6.9.05

Per una democrazia partecipativa e associativa (di Enrico Melchionda)


Contributo pubblicato in "Per l'alternativa sociale e politica" (l'ernesto 2005)

La democrazia oggi non e' in buona salute. Quelli che erano i suoi limiti originari, gia' evidenti al momento della sua affermazione, che era avvenuta gradualmente a partire dalle grandi rivoluzioni moderne, sono ora tornati prepotentemente al pettine. Le sfide che si pongono oggi appaiono certamente meno drammatiche di quelle che condussero ai fascismi negli anni venti-trenta, ma per certi aspetti sono anche piu' insidiose e profonde. Non si intravede, infatti, una seria via di uscita da questa crisi democratica: le tendenze in atto vanno verso riduzioni della democrazia, ma ancora una volta la soluzione potra' essere trovata solo in un di piu' di democrazia. Ed e' naturalmente questa la prospettiva piu' consona alla sinistra. Ma che cosa vuol dire, oggi, "piu' democrazia"? Per rispondere alla domanda e avanzare qualche ipotesi di massima, e' necessario fare un passo indietro per inquadrare il problema. Ripartendo dal modo, tutt'altro che scontato, in cui interpretiamo la realta' e il concetto di democrazia.
Da ideale eversivo ed egualitario qual era all'origine, la democrazia fu addomesticata e resa compatibile con la societa' capitalistica dai liberali, grazie all'invenzione del meccanismo della rappresentanza. Ma cio' fu possibile solo a costo dell'esclusione politica delle masse popolari. Fu proprio la pressione di queste ultime - a cominciare dalla sfida simboleggiata dalla rivoluzione sovietica - che determino' nei decenni iniziali del Novecento la prima grande crisi della democrazia. Da essa le classi dirigenti si salvarono, senza far ricorso alla dittatura, solo laddove seppero abbandonarsi alle spalle la democrazia di e'lite e integrare le masse mediante due aggiustamenti sostanziali: da una parte, lasciando ai partiti la responsabilita' di strutturare la rappresentanza politica e di controllare il governo e, dall'altra, affidando al welfare state il compito di attutire le disparita' e le ingiustizie sociali. Cio' consenti' al movimento operaio di accettare la democrazia esistente, per quanto limitata, come terreno positivo di lotta politica. Ma senza rinunciare del tutto alla prospettiva di un suo allargamento e approfondimento. Da questa tensione tra accettazione del terreno democratico e spinta verso la forzatura dei suoi limiti derivarono, soprattutto dove la sinistra era piu' forte e radicata, esperienze democratiche con alti gradi di rappresentativita', di pluralismo e di partecipazione.
Tali esperienze, e a maggior ragione i tentativi di ulteriore democratizzazione che pure si ebbero, entrarono in crisi a partire dagli anni settanta, quando si sviluppo' una controffensiva delle classi dominanti le quali, sotto la bandiera ideologica del neoliberismo, misero mano a un'opera di smantellamento sistematico di quei due meccanismi - i partiti e il welfare - che erano serviti a edificare e sorreggere una democrazia di massa, consentendo al capitalismo di sopravvivere e alle classi subalterne di ottenere rappresentanza e benefici materiali. Il risultato e' stato quello di liberare le classi dominanti dai vincoli e dai condizionamenti che ne limitavano l'accumulazione, ormai insopportabili dopo la conclusione della lunga fase espansiva del dopoguerra, ma a costo di una drastica riduzione della legittimita' e della stabilita' del sistema politico. E' da qui che ha inizio la crisi attuale della democrazia, la quale si manifesta anzitutto attraverso due fenomeni tra loro collegati, anche se apparentemente contraddittori. Il primo e' quello dell'alienazione politica, che soprattutto nelle democrazie piu' "mature" sta relegando quote crescenti di elettori - soprattutto tra i ceti svantaggiati nella distribuzione delle risorse economiche, sociali e culturali - alla disaffezione e all'apatia, fino a tradursi in una sostanziale regressione dal punto di vista dei diritti di cittadinanza. Il secondo e' il fenomeno del neopopulismo, che, presentandosi come una risposta alla condizione di insicurezza e di abbandono delle masse, finisce per alimentare modalita' plebiscitarie di mobilitazione e di strutturazione del rapporto politica-societa', poiche' indirizza la protesta popolare contro gli strumenti e le istituzioni di rappresentanza, ravvisando in essi l'elemento distorsivo del rapporto democratico ma dimenticando che in realta' sono gli unici che abbiano dato a quest'ultimo corpo e sostanza.
