15.9.05

Melchionda: I costi della politica


Intervento di Enrico Melchionda al Convegno dell�A.R.S. su �Politica e pratica politica� � Roma, 12 settembre 2005

Di tanto in tanto si riapre in Italia � ma non solo in Italia � il problema dei costi della politica, che soprattutto da noi � ma non solo da noi � viene ad essere puntualmente catalogato (e apparentemente archiviato) nel capitolo della "questione morale". Il problema pare ogni volta vitale e impellente, ma da parte della nostra classe dirigente esso non diventa mai oggetto di azione politica ne' motivo di riflessione politica (al massimo di azione giudiziaria e di riflessione filosofica).
A meno che non si verifichi una rivolta dell'opinione pubblica come quella che diede luogo allo scandalo di tangentopoli, alle inchieste di mani pulite e al movimento (referendario) per la riforma del sistema politico, il problema dei costi della politica diventa puntualmente la trama di una sceneggiata in cui gli attori cambiano, ma le parti rimangono sempre le stesse: da una parte vi sono alcuni ferventi moralizzatori (specialmente nella stampa, ma non solo), dall'altra vi sono alcuni coraggiosi difensori della dignita' della politica (i realisti), e in mezzo una massa di politici che sono pronti ad ammettere che il problema esiste (e perfino a presentare un disegno di legge per affrontarlo) ma in realta' fanno di tutto per ignorarlo e accantonarlo al piu' presto.
E in effetti il problema prima o poi viene dimenticato, sopravanzato � com'e' giusto � da altri problemi ben piu' urgenti... ma solo fino alla prossima volta!
Ora, e' molto probabile che anche l�ennesima sceneggiata di quest�estate finisca per ripetere lo stesso copione, pero' spero che non sia nostra intenzione di recitarvi solo una parte, bensi' di discutere del tema con il serio intento di svolgere su di esso una riflessione politica (e non meramente filosofica) e, se possibile, anche di proporre un�azione politica (e non meramente giudiziaria) per affrontarlo. Per quanto mi riguarda, vorrei a questo scopo sottoporvi, nei limiti di spazio e di competenza che mi sono consentiti, alcune tesi maturate nella mia riflessione e nella mia ricerca in materia.
La prima tesi e' che sbaglia la nostra classe dirigente a illudersi che la sua sceneggiata funzioni davvero. O, se lo sa e ritiene che comunque sia preferibile per i suoi interessi immediati (l�unica cosa che conta), non e' molto lungimirante. Ma perche' non funziona? Perche' ogni volta che il problema si pone senza essere risolto, non e' vero che tutto rimanga come prima. Invece ogni volta si riduce il grado di legittimazione del sistema politico, si aggrava il distacco dei cittadini dalla politica e si allenta il rapporto rappresentativo tra societa' e politica. Quindi la scelta di non affrontare (o l�incapacita' di affrontare) il problema dei costi della politica si risolve non in una tenuta ma in un indebolimento della politica.
E come reagisce di solito la politica di fronte al contrarsi del suo grado di legittimazione? Istintivamente, essa reagisce cercando di difendersi in due modi: sostituendo al genuino rapporto rappresentativo con la societa' uno spazio di potere protetto e un�integrazione individualistica dei cittadini. In altre parole, da una parte si abbarbica allo stato e alle sue risorse e dall�altra raccoglie il consenso scambiandolo con la garanzia ai propri clienti di un accesso privilegiato a quelle risorse. Tutto questo, evidentemente, implica una moltiplicazione dei costi della politica (ed e' facile che scada nella corruzione). Ed e' questa, se ci pensate bene, la storia (la vera storia) della nostra famigerata partitocrazia.
Ecco che allora quella che sembrava una sceneggiata si rivela piuttosto un circolo vizioso (o, se volete, un paradosso): i costi della politica aumentano quando questa si indebolisce, ma allora l'unico rimedio che si riesce a escogitare e' quello di indebolire ulteriormente la politica, il che pero' fa aumentare ancora i suoi costi... e cosi' il circolo vizioso ricomincia.
E� in questi termini che va letta anche la vicenda della scorsa estate, quando le ennesime denunce e polemiche sulle spese e sugli sprechi delle istituzioni e del professionismo politico si sono intrecciate con lo scandalo delle scalate bancarie. Fenomeni che sono stati puntualmente iscritti nel grande contenitore della questione morale. Che puo' essere, e spesso e' stato, un modo per non affrontarli in quanto questioni prettamente politiche. Se vogliamo farlo, invece, dobbiamo tornare a fare i conti con la storia del nostro sistema politico, con i passaggi che ne hanno segnato la strutturazione, con i momenti in cui sono venuti al pettine le distribuzioni e gli equilibri dei poteri. A cominciare dagli avvenimenti che dieci anni fa hanno portato il nostro sistema politico�istituzionale al suo punto di massima crisi e a una serie di cambiamenti di ampia portata.
Una storia che ci e' stata presentata come un qualcosa che aveva a che vedere con partiti forti, apparati pesanti, funzionari onnipotenti. Mentre invece si trattava di partiti, di uomini politici e di amministratori che avevano reinvestito sullo stato e sulle sue risorse il capitale sociale fatto di identificazione e di partecipazione che in precedenza gli aveva consentito di costruire una democrazia organizzata e di massa. Cosi' lo stesso fenomeno della corruzione e' stato interpretato come una manifestazione del predominio dei partiti sulla societa' e di una invasione pervasiva della politica nel settore dell�economia, mentre invece era il segno di una ritirata dalla societa' e dell�incapacita' di reggere il confronto con le forze economiche. E� a questo errore di valutazione che dobbiamo due conseguenze gravi e controproducenti della rivolta anti�partitocratica scoppiata negli anni novanta.
La prima e' che l�ulteriore smantellamento dei partiti che e' stato indotto dalle riforme e dai referendum degli anni novanta, a cominciare da quello sul finanziamento pubblico, non ha affatto abbattuto i costi della politica, cosi' come si pretendeva, ma al contrario li ha dilatati. La seconda conseguenza di quell�errore di valutazione e' che l�indebolimento della politica e dei partiti li ha esposti piu' di quanto fosse mai avvenuto prima all�influenza e alla superiorita' degli interessi speciali e dei poteri forti. Ecco: vorrei soffermarmi brevemente su questi due punti.
E� vero o no che il sistema politico della seconda repubblica e' piu' costoso del vecchio? E� vero, ormai e' evidente, e non era difficile da prevedere, in base al modello di democrazia che veniva propugnato dai nemici della partitocrazia. Qualche riformatore impenitente obiettera' che invece quest�esito vada addebitato ai tradimenti del progetto originario. Ma l�argomento non regge. Perche' basta guardarsi intorno o leggere un po� di letteratura politologica comparata per rendersi conto che una democrazia maggioritaria, se non puo' fare affidamento su un sistema partitico ben strutturato, tende a far lievitare almeno il costo delle campagne elettorali. Sappiamo, tanto per cominciare, che il sistema maggioritario esaspera la competizione elettorale, che e' la prima ragione delle dinamiche inflazionistiche dei costi della politica, in quanto le spese dei candidati si rincorrono all�infinito, ben oltre i limiti stabiliti dalla legge. Sappiamo inoltre che, con la riduzione dell�elettorato di appartenenza, si allarga la quota di elettorato fluttuante, che per essere conquistato richiede l�impiego di grandi risorse per la propaganda. Sappiamo anche che lo smantellamento dei partiti implica un drastico calo degli attivisti, disposti a pagare le tessere e a lavorare gratuitamente per il partito. Sappiamo che per essere competitivi i candidati, che possono fare sempre meno affidamento sul partito, hanno (ciascuno di loro) bisogno di manovalanza, spesso a pagamento, nonche' di strumenti e professionalita' sempre piu' avanzati da un punto di vista tecnico che � com�e' noto � sono molto costosi. E potrei continuare con l�elenco, ma e' chiaro che a incidere di piu' sui costi e' soprattutto la personalizzazione della politica.
