23.10.05

Come i lavoratori cinesi stanno perdendo il loro mondo

Marc Blecher

Z-Net.it
3 Agosto 2005

La stato cinese è riuscito a rafforzare la base strutturale della propria egemonia. L'egemonia agisce molto in profondità, ovviamente, al livello non tanto di ciò che le persone pensano quanto delle categorie in cui lo fanno. La stampa induce i lavoratori della Cina a pensare in termini di categorie relativamente innocue.


Le origini dell'egemonia

Come ha potuto il modo di pensare della maggior parte dei lavoratori cinesi, finanche i più impoveriti o attivi politicamente, assogettarsi all'egemonia del mercato e dello stato?

I mercati possiedono ben note caratteristiche strutturali che lusingano coloro che vi sono esposti in maniera da indurli ad accettarle come lo status quo. Inoltre, esse atomizzano coloro che vi sono sottoposti offrendo la prospettiva di soluzioni individualistiche e distruggendo la solidarietà tra i lavoratori. I lavoratori che ho intervistato tendono a pensare che il miglior approccio ai loro problemi è di tipo individualistico - lavorare di più, cercarsi un altro lavoro o migliorare la propria formazione. Irridevano l'idea di azioni collettive. I mercati distolgono dalla politica le energie delle persone con capacità di leadership. I lavoratori più dinamici che ho intervistato erano, non sorprendentemente, coloro che si muovono a proprio agio nella nuova economia cinese, occupando buoni posti in azienda oppure come imprenditori.

I mercati creano anche esperienze che mitigano l'opposizione ad essi. Laddove e quando funzionano bene, creano una gamma di merci che, seppure non rimuovono ogni resistenza, possono avere un effetto decisamente soporifero. Finanche i disoccupati o gli scoraggiati pensano di poter trarre beneficio dalle opportunità offerte ai loro figli e alle loro spose; altri pensano che la crescita è abbastanza forte da alimentare la speranza che qualcosa tocchi anche a loro, come il tanto atteso compratore straniero.

I ricordi della Rivoluzione culturale contribuiscono a rafforzare l'egemonia del mercato. Anche coloro che vi guardano come ad un nobile esperimento in generale la considerano un fallimento a causa dell'eccessiva politicizzazione, della perversione della lotta politica di tipo classista e del disastro sociale ed economico. Questa visione produce un palpabile senso dell'assenza di alternative alle "riforme".

Allo stesso modo, i confronti nazionali (e nazionalisti) hanno contribuito a rafforzare l'idea dello sviluppo basato sul mercato. Il fatto che il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan abbiano prosperato sotto il capitalismo - lasciamo perdere il fatto che di fatto adottarono delle varianti caratterizzate da una forte presenza dello stato - fu espressamente usato dalla leadership denghista per mobilitare il sostegno alle "riforme" nei primi anni 80. Ed il fatto che la Cina stia andando tanto bene in confronto alla Russia e alla gran parte dell'Europa dell'est e dell'Asia centrale è, per molti lavoratori, la prova che il mercato funziona.

Considerando l'egemonia statale, è di importanza critica notare che, in Cina, lo stato ha persuaso molti lavoratori di non essere più responsabile della condizione economica dei singoli individui e di non poter fare nulla per risolvere questo genere di problemi. I lavoratori che ho intervistato tendevano ad attribuire i loro problemi al management delle imprese in cui lavoravano o ai leader locali, piuttosto che allo stato in quanto istituzione. Molti inoltre consideravano l'elevato tasso di disoccupazione della Cina come un problema che danneggia le finanze dello stato, piuttosto che come un problema causato dallo stato. Allo stesso tempo, riconoscevano a quest'ultimo il merito della prosperità complessiva e della crescita della Cina dal 1978 e pensavano che lo stato potesse proteggerli dagli effetti del mercato fornendo misure di previdenza come l'indennità di licenziamento, il salario di disoccupazione e i sussidi per gli indigenti.

La stato cinese è riuscito a rafforzare la base strutturale della propria egemonia. L'egemonia agisce molto in profondità, ovviamente, al livello non tanto di ciò che le persone pensano quanto delle categorie in cui lo fanno. La stampa induce i lavoratori della Cina a pensare in termini di categorie relativamente innocue. In un caso molto comune, un articolo del Workers Daily sulla "riforma" delle aziende di stato cercava di apparire obiettivo presentando i risultati di un sondaggio. Ma tutte le domande erano formulate in termini di caratteristiche specifiche delle aziende.

"Alla domanda di scegliere se preferissero lavorare in un'azienda di proprietà statale, privata, a compartecipazione o d'azionariato, il 58% rispose di proprietà statale. Poi fu chiesto se approverebbero che alla propria azienda, in caso di buoni risultati, fosse imposto l'assorbimento di un'azienda in crisi. Il 55% rispose che avrebbe approvato, il 30% disapprovato ed il 15% che avrebbe dovuto analizzare la situazione specifica per decidere".

Un articolo del genere induce i lavoratori ad inquadrare i loro problemi in termini di forme di proprietà o delle fortune economiche delle loro aziende e non in termini di mercato o di politiche dello stato. Un altro articolo rivolto ai lavoratori ne criticava la responsabilità nel rifiuto delle aziende di fornire addestramento professionale, ciò che indirizza il pensiero dei lavoratori al capitale umano piuttosto che al capitale o allo stato capitalista.

Allo stesso modo, lo stato si dà da fare per persuadere i lavoratori del fatto che i problemi non derivano dallo stato ma dal mercato e dal loro scarso adattamento ad esso. Questo stesso sondaggio "riscontrò" che i lavoratori pensavano che la seconda maggior causa dei problemi delle imprese fossero le "cattive condizioni di mercato", dopo la "cattiva dirigenza". Lo stato continua anche a fare pressioni sui lavoratori affinché accettino la logica del mercato anche all'interno delle loro vite. Per esempio, il Workers Daily ha pubblicato un dibattito tra i lettori su un articolo in cui si parlava di un lavoratore modello di nome Ren Jianye che aveva rifiutato un premio in denaro che accompagnava il riconoscimento. Uno dei critici di Ren sosteneva che:

"Da parte sua, non accettare tradisce la volontà di non chiedere nulla. Ma ci sono gravi effetti collaterali. Non accettare alimenta lo spirito di alcuni che si adagiano sui frutti del lavoro altrui, con il risultato di deprimere l'impegno di molti. Se le persone come Ren vengono pagate meglio, ciò protegge coloro che lavorano e contribuiscono in misura maggiore, ciò che a sua volta dà fastidio alle persone che sprecano il loro tempo".

