva "sistemato (...) una persona che parlava troppo" facendo il nome di Calzolari" [2].

Calzolari era l'ex marò della Decima, uomo di fiducia di Junio Borghese, che fu trovato annegato (lui che era un esperto sub) in un pozzo di mezzo metro d'acqua poco tempo dopo la strage di piazza Fontana.
Pirina verso la fine degli anni '80 si è stabilito a Pordenone e per un periodo ha militato nella Lega Nord. In seguito è passato a Forza Italia e poi ancora ad Alleanza Nazionale. A Pordenone ha fondato il Centro Studi Silentes Loquimur, assieme alla moglie Annamaria D’Antonio, goriziana, figlia del pilota Raffaele D'Antonio che "negli anni '30 spaziò con il Duca d'Aosta nei cieli di Gorizia" [4].
Nella sua carta intestata sostiene di essere "dep. Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace", una strana organizzazione che pare abbia sede in Sicilia ed il cui nome trovammo sui giornali nell'estate del 1999 come coinvolta in un traffico di barre d'uranio: la notizia scomparve subito dai "media" e non se ne seppe più nulla. Di questo parlamento pare facciano parte il piduista Salvatore Bellassai e l'avvocato Michele Papa del quale il giudice Carlo Palermo scrisse che era "l'ambasciatore" segreto degli interessi di Gheddafi in Italia e frequentatore del Circolo Scontrino di Trapani, centro studi alla cui inaugurazione sarebbe intervenuto anche Licio Gelli. Con Papa sarebbe stato promotore di iniziative filoislamiche anche l'avvocato Sinagra, il promotore delle denunce che portarono al cosiddetto "processo alle foibe", del quale parliamo successivamente.
Della "Silentes loquimur" fu, per breve tempo all'inizio dell’attività, presidente l'avvocato d'origine fiumana Claudio Schwarzemberg, missino, sindaco del "libero comune di Fiume in esilio", un articolo del quale darà lo spunto all'avvocato Sinagra per presentare denuncia contro Oskar Piskulic, come vedremo poi.
[...] Pirina, che a volte è stato sconsideratamente definito sulla stampa il "Wiesenthal italiano" per la sua costanza nel cercare di accusare esponenti del movimento partigiano (sia italiani che sloveni o croati) di essere stati dei "criminali", ha redatto più volte elenchi di presunti "responsabili" dei "crimini delle foibe", elenchi spesso utilizzati dalla stampa per ipotizzare rinvii a giudizio ed incriminazioni, spesso mai verificatesi.
Il libro Genocidio…, pubblicato nel 1995, è stato da noi analizzato approfonditamente nella precedente edizione di Operazione foibe a Trieste, rilevando nell’elenco di “scomparsi” dalla provincia di Trieste redatto da Pirina il 64% di errori, in quanto il sedicente "storico" aveva inserito nell'elenco di 1.458 "infoibati od uccisi dai partigiani a guerra finita" anche più di 900 nominativi di persone che non erano morte in quelle circostanze: partigiani uccisi dai nazifascisti, caduti in guerra o addirittura nomi di persone che erano sì state arrestate ed anche imprigionate ma erano sopravvissute; ma anche numerose duplicazioni di nomi per errori di trascrizione o perché inseriti in elenchi di "scomparsi" anche di Gorizia, Istria e Fiume. In seguito alla pubblicazione di questo studio, Pirina ha risposto, a modo suo, dando alle stampe un pamphlet dal significativo titolo Ecco il conto!, che non a caso riprende in copertina il titolo, la grafica ed una delle foto che apparivano nell’omonimo libello edito dai nazisti nell’inverno del ’43 sulle foibe istriane. Per amore di precisazione, va detto che nulla nelle critiche di Pirina è andato ad inficiare i contenuti dello studio da lui contestato, anzi il suo pamphlet è servito a fornirci ulteriori dati che ci hanno permesso di ricostruire le vicende di presunti "infoibati".

Note:

1. Sandro Saccucci (parlamentare del MSI, ex parà, coinvolto nel golpe Borghese), nel 1976, durante un suo comizio, sparò ed uccise un militante diciannovenne della FGCI a Sezze; si rifugiò in Argentina dove morì un alcuni anni or sono).
2. AA.VV. La strage di stato vent'anni dopo, cit., pag.44
3. Così leggiamo nella dedica in Adria Storia 1, Silentes Loquimur 1993

10.3.06

Italy’s National Memorial Day of the Exiles and Foibe: the significance of a neo-fascist commemoration

By Marc Wells

World Socialist Web Site
9 March 2006


A “foiba” (plural “foibe”) is a natural sinkhole in the shape of an inverted funnel, up to 200 meters deep, formed by water erosion. These formations are typical of the Kras region, an area east of Venice divided between Italy, Croatia and Slovenia.

Over the past several years, Italy’s right-wing alliance led by Prime Minister Silvio Berlusconi has sought to exploit events related to the foibe during and in the immediate aftermath of World War II to mount a nationalistic, anti-communist propaganda campaign, with the consent of their left opponents, the former Stalinists of the Democratic Party of the Left (PDS).

The historical facts have been grossly simplified or taken out of context to serve the cause of Italian neo-fascist and “patriotic” revival via hours of television broadcasts and other news reports devoted to spreading partial or false information.

According to the ultra-right version of history, Marshal Tito’s Yugoslav Stalinist regime was responsible for the mass murder of 20,000 innocent Italians who were captured, killed and thrown into the foibe in 1943 and 1945. Many of them were allegedly pushed into the sinkholes alive. In addition, according to this story, 350,000 Italians were forced out of their homes by Tito’s occupation.

In honor of the victims and their families, or at least such was the claim, the Italian parliament passed a law in March 2004 that names February 10 as the “National Memorial Day of the Exiles and Victims of the Foibe.” The choice of the date is itself provocative: on February 10, 1947, Italy ceded to Yugoslavia parts of Venezia Giulia (a region in the Kras area) in the Treaty of Paris.

And so it goes—on every February 10 now, nationalistic propaganda pollutes the Italian ether and promotes chauvinism, exploiting tragic events that continue to remain unexplained. Footage of corpses being removed from the foibe and images of elderly women weeping alternate with that of neo-fascist leader Gianfranco Fini visiting the area, or of state president Carlo Azeglio Ciampi addressing the significance of Italian patriotism and nationalist sacrifice. This year, the propaganda has deliberately been aimed at affecting the upcoming elections in April.

The first distortion is contained in the premise of the “Memorial Day” itself, which combines two distinct historic episodes: events that took place in and around the foibe in 1943-1945 and the exile of Italians from the so-called “unredeemed territories” between 1945 and 1960. In fact, in regard to the latter events, the Yugoslav authorities never issued an expulsion decree, while their Italian counterparts ignored the plight of the immigrants, rerouting thousands of people to remote regions, like rural areas in Sardinia.

Although closely related, these episodes cannot be understood by lumping them together as one horrifying consequence of the “fury of Tito’s Communism,” as the philistines of the Berlusconi government self-servingly assert.

This article will focus specifically on the events surrounding the foibe.

The history of the area that became Yugoslavia is largely one of oppression and repression. At the dawn of the twentieth century, the Slavic populations of the Balkans were under the domination of Austria-Hungary in the north and the decrepit Ottoman Empire in the south. Until then known as South Slavs, they expressed on many occasions their aspiration to create a nation-state. Many were inspired by the project of forming a greater Balkan Union of Socialist Republics, for which Marxists such as Svetozar Markovic, Dimitrije Tucovic and Christian Rakovsky had fought for decades.

In the late nineteenth and early twentieth centuries, the Balkan region was a cauldron of social and national conflicts, with the Great Powers intervening to stir up the pot and advance their own interests. Near the end of World War I, conditions of terrible economic hardship, famine and disease radicalized masses of workers in the Kras region, who organized strikes and demanded the immediate end of the war. The end finally came, leaving these territories in the hands of the Italian military occupation as a temporary arrangement until an international settlement could be reached.

Meanwhile, the Kingdom of Serbs, Croats and Slovenes was created in December 1918 (renamed Yugoslavia in 1929—“Jug” means “south”) as a project of the Croatian and Slovenian ruling classes responding to the recent October Revolution in Russia, with the assistance of the imperialist countries interested in dividing the spoils of war.

The newborn state’s northwestern territories bordered Italy. Various treaties (Versailles 1919, Rapallo 1920) established Italian sovereignty over the Venezia Giulia region, as well as the western part of Croatia and Slovenia (Istria and part of Dalmatia). Numerous ethnic groups that had coexisted for centuries lived in these territories. In the aftermath of World War I, Italian governments, particularly under Mussolini’s fascists, carried out a policy of ethnic cleansing known as Italianization, aimed at erasing any hint of Slavic culture, considered inferior and barbaric by the fascists, while imposing Italian as the official language and “culture.”