Da questo punto di vista, oggi un ulteriore pericolo viene dalle primarie: non tanto le primarie per il candidato premier, quanto le primarie a cascata che potranno scaturire dalla proliferazione tendenziale del meccanismo. Esse ammazzano i partiti e li espongono all�invasione di chi dispone di risorse ingenti. Si pensi a quel che potrebbe avvenire, quando i partiti abbiano perso il controllo e le primarie siano diventate effettivamente �aperte�, se un Berlusconi di sinistra vi investisse lo stesso denaro, la stessa organizzazione, le stesse professionalita' e la stessa comunicazione di cui quello vero si avvalse al momento della sua discesa in campo. Quindi fa bene Prodi � come ripete spesso � ad essere "preoccupato del denaro di Berlusconi", ma dovrebbe preoccuparsi ancora di piu' dei meccanismi che consentono a quel denaro di pesare nella competizione politica. E maggior ragione dovrebbe preoccuparsi del rapporto intimo che, ben al di la' della figura di Berlusconi e del suo conflitto di interessi, lega la politica e il denaro nel nostro paese.
Il vero errore di valutazione della storia della caduta della prima repubblica sta infatti nello spostamento che essa ha provocato (o solo sancito) nell�equilibrio tra i poteri. Lo dimostra la vicenda recente delle scalate bancarie, dove, a parte gli attacchi ipocriti portati ai Ds sull�Opa di Unipol, sono usciti allo scoperto i ben piu' seri intrecci che si sono creati tra gli attori politici di entrambi gli schieramenti e i centri importanti del capitalismo italiano. Intorno ai processi di riorganizzazione del capitale finanziario e di riassetto del potere politico che sono in atto nel nostro paese per attrezzarsi di fronte al declino economico e al declino del berlusconismo, si e' visto che le cordate imprenditoriali e quelle politiche tendono ad agire in stretto abbinamento. Ma il problema e' che in questa circostanza la politica, in tutte le sue componenti, e' apparsa in bali'a dei poteri �forti�, in quella sorta di �arco costituzionale liberista� basato sulla convinzione deleteria che solo quelli possano garantire l�interesse generale e la salvezza del paese.
Ora, la mia opinione e' che questa situazione affondi le sue radici nel cambiamento di regime di dieci anni fa, nei nodi che allora non furono sciolti e nei nuovi equilibri che ne scaturirono. La vicenda ricorda molto quel che avvenne negli anni settanta negli Stati Uniti, quando lo scandalo del Watergate fu scambiato per una perversione politico-istituzionale e gli intrecci tra politica e affari che emersero furono affrontati con dei semplici correttivi moralizzatori, prevalentemente con una nuova legislazione sui finanziamenti elettorali. Il risultato fu che i costi della politica si dilatarono piu' che mai e che gli interessi organizzati espansero la loro influenza sul processo di governo e perfino sul processo elettorale. Quanto fossero degenerati i rapporti tra politica e affari e' diventato chiaro pochi anni fa, con lo scandalo Enron, il massimo crack aziendale della storia americana, da cui e' emersa la compromissione di tutto il mondo politico, e non solo della cricca di Bush, con il �nuovo� capitalismo speculativo dell�epoca liberista.
Anche il nostro scandalo di Tangentopoli e' stato affrontato come se si trattasse di un semplice problema di moralizzazione e non di un intreccio patologico tra politica e affari. Con l�ovvia conseguenza che la �pulizia etica� che fu messa in atto impedi' di �seguire il denaro� (per riprendere la famosa espressione usata da Deep Throat nel Watergate), e quindi nemmeno da noi il vero pericolo per la democrazia potette essere sventato. Cosi' ci siamo ritrovati, come gli americani con Enron, alle prese con un crack della stessa portata � quello di Parmalat � e non vediamo o fingiamo di non vedere, quasi si trattasse di un dettaglio casuale, gli intrecci con la politica che anche qui stavano dietro la gestione di un Tanzi. Si capisce, allora, perche' su questi intrecci, allorquando emergono in vicende come quella delle cordate bancarie, ci si illuda di poter intervenire (nella migliore delle ipotesi) con �codici di comportamento� o altri pannicelli caldi o si preferisca ripiegare sul tema dei costi della politica.
E� chiaro che di fronte a simili intrecci politica-affari � che a volte emergono, a volte si intuiscono soltanto � sono dirette verso un bersaglio sbagliato le reazioni moralistiche, anti-politiche, che il semplice cittadino manifesta volentieri nei confronti dei costi e dei privilegi politici. Ma sorge talora il dubbio che quel bersaglio venga agitato proprio per fuorviare. Pensiamoci bene. In un paese precipitato nel baratro del declino economico e produttivo, con le sue istituzioni bancarie e finanziarie che versano in una crisi senza precedenti... noi ci preoccupiamo del costo della politica. Noi ci preoccupiamo dei 200 milioni che lo stato sborsa (in media) ogni anno per il rimborso delle spese elettorali, o dei 2 miliardi che servono a far funzionare le camere elettive... in un paese che sopporta il costo della mafia (85 miliardi di fatturato all�anno e 1000 miliardi di patrimonio), quello dell�evasione fiscale (200 miliardi) o quello dell�esportazione illecita di capitali (360 miliardi). Ci scandalizziamo di un professionismo o di un semi�professionismo politico che coinvolge a vario titolo 4�500 mila persone� in un paese in cui gli affiliati alle mafie sono stimati (secondo dati della Dia e della commissione antimafia) in 1,8 milioni di persone.
Che ragioni cosi' il semplice cittadino e' comprensibile, perche' non si sente rappresentato dalla politica che c�e'. Ed e' normale che il sentimento si manifesti in maniera piu' acuta e insopportabile, fino ad esplodere, quando si inceppa anche la macchina che garantisce l'acquisizione del consenso: la spesa pubblica. Cioe' quando, in cambio dei suoi costi, la politica non fornisce un �servizio� adeguato, quando non produce prosperita', quando i redditi calano, il lavoro scarseggia e i servizi si riducono. Ma se tutto questo e' comprensibile dal punto di vista del cittadino, non lo e' altrettanto quando viene dagli stessi politici. Invece della furbizia e della demagogia, degli ammiccamenti e delle strumentalizzazioni, da una classe politica responsabile ci si aspetterebbero azioni e riflessioni volte ad affrontare i problemi reali da cui nascono le �questioni morali�. Come tagliare i legami con i poteri forti e sottrarre la politica alla sudditanza nei loro confronti, come ricostruire un legame rappresentativo o semplicemente ridare una voce alle classi subalterne, come formare, selezionare e controllare e'lite dirigenti democratiche e qualificate: ecco i problemi che una classe politica dovrebbe mettere urgentemente all�ordine del giorno. Allora avrebbe la legittimita' politica, e anche morale, per giustificare costi e privilegi che qualsiasi democrazia normale puo' tranquillamente sopportare.