Qui cominciamo a vedere un approccio retorico più insidioso che divide la classe lavoratrice. Lo stesso Workers Daily ha descritto i giovani lavoratori come fannulloni "buoni a nulla" che non hanno orgoglio e non sono disposti a migliorare le proprie capacità.

Lo stato lancia almeno altri due tipi di appello ideologico alla classe lavoratrice. Primo, sostiene che la situazione che i lavoratori si trovano ad affrontare corrisponde alle moderne norme internazionali. Per esempio, il programma di austerità britannico "workfare" fu citato come esempio positivo a sostegno di un piano per l'eliminazione di qualunque sussidio ai lavoratori che non aderiscono ai programmi di riqualificazione. Allo stesso modo, il Codice del lavoro del 1955 è giustificato perché è simile alla legislazione degli altri paesi industrializzati. Secondo, sostiene che non c'è alternativa né alle "riforme" né ai problemi che hanno causato ai lavoratori. "Ad un certo stadio di sviluppo, la disoccupazione rappresenta un passo necessario per il progresso sociale", ha scritto un lettore in una lettera al Workers Daily.

Oltre ad appelli ideologici, un numero di altri fattori politici hanno aiutato lo stato a sviluppare e mantenere la sua egemonia sulla classe dei lavoratori. Il netto e deciso capovolgimento del radicalismo autoritario della rivoluzione culturale resta importante, soprattutto per coloro che vi passarono. La volontà dello stato di rispondere positivamente o per lo meno non aggressivamente a molte proteste locali allo stesso addolcisce la protesta e contribuisce a far credere agli altri lavoratori che può essere utile. Similmente, la volontà dello stato di offrire uno spazio limitato alle lamentele e finanche alle critiche - in alcuni casi, come sopra, pubblicate dalla stampa ufficiale - offre una valvola di sfogo ai lavoratori e mira a convincerli del fatto che lo stato non è un nemico implacabile. Infine, la fanfara con cui lo stato attacca pubblicamente la corruzione può contribuire alla creazione di una causa comune con i lavoratori indignati dai loro capi di dubbia onestà e dai funzionari locali corrotti.

Conclusione

La classe lavoratrice cinese ha una composizione molto variata ed è in rapido movimento. I lavoratori stanno reagendo alle loro esperienze di vita in una quantità di modi e molti partecipano a vari tipi di azioni collettive. Ma a controbilanciare questo fermento c'è un insieme di forze contrarie che affossano l'azione collettiva della classe.

Quanto è durevole l'egemonia del mercato e dello stato sul pensiero della classe lavoratrice? La sorprendente rapidità con cui l'egemonia del mercato e dello stato denghista sono emerse nel corso degli ultimi due decenni potrebbe influenzare quella stessa egemonia in maniere opposte. Da un lato potrebbe lasciar pensare che la classe lavoratrice è capricciosa, reagendo principalmente alla crisi immediatamente precedente (in questo caso, quella del periodo maoista) e/o agli aspetti positivi dei cambi macro-economici e politici del periodo denghista. In questo caso, l'egemonia del mercato e dello stato potrebbe essere fragile, soprattutto in caso di una crisi economica grave. Dall'altro lato, il fatto che molti dei valori centrali politici ed economici del periodo maoista sono stati messi da parte così rapidamente potrebbe far pensare che essi non avessero messo radici. In questo caso, il mercato e l'egemonia dello stato sarebbero più durevoli.

Per Gramsci, l'egemonia e la contro-egemonia sono costruite dai movimenti politici, un progetto che richiede straordinaria pazienza, capacità e determinazione, oltre che una società civile in cui attecchire. Fintanto che la Repubblica cinese continuerà a sopravvivere come stato cinese in una forma simile a quella odierna, sembra non esserci quasi speranza che possa emergere un forte movimento politico della classe dei lavoratori capace di costruire una contro-egemonia contro il mercato o lo stato. E se lo stato cadesse, seguirebbe una situazione politica con ogni probabilità confusa e sufficientemente instabile da costituire un ambiente non molto adatto ad un duraturo e vigoroso movimento sociale contro il mercato.

Naturalmente Gramsci, in quanto marxista, sapeva anche che la crisi economica può indebolire l'egemonia e creare l'occasione per lo sviluppo di una contro-egemonia. L'egemonia dello stato poggia sulla capacità di questo di garantirsi l'attribuzione del merito della sorprendente espansione economica della Cina dal 1978. Se questa crescita economica sfociasse in una crisi economica seria e prolungata, il lavoratori potrebbero reagire con ribellioni che potrebbero minacciare la sopravvivenza della Repubblica popolare cinese. Ma anche in questo scenario, è difficile vedere come l'egemonia del mercato possa essere messa in discussione. Come ha mostrato Steve Crowley, mio collega al College Oberlin, negli ultimi giorni dell'Unione Sovietica, i minatori in sciopero consideravano il mercato come la salvezza da uno stato corrotto e da una politica economica che li aveva abbandonati. In Cina, come altrove, una crisi economica seria farebbe da incubatrice per un movimento contro lo stato - che è, dopo tutto, un obiettivo concreto e palpabile - invece che contro il mercato. Quest'ultimo è molto più diffuso e amorfo in quanto oggetto di battaglia politica. La mobilitazione contro il mercato richiede anche una forte sinistra al comando delle risorse politiche, una cosa non del tutto frequente in Cina. In breve, anche se l'egemonia dello stato dovesse cadere, quella del mercato sopravviverebbe, probabilmente, e potrebbe finanche risultare rafforzata, almeno sul breve e medio termine.

Per l'"ultimo" Gramsci, interessato alla elaborazione di un movimento politico della classe lavoratrice, allora, la Cina d'oggi fornisce una buona ragione per giustificare il "pessimismo della ragione" professato dal maestro, ed una prova difficile per "l'ottimismo della prassi" cui questi si dedicò nobilmente.


Documento originale Why China‚s Workers are Losing Their World
Traduzione di Sergio De Simone

* Marc Blecher è professore di politica e studi dell'Asia orientale all'Oberlin College.