Throughout the 1920s, Slavic schools were shut down in the region; cultural centers were burned; the use of the Slovenian and Croatian language was prohibited in the government bureaucracy and the justice system; laws were passed that specifically limited non-Italian associations, gatherings and public events; names were Italianized to eradicate any appearance of Slavic influence, and so forth. In the 1930s, Mussolini’s anti-Semitic and racial laws further differentiated between the “pure Italians” and “inferior” peoples.

During World War II, after the devastating bombing of Belgrade by the German Luftwaffe, the Italian military, alongside the armed forces of fascist Germany, Hungary and Bulgaria, invaded Yugoslavia. The Mussolini regime gained control of Dalmatia, Slovenia (which became the province of Ljubljana), Croatia (ruled by Mussolini’s ally Ante Pavelic, head of the fascist Ustashe, infamous for its brutality) and part of Montenegro.

Yugoslavia then became the theater of some of the most horrific war crimes ever committed, for which hardly any Italian officials were ever held accountable, thanks in part to the Vatican’s protection. In fact, many of the war criminals participated in the leading postwar bourgeois party, the Christian Democrats. Out of a Yugoslav population of 16 million, nearly 1.4 million civilians were killed during the war. Italy was responsible for the killing of at least 250,000 Yugoslavs, a vast majority of whom died as the result of massacres and pogroms, not in combat.

The fascist regime of Rome was directly responsible for killing, raping, torturing, starving and mutilating thousands of people and destroying hundreds of villages. The Second Italian Army led by General Roatta was particularly brutal in its tactics.

A fact deliberately concealed for decades is that the Mussolini regime built concentration camps in both Yugoslavia and Italy. They held some 30,000 Croats and Slovenians, including children, women and the elderly, many of whom were sentenced to death by Italian tribunals. Mass deportation, torture and arson were routinely used against the growing opposition that found expression in the People’s Liberation Army and Partisan Detachments of Yugoslavia led by Tito.

On September 8, 1943, Italy signed the Cassibile Armistice with the UK and the US, officially ceasing the hostilities between those powers. This agreement, however, did not specify the relations between Italy and Germany. Italian fascism was alive and well: the Germans helped Mussolini escape from prison on September 12, enabling him to found the fascist Repubblica Sociale Italiana (RSI) in northern Italy at the end of that month, in direct proximity to the areas in question.

The ambiguities related to the armistice and the war and political situation as a whole contributed to the speed with which events unfolded. Many pro-Mussolini elements who supported the RSI viewed the pact as a betrayal of their German allies, therefore continuing a strong fascist presence.

The day following the Italian armistice with the US and the UK, Hitler’s army launched an invasion of the territory previously occupied by the Italians, hauling some 30,000 people off to concentration camps (particularly the San Sabba rice refinery). The Italian forces handed over the entire region as well as thousands of soldiers who were eventually killed or deported by the Germans.

During those days of disorientation and chaos, Slovenian Communist leader Edvard Kardelj led a counteroffensive aimed at destroying the fascists. The line between Italians and fascists was partially blurred, certainly by decades of terror and brutality. The Yugoslavian partisans and peasants, joined in the struggle by Italian soldiers who had been abandoned by their government and protected by Tito’s partisans, captured and killed 250-300 Italians, mostly fascists, police and “Blackshirts” or paramilitaries. Among them, according to official sources, there were some women, children and elderly, possibly relatives of the fascists. Their corpses were thrown into the foibe. Up to 2,000 Italians in total were killed in 1943, including non-foibe killings.

As indicated by the Report of the Slovene-Italian Historical and Cultural Commission issued in January 2000 by a joint body of Italian and Slovenian historians, “the killings were motivated not only by national and social factors, but also by a wish to strike at the local ruling class,” a fact that the current right-wing alliance and its apologists wish to ignore.

The second foibe episode occurred in 1945, in the aftermath of the German surrender. Starting May 1 and continuing for the next six weeks, Yugoslav partisans carried out the occupation of the Adriatic coast in order to create a de facto state before the Allied forces could reach and bring the area under their control. Tito’s partisans launched this campaign to reclaim the territories with the aim of eventually annexing the areas in question, still predominantly populated by Slavs.

This campaign involved the persecution of anyone who was considered hostile to the newly emerging Yugoslavia. Events quickly spun out of control: the OZNA (the intelligence agency), the army, gangs of Croats, Serbs, Slovenes and even Italians participated in a wave of repression against elements such as the Ustashe, Chetniks, spies, perceived “betrayers of the popular struggle,” “defectors from the people,” “enemies of the popular army” and so forth.

As noted by writer-historian Gianni Oliva in his book La Resa Dei Conti (published by Mondadori in 2000), the Tito leadership as early as May 6 realized that the situation had gotten out of hand and issued a warning about the risk of atrocities and revenge killings, admonishing the OZNA for operating irresponsibly.

But events proceeded at a rapid rate: hundreds of people were killed and their bodies disposed of in the foibe. Eyewitnesses have claimed that only corpses were thrown in the pits. There are, however, reported cases of victims having been thrown in alive. At times, people were shot by a foiba and fell in, pulling with them other people who were still alive.

The total number of dead during those bloody 40 days, according to more serious historians, is set at about 5,000, 570 of whom would have been foibe victims. The Italian-Slovenian report mentioned above argued that the events “were triggered by the atmosphere of settling accounts with the fascist violence; but, as it seems, they mostly proceeded from a preliminary plan which included several tendencies: endeavors to remove persons and structures who were in one way or another (regardless of their personal responsibility) linked with Fascism, with the Nazi supremacy, with collaboration and with the Italian state, and endeavors to carry out preventive cleansing of real, potential or only alleged opponents of the communist regime and the annexation of Venezia Giulia to the new Yugoslavia.”

One of the reactionary aspects of the current Italian right-wing campaign over the foibe issue is the implication that supposed victims of the “communists” were somehow more significant than those who died at the hands of the Italian, German or Allied military.

The journalist Indro Montanelli, at one point Berlusconi’s partner in the direction (and ownership) of the newspaper Il Giornale, before his death in 2001 claimed that victims during wartime, such as the Yugoslavs who died as a result of fascist brutality, should not be compared to those (the Italians) who were killed after the end of the war. Moreover, he argued that Italy never carried out ethnic cleansing, while the Yugoslav Stalinists were fully guilty of such a crime.

Regarding the latter issue, Montanelli was merely showing his sympathies for fascism when he claimed that Mussolini’s Italianization campaign in the 1920s and 1930s and anti-Semitic and racist laws implemented in the late 1930s never occurred.

In the final analysis, the action by the Italian parliament in instituting the so-called National Memorial Day is an attempt by the political elite, along with the media and elements in the intelligentsia, at falsifying history to justify its own sinister agenda today. The legitimization of the fascist heritage and its brutality should serve as a serious warning to the working class about the actual state of class relations in “democratic” Italy.

5.3.06

De Felice, il rapporto controverso con il revisionismo storico

A quasi dieci anni dalla scomparsa, una riflessione sull'opera di uno degli esponenti più discussi della storiografia italiana, autore della nota e monumentale biografia su Mussolini

De Felice, il rapporto controverso con il revisionismo storico

di Salvatore Lupo

Liberazione, 26 gennaio 2006


Credo di dover ancora una volta - come già in molte occasioni ho fatto - partire da una precisazione sull'uso del termine "revisionismo". Nel dibattito pubblico italiano, il revisionismo è stato alimentato dal ritorno della destra nel ruolo di protagonista sullo scenario politico negli anni novanta, e dal suo tentativo di legittimazione sul passato, con l'occhio a una possibile riscrittura della storia repubblicana imperniata sino ad allora sull'asse epopea resistenziale-patto costituzionale antifascista. Un potente apparato mediatico è stato schierato in campo a questo fine, e non sono mancati illustri uomini politici di sinistra che hanno offerto sponde a queste operazioni in un tentativo di pacificazione bizzarro e fuori tempo massimo - la guerra civile è piuttosto remota e tutti ci siamo già pacificati da tempo. Dall'altro lato, una robusta opinione colta e di sinistra ha opposto il suo alto là, spesso ispirato al motto "la storia non si riscrive", ha considerato particolarmente sgradevole l'obiettivo della cosiddetta riconciliazione post-fascista, ritenendo non a torto che si trattasse in realtà di un tentativo di postuma riabilitazione del fascismo.