6.9.05

Per una democrazia partecipativa e associativa (di Enrico Melchionda)


Contributo pubblicato in "Per l'alternativa sociale e politica" (l'ernesto 2005)

La democrazia oggi non e' in buona salute. Quelli che erano i suoi limiti originari, gia' evidenti al momento della sua affermazione, che era avvenuta gradualmente a partire dalle grandi rivoluzioni moderne, sono ora tornati prepotentemente al pettine. Le sfide che si pongono oggi appaiono certamente meno drammatiche di quelle che condussero ai fascismi negli anni venti-trenta, ma per certi aspetti sono anche piu' insidiose e profonde. Non si intravede, infatti, una seria via di uscita da questa crisi democratica: le tendenze in atto vanno verso riduzioni della democrazia, ma ancora una volta la soluzione potra' essere trovata solo in un di piu' di democrazia. Ed e' naturalmente questa la prospettiva piu' consona alla sinistra. Ma che cosa vuol dire, oggi, "piu' democrazia"? Per rispondere alla domanda e avanzare qualche ipotesi di massima, e' necessario fare un passo indietro per inquadrare il problema. Ripartendo dal modo, tutt'altro che scontato, in cui interpretiamo la realta' e il concetto di democrazia.
Da ideale eversivo ed egualitario qual era all'origine, la democrazia fu addomesticata e resa compatibile con la societa' capitalistica dai liberali, grazie all'invenzione del meccanismo della rappresentanza. Ma cio' fu possibile solo a costo dell'esclusione politica delle masse popolari. Fu proprio la pressione di queste ultime - a cominciare dalla sfida simboleggiata dalla rivoluzione sovietica - che determino' nei decenni iniziali del Novecento la prima grande crisi della democrazia. Da essa le classi dirigenti si salvarono, senza far ricorso alla dittatura, solo laddove seppero abbandonarsi alle spalle la democrazia di e'lite e integrare le masse mediante due aggiustamenti sostanziali: da una parte, lasciando ai partiti la responsabilita' di strutturare la rappresentanza politica e di controllare il governo e, dall'altra, affidando al welfare state il compito di attutire le disparita' e le ingiustizie sociali. Cio' consenti' al movimento operaio di accettare la democrazia esistente, per quanto limitata, come terreno positivo di lotta politica. Ma senza rinunciare del tutto alla prospettiva di un suo allargamento e approfondimento. Da questa tensione tra accettazione del terreno democratico e spinta verso la forzatura dei suoi limiti derivarono, soprattutto dove la sinistra era piu' forte e radicata, esperienze democratiche con alti gradi di rappresentativita', di pluralismo e di partecipazione.
Tali esperienze, e a maggior ragione i tentativi di ulteriore democratizzazione che pure si ebbero, entrarono in crisi a partire dagli anni settanta, quando si sviluppo' una controffensiva delle classi dominanti le quali, sotto la bandiera ideologica del neoliberismo, misero mano a un'opera di smantellamento sistematico di quei due meccanismi - i partiti e il welfare - che erano serviti a edificare e sorreggere una democrazia di massa, consentendo al capitalismo di sopravvivere e alle classi subalterne di ottenere rappresentanza e benefici materiali. Il risultato e' stato quello di liberare le classi dominanti dai vincoli e dai condizionamenti che ne limitavano l'accumulazione, ormai insopportabili dopo la conclusione della lunga fase espansiva del dopoguerra, ma a costo di una drastica riduzione della legittimita' e della stabilita' del sistema politico. E' da qui che ha inizio la crisi attuale della democrazia, la quale si manifesta anzitutto attraverso due fenomeni tra loro collegati, anche se apparentemente contraddittori. Il primo e' quello dell'alienazione politica, che soprattutto nelle democrazie piu' "mature" sta relegando quote crescenti di elettori - soprattutto tra i ceti svantaggiati nella distribuzione delle risorse economiche, sociali e culturali - alla disaffezione e all'apatia, fino a tradursi in una sostanziale regressione dal punto di vista dei diritti di cittadinanza. Il secondo e' il fenomeno del neopopulismo, che, presentandosi come una risposta alla condizione di insicurezza e di abbandono delle masse, finisce per alimentare modalita' plebiscitarie di mobilitazione e di strutturazione del rapporto politica-societa', poiche' indirizza la protesta popolare contro gli strumenti e le istituzioni di rappresentanza, ravvisando in essi l'elemento distorsivo del rapporto democratico ma dimenticando che in realta' sono gli unici che abbiano dato a quest'ultimo corpo e sostanza.
E' in questo contesto che vanno ripensate le strategie di allargamento e approfondimento della democrazia. Affermare pero', com'e' giusto, che esse debbano far leva sul valore della partecipazione non e' piu' sufficiente. Bisogna sapere quali sono le forme e i terreni in cui la partecipazione puo' essere sviluppata senza cadere nella trappola populista del direttismo, cioe' in quelle procedure di voto - dalle primarie all'elezione diretta del capo dell'esecutivo - che danno agli elettori la possibilita' formale di incidere in maniera piu' immediata sulle scelte e sulle leadership politiche, ma che finiscono per indebolire le capacita' e gli strumenti con cui i cittadini possono effettivamente determinare e controllare quelle scelte. Un discorso a parte andrebbe fatto sui veri e propri istituti di democrazia diretta, come il referendum, che puo' essere uno strumento prezioso al fine di integrare e fluidificare il processo democratico, ma a condizione che non venga sciupato dalla pretesa di farne l'uso improprio di una consultazione assillante, non molto distante dalla modalita' del sondaggio di opinione. Il fatto e' che, in una societa' complessa basata sulla divisione del lavoro, la logica del referendum - per il tipo di attore che implica (l'elettore atomizzato e inconsapevole) e per il modo in cui lo si fa esprimere (la semplificazione "si'/no") - non e' affatto alternativa alla passivita' della procedura elettorale. Per questo motivo sarebbe ingenuo cadere nell'illusione di una democrazia referendaria, che - specialmente nella sua forma elettronica consentita dalle nuove tecnologie - disegna scenari affascinanti e possibilita' inedite tutte da esplorare, ma non e' facilmente compatibile con un progetto democratico nel quale l'autogoverno sia reso effettivo dal superamento della divisione sociale del lavoro.