16.10.05

Katrina, the Iraq war and the struggle for socialism

Statement of the Socialist Equality Party
23 September 2005


The following statement is being distributed by supporters of the Socialist Equality Party and the World Socialist Web Site at the antiwar demonstrations being held Saturday, September 24, in Washington DC, Los Angeles, San Francisco and Seattle. At the main demonstration in Washington, the SEP/WSWS will be setting up literature tables in the southwest segment of the Ellipse and at the Washington Monument. The statement is available as a PDF, which we encourage WSWS readers to download and distribute.The following statement is being distributed by supporters of the Socialist Equality Party and the World Socialist Web Site at the antiwar demonstrations being held Saturday, September 24, in Washington DC, Los Angeles, San Francisco and Seattle. At the main demonstration in Washington, the SEP/WSWS will be setting up literature tables in the southwest segment of the Ellipse and at the Washington Monument. The statement is available as a PDF, which we encourage WSWS readers to download and distribute.

As thousands march this weekend against the Iraq war, the dramatic and tragic events in New Orleans have starkly posed the need for a new, socialist political strategy to guide the struggle against militarism and social reaction.

The massive loss of life and human suffering on the US Gulf Coast are not so much the product of a sudden natural disaster as of a protracted societal disintegration, of which the Iraq war is itself a manifestation.

The abandonment of tens of thousands of poor and working class citizens in the flooded streets of New Orleans without food, water or medicine has laid bare the political, social and moral bankruptcy of American capitalism.

The glorification of the capitalist market, the ruthless subordination of all social interests to the private accumulation of wealth, the rejection of even the most elementary forms of social planning in favor of the unfettered drive for corporate profit—all of this set the stage for the Katrina catastrophe.

So too has the effective ban placed by the ruling establishment and the media on any genuine debate over political alternatives to this system. The relentless vilification of socialism has itself contributed to the horrible price paid in New Orleans.

Nearly two decades ago, the Chernobyl nuclear disaster was proclaimed by the media in the US and Western Europe as decisive proof of the failure of the Soviet system, heralding its downfall—and no doubt it did express the incompetence and indifference of the ruling bureaucracy. Can it not be said with even greater justification that Hurricane Katrina has exposed the failure of American capitalism?

The hurricane brought to the surface some of the most essential features of this system’s profound crisis: the social deprivation faced by tens of millions in America and the vast gulf that divides the overwhelming majority of the people—those who work for a wage—from a fabulously wealthy oligarchy that controls both major political parties.

It exposed as well the objective decline of US capitalism, expressed in the disintegration of its infrastructure as well as the incompetence and disarray at all levels of government. The entire world looked on in horror and amazement as the response of the “indispensable superpower” resembled that of the most impoverished Third World regime.

The criminal negligence and indifference shown by the Bush administration toward the people of New Orleans mirrors the criminality and sadism of the US war in Iraq, which has now claimed the lives of over a hundred thousand Iraqis and more than 1,900 US troops.

Just as the devastation on the Gulf Coast was not merely the product of a natural disaster, the war itself is not some aberration—a conspiracy by a handful of right-wing ideologues. Rather, it is the inevitable product of an American capitalist society in deep crisis.

The war in Iraq was launched in the interests of America’s ruling elite. Its principal strategic aim from its origins has been to assert the dominance of US capitalism over the Persian Gulf region and its huge oil reserves, and to deny control of those reserves to Washington’s economic rivals in Europe and Asia.

Armed aggression has been employed in Iraq as part of a broader US global strategy of utilizing American imperialism’s military supremacy as a lever for offsetting its protracted decline in the world economy—a decline recorded in the unrelenting growth of US debt and trade deficits.

The use of force to lay hold of vital resources and markets has gone hand in hand with the destruction within the US of social programs and attacks on real wages to fund massive tax cuts for the rich. It is a policy of plunder at home and plunder abroad.

The policy of military aggression has been accompanied by the militarization of society. For two-and-a-half years, Washington has falsely claimed the war in Iraq is being waged to “keep Americans safe” from a supposed terrorist threat. Yet, as the abject failure of the government’s response to the disaster in New Orleans demonstrated, the safety and well-being of America’s working people are its least concerns.

The supposed preoccupation with “homeland security” and the pursuit of a “global war on terrorism” have merely served as pretexts for wars of aggression and attacks on democratic rights. When real disaster struck, Washington’s response was martial law.


A new socialist movement is required

The outrage over the Katrina debacle combined with deepening opposition to the war in Iraq are creating the conditions for a powerful movement of political opposition by working people in the US. If this movement is to succeed in bringing an end to the war and eradicating the conditions of social inequality and poverty exposed by Katrina, it must have an entirely new point of departure—a struggle for the socialist reorganization of society.

Such a movement must be based on the struggle of working people to conquer political power, not the politics of protest and pressure.

There is no doubt that the many thousands of students, youth and working people who march in the streets of Washington this weekend do so out of genuine anger and a burning desire to put an end to a criminal war launched in their name.

But calls by the protest organizers to “bring our demands directly to the policymakers” and “send a clear message to the White House and Congress” serve a definite political purpose. It is to subordinate mass opposition to the war to the Democratic Party and divert the outrage over New Orleans back into the confines of a two-party system that created the conditions for the catastrophe in the first place.

It is high time to learn the lessons of more than two-and-a-half years of protest against the war in Iraq. In the month preceding the 2003 invasion, millions of people marched on every continent to oppose it. This massive, internationally coordinated outpouring revealed the basis for a new political movement, independent of the existing political parties and institutions. Yet protest failed to stop the war, and in the absence of an independent political perspective this mass movement was dissipated.

In the US, opposition to the war was channeled into the Democratic Party based on the illusion that this party could serve as a vehicle to challenge Bush’s policy in the 2004 presidential election. However, the party’s candidate, John Kerry, ran on a platform that claimed the Democrats could wage the war more effectively.

Since its 2004 defeat, the Democratic Party has shifted even further to the right. Those considered likely contenders for the party’s presidential nomination in 2008—Hillary Clinton, Joseph Biden, John Edwards and others—have accused the White House of lacking a “strategy to win,” or advocated the expansion of the war with the deployment of even more US troops against the Iraqi people.

There is not a single prominent Democrat who is today calling for the immediate withdrawal of US troops from Iraq—a demand polls now show is supported by the majority of the American people.

The social gulf that divides the American oligarchy from the masses of people living from paycheck to paycheck finds its political reflection in a two-party system that disenfranchises the great majority of society. These social and political divides are unbridgeable. The system can neither be pressured nor reformed.

The struggle against war, social inequality and the assault on democratic rights can advance only on the path of an irrevocable break with the Democratic Party and the building of a fundamentally new political movement.

