20.12.04

Poulantzas: Il declino della democrazia

Il declino della democrazia:
lo statalismo autoritario

1. Statalismo autoritario e totalitarismo
2. L'irresistibile ascesa dell'amministrazione statale
3. Il partito dominante di massa
4. L'indebolimento dello Stato

(tratto da "Il potere nella societa' contemporanea", Editori Riuniti, Roma 1979, capitolo IV)

1. Statalismo autoritario e totalitarismo

I. Certi nostri teorici contemporanei del potere hanno appena scoperto l'esistenza del Gulag. Non possiamo che congratularci con loro. C'e' voluto del tempo, e' vero, ma non e' mai troppo tardi. D'altronde, a giudicare dalla funzione che oggi assolve questo termine, vien fatto di pensare che se il Gulag non fosse esistito lo si sarebbe dovuto inventare. Come sarebbe stato possibile altrimenti anche solo dire, per cio' che concerne le societa' occidentali attuali, tante sciocchezze sulla democrazia liberale avanzata e le cosiddette "societa' permissive", societa' di cui certi "nuovi filosofi" nostrani, nello stesso tempo e opportunamente, hanno appena scoperto le virtu'?
Con i paragoni non si prova nulla. Gli aspetti totalitari del potere nei paesi dell'est, che pure esistono e non si possono, e' vero, equiparare (non in senso normativo, ma in senso scientifico) con il funzionamento delle nostre societa', non dovrebbero far dimenticare, come spesso accade, non solo i totalitarismi dell'occidente (Pinochet o Videla) ma la situazione piu' prosaica degli Stati nelle nostre societa' a regime democratico. Nelle societa' capitalistiche occidentali sono in atto considerevoli trasformazioni nello Stato. Si sta imponendo una nuova forma di Stato: bisognerebbe essere ciechi (e la passione, anche quando e' dettata da nobilissimi motivi, acceca sempre) per non accorgersene. In mancanza d'altro, designero' questa forma di Stato con il termine di statalismo autoritario. Termine che puo' indicare la tendenza generale della trasformazione seguente: l'accentuato accaparramento, da parte dello Stato, dell'insieme delle sfere della vita economico-sociale combinato con il declino decisivo delle istituzioni della democrazia politica e con la restrizione draconiana, e multiforme, delle cosiddette liberta' "formali" di cui si scopre, adesso che stanno scomparendo, la realta'. Benche' alcune di queste modificazioni siano in atto gia' da tempo, lo Stato attuale segna una vera e propria svolta rispetto alle forme di Stato precedenti.
Mi occupero' solamente dello Stato dei paesi capitalistici dominanti, detti piu' nobilmente sviluppati, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Certo, nella misura in cui queste trasformazioni dipendono dalla fase attuale del capitalismo e dalla sua riproduzione internazionale, esse riguardano l'insieme dei paesi capitalistici. Dato pero' l'attuale approfondirsi, dovuto all'internazionalizzazione dei rapporti capitalistici, delle divisioni nella catena imperialistica tra paesi dominanti e paesi dominati, non e' possibile fare appello a una teorizzazione generale dello Stato attuale che abbracci le sue trasformazioni nell'insieme di questi paesi. Se si assiste nella zona dei paesi dominati, per esempio in America Latina, all'emergere di una nuova forma di Stato dipendente (che, a sua volta, si manifesta sotto forme di regime diverse), questa ha pero' delle caratteristiche non trascurabili che la distinguono dalla nuova forma di Stato dei paesi dominanti.
Lo statalismo autoritario rientra dunque, essenzialmente, in una periodizzazione del capitalismo distinta in stadi e fasi. Esso corrisponde, a quanto pare, alla fase attuale dell'imperialismo e del capitalismo monopolistico nei paesi dominanti, proprio come lo Stato liberale corrispondeva allo stadio concorrenziale del capitalismo, e lo Stato interventista, nelle sue varie forme, alle fasi precedenti del capitalismo monopolistico. Lo statalismo autoritario rimanda cosi' alle modificazioni strutturali che specificano questa fase per quanto riguarda i rapporti di produzione, i processi e la divisione sociale del lavoro sia sul piano mondiale che sul piano nazionale. Certo, il ruolo economico dello Stato, inseparabile dal suo contenuto politico costituisce necessariamente il filo conduttore di una analisi dello statalismo autoritario; esso pero' e' ben lontano dall'esaurire tale analisi: si ha a che fare qui con una realta' istituzionale che richiede una trattazione specifica. Lo statalismo autoritario rimanda alle trasformazioni delle classi sociali, delle lotte politiche, dei rapporti di forza che caratterizzano la fase nel suo complesso, sia sul piano nazionale che sul piano mondiale.