Agli storici di professione spetta il compito di mettere tutti in guardia contro gli abusi e i fraintendimenti che derivano dalla frequente trasposizione di questo dibattito politico nel campo storiografico. Non siamo davanti a un qualche "revisionismo storiografico" perché questa discussione non richiede mutamenti di paradigmi interpretativi o nuova ricerca, ma rivela casomai la persistenza e direi l'immutabilità di tradizioni politiche contrapposte che sarebbe vano cercare di conciliare, e che bisogna piuttosto riconoscere. La storiografia invece cambia ed innova, traendo diverse sensibilità e nuovi angoli visuali dai problemi del suo tempo ma senza appiattirsi su di essi in maniera così triviale.

Questa problematica, e l'assenza di adeguate distinzioni tra i vari piani in cui essa può essere trattata, ha reso ardua la presentazione al pubblico, nonché la recezione del lavoro di Renzo De Felice, che viene considerato generalmente, da sostenitori e avversari, il campione del revisionismo. Io credo invece che un'opera importante come la biografia defeliciana di Mussolini vada valutata prima di tutto sul piano strettamente storiografico.

De Felice cominciò inquadrando il fascismo delle origini nell'interventismo di sinistra, mostrando dunque come uomini politici di sinistra, incontrandosi con gente di tutt'altra estrazione in presenza di eventi storici traumatici, avessero dato vita a un regime conservatore e autoritario. La complessità stessa di questi incroci tra esseri umani, idee e fatti suscitò le prime grandi polemiche sul suo lavoro. Io stesso ricordo la diffidenza che da studente universitario provai nei confronti dell'idea di una storia del fascismo (o peggio di una storia d'Italia dal 1922 al 1943) al centro della quale stesse il punto di vista dei fascisti stessi. Diffidavo cioè per la chiave biografica su cui era costruita l'opera, nel senso stretto che di una biografia di Mussolini si trattava, nel senso più lato per cui le cose venivano in essa osservate dal punto di vista dei protagonisti del movimento e del regime: ed avrei sottoscritto la critica formulata nel '76 da Ernesto Ragionieri, autorevole esponente della storiografia comunista, nei confronti dei defeliciani che «ritengono essere ufficio dello storico valutare un fenomeno dal suo interno». Nella seconda metà degli anni '80 cominciai però a pensare che la questione fosse più complessa, nel momento in cui l'attenzione alla soggettività e ai linguaggi diveniva patrimonio della migliore storiografia. Sta di fatto che proprio prestando attenzione alla soggettività De Felice ha sottratto i fascisti alle gabbie di una presunta, plumbea corrispondenza tra azioni dei singoli e interessi dei gruppi sociali, ricollocandoli in un contesto più mosso, politico e ideale, nel periodo del movimento e in quello del regime.

Venne intanto la polemica o meglio lo scandalo sul tema del consenso popolare al regime, da lui sottolineato nel 1974, anche se (come l'autore tenne a sottolineare) esso era pienamente compatibile con l'armamentario concettuale già presente nelle togliattiane Lezioni sul fascismo del 1935. Sempre questo testo De Felice citò contro i suoi critici che gli rimproveravano di aver visto nel fascismo il rappresentante non del grande capitale, ma della piccola borghesia "emergente": ma avrebbe potuto richiamarsi ad altri osservatori coevi (Bonomi a preferenza di Salvatorelli) da cui veniva questa sua tesi.

Io non dico che non ci fosse nella discussione un potenziale significato politico. De Felice era uscito dal Pci negli anni '50: certamente aveva qualcosa da rivendicare e qualcosa gli era rimproverato. Gli mancava quell'immediata capacità di tenere insieme l'aspetto ideologico e quello storiografico che era di Rosario Romeo, lui sì determinato avversario dell'egemonia culturale comunista. Ma gli mancava anche la capacità di Romeo di incalzare la controparte con idee-forza, innalzando il tono generale del dibattito sull'industrializzazione che agli inizi degli anni '60 aveva visto contrapporsi appunto Romeo, Sereni e Gershenkron. Nel caso del dibattito De Felice, invece, il progressivo inasprirsi dei toni sia sul versante dei favorevoli che su quello dei contrari si accompagnò a una progressiva incomunicabilità tra le parti. Vorrei però che i lettori di Liberazione, abituati a sentir dire oggi tutti i giorni in televisione ed anche a leggere in qualche libro che il fascismo non era affatto male e che comunque i suoi avversari erano peggio, comprendessero che nessuno dei protagonisti di quegli anni - nemmeno De Felice - si sarebbe mai sognato di dire, e credo anche di pensare cose del genere.

Certo, a un certo punto, nel momento politicamente cruciale tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni novanta, De Felice si mise in piena sintonia con le urgenze "revisioniste" dell'attualità, più che altro in interventi giornalistici e nel volumetto-intervista Il rosso e il nero (1995), laddove dichiarò che la vulgata antifascista impediva «un'effettiva partecipazione di larghissimi settori della popolazione» alla vita nazionale, che la sua demolizione era addirittura impellente, visto che «lo spazio per una effettiva chiarificazione storica aperto dalle vicende internazionali e nazionali di questi ultimi anni si sta in Italia richiudendo» (p. 8-9). In quella fase, come bene ha scritto il suo migliore allievo, Emilio Gentile, il personaggio pubblico si affiancò quasi alla pari allo storico.

Come valutare la figura di De Felice e i contributi conoscitivi da lui offerti? I suoi risultati vennero conseguiti raccogliendo e interpretando documenti del tutto originali, nonché raccogliendo il filo delle interpretazioni coeve; su questo secondo versante, egli non fu tanto un innovatore quanto uno studioso in grado di riconsiderare i dibattiti del tempo grazie a una straordinaria conoscenza della pubblicistica. Il suo stile di lavoro non prevedeva grandi incursioni nel campo della teoria, e dunque la sua opera non ha alcuna parentela con quella tutta ideologica di Nolte, cui spesso viene accomunata. Non mancano, tra i vari volumi, contraddizioni "felici" e meno "felici" - dovute cioè alla complessità dell'approccio ma anche a una certa debolezza espositiva e a una difficoltà, crescente nel tempo, di tenere insieme idee, fatti e interpretazioni. La biografia mussoliniana venne d'altronde scritta e pubblicata nel corso di più che un trentennio (1965-1997), lasso di tempo molto lungo, maggiore di quello della vita del regime fascista stesso, tale da attraversare diverse stagioni della storia dell'Italia repubblicana. Escluderei dunque che ci fosse una intenzione politica precisa (tanto meno unica) dietro questo suo lavoro; e, come si potrebbe vedere da un confronto interno all'opera impossibile da realizzarsi qui, l'intento di una revisione della cosiddetta vulgata antifascista e resistenziale si è palesato tardivamente e va considerato marginale rispetto all'opera nel suo complesso.

De Felice fu oggetto di critiche talora condivisibili, talora ingiuste non solo nel merito ma anche perché - il più delle volte - costruite attraverso interventi tutti polemici che non erano atti a confutare il suo ponderoso lavoro. Lui però rispose sullo stesso piano, terminando molto al di sopra delle righe con il citato attacco alla cosiddetta vulgata antifascista - che altro non era se non una degnissima tradizione politica, culturale e storiografica. Resto perciò sconcertato da quella sorta di leggenda, recentemente propalata anche tra gli studiosi, per cui De Felice è stato dipinto senza tema di ridicolo come un perseguitato dalla cultura "ufficiale" e antifascista: lui, l'allievo di Delio Cantimori, l'autore di libri pubblicati dalla massima casa editrice italiana di cultura (la Einaudi altre volte accusata di essere la capofila del complotto egemonico comunista), il grande accademico, l'intellettuale generato dal seno della corrente principale della storiografia italiana.

Lo strano viaggio del presidente a Cefalonia

(tratto da: http://web.tiscali.it/trotzkij/ciampi.htm)

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Così iniziò l'avventura italiana in Grecia, per celebrare il 18esimo anniversario dalla italianissima marcia su Roma delle camicie nere. Il carteggio tra i due leader del fascismo europeo continua due giorni dopo...

Il 20 Novembre 1940 Hitler invia una lettera di fuoco a Mussolini; fra l'altro scrive "Lo stato delle cose cosi' creatosi ha conseguenze psicologiche gravissime. Le conseguenze militari di questa situazione sono, Duce, molto gravi". Comunque in fondo gli promette aiuti, a una condizione "vorrei in primavera, al massimo a maggio, riavere le mie forze armate".

[...]