Ben piu' urgente e decisivo e' il compito di contrastare le degenerazioni cui sta andando soggetto il rapporto di rappresentanza su cui bene o male e' imperniata la democrazia reale. A cominciare dalle procedure elettorali, di cui va salvaguardata e ristabilita l'inclinazione a produrre il massimo di partecipazione, rappresentativita' e pluralismo. Questo vuol dire innanzitutto che non va lasciata cadere la battaglia di principio per un sistema elettorale proporzionale [questo tema dovrebbe essere l'oggetto di un'altra Nota programmatica]. Ma vuol dire anche non trascurare tutte quelle misure che, per quanto possano apparire singolarmente trascurabili, servono a predisporre condizioni e incentivi tesi a incrementare la partecipazione elettorale. Ad esempio, sia i meccanismi che agevolano l'esercizio del diritto di voto, sia - perche' no? - l'introduzione del voto obbligatorio, possono non solo essere modi efficaci per contrastare i processi di de-inclusione e di smobilitazione dei cittadini piu' marginali ma anche innescare un processo virtuoso che stimoli altre forme di impegno civico e accresca l'influenza politica potenziale delle fasce sociali deboli, nel senso di richiamare ancora su di esse l'attenzione e l'investimento delle forze politiche, e segnatamente di una sinistra che qui aveva il suo insediamento e la sua ragione di esistenza.
In questo quadro, il terreno strategico di un progetto di democratizzazione rimane quello del rafforzamento e della riforma delle strutture intermedie di rappresentanza, su cui ricade la delicata responsabilita' di tradurre le domande, gli interessi e i valori della societa' in progetti politici e in controllo del governo. Dando luogo cioe' a quella democrazia organizzata che, in quanto strumento di una dialettica sociale trasparente e consapevole, e' il requisito indispensabile per riequilibrare l'egemonia indiscussa delle e'lite e per conquistare nuovi ambiti e pratiche di autogoverno. Non si tratta qui di un ritorno puro e semplice alla democrazia dei partiti, che e' una fase superata e non piu' riproducibile dello sviluppo politico, esaurita dalle sue stesse degenerazioni in senso oligarchico e statalistico. Non e' piu' possibile ricondurre ai soli partiti i fili di una moderna democrazia organizzata; eppure questa e' difficile da immaginare senza di essi o almeno senza un loro equivalente funzionale, cioe' senza rivitalizzare delle strutture politiche rappresentative e di massa che siano altrettanto capaci, a partire da interessi e bisogni reali, di creare identita' forti e di canalizzare una partecipazione non sporadica o isolata. In ogni caso di strutture del genere non puo' fare a meno il movimento delle classi subalterne. Ma la cesura con i partiti tradizionali deve essere netta almeno per due rispetti. Per un verso, va impedita la formazione di assetti oligarchici e di ceti politici separati, il che e' possibile soltanto se si escogitano i meccanismi atti a contenere entro limiti tollerabili il grado di divisione del lavoro, di professionalizzazione e di personalismo e se si procede con coraggio a una radicale democratizzazione interna, che - a differenza di pericolose sindromi o escamotage come le primarie e il leaderismo - valorizzi effettivamente la partecipazione orientata a fini universalistici e alla solidarieta' collettiva. Per un altro verso, e' necessario distogliere queste organizzazioni dalla tendenza all'istituzionalizzazione, nel senso di una collocazione funzionale e una sussistenza materiale sbilanciate verso lo stato piuttosto che verso la societa' civile: beninteso, qui non si tratta di accogliere l'impianto tipico della retorica antipartitocratica, ma di intervenire con azioni concrete - ivi compresi incentivi indiretti come, ad esempio, una riforma della legislazione sul finanziamento della politica - a sostegno del carattere eminentemente associativo dell'organizzazione politica.
L'obiettivo di ricondurre le organizzazioni politiche al loro carattere associativo implica non solo una loro riforma interna, ma anche una integrazione diversa dal passato con altre forme di organizzazione autonoma della societa': movimenti, sindacati, associazioni. Non basta sancire la reciproca autonomia e la pari dignita' ne' aprire nuovi canali di comunicazione e occasioni di contaminazione tra questi attori, ma bisognerebbe piuttosto cercare di superare una divisione artificiale del lavoro che induce gli uni e gli altri a sentire continuamente minacciate la propria autonomia o la propria funzione e finisce per impedire rapporti veramente proficui, che potrebbero dar luogo a un'unica rete entro cui prestarsi servizio e scambiarsi risorse, oltre a condividere un progetto comune. Lo sviluppo della democrazia associativa, per essere alimentato, richiede inoltre che si predispongano le condizioni perche' gli attori e le esperienze che la animano possano trovare sbocchi sul terreno istituzionale e del processo di governo. E' cruciale coinvolgere direttamente e formalmente i movimenti e le associazioni di cittadini nella formulazione delle politiche pubbliche se si vuole controbilanciare l'influenza degli interessi particolari, che anzi andrebbe rigorosamente minimizzata. E le esperienze di governance partecipativa come quella sul bilancio di Porto Alegre possono essere sostenute e allargate, fino a rimpiazzare le istituzioni statali in determinate funzioni amministrative. Infine, andrebbe riaperto il discorso - interrotto trent'anni fa - sulla democratizzazione all'interno di quegli spazi blindati di assolutismo che sono l'impresa e l'apparato amministrativo. Ma questo discorso potrebbe allargarsi ulteriormente, con il rischio di sconfinare al di la' dei limiti che sono confacenti a un programma politico inquadrato in un preciso contesto storico. Quel che conta e' che gli obiettivi che ci si pone realisticamente per l'oggi siano coerenti con un'idea della prospettiva da perseguire, che e' quella di una compiuta democratizzazione della vita quotidiana.