Certo, e questo e' importante, lo statalismo autoritario esiste sotto forma di regimi differenti, a seconda delle congiunture originali dei paesi in questione. Ma sottolineare il suo rapporto con la fase attuale del capitalismo equivale gia' ad indicare che non si tratta di un semplice "fenomeno" di superficie. Una certa forma di democrazia politica e rappresentativa appare fin da ora superata nel capitalismo, cosi' come esso si presenta e si riproduce oggi. Mettere in causa lo statalismo autoritario, non solo quindi salvaguardare cio' che resta delle liberta' ma anche svilupparle ed estenderle, in breve realizzare un programma di sinistra, non appare possibile senza una modificazione reale dei fattori che inducono questa nuova forma di Stato.
Lo statalismo autoritario rimanda quindi alla crisi politica e alla crisi dello Stato. Cio', oggi, comincia a diventare un fatto evidente, ma fino a poco tempo fa non era cosi'. Sto pensando naturalmente alla maggior parte dei rappresentanti della scienza politica ufficiale, in Francia e altrove, dal funzionalismo tradizionale fino ai vari "sistemismi", per i quali la crisi politica e la crisi dello Stato erano e continuano ad essere rigorosamente impensabili: momento disfunzionale misterioso, che rompe brutalmente con gli equilibri naturali di un "sistema politico" che funzionerebbe per conto proprio in modo armonioso e secondo una logica autoregolatrice interna. Ce ne siamo dovute sorbire di celebrazioni del pluralismo dei poteri della societa' liberale! Societa' liberale che smentirebbe un marxismo ormai (gia'!) sorpassato, poiche' essa sarebbe riuscita a superare le sue contraddizioni, e addirittura la lotta fra le classi. Ma penso soprattutto a una corrente ben distinta dalla prima, e molto piu' interessante: quella dei pensatori contestatori, i quali, dalla scuola di Francoforte ai radicali americani, ci dipingevano l'immagine terrificante di uno Stato-Moloc totalitario e onnipotente, fondato sulle pratiche manipolatorie del capitalismo, che sarebbe riuscito a integrare le masse popolari (contro, ahime'!, le previsioni di Marx, ecc.) e che si accingerebbe ormai a divorare i soggetti.
Questa immagine e' falsa, e non solo a causa dei limiti strutturali che contrassegnano ogni Stato capitalistico, compreso quello della fase attuale: lo statalismo autoritario e' strettamente connesso con la crisi politica e con la crisi dello Stato. E' altresi' una risposta agli elementi di crisi, ivi compresi quelli della propria crisi. Sicche' lo statalismo non designa un rafforzamento univoco dello Stato, ma costituisce piuttosto l'effetto di una tendenza, i cui poli si sviluppano in modo ineguale, di rafforzamento-indebolimento dello Stato. Lo Stato attuale, di cui lo statalismo autoritario e' una manifestazione terribilmente reale, resta, malgrado (anzi, a causa di) cio', un colosso dai piedi d'argilla, che fugge in avanti su un suolo che sprofonda: tutto cio' appare tanto piu' chiaramente sul piano politico. Non si dimentichi pero' che le bestie ferite sono le piu' pericolose.