Le truppe scelte greche, gli Euzones, inchiodano gli italiani in una logorante guerra di posizione incrudelita dall'arrivo di un gelido inverno. Il maltempo imperversa, i piani d'attacco italiani sono stesi con faciloneria, manca l'equipaggiamento, le munizioni scarseggiano e le truppe italiane combattono con la divisa estiva, quella invernale non era prevista data la certezza "matematica" delle brevissima durata dell'offensiva (15 giorni).

La campagna in Grecia, che si dimostrò poi catastrofica per l'Italia doveva secondo i piani (di chi?) concludersi dopo appena 15 giorni con la vittoria (puntando a un fantomatico esercito clandestino a favore (!?) dell'invasione

[...]

Il 18 novembre 1940, quando le cose già andavano male, la spedizione in Grecia marciava indietro verso un disastro e il momento era già cupo, Mussolini alla radio ridimensiona il contrattacco dei greci e smentisce Radio Londra che la divisione Alpina Julia era stata polverizzata, e incoraggia con una frase che resterà anacronisticamente famosa:

"C'è qualcuno fra di voi camerati, che ricorda l'inedito discorso di Eboli pronunciato nel luglio del 1935 prima della guerra etiopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia".

Il 3 dicembre dello stesso 1940, i Greci (per altro governati da fascisti non dissimili da quelli italiani) sfondarono le stesse difese italiane invadendo parte dell'Italica Albania. Questa la situazione delle truppe imperiali, delle terribili armate italiane.

Mussolini deve ammettere nel suo carteggio riservato "si sente spesso ripetere che sarebbe da preferirsi un sollecito intervento dell'alleato, anche se da ciò dovesse conseguire una ulteriore scossa al nostro prestigio".

Lo sperato intervento dell'alleato non si fa attendere, il 20 aprile 1941 la Germania entra in Grecia, il 27 la svastica già troneggia sul Partenone. Lo spostamento verso sud delle forze armate tedesche costerà forse la guerra alla Germania...

Saltiamo a piè pari al dopo Mussolini. Mussolini abbandonato dal re che gli aveva promesso "sarò sempre al suo fianco", viene arrestato il 25 luglio del 1943. L'8 settembre 1943 alle 9 di mattina Vittorio Emanuele III manda questo messaggio tramite l'ambasciatore tedesco RUDOLF RAHN ad Hitler "Dica al Fuerher che l'Italia non capitolerà mai, è legata alla Germania per la vita e per la morte".

Alle ore 17.30 dello stesso giorno Radio Algeri trasmette il testo della capitolazione dell'Italia. (Poi dicono i Savoia...)

Sull'Italia scendono le truppe Germaniche e i corpi speciali altoatesini di Hofer. Alle 2 di notte già le prime divisioni di confine cedono e i superstiti delle divisioni di ripiego dalla Russia a Merano alle 3 di notte del 9 settembre sono già nei blindati verso i campi di lavoro in Germania. Badoglio non indica per radio che i tedeschi sarebbero divenuti nuovi nemici ma parla genericamente di nostre truppe che "...però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". Il re è già a Pescara alle 7 di mattina del nove settembre, a meno di 24 ore dalla promessa all'ambasciatore tedesco...

Alla stessa ora, il comando congiunto delle forze italiane in Grecia non ha alcuna indicazione dall'Italia sul da farsi. Si arrendono dopo una dichiarazione di non resa ai tedeschi, (alleati "per la vita e per la morte" solo 24 ore prima) i quali per sicurezza li trattano come entrambi trattavano i Greci 24 ore prima, li passano tutti e 5512 per le armi. Dei 15000 soldati italiani delle piccole isole circostanti solo 1500 rimangono in vita. Il diritto di guerra dà ragione ai tedeschi perché applica la convenzione di Ginevra ai soli prigionieri di guerra e non ai "disertori", ma come potete ben capire queste son nequizie.

Il Re, occupato a trasportare mobili e quadri, dimentica questi corpi e non manda loro 2 fregate di stanza a Brindisi per andare a recuperali, forse perché gli servirebbero di scorta nel caso in cui le cose si mettessero male e fosse necessaria una fuga via mare. (e poi dicono i Savoia...)

Il 9 settembre alle ore 12 Kesserling accetta la resa di Roma. Nella fuga il Re dimentica anche di aver lasciato il principino Vittorio Emanuele, figlio di Umberto (si, è il più vecchio tra i cialtroni che dovrebbero rientrare) in Valle D'Aosta... (e poi ridicono i Savoia...)

Ma ritorniamo ai giorni nostri e leggiamo Giorgio Battistini su Repubblica del 2 marzo 2001:

"CEFALONIA - In diecimila decisero di non arrendersi. E di combattere. E di morire. Restando fedeli al giuramento alla Patria. Che col loro sacrificio tornava a nascere. Quei poveri soldati massacrati dai nazisti ("in violazione di tutte le leggi della guerra e dell'umanità") nel settembre del '43 in quest'isoletta greca abbracciata a Itaca, scrissero in realtà il "primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo"."

Ma vediamo cosa dicono i reduci:

"Aerei, elicottero, navi. Fossero arrivati allora". Luigi Baldassari, classe 1916, è tornato qui dalla Valsugana. "Abbiamo deciso di resistere, di non consegnare le armi ai tedeschi, soprattutto perché, di quelli là, non ci fidavamo. E poi il governo che era in esilio a Brindisi aveva detto: resistete. Gli ufficiali, soprattutto quelli di grado più basso, ci dicevano: bisogna fare qualcosa, dobbiamo guadagnarci dei meriti. Se combattiamo contro i tedeschi, gli Alleati arriveranno a darci una mano, e così potremo tornare a casa presto. Ma siamo stati fregati. Il Re? Non sapevamo nemmeno che fosse scappato, in quei giorni. Eravamo stanchi della guerra, ma non volevamo fare la figura dei vigliacchi di fronte ai tedeschi. Così, in una sola notte, tutti noi soldati abbiamo detto agli ufficiali: non ci arrendiamo".

All'anima della resistenza! Questi giovani militari dell'esercito imperiale d'Italia non avevano scelte. Se si arrendevano (e si arresero) finivano fucilati e se resistevano (e per un pò resistettero) finivano bombardati. Sapendo come i tedeschi (fino a 24 ore prima alleati alla morte) massacravano al loro fianco i partigiani Greci e Albanesi, preferirono tentar di resistere aspettando qualche nave per scappare. Tutto qui. Truppe coloniali allo sbaraglio, carne da cannone dell'impero in attesa di fuga.

Vediamo ancora:

Amos Pampaloni, l'uomo che per primo ordinò il fuoco della sua batteria contro tre zatteroni tedeschi che portavano carri armati e uomini in rinforzo alla Wehrmacht (in sfregio alla tregua concordata) anche oggi ha idee precise. "Non ci sarebbe stato il massacro se il Re, invece di scappare, avesse dichiarato subito la guerra alla Germania. In quel momento, sull'isola, c'erano 11.500 italiani e 3.000 tedeschi. E invece no, siamo rimasti lì ad aspettare, e intanto la Wehrmacht organizzava la sua aviazione. Le scuse della Germania per il massacro? A cosa servono, ormai. Diamoci da fare, invece, per fermare le quaranta guerre che anche oggi si possono contare nel mondo".

Vi ho tediati? Pazienza, questa mail dura pur sempre meno di SanScemo...

Ma passiamo adesso alla chicca... Chi accompagnava il simpatico presidente in quest'ultima opera di revisione storica che trasforma la resistenza in lotta patriottarda e cancella la sua primogenitura comunista per regalarla ai soldatini spaventati? Tale presidente della commissione esteri Mirko Tremaglia.

Facendo appello alla nostra poca memoria ricordiamo i viaggi recenti del presidente ex tenente in Albania, Carlo Azeglio Ciampi:

El Alamein in Egitto (Già Gianchediciata)

Tambov in Russia (mi sembra anche questa),

a Sant'Anna di Stazzema in Toscana,

Trieste con la risiera di san Sabba e le foibe,

Piombino.

Luoghi per una opera di profonda ricostruzione storica per chi non sa della resistenza che quello che dicono i nostri miserabili libri di testo. A questi viaggi partecipa l'uomo eletto da maggioranza e opposizione a capo della Commissione Esteri, il camerata Mirko Tremaglia.

Chi è Mirko Tremaglia?