5.9.05

Partiti politici e Costituzione

04/11/2004
Partiti politici e Costituzione. Brevi riflessioni sul decennio*

di Claudio De Fiores


(tratto da: Costituzionalismo.it)




1. Dopo il secolo dei partiti.

É indubbio che l'esperienza dei partiti politici abbia costituito nel corso del Novecento l'approdo politico più avanzato nell'organizzazione dei sistemi democratici. Sono stati i partiti - come ricorda Leibholz - ad aver reso possibile "l'integrazione politica del popolo" (nella sue diverse componenti politiche, culturali, sociali) nella vita dello Stato (1), ad aver disegnato le costituzioni contemporanee (operando quale insostituibile anello di congiunzione tra potere costituente e potere costituito), ad aver innovato l'organizzazione degli Stati, ponendo finalmente a contatto i cittadini con quelle istituzioni che lo stato liberale gli aveva per lungo tempo precluso. Attraverso il radicamento dei partiti nella vita sociale e politica è stato, altresì, storicamente possibile coniugare popolo e governo, rappresentanza e rappresentazione, partecipazione e decisione politica. Tutto ciò avveniva nel "secolo breve" (2) : il Novecento. Non a caso, da più parti, definito "il secolo dei partiti" (3).
Scriveva alla fine degli anni venti Hans Kelsen: "un'evoluzione irresistibile porta in tutte le democrazie ad un'organizzazione del popolo in partiti" (4). La frase di Kelsen merita di essere sottolineata proprio per la sua distanza dalla realtà politica odierna e per gli interrogativi che essa inevitabilmente pone. A fronte della crisi dei partiti come si organizza e si manifesta oggi la volontà popolare? Alle soglie del XXI secolo, il popolo è preda di altre "evoluzioni irresistibili"? E in che direzione? Con quali esiti? Qual è la natura politica di questi processi? E quali le implicazioni costituzionali? Questioni, come si vede, complesse, controverse nel loro stesso impianto e di non facile soluzione.
Da una rapida analisi dell'ultimo decennio, un dato sembrerebbe comunque emergere con forza: travolta la democrazia dei partiti, la c.d. transizione italiana si è progressivamente avvitata attorno alla spirale dell'antipolitica. Populismo e mercato sono i suoi caratteri portanti. Il berlusconismo uno dei suoi approdi(5).
Sarebbe tuttavia riduttivo e fuorviante schiacciare il caso Berlusconi sulla vicenda italiana (e/o viceversa), dal momento che - secondo quanto emerso da una recente indagine - l'emersione del fenomeno populista rischia oggi di "aggredire" gran parte delle democrazie costituzionali . Tale pervasiva alterazione delle dinamiche democratiche risulterebbe contrassegnata dalla congiunta presenza di tre fattori sintomatici: a) trasformazione del sistema politico; b) personalizzazione del potere; c) influenza dei media. Il berlusconismo costituisce - se così si può dire - la manifestazione patologica più estrema di questo fenomeno, perché rispettivamente: a) beneficia delle trasformazioni del sistema partitico opponendo al vecchio partito di massa un suo "partito personale" (6); b) la personalizzazione del potere, da parte del capo del governo, tende ad assumere connotati autoritari (invocazione di immunità assolute, leggi ad personam, utilizzo di pratiche intimidatorie nei confronti di chi lo contesta); c) perché il Presidente del Consiglio italiano non solo influenza i media, ma ne ha il controllo (diretto e indiretto).