E' in questo contesto che vanno ripensate le strategie di allargamento e approfondimento della democrazia. Affermare pero', com'e' giusto, che esse debbano far leva sul valore della partecipazione non e' piu' sufficiente. Bisogna sapere quali sono le forme e i terreni in cui la partecipazione puo' essere sviluppata senza cadere nella trappola populista del direttismo, cioe' in quelle procedure di voto - dalle primarie all'elezione diretta del capo dell'esecutivo - che danno agli elettori la possibilita' formale di incidere in maniera piu' immediata sulle scelte e sulle leadership politiche, ma che finiscono per indebolire le capacita' e gli strumenti con cui i cittadini possono effettivamente determinare e controllare quelle scelte. Un discorso a parte andrebbe fatto sui veri e propri istituti di democrazia diretta, come il referendum, che puo' essere uno strumento prezioso al fine di integrare e fluidificare il processo democratico, ma a condizione che non venga sciupato dalla pretesa di farne l'uso improprio di una consultazione assillante, non molto distante dalla modalita' del sondaggio di opinione. Il fatto e' che, in una societa' complessa basata sulla divisione del lavoro, la logica del referendum - per il tipo di attore che implica (l'elettore atomizzato e inconsapevole) e per il modo in cui lo si fa esprimere (la semplificazione "si'/no") - non e' affatto alternativa alla passivita' della procedura elettorale. Per questo motivo sarebbe ingenuo cadere nell'illusione di una democrazia referendaria, che - specialmente nella sua forma elettronica consentita dalle nuove tecnologie - disegna scenari affascinanti e possibilita' inedite tutte da esplorare, ma non e' facilmente compatibile con un progetto democratico nel quale l'autogoverno sia reso effettivo dal superamento della divisione sociale del lavoro.
Ben piu' urgente e decisivo e' il compito di contrastare le degenerazioni cui sta andando soggetto il rapporto di rappresentanza su cui bene o male e' imperniata la democrazia reale. A cominciare dalle procedure elettorali, di cui va salvaguardata e ristabilita l'inclinazione a produrre il massimo di partecipazione, rappresentativita' e pluralismo. Questo vuol dire innanzitutto che non va lasciata cadere la battaglia di principio per un sistema elettorale proporzionale [questo tema dovrebbe essere l'oggetto di un'altra Nota programmatica]. Ma vuol dire anche non trascurare tutte quelle misure che, per quanto possano apparire singolarmente trascurabili, servono a predisporre condizioni e incentivi tesi a incrementare la partecipazione elettorale. Ad esempio, sia i meccanismi che agevolano l'esercizio del diritto di voto, sia - perche' no? - l'introduzione del voto obbligatorio, possono non solo essere modi efficaci per contrastare i processi di de-inclusione e di smobilitazione dei cittadini piu' marginali ma anche innescare un processo virtuoso che stimoli altre forme di impegno civico e accresca l'influenza politica potenziale delle fasce sociali deboli, nel senso di richiamare ancora su di esse l'attenzione e l'investimento delle forze politiche, e segnatamente di una sinistra che qui aveva il suo insediamento e la sua ragione di esistenza.