Ma mettere in rapporto lo Stato con la crisi politica non e' semplice. A questo proposito ci siamo cimentati in parecchi in un libro collettivo recente, La crisi dello Stato {Segnalo inoltre le opere collettive, pubblicate in Germania Federale, Sozialstruktur und politische Systeme, a cura di U. Jaeggi, 1976, e Politische System-Krisen, a cura di M. J�nicke, 1973}: percio' mi limitero' a indicare semplicemente il problema. Anche se la crisi economica attuale non e' una crisi passeggera bensi', sotto certi aspetti, una crisi strutturale, sarebbe sbagliato esaminarla come una "crisi generale" e riferirla all'insieme della fase capitalistica presente. Inoltre, sarebbe inesatto credere che questa crisi, che investe piu' o meno l'insieme dei paesi capitalistici (quelli che qui ci interessano), si manifesti necessariamente, nell'insieme di questi paesi, come un'effettiva crisi politica e, a maggior ragione, come una crisi dello Stato. La crisi politica non si riduce mai alla crisi economica, ne' la crisi dello Stato alla crisi politica: anzi lo Stato capitalistico e' in grado di assorbire le crisi politiche e di evitare che queste diventino crisi dello Stato. Non si puo' dunque caratterizzare globalmente lo Stato attuale, corrispondente a una fase del capitalismo, come uno Stato di crisi o uno Stato in crisi. Cio' equivarrebbe a diluire, alla maniera della III Internazionale, la specificita' del concetto di crisi, in breve a credere che il capitalismo, man mano che si riproduce, accentui automaticamente la sua "putrefazione" e che stia vivendo l'ultima fase della sua ineluttabile agonia. Si giunge cosi' a considerare che una certa fase della sua riproduzione (che poi, guarda caso, e' sempre quella in cui ci si trova) non esprimerebbe che una crisi permanente e, in un modo o nell'altro, sempre presente. Di qui la tentazione, anche di considerare lo Stato attuale come Stato in crisi, nel senso che rappresenterebbe necessariamente l'ultima forma possibile di Stato borghese prima dell'avvento ineluttabile del socialismo. Mentre invece e' evidente che occorre denotare con i concetti di crisi politica e di crisi dello Stato una congiuntura particolare e una condensazione di contraddizioni che si manifestano come caratteri specifici delle istituzioni statali.
Certo, proprio perche' la crisi politica non e' un fulmine a ciel sereno, occorre far riferimento, innanzitutto, agli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato. Questi elementi, a differenza della crisi vera e propria, sono presenti in permanenza nella riproduzione delle forme politiche capitalistiche. La fase attuale nel suo insieme e' caratterizzata da un'accentuazione particolare degli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato, accentuazione che, dal canto suo, s'intreccia con la crisi economica del capitalismo. Ed e' questa accentuazione degli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato che costituisce il tratto strutturale e permanente della fase attuale. Anche lo statalismo autoritario quindi si presenta come una risultante della, e una risposta alla, accentuazione di questi elementi di crisi. Ma in certi paesi europei si assiste a una vera e propria crisi politica che per di piu' si manifesta come crisi dello Stato. Lo statalismo autoritario e' cosi' segnato, in questi paesi, da una crisi dello Stato: e' il caso, a livelli differenti, della Spagna, del Portogallo, della Grecia, ma anche dell'Italia e della Francia.
Questa crisi dello Stato offre inoltre alla sinistra possibilita' oggettive nuove di transizione democratica al socialismo. Esistono varie specie di crisi politiche: la crisi attuale rappresenta per la sinistra un campo preciso, in rapporto alla possibilita' di questa transizione non si tratta di una crisi di doppio potere e neppure di una crisi di fascistizzazione.
II. Questo statalismo autoritario si identificherebbe con un totalitarismo, e persino con un fascismo di tipo nuovo? E' questa, sia detto en passant, la tesi sostenuta fino a qualche tempo fa da taluni dei nostri "nuovi filosofi", quando ancora erano "maoisti": ci parlavano spesso del "nuovo fascismo" e ci raccomandavano la "nuova resistenza" {Nouveau fascisme, nouvelle de'mocratie, cit. Si veda anche, a proposito della discussione attorno a queste questioni, il n. 31 della rivista Kursbuch, maggio 1973}, paragonando i governanti della Francia del 1972 agli occupanti nazisti di sinistra memoria. Ma allora non avevano ancora scoperto le virtu' della democrazia liberale avanzata. A questo proposito, il mio punto di vista l'ho illustrato in Fascismo e dittatura: come non vedo oggi in Giscard il romantico illuminato di un nuovo liberalismo, cosi' non lo vedevo allora nei panni di un qualche apprendista Goebbels agli ordini di un Pompidou-Hitler in erba.