2. La polemica "antipartitocratica" dopo Tangentopoli.

Contrariamente a quanto in passato sostenuto (anche) da ampia parte della letteratura giuridica (7), la crisi della democrazia dei partiti - seppure consumatosi sotto i colpi delle inchieste giudiziarie - non può ritenersi esclusivamente riconducibile a Tangentopoli. Anzi, se così si può dire, la dissoluzione per via giudiziaria del "vecchio" sistema partitico costituì l'epilogo di quella crisi, la sua manifestazione più appariscente ed esteriore. La crisi dei partiti, a partire dalla fine degli anni settanta, deve essere piuttosto interpretata come crisi della loro egemonia (8) e della loro connaturata propensione a esprimere e a rappresentare la complessa articolazione dei bisogni e delle istanze sociali. Un fenomeno che affonda le sue origini molto tempo prima di Tangentopoli e che ha una sua "data illuminante" (9) nel convegno della Trilateral e nella critica da esso rivolta alle democrazie complesse.
Ne consegue che la cd. "partitocrazia" non rappresentava - a differenza di quanto ancora oggi sostenuto dalla vulgata politologica corrente - l'essenza della democrazia dei partiti, ma semmai la sua estrema degenerazione prodotta dal disperato tentativo (una volta venuto meno l'insediamento di massa dei partiti) di mantenere inalterata la propria presa sulla società attraverso le pratiche clientelari e il malaffare.
In Italia, l'esplosione di Tangentopoli è destinata a provocare una vera e propria "distorsione" delle dinamiche politiche. Vecchi partiti si dissolvono. Mutano le forme e i luoghi dell'agire collettivo. La politica arranca di fronte al repentino sopravvento del c.d. circuito mediatico- giudiziario.
Per compensare il vuoto di mediazione che ne sarebbe scaturito si inizia allora a teorizzare "un nuovo sistema politico, oltre i partiti" (10) e un nuovo modello di rappresentanza. Vecchi e nuovi poteri (la grande impresa, i media, la società civile, il trasversalismo referendario) invocano con forza il passaggio alla democrazia maggioritaria. Il loro obiettivo è regolare definitivamente i conti con la democrazia dei partiti, travolgendo quello che era stato il suo naturale corollario: il sistema proporzionale. Da più parti si inizia, così, a sostenere che la democrazia italiana per funzionare efficacemente avrebbe dovuto immediatamente liberarsi di quell'insopportabile diaframma posto fra governati e governanti (i partiti politici) e porre così implicitamente le condizioni per procedere all'elezione diretta del governo da parte del popolo sovrano (11).
In realtà, l'introduzione del maggioritario più che risolvere i problemi della democrazia italiana tenderà ad esasperarli ulteriormente: personalizzazione della competizione elettorale, uso pervasivo e quotidiano dei sondaggi, crescente peso della politica spettacolo, democrazia del "gradimento" (segnato dal ruolo egemone dei media, e dalla progressiva riduzione dei cittadini a tele-utenti della politica). Si punta, in questo modo, a sostituire quella che era stata la mediazione politica dei partiti con la immedesimazione istintiva e spontanea tra governanti e governati. Solo in pochi percepiscono, in quella fase, che la delegittimazione dei partiti avrebbe alla lunga favorito "una risposta di tipo autoritario", l'unica in grado di "ricostituire le condizioni di un minimo di unità politica" (12).


3. I riflessi costituzionali della crisi dei partiti.

La dissoluzione dei partiti di massa investe non solo il sistema politico, ma a partire dagli anni novanta si ripercuote direttamente anche sull'assetto costituzionale. Sia sul piano storico e giuridico, sia su quello politico-sociale. Sul piano storico perché assieme ai partiti di massa è improvvisamente venuta meno quello che era stata la rete politica di sostegno della Repubblica, il tramite tra popolo e Costituzione, i soggetti storici della sua scrittura e della sua (parziale) attuazione. Sul piano giuridico, perché alcuni istituti di garanzia previsti in Costituzione e modellati sulle dinamiche di un sistema proporzionale, subiscono con l'introduzione del maggioritario un inevitabile processo di indebolimento (riserva di legge, poteri delle minoranze parlamentari, ruolo delle istituzioni e delle procedure di garanzia della Costituzione). Sul piano politico-sociale perché smantellare i "partiti dell'assistenzialismo" avrebbe voluto anche dire smantellare "lo stato sociale in salsa partitocratica" che aveva, fino a quel momento, compresso il "franco sano individualismo" dei cittadini italiani (13).
L'antipolitica inizia a dare, così, i sui frutti: il primato dell'economico si consolida e finanche la nozione costituzionale di popolo subisce una repentina alterazione in senso schumpeteriano, trasformandosi da popolo plurale "organizzato in partiti" (secondo il modello kelseniano) in una massa indistinta di "individui legittimamente autointeressati, a cui occorre restituir voce" (14). Individui egoisticamente autonomi e indipendenti, ma allo stesso tempo fin troppo inclini ad accettare forme invadenti di controllo sociale.
Populismo e mercato si combinano in una insidiosa miscela che mette in discussione la Costituzione democratica e gli "irritanti" vincoli da essa stessa posti al dominio del capitale e alla sovranità del popolo : entrambi intesi come fonti primigenie e illimitate di libertà, che non sopportano istanze sovraordinate, né tanto meno argini giuridici (15).
Gli appelli al popolo (spesso evocato anche nelle vesti di potere costituente) si trascinano per tutto il decennio. Una pratica inedita che coinvolge finanche la Presidenza della Repubblica (nel 1991 - come si ricorderà - il Presidente Cossiga in un messaggio inviato alle Camere si abbandonerà ad una inconsueta apologia della sovranità popolare, collocandone il fondamento oltre la stessa Costituzione)(16). L'evocazione del popolo sovrano è altresì parte integrante della (fallimentare) esperienza delle commissioni bicamerali, delle modalità di approvazione del nuovo titolo V della Costituzione sottoposto - per volontà congiunta di maggioranza e opposizione - al voto popolare nell'ottobre 2001 e della stagione referendaria degli anni novanta.