In questo quadro, il terreno strategico di un progetto di democratizzazione rimane quello del rafforzamento e della riforma delle strutture intermedie di rappresentanza, su cui ricade la delicata responsabilita' di tradurre le domande, gli interessi e i valori della societa' in progetti politici e in controllo del governo. Dando luogo cioe' a quella democrazia organizzata che, in quanto strumento di una dialettica sociale trasparente e consapevole, e' il requisito indispensabile per riequilibrare l'egemonia indiscussa delle e'lite e per conquistare nuovi ambiti e pratiche di autogoverno. Non si tratta qui di un ritorno puro e semplice alla democrazia dei partiti, che e' una fase superata e non piu' riproducibile dello sviluppo politico, esaurita dalle sue stesse degenerazioni in senso oligarchico e statalistico. Non e' piu' possibile ricondurre ai soli partiti i fili di una moderna democrazia organizzata; eppure questa e' difficile da immaginare senza di essi o almeno senza un loro equivalente funzionale, cioe' senza rivitalizzare delle strutture politiche rappresentative e di massa che siano altrettanto capaci, a partire da interessi e bisogni reali, di creare identita' forti e di canalizzare una partecipazione non sporadica o isolata. In ogni caso di strutture del genere non puo' fare a meno il movimento delle classi subalterne. Ma la cesura con i partiti tradizionali deve essere netta almeno per due rispetti. Per un verso, va impedita la formazione di assetti oligarchici e di ceti politici separati, il che e' possibile soltanto se si escogitano i meccanismi atti a contenere entro limiti tollerabili il grado di divisione del lavoro, di professionalizzazione e di personalismo e se si procede con coraggio a una radicale democratizzazione interna, che - a differenza di pericolose sindromi o escamotage come le primarie e il leaderismo - valorizzi effettivamente la partecipazione orientata a fini universalistici e alla solidarieta' collettiva. Per un altro verso, e' necessario distogliere queste organizzazioni dalla tendenza all'istituzionalizzazione, nel senso di una collocazione funzionale e una sussistenza materiale sbilanciate verso lo stato piuttosto che verso la societa' civile: beninteso, qui non si tratta di accogliere l'impianto tipico della retorica antipartitocratica, ma di intervenire con azioni concrete - ivi compresi incentivi indiretti come, ad esempio, una riforma della legislazione sul finanziamento della politica - a sostegno del carattere eminentemente associativo dell'organizzazione politica.
L'obiettivo di ricondurre le organizzazioni politiche al loro carattere associativo implica non solo una loro riforma interna, ma anche una integrazione diversa dal passato con altre forme di organizzazione autonoma della societa': movimenti, sindacati, associazioni. Non basta sancire la reciproca autonomia e la pari dignita' ne' aprire nuovi canali di comunicazione e occasioni di contaminazione tra questi attori, ma bisognerebbe piuttosto cercare di superare una divisione artificiale del lavoro che induce gli uni e gli altri a sentire continuamente minacciate la propria autonomia o la propria funzione e finisce per impedire rapporti veramente proficui, che potrebbero dar luogo a un'unica rete entro cui prestarsi servizio e scambiarsi risorse, oltre a condividere un progetto comune. Lo sviluppo della democrazia associativa, per essere alimentato, richiede inoltre che si predispongano le condizioni perche' gli attori e le esperienze che la animano possano trovare sbocchi sul terreno istituzionale e del processo di governo. E' cruciale coinvolgere direttamente e formalmente i movimenti e le associazioni di cittadini nella formulazione delle politiche pubbliche se si vuole controbilanciare l'influenza degli interessi particolari, che anzi andrebbe rigorosamente minimizzata. E le esperienze di governance partecipativa come quella sul bilancio di Porto Alegre possono essere sostenute e allargate, fino a rimpiazzare le istituzioni statali in determinate funzioni amministrative. Infine, andrebbe riaperto il discorso - interrotto trent'anni fa - sulla democratizzazione all'interno di quegli spazi blindati di assolutismo che sono l'impresa e l'apparato amministrativo. Ma questo discorso potrebbe allargarsi ulteriormente, con il rischio di sconfinare al di la' dei limiti che sono confacenti a un programma politico inquadrato in un preciso contesto storico. Quel che conta e' che gli obiettivi che ci si pone realisticamente per l'oggi siano coerenti con un'idea della prospettiva da perseguire, che e' quella di una compiuta democratizzazione della vita quotidiana.

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