This means building a mass political party of working people based on a socialist program for reordering society on the basis of equality and social needs, rather than the piling up of corporate profits and personal fortunes.

This party must advance a program of irreconcilable opposition to imperialism, demanding the immediate and unconditional withdrawal of US troops from Iraq, Afghanistan and wherever else they are deployed to further US corporate interests. It must also fight for holding criminally responsible all those who dragged the American people into an illegal war based on lies.

The vast resources devoted to war and militarism, on the one hand, and tax giveaways to the rich, on the other, must be utilized to provide well-paying jobs, decent housing, education and health care both to the stricken population of the US Gulf Coast and the millions of others who have seen their living standards steadily ground down by the policies of the Democrats and Republicans.

The twin debacles for American capitalism in Iraq and New Orleans make clear that this historic task can be postponed no longer. We urge all those seeking a genuine means of putting an end to war, social inequality and political reaction to read and support the World Socialist Web Site and join the Socialist Equality Party.


World Socialist Web Site

Hurricane disaster shows the failure of the profit system


Build a socialist political alternative for working people

Statement of the Students for Social Equality
7 September 2005


The following statement is being distributed as a leaflet at college campuses across the United States by the Students for Social Equality, the student organization of the Socialist Equality Party. We urge all students to download and distribute it at your college. Contact the SSE to find out activities at your school.

The devastation in Louisiana and Mississippi in the wake of Hurricane Katrina will forever change the way broad masses of American working people look upon their government and society. The shock of the storm and the subsequent inundation of New Orleans have exposed the rottenness of the existing social order. It was not only the levees that failed, but the social and political institutions on which millions of people rely.

It is now being reported that as many as 10,000 people, or even more, may have perished during the past week. TEN THOUSAND HUMAN BEINGS, FELLOW CITIZENS! They are dead because of the incompetence, negligence, and indifference of the government. They are dead because the United States is a country in which millions of people live in or on the brink of poverty. They are dead because this is a capitalistic society where the accumulation of vast personal wealth for a small percentage of the population is deemed more important than the welfare of the people as a whole.

With the full dimensions of the hurricane disaster still unclear, the Bush administration and the various state and local governments are engaged in an exercise in mutual finger-pointing, seeking to affix blame for the catastrophe. From the standpoint of the working class, however, they are all guilty: the Republican president, the Democratic governor and mayor, the legislators of both parties at every level. All of them uphold the profit system which is the root cause of the disaster.

American society is organized on the basis of the profit motive. In no other country are the economy, the political structure and the entire culture so completely subordinated to the principle that the personal accumulation of wealth is the highest goal. The destruction of New Orleans, by a disaster that was predictable and came with ample warning, demonstrates that the principle of private accumulation is incompatible with a rational and humane society.

Modern society is mass society. Despite the reigning ideology of individualism—or, in the current terminology, “personal responsibility”—hundreds of millions of people in the United States rely upon complex social systems to provide them with the essentials of life: food production and distribution, water, electricity, heat, transportation, education, health care. Failure of these systems, particularly in a major urban area, quickly reduces the population to barbaric conditions.

Working people perform the labor which keeps the social infrastructure operating, but they have no decision-making power over it. These social systems are for the most part owned and controlled by giant corporations for whom profit, not human need, is the determining criterion. Those systems for which the various levels of government are responsible, such as the levees and canals surrounding New Orleans, are also subordinated to profit interests, through the control of American politics by the wealthy.

The New Orleans region is a particularly critical nodal point in the US economy. Not only is it one of largest sources of oil and gas, both in terms of domestic production and imports, but it is a hub of transportation for the lower South and for freight shipments throughout the interior of the United States.

Now millions of working people are paying the price, not only in the mass suffering among the survivors of the New Orleans catastrophe, or those in the wider Gulf Coast region, but nationally, where the cost will be registered in economic losses, skyrocketing prices of gas and heating oil, and spreading economic dislocation.

Why was the disaster not prevented?
Why did the US political system prove incapable of allocating the resources necessary to prevent this catastrophe?

Press reports now indicate that the destruction of New Orleans and the deaths of thousands of innocent people could have been prevented by the expenditure of relatively modest sums. About $2 billion was needed for immediate reinforcement and upgrading of the levees and canals, while $14 billion was the estimated cost to restore the ecosystem of the Mississippi delta, which would provide longer-term protection against the impact of hurricanes. But the mania in Washington for tax cuts and deregulation made such expenditures, tiny compared to the cost of the disaster, politically impossible.

The Bush administration repeatedly cut funding for the maintenance and upgrading of the levee system, despite pleas by local and state officials, in order to uphold more urgent priorities: the enormous military budget, including the cost of the war in Iraq, now more than $200 billion, and trillions in tax cuts for the wealthy.

It is symptomatic that as the levees collapsed, Congress was returning from its August break to take up, as its first order of business, a bill to extend or make permanent the virtual elimination of the estate tax, a measure which would funnel hundreds of billions of dollars to only a few thousand families, the richest of the rich.

This neglect of vital public works is the end result of three decades in which the American ruling class has sought to systematically dismantle the extremely limited elements of social infrastructure and a social safety net left over from the New Deal programs of the 1930s. These had been established under Franklin Roosevelt in response to the greatest social and economic crisis of the 20th century, which including not only the financial collapse that produced the Great Depression, but an acute environmental crisis affecting the Great Plains (the “Dust Bowl”).

The New Deal created not only massive social welfare systems like Social Security and regulatory agencies like the Securities and Exchange Commission, but huge public works programs like the Tennessee Valley Authority, which built dams and levees to curb flooding and provide cheap and reliable electrical power.

Despite the howls of Roosevelt’s enemies within the ruling class, these measures were not socialistic. They sometimes infringed on the short-term profit interests of particular groups of capitalists, or even of the entire capitalist class, but only to forestall a social upheaval from below that would threaten the profit system as a whole.

Today, by contrast, the US political system is dominated by a frenzied drive to destroy all barriers to the accumulation of personal wealth. Taxes have been virtually eliminated on the principal sources of income of the super-rich, such as capital gains and other forms of financial speculation.

The driving force of the shift to the right in the politics of both big parties, the Democratic as well as the Republican, is the economic polarization of American society. The vast majority of the population has been proletarianized, working from paycheck to paycheck for corporate employers, large or small. The sizeable property-owning middle class of Roosevelt’s day, the family farmers and small businessmen, has been largely absorbed into the working class, which now comprises the vast majority of the population. Even the best-paid workers face mounting insecurity, living on the edge, facing the danger that a layoff or serious illness could plunge them over the edge.