4. Referendum e partiti. Rectius: i referendum contro i partiti.

A partire dalla fine degli anni ottanta, l'istituto referendario, abdicando definitivamente alla sua funzione di stimolo e di integrazione del governo parlamentare, tenderà progressivamente ad assumere una inedita carica di rottura nei confronti del sistema rappresentativo. Non è un caso che il bersaglio privilegiato dell'offensiva referendaria, nel corso degli anni novanta, sia stato costituito dalla democrazia dei partiti e da quello che era stato il suo originale e articolato corollario di istituti: dal sistema elettorale proporzionale alla disciplina sul finanziamento pubblico dei partiti.
Si consolida, in questi anni, il c.d. mito della sovranità referendaria, da più parti ostentata quale supremo e indiscusso modello di democrazia, perché diretta. Ma la democrazia referendaria degli anni novanta tutto è stato tranne che una democrazia immediata e diretta. Anch'essa, infatti, al pari della democrazia rappresentativa è stata caratterizzata da moduli di mediazione e di (etero)direzione della domanda politica, seppure in forme alquanto diverse da quelle classiche (imperniate, come si è detto, sul rapporto di rappresentanza e sulla presenza democratica dei partiti politici). D'altronde è difficile negare che, nel corso del passato decennio, finanche l'ostentata evocazione del popolo e della sua purezza, sia stata, pervasivamente, mediata dagli strumenti di (in)formazione dell'opinione pubblica e dalla crescente funzione di condizionamento esercitata dai potentati economici.


5. I partiti tra identità costituzionale e identità nazionale. Il ruolo del Capo dello Stato rappresentante dell'unità nazionale.

Ma la crisi di identità costituzionale del popolo è anche crisi della sua dimensione nazionale. Fattore, questo, indispensabile nella retorica identitaria che segna tutte le democrazie moderne (si pensi cosa significa il 4 luglio negli USA o il 14 luglio in Francia).
In Italia, nel corso dell'ultimo decennio - al precipuo fine di consentire la compiuta normalizzazione del nuovo sistema politico - si è, invece, tentato di privare in ogni modo il popolo della sua originale identità costituzionale, della sua storia, del suo passato. Sono segnali che non vanno sottovalutati soprattutto per i rischi di involuzione plebiscitaria del sistema che queste operazioni "intellettuali" nascondono. L'espressione recentemente impiegata da Gustavo Zagrebelsky per descrivere tale grave sintomatologia del sistema va segnalata per la sua particolare efficacia: "il popolo senza tempo, con l'andar del tempo, dà luogo ad una democrazia della massa indistinta e perciò totalitaria" (17).
Mi riferisco, com'è evidente, alla incalzante cultura del revisionismo storico-costituzionale e al trauma da questa inferto al rapporto identitario popolo-Repubblica. Le semplificazioni e le distorsioni prodotte, sul piano storico, da questa offensiva culturale sono note: la Resistenza presentata come un episodio marginale della storia nazionale e per di più segnato da connotati regressivi (l'onore perduto, la nazione allo sbando); la scrittura della Costituzione repubblicana ridotta a mero patto partitocratico; la storia repubblicana ridotta a storia di "inciuci" e di pratiche "consociative" (18).
Una deriva certamente favorita dalla cultura di destra tornata in auge all'indomani dell'implosione in Europa del socialismo reale, dalle vittorie elettorali (nel 1994 e nel 2001) di una coalizione politica storicamente e culturalmente estranea (nelle sue fondamentali componenti) alla tradizione antifascista, dalle sortite di un Presidente del Consiglio che si rifiuta di festeggiare il 25 aprile.
Ma anche le gravi responsabilità della cultura democratica non possono essere sottaciute: il sistematico ridimensionamento del significato costituzionale dell'antifascismo, il fascino del revisionismo storico subìto da ampia parte della cultura politica, gli appelli alla concordia nazionale.
Infine, su questo stesso fronte vanno altresì segnalati anche i preoccupanti cedimenti ravvisabili nell'azione costituzionale dall'attuale Capo dello Stato. Certo in molte occasioni (e anche di recente) il Presidente Ciampi ha energicamente richiamato le forze politiche al rispetto della Costituzione, sottolineandone l'attualità. Ma altrettanto spesso l'attuale Presidente della Repubblica ha omesso di ricordare, nel corso delle sue esternazioni, che la Costituzione è geneticamente segnata dalla discriminante antifascista. Pensare di neutralizzare tale connotazione, omettendo ogni riferimento alla Resistenza, cedendo alla retorica sui ragazzi di Salò o collocando la carta costituzionale nel solco della vicenda risorgimentale (ottocentesca) non aiuta a difendere a Costituzione (19).
Il Presidente della Repubblica nella sua veste di rappresentante dell'unità nazionale ha, invece, il dovere di agire quale garante dei valori posti a fondamento dell'unità costituente. È questo il terreno che il Capo dello Stato è chiamato continuamente a presidiare con la propria azione operando alla stregua di un vero e proprio tutore della memoria nazionale e costituzionale.
Ciò vuol dire, in estrema sintesi, che il Presidente della Repubblica, nel corso del suo mandato, deve certamente adoperarsi per unire le parti, temperare le asprezze dello scontro politico, assicurare la serenità del confronto istituzionale. Ma tutto ciò non può tuttavia costituire un vincolo inibitorio, una sorta di imperativo assoluto da rispettare ad ogni costo. Il Capo dello Stato deve perseguire la sua attività di mediazione ... fin dove è possibile. Fin dove, cioè, questa risulti coerente (o per lo meno non in contrasto) con la Costituzione. Ne consegue che, qualora le circostanze lo richiedano, il Capo dello Stato - venendo meno alla propria funzione arbitrale - ha il dovere di intervenire, di parteggiare, di schierarsi. Ma sempre dalla stessa parte. Dalla parte della Costituzione repubblicana.