Mirko Tremaglia come ci insegnano le cronache recenti è un ex-Allievo Ufficiale della Scuola di Modena della Guardia Nazionale Repubblicana nella R.S.I. E' insomma un ragazzo di Salò come amano chiamarli oggi i revisionisti storici. Il camerata Mirko si occupa di "estero" e di storia da sempre. Spinge i suoi camerati a scrivere (è il caso di Tullio Maffei) libri revisionistici sull'epoca sua (titolo avanguardista "Impeto" ed. Nuovo Fronte 1992). E' l'ispiratore di un progetto di legge (15 maggio 1996) per il ripristino delle onoreficenze ai valorosi combattenti e volontari fascisti nella guerra di Spagna (è giusto ricordarlo per i più giovani, vennero inviate truppe fasciste a sedare in Spagna una democrazia elettiva). Il camerata Mirko è anche ispiratore di un progetto di legge (n.909) per il ripristino del conteggio delle carriere dei miliziani della repubblica sociale italiana. E' insomma un fascista.

Ma un fascista intelligente, che cerca con lavorìo di sottosuolo di ripristinare non solo vantaggi economici per camerati ma pure una solida base materiale di revisione storica. Ecco il senso di altri progetti di legge, tendenti alla italianizzazione della Dalmazia o (e arriviamo al tema) alla istituzione della onoreficenza dell'Ordine dei Cavalieri della Patria, da darsi a chi a Nord e a Sud (RSI e CLN) si sia pregiato di valevoli servigi a chissà quale Patria (progetto di legge n.904 del 1996). Ed eccolo il tema caro ai revisionisti storici, eliminare le differenze tra partigiani e patrioti, poi tra patrioti e camerati, tra partigiani e camerati alfine. Riunire quest'Italia nel nome della storia negata, affondare comunismo e resistenza e su questo piedistallo erigere fantasie revisionistiche.

Il camerata Mirko per far valere le sue idee crea una agenzia di stampa (imperdibile al sito www.grtv.it ), crea un'organizzazione internazionale tricolore (il comitato tricolore per gli italiani nel mondo con sedi in tutto il mondo e tutte con tricolore a sfondo nero dalla sigla CTIM) dal quale poi fa emergere una struttura parallela e finanziata (9 miliardi in un anno) da Dini, il consiglio generale per gli italiani all'estero, il cui simbolo è una specie di celtica tricolore stilizzata. Nel CGIE (inutile negare che anche le sigle si assomigliano) lo stesso Tremaglia è unico parlamentare italiano presente nel consiglio di amministrazione e qui si è detto quasi tutto. Tremaglia fa istituire dopo lunghe battaglie la circoscrizione "estero" il 18/10/2000 per il voto degli "italiani nel mondo".

Questo gentile signore vola a Cefalonia per ricordare la resistenza lì iniziata? Mai e poi mai!, lui va lì a suggellare la sua storia. Nelle interviste alla sua agenzia dice "Se non vi fosse stata la RSI, Hitler ci avrebbe fatto fare la fine della Polonia. Ecco perché noi ritenemmo, tutti quanti, la Repubblica Sociale come Repubblica necessaria per evitare, per impedire quello che Hitler ha fatto in Cefalonia, quello che Hitler ha fatto in Polonia. Questi sono i sentimenti spontanei di una giornata di alta tensione morale, grande commozione e di esaltazione per il sacrificio dei nostri soldati in Cefalonia nel nome della Patria."

E vediamo le continuità presidenziali....

"(GRTV) Nel giorno della ripresa del dibattito sul voto al Senato, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha ricevuto l'On. Mirko Tremaglia nella sua veste di Presidente del Comitato parlamentare degli Italiani nel mondo. "Mi corre l'obbligo di ringraziare il Presidente per la sua cordialità e per il suo impegno, già consacrato nel primo messaggio da lui inviato agli italiani nel momento del suo giuramento quando ha esaltato, giustamente gli italiani nel mondo, affinché possano esercitare il loro diritto di voto per le prossime elezioni politiche", ha affermato Tremaglia al termine del colloquio. "

Sui buoni rapporti è inutile dilungarsi, l'ex ragazzo di salò è utile a tutti i gruppi parlamentari (escluse ovviamente le minoranze comuniste e verdi) per dimenticarsi del ruolo storico della resistenza rivoluzionaria...

E che l'opera di interramento della verità continui....

[grtv] SCUSI, onorevole Mirko Tremaglia, che cosa ci fa un ragazzo di Salò sull'aereo dei reduci di Cefalonia? Lei non stava dall'altra parte?

"In effetti è la prima volta che vengo a Cefalonia. Ma non creda che io abbia cambiato idea sul passato. E' che riconosco nei ragazzi che hanno combattuto i tedeschi su questa isola lo stesso slancio patriottico che portò me e i miei amici a Salò. E mi pare che le parole del presidente Ciampi legittimino questo mio sentimento".

Arfè a Montanelli: Lombardi e l'egemonia


Lettera di Gaetano Arfè a Indro Montanelli sulla "Stanza" da lui dedicata a Riccardo Lombardi sul "Corriere della Sera del 15 giugno 2000, 31 luglio 2000

(tratto da: http://www.sissco.it/lettere/lettere00_02.htm)

Caro, Montanelli,


"Tempi di malafede" è il titolo di un libro, a Lei ben noto dedicato da Sandro Gerbi alla storia dei rapporti tra Guido Piovene e Eugenio Colorni. Ai lettori che non ne avessero conoscenza ricordo che fu scrittore, il primo, di notevole talento e giornalista di regime, memorabile per una entusiastica recensione di un osceno, libello antisemita intitolato "Contra Judaeos", comunista anomalo nella Roma occupata dai tedeschi, intellettuale irrequieto negli anni della repubblica, Suo seguace, infine, nella secessione dal "Corriere della Sera" di Piero Ottone; Colorni fu filosofo di alto valore, -lo attesta Norberto Bobbio- ebreo, cospiratore, socialista, carcerato e poi deportato a Ventotene, autore con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli del manifesto federalista che dall'isola prese nome, redattore dell'Avanti! clandestino, ucciso da un sicario della banda Koch alla vigilia della liberazione di Roma.


Il caso Piovene -Colorni, per la eccezionalità dei due personaggi e la singolarità della loro vicenda, non si presta a generalizzazioni, ma la trama dei rapporti tra loro che Gerbi ricostruisce con finezza e maestrìa getta anche illuminante luce sulla storia di quel giornalismo italiano che si formò negli anni del fascismo, che accettò e servì il regime rimanendo sostanzialmente scettico di fronte alle sue idealità e alla sua dottrina, ma ne fu una delle insostituibili colonne, che ha messo le sue innegabili capacità professionali, nello stesso spirito, al servizio dei governi democratici del dopoguerra. Capostipite esemplare ne fu Giovanni Ansaldo, che esordì brillantemente sulle pagine di "Rivoluzione Liberale", primeggiò nella stampa fascista, chiuse la sua carriera da direttore del "Mattino" di Napoli di stretta osservanza governativa e fu inventore nei suoi giovani e presaghi anni della compagnia degli "apoti", quelli che "non la bevono", ma non provano riluttanza a dare una mano, magari "turandosi il naso", perché il grande pubblico beva tutto quello che il potere propina. Si contano sulla punta delle dita i giornalisti che negli anni della "prima repubblica" hanno legato il proprio nome a battaglie di libertà, di giustizia, di democrazia. Guido Piovene che con sensibilità di scrittore visse in lucida coscienza questa condizione e per il suo rapporto, per lui quasi ossessionante, con Colorni ne intuì la drammaticità le dette il nome di malafede e la definì nella prefazione alle "Lettere di una novizia" come l' "arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza" per concludere che la malafede "non è uno stato d'animo, ma una qualità dell'animo", non è cedimento all'opportunismo volgare, ma accettazione di una concezione della condizione umana.


A farmi tornare in mente Piovene è stato Lei con una delle sue "stanze" dedicata, questa volta, a Riccardo Lombardi.


A parte I'approssimazione e I'imprecisione dei riferimenti storici e biografici -anche Omero, perdonabilmente, qualche volta dormicchia- quello che mi ha impressionato è stata la carica di frigido e gratuito livore che traspare da ogni Sua riga, mal corretta dal riconoscimento della dirittura e del disinteresse dell'uomo e che non può essere attribuita, a mio parere, a risentimenti personali e tanto meno a passione politica.


La spiegazione va quindi cercata altrove e la mia è che la denigrazione di Lombardi sia episodio di quella caccia all"'azionista" che, da lungo tempo, vede impegnati gli avanguardisti di quel fenomeno tumultuoso e torbido che ha preso nome di revisionismo e che ha investito con la furia devastante di un'alluvione tutti i campi della cultura. E Lei, che da altrettanto lungo tempo, portandovi la tagliente intelligenza toscana che Le è propria e la lunga pratica del mestiere, si è assunta la parte di padre nobile e di suggeritore esperto, non poteva mancare di dare il Suo contributo nel momento in cui contro l"'azionismo" parte I'ennesimo attacco: una sua "stanza" - la prenda come un complimento professionale - vale più di un libro.