At the other pole of society, there has been an accumulation of wealth in private hands on a scale unmatched in history. In the richest country in the world, less than one percent of the population owns over 40 percent of the wealth. Excluding housing, this privileged elite owns close to 90 percent of the wealth—stocks, bonds and other financial assets, as well as commercial businesses. It is this class which controls both the Democratic and Republican parties and the government at every level—local, state and federal.

The political consequences
Under different circumstances, and with a different political system, the abysmal performance of the Federal Emergency Management Agency and other federal agencies would call into question the survival of the government. Certainly, governments have fallen from power for far less. But the US political system, more than any other nominal “democracy,” is thoroughly insulated from the sentiments of the masses. The only “public” that counts for the Democratic and Republican parties, for the media pundits and the rest of the political establishment is the ruling elite and its hangers-on among the wealthiest sections of society. With incomes in the high six figures and above, and massive personal assets, they are divided from the working people by an unbridgeable social gulf.

This was reflected in the expressions of scorn and contempt for the working class families who would not or could not leave New Orleans before the storm hit. The political and media establishment cannot conceive of the conditions of those who either had no car, had nowhere to go, or no money to spend, or who were waiting for an end-of-month check.

Moreover, even if Bush were to resign the presidency tomorrow, he would be replaced by Cheney or some other Republican or Democratic politician, and the system would go on as before. No serious alternative for working people can emerge in such a fashion. Nor would the replacement of the Republicans by the Democrats in the 2006 congressional elections or the 2008 presidential election make a significant difference.

There is no simple or easy answer to the crisis facing the working class, because the issues are so fundamental. It is necessary for working people to draw basic conclusions about the nature of the social and economic system which has produced imperialist war, attacks on democratic rights, growing inequality and now complete breakdown in the face of a natural disaster.

Mankind has entered the 21st century with science and technology that are continuously being revolutionized, and which carry with them the potential for abolishing poverty, hunger, disease and all other social ills. But this is impossible so long as society is constrained within an economic framework and class structure that developed in the 18th and 19th centuries: the private ownership of the productive assets of society by a small minority of capitalists, whose sole concern is their individual profits.

The choice before the American people is to cling to an anti-social and egotistical individualism, obsessed with the gluttonous accumulation of personal wealth, or to form a new political movement based on the struggle for social equality and the commonweal.

For the working class, this means recognizing that the great questions confronting American society require a struggle for political power. It is not a matter of pressuring the ruling elite, or replacing one section of that elite with another. The working class must organize itself as a political force and make itself the master of society. This requires the creation of a new political party of the working class, independent of and opposed to the Democrats and Republicans, and based on a socialist program.

The majority of the people must decide, not merely the name of the next president—after the ruling elite has carefully vetted the two “choices” to be placed on the election ballot—but how society is to be organized. Workers must ask themselves: What are the priorities of society to be: the social interests of the many or the accumulation of personal wealth among the privileged few? Why are hundreds of billions available for a war for oil, but nothing to maintain public services that have proven to be literally a matter of life and death for tens of thousands?

A new political road must be found. The vital next step in this struggle is to build the Socialist Equality Party and its student organization, the Students for Social Equality, and expand the readership of the World Socialist Web Site. We call on all students who now see the need to build a powerful political movement of the working class, within the United States and internationally, to join the Students for Social Equality.

World Socialist Web Site

14.10.05

L'esistenza pagana di Antonio Santucci (di Guido Liguori)


il manifesto - 28 Febbraio 2004
CULTURA
pagina 12
taglio basso

RICORDI
L'esistenza pagana di Antonio Santucci
GUIDO LIGUORI
e' morto Antonio A. Santucci, noto studioso e curatore delle opere di Gramsci. Aveva solo 54 anni, era nato il 2 ottobre 1949 a Cava dei Tirreni. Ha combattuto a lungo contro la malattia con le sue armi di sempre, l' understatement e l'ironia, a volte il sarcasmo, il vitalismo innato, lo scetticismo di fondo e una concezione della vita che - ripetendo la parola usata da Togliatti per Gramsci - vorremmo dire "pagana": consapevole della nostra finitezza, dei nostri limiti, della felicita' parziale che pure e' giusto ricercare come dell'importanza delle scelte che quotidianamente ci troviamo di fronte, della coerenza e della consapevolezza che richiedono. Antonio aveva studiato filosofia, dedicandosi dapprima all'illuminismo francese, in particolare a Diderot. Tramite l'amicizia e la collaborazione con Valentino Gerratana era ben presto approdato ai classici del marxismo, aiutando Valentino nella cura dell'epistolario labriolano e curando poi anche un volume delle lettere di Marx ed Engels. Ma ben presto le sue energie furono assorbite in modo preponderante dallo studio e dalle curatele delle opere gramsciane. Nell'ambito della Fondazione Istituto Gramsci Santucci ha rappresentato, lungo gli anni `80, un punto di riferimento per studiosi di tutto il mondo, divenendo anche direttore del Centro studi gramsciani e assolvendo a volte al ruolo di "ambasciatore itinerante" della Fondazione stessa e anche del Pci, come quando si reco' nel Cile ancora parzialmente controllato da Pinochet per prendere parte, in una universita' cattolica, a un convegno gramsciano semiclandestino che pure vide una incredibile partecipazione di massa. Con studiosi italiani e stranieri Antonio ha anche partecipato, nel gennaio 1991 a Roma, alla fondazione dell'International Gramsci Society, la rete internazionale di studiosi e appassionati cultori del pensiero di Gramsci.

La stretta collaborazione con Gerratana, amico fraterno oltre che maestro, porto' alla cura comune dell'edizione degli scritti gramsciani del periodo 1919-1920, presso Einaudi. Piu' tardi Antonio avrebbe curato (sempre per la casa editrice torinese) le lettere gramsciane del periodo 1909-1926 e poi, nel `96, una pregevole edizione delle Lettere dal carcere in due volumi per Sellerio, che aveva posto fine al paradosso per il quale delle missive del comunista sardo esistevano raccolte piu' complete all'estero che in Italia. Fra i suoi piu' recenti lavori pubblicati, l'introduzione e la cura dei labriolani Saggi sul materialismo storico e la raccolta di suoi scritti intitolata Senza comunismo. Labriola Gramsci Marx , entrambi pubblicati dagli Editori Riuniti.