Certo, le radici del totalitarismo, che e' un fenomeno propriamente moderno, affondano fin dentro i rapporti di produzione e la divisione sociale del lavoro capitalistici, si diramano nelle tecniche di potere dello Stato moderno (il processo di individualizzazione, la legge stessa), nelle matrici spaziali e temporali implicate da questi rapporti e tracciati entro la nazione e l'ossatura dello Stato. Ma queste radici non sono germi in progressiva espansione attraverso le astuzie della storia, verso la maturazione completa: il totalitarismo universale.
E apro immediatamente una parentesi, riguardo ai paesi dell'est, per ricordare che certe caratteristiche totalitarie del potere in questi paesi risiedono, a mio avviso, tra l'altro (giacche' il capitalismo non e' la fonte di tutti i mali) ma senza dubbio fondamentalmente negli "aspetti capitalistici" del loro Stato, dei rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro che lo sottendono. Ora, neanche in questo caso si ha a che fare con la maturazione pura e semplice dei germi totalitari. Le forme totalitarie che caratterizzano questi paesi dipendono da una serie di fattori storici (economici, politici, ecc.) precisi, sicche' costituiscono una forma di Stato del tutto particolare: in questi paesi, peraltro, essa non rappresenta l'eccezione, bensi' la regola. Viceversa, anche se questi Stati sono ben lontani dal costituire una semplice variante dello statalismo autoritario cosi' come lo conosciamo oggi nelle nostre societa', l'uno e gli altri hanno qualcosa in comune. Percio' le analisi che seguiranno, specialmente quelle del ruolo della burocrazia statale, riguardano anche i paesi dell'est. A patto pero' di rispettare la loro particolarita': tale affinita' non e' dovuta neppure a qualche tendenza uniforme alla "tecno-burocratizzazione" propria del mondo tecnologico-industriale attuale. I tratti dello Stato radicati nei rapporti di produzione e nella divisione sociale del lavoro rimandano a dei rapporti di classe e a rapporti politici che, in questi paesi, sono considerevolmente differenti.
Torniamo dunque al problema cosi' come esso si pone nelle societa' occidentali. Anche se il totalitarismo rimanda a una serie di fattori che sfuggono ancora a una spiegazione esauriente (e che il marxismo non puo' spiegare da solo), questa non e' una buona ragione per sprofondare nell'irrazionalismo piu' frusto a suon di nozioni terroristiche. Lo statalismo autoritario non e' la maturazione dei germi totalitari tuttavia inerenti a ogni Stato capitalistico. Il totalitarismo, si tratti del fascismo, della dittatura militare o del burocratismo, riveste nelle societa' che qui ci riguardano (i paesi dominanti in occidente) una forma specifica, costituisce un fenomeno politico definito che io ho designato, spiegandone anche i motivi, con il termine di forma di Stato d'eccezione. Esso corrisponde a una congiuntura precisa dei rapporti di classe, visti nella loro complessita', e a tratti istituzionali propri dello Stato che rompono con le forme di riproduzione del dominio politico borghese: quelle, grosso modo, della "repubblica democratica". Il fascismo specialmente, e cio' vale sia per il fascismo consolidato che per il processo di fascistizzazione che lo precede, rinvia a una crisi politica particolare. Esso non puo' caratterizzare lo Stato di una fase del capitalismo, cosi' come esiste e si riproduce nelle nostre societa': anche se lo Stato d'eccezione ha, in quanto Stato capitalistico, certi tratti in comune con la forma di Stato democratico della fase nella quale sorge. Lo Stato rooseveltiano o la repubblica francese presentavano, nell'epoca storica del fascismo, certi tratti dello Stato interventista (ruolo economico dello Stato e rafforzamento dell'esecutivo per esempio) che caratterizzavano anche i fascismi tedesco e italiano: cio' pero' non significa che lo Stato d'eccezione (il fascismo) in quella fase sia diventato la forma necessaria dello Stato. Le trasformazioni proprie degli Stati dell'epoca non corrispondevano, per filo e per segno, a una fascistizzazione dell'insieme di questi Stati (come invece ha creduto per lungo tempo la III Internazionale).