Si è parlato e si parla ancora della "egemonia' esercitata dai comunisti sulla cultura italiana. Giorgio Amendola, che era un intenditore, diceva che essa era la capacità di intimidire gli avversari e di indirizzare gli alleati senza ricorrere al bastone. Ora, quella egemonia ci fu e fu pesante, - da socialista ne sono buon testimone - fu in certi momenti e in certi aspetti dogmatica, faziosa e settaria, ma fu conquistata stando all'opposizione, contro le politiche discriminatorie dei governi e delle forze reali del paese, contro la scomunica che vietava al bracciante in odor di marxismo il matrimonio e il funerale religiosi.


Tanto fu possibile perché quella egemonia si alimentava di una cultura che si dipartiva dal pensiero storicistico nelle sue molteplici e dialettiche articolazioni e fu manovrata con tanta genialità che finanche Croce si trovò, contro la sua volontà, a consolidarla. Oggi I'egemonia ha cambiato segno, colore e natura, la sua cultura è senza pensiero, anzi si potrebbe dire è nemica del pensiero, ma essa può valersi di tutti gli strumenti, dalla cattedra alla editoria, dalla grande stampa alla televisione fino al messaggio pubblicitario e ha sviluppato, anche in virtù della duttilità consentita dal proprio agnosticismo ideale, una capacità di intimidazione che ha gettato nel terrore gli esangui eredi di Giorgio Amendola, riducendoli, direi quasi letteralmente, al balbettio.


Il revisionismo odierno ha potuto cosi portare a compimento una operazione di strumentalizzazione della cultura di un'ampiezza e di una profondità senza precedenti. Le scienze giuridiche sono state scisse dai principii e degradate a una somma di virtuosismi tecnici, opportunisticamente e anche dilettantescamente manipolati; l'economia riportata ai tempi del capitalismo nascente quando c'era ancora tutto un mondo non da governare, ma da conquistare; la morale rimodellata secondo la legge della giungla; la sociologia divenuta tecnica della interpretazione delle statistiche e dei sondaggi al servizio del mercato delle merci e di quello dei voti, mentre quella sua sottospecie che è la politologia ha preso il posto dell'astrologia nella e nella conduzione della politica.


Di questi ingredienti si è venuta costituendo quella che, lasciandone il merito a Piovene, può esser definita I'ideologia della malafede, quella che adatta la coscienza alla regola della convenienza, quella, direbbe Arturo Carlo Jemolo, che vede il mondo non in nero ma in sporco.


Nel campo degli studi storici il neo-revisionismo, sapientemente mescolando mezze verità e mezze bugie, presentate le une e le altre con la prosopopea della mezza scienza e condite con la banalità del buon senso, è venuto sostituendo alle vulgate della più opaca storiografia comunista, una propria versione ideologica della storia che si propone di epurarne il corso di quel filone sovversivo e sanguinario che parte da Spartaco, che passa per Robespierre e Stalin e arriva a Pol Pot e a Milosevic, sul quale si colloca anche la "guerra civile" fomentata dai comunisti, che lacerò l'Italia dal 1943 al 1945. L'obiettivo, lo sappiano o non lo sappiano i professori di storia - Lei, che non è professore, lo sa - è quello di dissolvere quanto resta del patrimonio ideale e morale della repubblica, nata, come si suol dire e come è storicamente vero, dalla Resistenza e di affossare la Costituzione che di lì trasse vita. Demolire la cultura storica ispirata all'antifascismo, e con essa I'ideologia di massa che ne era nata era e resta la condizione perché si compia per intero il passaggio dalla repubblica dei partiti alla repubblica delle compagnie di ventura, dalla democrazia parlamentare alla democrazia plebiscitaria. Il criterio metodologico - Benedetto Croce ne inorridirebbe - è quello di svalutare e di tralasciare nella ricerca la presenza, e la funzione nella storia dei fattori di natura etico-politica e di ignorarli nella formulazione del giudizio storico. La storiografia, quella vera, è scientificamente asettica, non conosce i buoni e i cattivi, non fa distinzioni moralistiche tra Gesù Cristo e chi lo inchiodò sulla croce, racconta le vicende di esseri umani ciascuno dei quali ha i suoi torti e le sue ragioni ed è carità di patria nel nostro caso - la storia del fascismo e dell'antifascismo - stendere, un velo sugli uni e sulle altre.


In questa operazione, caro Montanelli, Lei è stato un fiancheggiatore insuperabile. Sarebbe impresa di grande interesse raccogliere e allineare tutti i riferimenti storici disseminati nei Suoi scritti giornalistici per erigere un monumento alla Sua sagacia e alla Sua destrezza. Lei ha maneggiato e mescolato con arte il giudizio sereno e la malignità cattiva, la "banalité solennelle" e I'aneddoto arguto, il pettegolezzo tratto da remote memorie e la testimonianza di chi ne ha viste tante e non sa rinunciare al gusto di "épater le bourgeois".


L'egemonia comunista appartiene a questo punto al passato. Gli storici della prima generazione, sono sepolti o si sono chiusi nel silenzio o addirittura sono passati in campo avverso portandovi il settarismo e la protervia degli apostati. Chi non ha capitolato è costretto a ricorrere alla stampa semiclandestina o al foglio fotocopiato da distribuire, a mano, agli amici.


A resistere agli assalti rimane ancora la cittadella "azionista" non sfiorata dal crollo del muro di Berlino e non sfiorata dall'onda di Tangentopoli, e questo spiega la furia ricorrente e accanita della offensiva che contro di essa si conduce e che vadall'attacco dottrinale al "gramsci-azionismo" alla polemica ideologica contro il giacobinismo, mite o feroce che sia, dei suoi adepti, alla denuncia politica dell"'azionismo" come copertura consapevolmente offerta al comunismo, dallo sciacallaggio archivistico al pettegolezzo da cortile, alla malevola caricatura ,come Lei ha fatto con Riccardo Lombardi.


Il fatto è che l"'azionismo" con la sola esistenza ha vittoriosamente sfidato tutte le saccenterie, ideologiche e metodologiche, degli storici e dei politologi. Il partito d'azione, dal quale il fenomeno ha preso nome, ebbe vita tanto breve quanto travagliata: si scisse alla vigilia delle elezioni del '46, mandò alla Costituente sette deputati che lasciarono nella Costituzione il segno della loro presenza - basti ricordare Piero Calamandrei - rappresentanti di un partito che si sciolse, senza risse e con altissima dignità, in una con I'Assemblea. In quella occasione Lombardi parlò di un crisma che avrebbe accompagnato i suoi militanti per la vita quali fossero le scelte che essi avrebbero fatte.


E' stato vero. L'"azionismo" non soltanto sopravvisse al partito che gli ha dato nome ma crebbe rigoglioso e ha concorso a dare un'impronta alla migliore storia della politica e della cultura dell'Italia repubblicana. E questo è potuto avvenire perché l'unità degli "azionisti" stava non in una dottrina, ma in ethos politico, in un modo di concepire e di praticare la politica regolandola non "sul metro della convenienza" ma su quello della fedeltà alle idealità e ai principii che li avevano portati e sfidare via via l'isolamento dalla vita della nazione, il confino, la galera, la tortura, i plotoni d'esecuzione negli anni che corsero, tra I'avvento del fascismo e la fioritura della Resistenza, da Carlo Rosselli a Duccio Galimberti. Le loro scelte politiche furono diverse, a volte divergenti e contrastanti tra loro, ma dovunque essi portarono il rifiuto reciso e totale del dogmatismo, del settarismo, dell'opportunismo, la permanente apertura al dialogo politico e al dialettico scambio delle idee, furono gli uomini del "ponte" costruito da Calamandrei, sul quale transitavano senza confondersi, ma senza ignorarsi, aperte allo scambio, esperienze ideali e culturali diverse che avevano in comune il culto della dignità della persona umana.