Insieme a libri basati sul paziente lavoro filologico e scientifico, Santucci ha sempre dato grande importanza all'opera di divulgazione del pensiero gramsciano e marxista, offrendo "libri di base" e antologie - ben fatte e di grande successo, per i tipi degli Editori Riuniti e dell' Unita' - a un pubblico vasto di militanti e giovani studiosi, un modo per lui di essere coerente con quelle idealita' democratiche e comunistiche che sempre lo hanno animato.

Dopo la fine del Pci - alla quale si era opposto -, negli anni `90 Santucci aveva lasciato la Fondazione Gramsci, non senza contrasti, e aveva intensificato il proprio lavoro nel mondo editoriale, alla Laterza prima, con gli Editori Riuniti poi. Era approdato all'insegnamento universitario, tenendo corsi a Sassari, Parma e Napoli, per poi stabilizzarsi presso l'universita' di Salerno. Un docente sicuramente molto amato dagli studenti, per la capacita' naturale di rapportarsi ai giovani, per la simpatia istintiva che suscitava, per la curiosita' culturale che aveva innata, per il ventaglio di interessi e passioni che lo animavano e che andavano dalla filosofia alla musica, dalla politica allo sport.

Antonio A. Santucci, una vita per Gramsci (di Bruno Gravagnuolo)


Liberazione
29 febbraio 2004�

Da L'Unita'. La scomparsa dello studioso che con Gerratana lavoro' all'edizione critica dei "Quaderni del carcere"

Antonio A. Santucci, una vita per Gramsci

Pubblichiamo stralci dell'articolo che Bruno Gravagnuolo ha dedicato su "L'Unita'" di ieri ad Antonio Santucci, scomparso venerdi'. Cogliamo l'occasione per comunicare alla famiglia dell'autorevole studioso il piu' sentito cordoglio della direzione e della redazione di "Liberazione".


Stavolta e' vero. Antonio Santucci, artefice con Gerratana dell'edizione critica dei Quaderni gramsciani, se ne e' andato. La diffusione prematura della notizia luttuosa, che aveva fatto annunciare in anticipo la sua morte, non e' servita scaramanticamente a scongiurare l'esito a cui non c'eravamo rassegnati. Una speranza ingenua a cui ci aggrappavamo, che non ci pareva irriverente, sicuri che Antonio spiritoso come era si sarebbe divertito per quello strano incidente, una volta guarito. E invece siamo qui a raccontare Antonio stroncato da un male vigliacco, l'amico nostro certo, ma prima di tutto lo studioso di rango che appartiene a tutti. E alla sinistra in primo luogo.

Solo 54 anni e una mole di lavori preziosi. A cominciare dalla presenza silenziosa e incisiva dentro uno dei libri piu' grandi del secolo. I Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci. Che grazie a lui e a Gerratana videro finalmente la luce in un'edizione insuperabile, quella Einaudi. Per Antonio i Quaderni non avevano segreti. E non solo in senso filologico, piano su cui eccelleva, ma anche dal punto di vista interpretativo. E su Gramsci, benche' sempre guardingo e aperto come pochi. Antonio aveva le sue idee, nutrite di lavoro al chiodo e di passione. Era il suo un "Gramsci comunista", non piegato alle mode strumentali e di immagine buoniste. Un comunista che pensava lo scacco della rivoluzione in Occidente e rifondava il marxismo dentro la complessita' della societa' civile pervasa dal fordismo, che era poi la "globalita'" di quel tempo, dopo lo strappo dell'Ottobre 1917. Ed era un Gramsci piantato saldamente sulla tradizione della filosofia italiana, capace altresi' di intuire i temi dell'"immaginario" di massa, della comunicazione, delle forme del potere immateriale e linguistico. In anticipo su tante teorie strutturaliste e post-strutturaliste. E questo era uno dei suoi tasti prediletti. Ripristinare il testo gramsciano, contro deformazioni mirabolanti e di comodo. Lasciarlo vivere criticamente dentro la tradizione a cui il testo apparteneva. Ma al contempo isolando i nuclei filosofici e di pensiero che andavano ben al di la' di quella tradizione e che restavano ancora. Come strumenti formidabili di interpretazione, oltre il comunismo e senza il comunismo.

Senza comunismo era proprio il titolo di uno dei suoi libri piu' belli (Editori Riuniti, 2000). Che condensava i due rovelli di Antonio. La riflessione sull'eclissi del comunismo occidentale - che lui sperava di cogliere come "ricorso vichiano" - e la messa a punto di categorie gnoseologiche sulla storia e sulla societa', che in Gramsci erano comunque vitali e perduravano. La "prassi" ad esempio. Che per Antonio non era una rifrittura gentiliana, ma la forma stessa del lavoro e dell'agire politico e sociale che scongela e rimescola la produzione e la riproduzione materiale. Oppure il "blocco storico", costruzione e ricostruzione dialogica di alleanze sociali che articolano la societa' civile, alla base dello stato come "forza" (..).

Da lui abbiamo imparato tantissimo, non solo su Gramsci teorico, ma su Labriola e il suo tempo, sul nesso controverso Labriola-Croce-Gentile, sui "misteri" del prigioniero Gramsci, sul suo modo di scrivere e pensare. Sul modo stesso in cui il marxismo entro' in Italia, tra formazione del Psi e revisione crociana. Riusciva a farci toccare con mano certe atmosfere, aiutandoci a dissipare tante false congetture sui falsi complotti, messi sul carico di un immaginario Pci "carceriere". Discutevamo tanto, io e Antonio. Sul comunismo, sul revisionismo, sul Pci e la svolta del 1989, che lui non aveva condiviso e che viveva con amarezza, in una col dolore di aver vissuto un ingiusto contrasto umano e professionale - dopo la morte del suo maestro Gerratana - con l'Istituto Gramsci. Che era stata la sua casa, e che aveva dovuto abbandonare, prima di diventare professore all'Universita' di Salerno. Erano discussioni forti che avvenivano al telefono oppure a Villa Ada, dove ci incontravamo per caso, io a correre lui a passeggiare per curare problemi alla schiena. Ho di Antonio nella mente tante immagini. Una foto in cui a Cava de' Tirreni, dove siamo nati, leggevamo bambini il Corrierino. L'altra su un campo di calcio polveroso sempre a Cava dove lo misi giu' con un fallo. Amici per la pelle, fratelli, compagni.