6. Lo sbocco autoritario della c.d. transizione: il progetto di riforma costituzionale.


L'abbandono del progetto costituzionale è uno dei sintomi più evidenti del disorientamento politico e culturale di questi anni. È giunto ora il momento, soprattutto da parte della cultura costituzionale, di prendere con forza le distanze da quell'esperienza. Di invertire il processo. Soprattutto se si vuole tentare di opporre un argine a questa deriva.
Dobbiamo, sin da ora, essere consapevoli che la partita sulla (contro)riforma costituzionale approvata in prima lettura in Parlamento è destinata nei prossimi mesi a rappresentare per la maggioranza di governo (anche in ragione delle sue crescenti difficoltà) la madre di tutte le battaglie, il tentativo risolutivo di inveramento del modello plebiscitario perseguito dall'unto del Signore. È probabile che per rendere più appetibile la riforma le forze di governo e il suo capo torneranno ad "abusare" del popolo sovrano, indicando nel premierato forte la più alta realizzazione del principio della sovranità popolare, il definitivo compimento di un nuovo ordine politico senza più mediazioni. Le virtù regressive di quel progetto sono, per converso, del tutto evidenti: reductio ad unum della politica, verticalizzazione del consenso, concentrazione dei poteri di indirizzo politico.
D'altronde ciò che appare privo di senso nel confronto politico attualmente in corso sulle riforme costituzionali (ma si tratta - anche in questo caso - di una tipica "eredità" degli anni novanta e in modo particolare dell'esperienza delle bicamerali) è proprio questa incomprensibile e spasmodica tendenza a ritenere che la soluzione di tutti i mali della democrazia italiana passi attraverso una incisiva trasformazione della Carta fondamentale e un incisivo rafforzamento dei poteri del governo. Un prospettiva questa della quale si sarebbe fatti volentieri a meno … anche perché - francamente - non se ne sente assolutamente il bisogno, visto che in questi anni il governo si è rafforzato fin troppo. E così il suo ruolo (legge maggioritaria, riforma dei regolamenti parlamentari), le sue funzioni (blindatura della manovra di bilancio), il suo potere normativo (abuso della decretazione delegata, delegificazione, ritorno di un impiego disinvolto della decretazione di urgenza). Viceversa, l'ultimo "decennio italiano" ha squadernato, sotto gli occhi di tutti, la portata degli squilibri prodotti dal sistema elettorale maggioritario e dal riassestarsi intorno ad esso del nuovo sistema politico. Dunque, piuttosto che da un rafforzamento dei poteri del governo si sarebbe semmai dovuto partire da una coerente ridefinizione degli equilibri istituzionali e dalla costruzione di più efficaci contrappesi al dominio della maggioranza parlamentare e dei suoi capi.


* Intervento svolto nel corso del Seminario interno organizzato dalla Rivista in data 23 giugno 2004 a Roma sul tema "1993/2003, un decennio di storia costituzionale"




Note:

1) G. Leibholz, Struktureprobleme der Modernen Demokratie, Karlsruhe, 1958, 90
2) L’espressione, com’è noto, è di E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1995.
3) H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), in Id., La democrazia, 1984, Bologna, Il Mulino, 63.
4) Sulla natura politica del “berlusconismo” e sulle sue implicazioni (anti)costituzionali rinvio, in particolare, a L. Ferrajoli, Il berlusconismo e l’appropriazione della sfera pubblica e ai saggi contenuti nel numero monografico di "Democrazia e diritto" su Il sistema Berlusconi, 1, 2003.
5) Y. Mény - Y. Surel, Populismo e democrazia, Bologna, Il Mulino, 2001, 85 ss.
6) M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 1998.
7) Fra gli altri A. Predieri, Potere giudiziario e politiche, Firenze, 1994, 34 che a tal proposito scriveva: finalmente “è stato travolto con movenze rivoluzionarie tutto il sistema politico. La magistratura è apparsa come portatrice di cahiers de doléances, portavoce e portabandiera di sentimenti diffusi, strumento, organo di una società civile che non si riconosceva nei suoi rappresentanti e nella classe politica”.
8) Cfr. G. Ferrara, Istituzioni, lotta per l’egemonia e sistema politico, in "Pol. dir.", 1992, ora in Id., L’altra riforma, nella Repubblica, Roma, Manifestolibri, 2002, 91 ss.
(9)P. Ingrao, La “questione democratica”, in "Dem. dir.", 1988, 23.
(10) E. Bettinelli, Partiti politici, senza sistema dei partiti, Accademia Nazionale dei Lincei (a cura della), Lo Stato delle istituzioni italiane, Milano, 1994, 167.
(11) Mi riferisco alla “apologetica” pubblicistica di quegli anni, di impianto prevalentemente politologico. E in particolare G. Pasquino, La repubblica dei cittadini ombra, Garzanti, Milano, 1991; Id, Come eleggere il governo, Anabasi, Milano, 1992; S. Fabbrini, Per una democrazia maggioritaria, in "Micromega", 1990, 188 ss.; G. Sartori, Le riforme istituzionali tra buone e cattive, in "Rivista italiana di scienza politica", 1991, 21 ss.
(12) M. Luciani, Il voto e la democrazia, Roma, Editori Riuniti, 1991, 62.
(13)G. Bognetti, Tanti programmi per nulla, in Il Sole-24Ore, 26 marzo 1992.
(14) M. Dogliani, Costituzione e antipolitica, in C. De Fiores (a cura di), Lo stato della democrazia, Franco Angeli, Milano, 2002, 31..
(15) Sul punto rinvio al bel commento di F. Bilancia, Il Presidente del Consiglio Berlusconi e la costituzione come “problema”, in questo sito.
(16) Secondo il Presidente Cossiga “l’ordinamento costituito si fonda anch’esso su una norma fondamentale ad esso preventiva e ad esso sovraordinata: il principio della sovranità popolare”. Di qui l’esigenza vitale per la democrazia “di riconoscere e di affermare in concreto la naturale e primigenia preminenza della sovranità popolare ed il carattere originario dell’essere il popolo in democrazia l’unico vero e sovrano reale” (Camera dei deputati (a cura della), La Costituzione e le riforme istituzionali, Roma, 1991, 42 e 18).
(17) G. Zagrebelsky, Il “crucifige!” e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995,118.
(18) Cfr., in particolare, i contributi di E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1996; R. Gobbi, Il mito della Resistenza, Milano, Rizzoli, 1992; P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna, Il Mulino,1991.
(19) Mi riferisco, in particolar modo, alle esternazioni dell’autunno 2001 ampiamente riportate dalla stampa (Ciampi: “Anche i ragazzi di Salò volevano un’Italia unita”, in "La Repubblica", 15 ottobre 2001; Ciampi: nella Costituzione gli ideali del Risorgimento, in "La Stampa", 5 novembre 2001).

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