Mi limito a far pochi nomi come mi vengono in mente: - Gaetano Salvemini che dell'"azionismo" fu il patriarca, Norberto Bobbio, Riccardo Bauer, Giacomo Brodolini, Piero Calamandrei, Guido Calogero, Aldo Capitini, Tristano Codignola, Francesco De Martino, Guido De Ruggiero, Guido Dorso, Tommaso Fiore, Vittorio Foa, Sandro Galante Garrone, Aldo Garosci, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Adolfo Omodeo, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria, Paolo Sylos Labini, Altiero Spinelli, Giorgio Spini, Leo Valiani, Franco Venturi. Mette conto di ricordare che dall"'azionismo" proviene anche Carlo Azeglio Ciampi. Ci troviamo di fronte a un'aristocrazia del rigore morale, della intelligenza e del coraggio, consapevole, si può convenirne di essere tale ma che ha conquistato sul campo i propri titoli di nobiltà, e ha voluto e saputo dimostrare con l'esempio offerto per una intera vita di esserne rimasta degna. I "se" a volte servono a capir meglio la storia: provi, caro Montanelli, a immaginare quanto impoverita e sbiadita risulterebbe la vita politica e culturale dell'Italia repubblicana se questi uomini non ci fossero stati.


lo sono "sceso in politica" giovanissimo in un gruppo clandestino di 'Italia Libera', che era emanazione del partito d'azione, ho militato nella Resistenza "giellista', ho avuto il privilegio, favorito dalle circostanze, di essermi legato negli anni con rapporti di filiale affetto o di fraterna amicizia con molti degli uomini che ho ricordati e con tanti altri, "azionisti" e no, i cui nomi non sono entrati nella storia e che mi furono anch'essi maestri di vita morale: tutti uomini che, per dirla con Piovene, non regolarono mai la conoscenza di loro stessi sul metro della convenienza, per i quali, sempre, la buonafede e non la malafede fu "qualità dell'anima".


E questo mi suggerisce di chiudere con una confidenza che faccio a Lei, da uomo a uomo. lo non ho ancora raggiunto la sua età, anche se me lo auguro, come a Lei sinceramente auguro di toccare e superare il traguardo del Suo primo secolo nelle condizioni di invidiabile lucidità di cui dà continua prova. Anch'io, però, ho varcato la soglia della vecchiaia e ho scoperto che la si può vivere, anche da laici, in stato di grazia, quello che si raggiunge quando si può guardare al passato, senza superbia, che è peccato, ma con I'intimo convincimento di aver conservato il rispetto di se stessi e la stima e I'amicizia delle persone che incontrammo lungo la nostra via, di poter dialogare ancora idealmente con loro, di poter immaginare i loro consigli, di poter sentire ancora il calore del loro affetto.


C'è una eutanasia che è difesa della propria dignità umana quando si può essere non più in grado di salvarsela da soli e può diventare necessario ricorrere a mani esperte e pietose e ce ne è una che è tutta e solo nelle nostre mani. Il caso ha voluto che a insegnarmelo - l'ho capito col passar degli anni - sia stato il padre spirituale degli "azionisti", Salvemini, che morì dicendosi felice di avere intorno a sé tanti amici i quali non avevano le sembianze di compunti e sussiegosi colleghi, ma erano i suoi compagni di avventure, di fede e di passione, i vivi e i morti. Spero - la speranza è virtù - che tocchi anche a me lo stesso destino. E tra gli amici, oscuri e illustri che in quel momento vorrei avere accanto c'è anche, col suo cipiglio e col suo candore, Riccardo Lombardi.

Gaetano Arfè.

ECO: L'egemonia fantasma nella scuola italiana

La polemica sui libri di testo, caso Storace e manuali di storia
Che cosa è stata la cultura nell'Italia di questo dopoguerra?

L'egemonia fantasma nella scuola italiana
Dai discorsi che sente oggi un ragazzo potrebbe pensare che i comunisti abbiano governato dal 1946 a Tangentopoli

di UMBERTO ECO

ALL'INIZIO degli anni Settanta Marisa Bonazzi aveva organizzato a Reggio Emilia una mostra critica dedicata ai libri di testo in uso nelle elementari dell'epoca. La mostra esponeva, dovutamente ingrandite, le pagine dei libri, e poi li commentava. Nel 1972, per le edizioni Guaraldi, Marisa Bonazzi e io avevamo pubblicato un libro, intitolato I pàmpini bugiardi, in cui il commento ai testi incriminati era quasi del tutto ridotto a titoletti ironici, e a brevi introduzioni ai vari settori (i poveri, il lavoro, la patria, le razze, l'educazione civica, la storia, la scienza, il danaro eccetera). Il resto parlava da sé. Ne veniva fuori l'immagine di una editoria scolastica che non si limitava a ripetere i clichés dei libri di lettura e dei sussidiari fascisti, ma era ancora più indietro, legata a stereotipi arcaici, datati almeno quanto il Vittoriano e il dannunzianesimo degli stenterelli.

Cito solo due esempi, e le sottolineature sono mie. Uno era un ritratto di Nazario Sauro, in cui è evidente lo schema dei busti mussoliniani: "In un corpo robusto pieno di sangue vivido e pronto, in quella testa possente e grossa, in quegli occhi risolutissimi si è trasfuso un poco dello spirito immortale che aleggia sui campi, sui monti, sui mari d'Italia, e la fa bella e forte diversamente dalle altre patrie". Il secondo era un capitolo sul 2 giugno, dedicato a spiegare come la festa della Repubblica si risolvesse in una parata militare: "E' un fiume di ferro, di uniformi, di armi e soldati allineati in ordine perfetto... Passano i giganteschi carri armati, i mezzi cingolati per il trasporto delle truppe anche attraverso la nube di una esplosione atomica, i grandi cannoni, gli agili e scattanti reparti d'assalto..."

Evidentemente i testi che spiegavano a bambini innocenti che i nostri cingolati scorrazzano felici attraverso le liete nubi di un'esplosione atomica, erano dei testi mendaci. Quel nostro libretto ha avuto una certa fortuna e, per la sua piccola parte, insieme con altri interventi critici (citavo in prefazione un numero della rivista Rendiconti) ha contribuito a uno svecchiamento dei testi scolastici. Nessuna autorità è intervenuta, nessuna commissione di censura è stata costituita.

Come avviene nelle cose della cultura, una libera critica ha stimolato ripensamenti e nuove iniziative. Io credo che così si debba fare in un paese civile. Non intendo pronunciarmi sui libri che hanno scatenato la critica di Storace, anche perché non li conosco. Sono pronto ad ammettere che contengano passi contestabili, e in paese libero le opinioni contestabili, appunto, si contestano, ferma rimanendo la distinzione fondamentale tra contestazione e censura. Se c'è scandalo, scoppia da solo. Naturalmente chi critica deve avere l'autorità morale e culturale per rendere la sua critica efficace: ma sono decorazioni che si acquistano sul campo.

Non dico nulla che non sia stato già detto se ricordo che un testo scolastico, per difettoso che sia, interagisce con l'autorità dell'insegnante, e con notizie che i ragazzi ricevono (specialmente oggi) da tanti altri canali. Al liceo si aveva come testo di filosofia il serio ma illeggibile Lamanna, di ispirazione idealistica. Il mio professore di filosofia era cattolico (e fu un grande maestro, che ci spiegava persino chi fosse Freud, invitandoci a leggere, per capirlo, l'Anima che guarisce di Stefan Zweig). Non amava il Lamanna, e ci dava la sua versione della storia della filosofia. Anche se poi ho fatto il filosofo di professione, molte cose filosofiche che so sono ancora quelle che ci ha insegnato lui. A questo professore ho chiesto un giorno quale buona rivista culturale avrei potuto leggere, oltre alla Fiera letteraria (che tra l'altro era allora in mani cattoliche, ma parlava di tutto). Mi ha consigliato un'altra seria rivista cattolica, Humanitas. E questo mi riconduce al problema dell'egemonia culturale della sinistra.

Oggi un ragazzo che, come per lo più avviene, sa poco dell'Italia che lo ha preceduto, a leggere i giornali e ad ascoltare i discorsi politici (se lo fa) si convince che dal 1946 a Tangentopoli l'Italia è stata governata dalle sinistre, le quali, avendo le leve del comando, hanno instaurato una loro egemonia culturale, i cui effetti nefasti si avvertono ancora ora. Debbo rivelare a quei giovani che per quel periodo il nostro paese è stato governato dalla Democrazia Cristiana, che controllava saldamente il ministero della Pubblica Istruzione, che esistevano fiorenti case editrici cattoliche (come la Morcelliana, SEI, Studium, l'Ave, e persino una casa editrice della Democrazia Cristiana, Cinque Lune), che la Rizzoli era allora d'ispirazione conservatrice, che non erano di sinistra Mondadori, Bompiani, Garzanti e via dicendo, che l'editoria scolastica di Le Monnier, Principato, Vallardi non era governata da membri del partito comunista, che non erano marxisti i grandi settimanali come La domenica del corriere, Epoca, Oggi, Tempo, non lo erano certamente i grandi quotidiani salvo l'Unità (comperata solo da chi votava Pci) e che, gratta gratta (non considerando le edizioni del Partito Comunista, come l'Universale del Canguro, che circolavano solo alle feste dell'Unità), l'unica casa di sinistra era l'Einaudi, la quale nel quarantotto ha pubblicato il primo libro sul materialismo dialettico sovietico, ma scritto da un gesuita. Feltrinelli viene dopo, e si afferma pubblicando Il Gattopardo e il Dottor Zivago, alla faccia dell'egemonia marxista.