Continuero' a cercare Antonio a Villa Ada, o dalle parti di quel campo di calcio.

Bruno Gravagnuolo

I comunisti mangiavano gli intellettuali (di Antonio Santucci)


Da: "la Rinascita"/Cultura

Commenti

Cultura Saggistica I comunisti mangiavano gli intellettuali di Antonio A. Santucci

Non c'e' nulla di male, anzi, e accade percio' spesso, che un saggio pubblicato all'interno di una grande opera, a piu' voci e in piu' volumi, venga riproposto in forma autonoma. Come breve libro a se', magari rivisto e un po' ampliato. Perche' il suo argomento e' particolarmente suggestivo e attuale. Perche' l'autore e' di gran nome. Semplicemente perche' il �tascabile� tira meglio. Di cultura e ideologie nell'Italia contemporanea si occupava, com'e' naturale, un capitolo del sesto tomo (quasi 800 pagine apparse un paio d'anni fa) della laterziana Storia d'Italia curata e diretta da Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto. La cultura, nel nostro paese e non solo, s'e' imbattuta infatti nelle ideologie piu' o meno nefaste che hanno attraversato il secolo appena concluso. Ideologie, appunto, rigorosamente al plurale. Le quali s'imbarcavano alla conquista della cosiddetta "egemonia" culturale che, in una societa' pluralistica come quella dell'Italia repubblicana, "non ha sempre coinciso con il prevalere di un unico e obbligante centro da cui emanavano punti di vista omogenei e imperativi con validita' erga omnes". Tale "pluralismo" si e' manifestato in un'irriducibile molteplicita' di scuole e tendenze. Inoltre "nell'ambito delle discipline che piu' riflettono i percorsi simbolici e gli umori dello �spirito del tempo� la presenza di contrappesi pluralistici e di varieta' ideologiche ha impedito un uniforme appiattimento su canoni �egemonici� rigidamente imperativi". Insomma "questo quadro mobile e variegato appare come la migliore smentita di una rappresentazione �monocromatica� del panorama culturale degli ultimi trent'anni". Si tratta delle ragionevoli conclusioni cui approda l'autore del saggio, Pierluigi Battista, editorialista della Stampa e gia' condirettore di Panorama. Che le illustra con dovizia di esempi: le incrociate "nefandezze censorie", i tagli all'Arialda di Testori per la regia di Luchino Visconti nel '60, i sequestri di Viridiana di Bu�uel e dell'Avventura di Antonioni, piu' tardi dell'Ultimo tango di Bernardo Bertolucci condannato infine al rogo. L'estromissione di Paolo Volponi dalla Fondazione Agnelli, nel '75, causa la sua intenzione di voto a favore del Pci. L'attacco dell'Osservatore Romano a Fellini per la Dolce vita e la gelida accoglienza del suo Prova d'orchestra da parte dei critici di sinistra. O ancora il sospetto suscitato presso i vertici comunisti dall'innovativa biografia gramsciana di Giuseppe Fiori e certe reazioni colleriche al Togliatti di Giorgio Bocca. Come pure le oscillazioni in campo editoriale di una casa �rossa�, la Einaudi, che pubblica il monumento dell'eresia contro l'"ortodossia democratica" corrente, il Mussolini di Renzo De Felice, e insieme si macchia del rifiuto ad accogliere nel proprio catalogo la Nascita dell'ideologia fascista di Zeev Sternhell. Il tutto (e molto altro: dalle fortune anche a sinistra di autori reazionari come Carl Schmitt, Ce'line e De Maistre, al successo internazionale dell'opera omnia di Nietzsche per l'Adelphi) sullo sfondo di quella che Battista denunzia come una "cappa conformistica asfissiante che ha dispiegato i suoi effetti deleteri su una cultura ammalata di claustrofilia e cronicamente subalterna a logiche di gruppo omologanti e inclini all'incentivazione di un corrivo spirito di uniformita'". Un'aspirazione all'uniformita' che presuppone tuttavia una molteplicita' di base, quell'effettivo pluralismo di cui s'e' detto. E il bello del pluralismo, culturale e politico, e' per l'appunto la varieta' delle idee. La vivacita' delle interpretazioni contrastanti che incontrandosi o scontrandosi fanno da lievito, de claritate in claritatem, alla formazione delle convinzioni personali. E' giusto pertanto che alle vedute di Pierluigi Battista, nettamente contrarie, con larga documentazione, a una "rappresentazione �monocromatica�" del panorama culturale italiano, faccia riscontro un'analisi opposta. E' possibile sostenere onestamente, come fa Battista, l'assenza di "canoni �egemonici� rigidamente imperativi"? No: il contrassegno del dopoguerra e' in realta' l'"egemonia culturale della sinistra", che "c'e' stata e anche per lungo tempo". Ce lo spiega a sorpresa Pierluigi Battista, con encomiabile severita' verso se stesso, nell'Introduzione alla ristampa in volume del medesimo suo saggio (Il partito degli intellettuali, Laterza). Ma quale pluralismo! Potentissima "calamita", l'egemonia culturale della sinistra ha "dilagato" almeno fino a quando non s'e' schiantata contro il Muro. Con essa "l'anatema ha preso il posto della critica, e la scomunica ha rimpiazzato il metodo della libera discussione". S'e' diffuso "un clima intimidatorio, dove il discredito dell'avversario faceva premio sulla limpidezza del conflitto culturale �disinteressato�". Demonizzazione, terrorismo, denigrazione, pugnalate alle spalle, apoteosi della cultura del sospetto: non e' il lessico da campagna elettorale del Polo, sono i sistemi praticati per decenni dal partito degli intellettuali (l'acronimo, ancorche' irregolare, dovrebbe essere Pci). "A distanza di anni - termina il Battista prefatore e critico di se stesso - e' possibile dire che la cultura del sospetto sia stata liquidata e che i detriti di un sistema politico-culturale fortemente incrinato dalle �dure repliche della storia� siano stati finalmente rimossi? E' lecito supporre di no". E ben si suppone. Perche' un sospetto, perfino da parte di chi non ha mai visto un soldo della Ghepeu', potrebbe sorgere. Accompagnato da una domanda: e se la "cappa conformistica" che ha asfissiato da sempre il paese non si fosse affatto dissolta? In tal caso un saggio composto al tempo del centro-sinistra al governo potrebbe legittimamente divergere da un'Introduzione che vien fuori mentre la destra trionfa. Ma questi (in ultima analisi, si diceva un di'), sono affari privatissimi dell'autore uno e bino. La questione focale e' invece che l'egemonia culturale e' cosa assai concreta, oltre che vasta e capillare. Ora, secondo Battista, "consegnandosi nelle mani della sinistra, gli intellettuali ritrovarono l'afflato di un contromondo ideale, di una controsocieta' capace di alimentare lo �spirito di gruppo�". Ma la lotta per l'egemonia, la vera, non si combatte nel contromondo degli scaffali della biblioteca, fra Arendt e Marcuse, Horkheimer e Foucault. E neppure nella controsocieta' delle redazioni culturali dei giornali. L'egemonia tocca i 28 milioni e mezzo di dischi a quarantacinque giri venduti fra i giovani nel '64, i relativi festival di San Remo e i fumetti, i rotocalchi e le trasmissioni radiofoniche, le grandi produzioni cinematografiche e i programmi della Tv a colori. Tutto in ruvide mani marxiste? Lasciamo perdere e concludiamo con un riconoscimento una tantum: "La sinistra - scrive Battista - ha davvero incarnato, nella societa' italiana in tempi di democrazia, la parte piu' colta, piu' coralmente impegnata nel lavoro intellettuale, piu' sensibile ai richiami dell'elaborazione estetica, piu' desiderosa di leggere libri, piu' capace di apprezzare il valore artistico di un film, di un quadro, di un testo di canzone". Bando ai complimenti e alla falsa modestia: la sinistra, unita, ringrazia.