Quella che oggi viene sbrigativamente chiamata cultura di sinistra era in verità cultura laica, liberale, azionista, persino crociana. L'università era governata da due grandi gruppi che si spartivano i concorsi, i cattolici e i laici, e tra i laici ci stavano tutti, anche i pochi studiosi marxisti di allora. Come si è stabilita un'egemonia della cultura laica, perché gradatamente egemonia c'è stata? Perché la Democrazia Cristiana al potere non l'ha contrastata e non è riuscita a opporre il fascino di Diego Fabbri a quello di Bertolt Brecht?

Non basta affermare, come qualcuno ha fatto in questi giorni, che il partito di governo ha esercitato un'ampia e serena tolleranza. E' vero in parte, ma negli anni Cinquanta ricordo che alla Rai lavorava gente a cui si rifiutava il contratto definitivo con la spiegazione esplicita che erano comunisti, e si potrebbero riaprire le cronache dell'epoca per ritrovare polemiche, manifestazioni d'intolleranza, chiusure oggi inaccettabili. Però sarebbe lecito dire che il partito di potere ha preso una decisione: lasciate a noi il controllo dell'economia, degli enti pubblici, del sottogoverno, e noi non ficcheremo il naso più di tanto nell'attività culturale.

Ma anche questo spiega poco. Perché, visto che la scuola non l'imponeva e anzi l'ignorava, un giovane doveva andare a leggere Gramsci piuttosto che Maritain? O almeno, perché i giovani cattolici dell'epoca leggevano Maritain, ma anche Gramsci e Gobetti? Perché quando la rivista dei giovani democristiani di fronda, Terza generazione, ha tentato la saldatura GramsciGioberti, la proposta non ha avuto successo e il povero Gioberti è rimasto negli scaffali delle biblioteche (e dire che sciocco non era)? Perché i giovani cattolici di allora, cresciuti sul personalismo di Mounier e sugli scritti di Chenu o Congar, leggevano affascinati anche Il Mondo di Pannunzio? E' che lo spirito soffia dove vuole. La filosofia cattolica degli anni Cinquanta e Sessanta si divideva, tranne pochissime eccezioni come gli esistenzialisti cristiani, tra neotomisti e spiritualisti di origine gentiliana, e di lì non si muoveva, mentre la filosofia laica metteva in circolazione non tanto Marx (come se tutti all'epoca si buttassero sui Grundrisse, andiamo!), ma il neopositivismo logico, l'esistenzialismo, Heidegger, Sartre o Jaspers, la fenomenologia, Wittgenstein, Dewey, e questi testi li leggevano anche i cattolici. So di fare delle generalizzazioni molto rozze perché, chi fossero molti campioni del pensiero laico, l'ho appreso da maestri cattolici come Pareyson e Guzzo, e non solo da Abbagnano (che era laico, ma certamente non marxista, e neppure di sinistra), e testi fondamentali del pensiero laico sono stati pubblicati anche in collane dirette da studiosi di ispirazione cattolica (si pensi alle edizioni Armando).

Ma voglio dire che questa cultura laica (che si espandeva ormai anche in opposizione all'idealismo crociano, e dunque non si trattava di una lotta tra marxisti, molti dei quali ancora crocianissimi, e cristiani) ha certamente stabilito una egemonia e ha sedotto insegnanti e studenti. E quando egemonie del genere si stabiliscono, non si distruggono a suon di decreti.

Questo almeno la Democrazia Cristiana lo aveva capito. Al massimo può essere accusata di scarsa fiducia nella circolazione delle idee, di avere pensato che contava di più controllare il Telegiornale che non le rivistine d'avanguardia. Così, dopo più di venticinque anni di egemonia politica, si è ritrovata tra le mani la generazione del Sessantotto ma non era colpa sua, accadeva in tutto il mondo. Caso mai, ha adottato una tecnica della pazienza: lascia fare, calma e gesso, nel giro di due decenni la metà di loro finirà o a Comunione e Liberazione o da Berlusconi. E così è stato. Si potrà dire che la cultura di sinistra è diventata egemonica grazie a una politica di martellanti ricatti ideologici (se non la pensi come noi sei un sorpassato, che vergogna occuparsi d'arte senza pensare al rapporto tra base economica e sovrastruttura!). E' vero. Il Partito Comunista, a differenza della Democrazia cristiana, ha investito moltissimo nella battaglia culturale. Però quando si leggeva Rinascita o Il Contemporaneo, con le loro diatribe sul realismo socialista, e le loro condanne persino del Metello di Pratolini e di Senso di Visconti, se ne rimaneva certo appassionati ma nessuno, tranne i comunisti iscritti, e forse neppure loro, prendeva sul serio quei diktat e tutte le persone colte ritenevano che Zdanov fosse una testa di legno. Oltre tutto, se la mia ricostruzione è giusta, la famosa egemonia delle sinistre si è lentamente instaurata proprio nel periodo storico, dall'Ungheria alla Cecoslovacchia, in cui lo stalinismo, il realismo socialista, il Diamat (acronimo russo di materialismo dialettico) andavano in crisi, anche nella coscienza dei militanti socialcomunisti. E quindi non si trattava di egemonia marxista, o non soltanto, ma in gran parte di egemonia di un pensiero critico.

E per quale complotto chi è stato influenzato da questo pensiero critico (laico o cattolico che fosse) si è inserito a poco a poco nelle case editrici, alla Rai di stato, nei giornali? Basta a giustificare questa egemonia la politica del consociativismo, con cui la Democrazia Cristiana ha cercato, e con successo, di compromettere l'opposizione con responsabilità di sottogoverno? O l'opportunismo di alcuni intellettuali che si sono buttati a sinistra quando pareva che nel sottogoverno consociativo si creassero occasioni favorevoli, così come ora si buttano a destra per le stesse ragioni? Non credo. E' che nella seconda metà del secolo quella cultura critica è stata più sensibile allo spirito del tempo e ha giocato alcune carte vincenti e ha costituito (dal basso e non dal vertice, e per movimento spontaneo, non per alleanze tra partiti che andavano dai comunisti ai repubblicani, dai liberali ai socialisti e ai cattolici progressisti) dei quadri preparati.

Capisco che Storace sia irritato da autori di libri di storia che non la pensano come lui. Mi chiedo solo perché non ritenga di avere in mano strumenti di controllo culturale (e quadri autorevoli) che gli permettano di stabilire l'egemonia del "suo" pensiero. E dire che ormai, se non ve ne siete ancora accorti, l'egemonia culturale sta dalla sua parte.

I classici della destra godono del sostegno delle pagine culturali, la storia contemporanea viene rivista a ogni passo, a guardare i cataloghi delle case editrici si vedono per ogni dove non dico i massimi autori del pensiero conservatore, ma persino caterve di libri ispirati a quell'occultismo reazionario a cui i padri spirituali di Storace si sono ispirati. Se l'egemonia culturale si valutasse a peso, avrei l'impressione che la cultura dominante sia oggi mistica, tradizionalista, neospiritualista, New Age, revisionista. Mi pare che la televisione di stato dedichi molto più spazio al Papa che a Giordano Bruno, a Fatima che a Marzabotto, a Padre Pio che a Rosa Luxemburg. Nei mass media circolano ormai più templari che partigiani. Come accade che, con case editrici, quotidiani, pagine culturali, settimanali di destra, Storace si trovi ancora tra i piedi tanti nemici? Possibile che, liquidata dalla storia l'ortodossia marxista, gli ultimi marxisti si siano arroccati nelle scuole medie? Li ha assunti tutti Berlinguer, nei mesi in cui ha avuto tra le mani quella pubblica istruzione che è stata saldamente tenuta dai democristiani per cinquant'anni?

Perché Berlusconi (che ha fatto sue le preoccupazioni di Storace), col potere mediatico che ha, soggiace al fascino dell'egemonia della sinistra e pubblica ogni anno, in pregiate edizioni a suo nome, il Manifesto del Partito Comunista e testi proto-comunisti come la Città del Sole di Campanella e La nuova Altantide di Bacone? Per fare bella figura nei confronti di una cultura laica che, nonostante tutto, stima? Perché non pubblica i suoi "pàmpini bugiardi"? Li leggeremmo tutti, cercando di trarne stimoli critici. Perché è attraverso i libri che si stabilisce una egemonia culturale.

(15 novembre 2000)

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