6.10.05

Egemonia famelica

Stati Uniti - 18.3.2005
Paul Wolfowitz è il candidato Usa alla guida della Banca Mondiale


Matteo Colombi

Robert McNamara, da capo della Ford, nel 1961 andò a servire l’amministrazione Kennedy come segretario della Difesa. Sotto il pieno controllo di Kennedy e poi di Johnson, egli gestì la guerra in Vietnam, dagli albori fino al 1968, quando abbandonò per contrasti con il presidente Johnson, avendo ormai notevoli dubbi sul conflitto. Il bravo soldato McNamara, il servitore dello stato, per ricompensa finì alla Banca Mondiale dal 1968 al 1981. La stretta connessione tra la strategia militare americana in Vietnam e certe strategie di sviluppo economico non va venerata. Lo fece in maniera esplicita Walt Rostow, teorico per Kennedy e Johnson di una via alla modernizzazione del terzo mondo ‘moderata’ (ovvero né comunista né protezionista, ma legata all’espansione del commercio americano e delle classi medie nei vari paesi). Rostow fu uno dei mandarini di Harvard direttamente coinvolti sia nella dimensione militare che in quella economico-sociale rivolta verso i nuovi stati che emergevano dalla crisi del colonialismo europeo. La natura sociologica del potere americano, delle frammistioni tra l’ammazzare, il fare i soldi, e l’ammazzare facendo i soldi è abbastanza limpida.

Un uomo diviso. Di McNamara bisogna dire che è una figura tragica e morale. Nei suoi libri recenti, nel documentario introspettivo e drammatico The Fog of War, McNamara si pone in maniera esplicita il problema della guerra, delle conseguenze della ragione strumentale di cui fu l’esponente di spicco, e dei limiti di tale ragione, che può portare alla morte di ‘due milioni e mezzo di persone’ in maniera sistematica. Questo è il numero di vite estinte che McNamara prende come responsabilità americana nel conflitto vietnamnita. McNamara è una figura morale e dunque tragica perché si interroga, anzi è convinto che quella mattanza si potesse evitare. Non è disposto a rinnegare quello che ha fatto, il valore del servire lo stato americano. Ma è assillato dal senso di colpa, dalla responsabilità per le morti a cui ha partecipato. Egli sa che l’aver gettato sul Vietnam più esplosivi che in tutta la Seconda Guerra mondiale, che l’aver usato napalm, è di per sé grottesco.

Errori da non ripetere. La sua è una voce solitaria. Tragica perché non riesce a rinunciare alla ragionevolezza insidiosa delle sue antiche decisioni, ma nemmeno a giustificarle eticamente. La ragione di stato esiste, ma non supplisce e soddisfa quest’uomo. E nel caso del Vietnam il suo sgomento dinanzi alla distruzione irrazionale emerge pienamente. Il razionalismo ha generato l’irrazionalità. L’uomo si è fatto carnefice. McNamara in un certo senso vuole rifiutare la vittoria totale, la resa completa a tale banalità, alla capacità di distruggere con zelo senza farsi problemi. Egli è responsabile della morte di milioni di persone, e non riesce ad archiviarlo. Cerca di lanciare moniti ai politici di adesso, li invita a non farsi ammaliare dalla guerra, a cercare sempre di comprendere l’avversario, di avere paura della guerra, della sua amoralità. Dunque questo mandarino, giunto alla fine dei suoi giorni, guarda le sue mani piene di sangue, e vuole insegnarci a non ricadere con facilità in una caricatura di sé stesso, del suo modo d’essere, per ciò che è stato.

Un falco alla Banca mondiale Il 16 marzo George W.Bush ha nominato Paul Wolfovitz a capo della Banca mondiale. Da sempre un americano, a discrezione del presidente, siede a capo della Banca, e un europeo (occidentale) siede a capo del Fondo Monetario Internazionale. Il signor Wolfowitz, uscito dal mio dipartimento con un PhD in Scienze Politiche molti anni or sono, professore a Yale e alla Sais, la scuola di relazioni internazionali della John Hopkins Univeristy di cui fu presidente, e, sulla scia di McNamara, un uomo legato al sistema militare-industriale, adesso va a parcheggiarsi a capo della Banca. Se godeva di pessima stima sotto Wolfensohn, che veniva dalla finanza, adesso che uno dei fautori della guerra in Iraq e del “Manifesto per un nuovo secolo americano” siederà a capo dell’istituzione, si può dire che la Banca viene delegittimata ulteriormente. Ma alla fine rivela a fondo questo liberalesimo a mano armata per quello che è, non la fine della storia, come arpeggiava Francis Fukuyama (altro intellettuale organico), ma l’egemonia famelica di certi capitali e certe élites, concentrate negli Usa, ma con alleanze diffuse. Un’egemonia oligarchica priva di scrupoli. Possiamo solo augurarci che la conversione morale di McNamara raggiunga il signor Wolfowitz più velocemente di quanto non sia successo con l’ex presidente della Ford.

(tratto da http://www.peacereporter.net/)

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