L'emergere dello statalismo autoritario dunque non puo' essere ridotto ne' a un nuovo fascismo ne' a un processo di fascistizzazione. Questo Stato non e' ne' la forma nuova di uno Stato d'eccezione effettivo ne', di per se', la forma transitoria verso uno Stato del genere: esso rappresenta la nuova forma "democratica" della repubblica borghese nella fase attuale. Ed e', se cosi' posso esprimermi, insieme migliore (esso conserva sicuramente una realta' democratica) e peggiore: non e' il frutto di una semplice congiuntura che basterebbe rovesciare per ristabilire delle liberta' che si restringono come una pelle di zigrino. Inoltre, lo Stato fascista corrisponde a una crisi politica e, per di piu', a una effettiva crisi dello Stato: viceversa in molti paesi lo statalismo autoritario s'impone, senza tuttavia corrispondere a uno Stato in crisi. Infine, anche nei paesi in cui questa forma di Stato si combina con una crisi dello Stato, non c'e' per il momento un processo o una crisi di fascistizzazione. Lo Stato fascista, la cui instaurazione d'altronde non avviene mai a freddo ma implica, in quanto Stato d'eccezione appunto, una vera e propria rottura nello Stato, presuppone prima di tutto una sconfitta storica del movimento popolare e della classe operaia. E' questa sconfitta che apre la strada alla fascistizzazione, non essendo mai il fascismo una reazione diretta e immediata all'ascesa del movimento popolare. Questa sconfitta non appare da nessuna parte, la' dove si assiste a una crisi effettiva dello Stato: anzi, avviene esattamente il contrario.
Cio' pero' non significa che le possibilita' di uno Stato d'eccezione, si tratti del fascismo, di una dittatura militare o di un neo-bonapartismo forte, siano ormai da escludere in Europa. Data la situazione politica attuale, specialmente in Francia, questa e', piu' o meno a lungo termine, un'eventualita' di cui occorre certamente tenere conto. E arrivo cosi' al secondo aspetto della questione: questo non riguarda semplicemente le limitazioni della democrazia rappresentativa e delle liberta' che lo Stato attuale implica nella sua stessa regolarita' democratica , ma esattamente gli elementi di fascistizzazione di ogni Stato capitalistico. Contrariamente questa volta alle tesi di chi fa le celebrazioni della differenza essenziale tra le varie forme democratiche (lo "Stato liberale") e i totalitarismi, entrambe le forme hanno, sotto il loro aspetto capitalistico, certi tratti in comune. Questi tratti, oltre all'eventuale appartenenza di questi Stati a una stessa fase del capitalismo (rafforzamento dell'esecutivo nel New Deal rooseveltiano e nello Stato fascista storico), dipendono dalle radici del totalitarismo. Ogni forma democratica di Stato capitalistico implica tendenze totalitarie.
Lo Stato attuale ha certamente questo di particolare: essendo una forma di Stato democratica in una fase d'acutizzazione strutturale degli elementi generici di crisi, corrispondente in certi paesi anche a una crisi politica effettiva e a una crisi dello Stato, gli elementi o tendenze di fascistizzazione vi si presentano in maniera molto piu' pronunciata che nel passato. Lo statalismo autoritario risiede quindi nella predisposizione di un intero dispositivo istituzionale preventivo, di fronte alla crescita delle lotte popolari e ai pericoli che questa rappresenta per l'egemonia. Questo vero e proprio arsenale, che non e' semplicemente un arsenale giuridico-costituzionale, non compare mai in prima fila nell'esercizio del potere: si manifesta soprattutto, almeno di fronte alla massa della popolazione (tolti i vari "asociali"), a scatti, come un motore sfasato. Ma questo arsenale, la repubblica lo tiene in serbo, pronto per essere impiegato in un processo di fascistizzazione. Questo Stato, probabilmente per la prima volta nell'esistenza e la storia degli Stati democratici, non solo contiene elementi sparsi e diffusi di totalitarismo, ma cristallizza il loro concatenamento organico in un dispositivo permanente e parallelo allo Stato ufficiale. Sdoppiamento dello Stato che sembra essere un tratto strutturale specifico dello statalismo autoritario: esso non implica pero' una reale impermeabilita' o dissociazione tra lo Stato ufficiale e il dispositivo in questione, ma piuttosto una loro sovrapposizione funzionale e una osmosi costante. Sicche', l'eventuale avvio di un processo di fascistizzazione indubbiamente qui non assumera' la stessa forma del passato. Non che possa realizzarsi gradualmente e impercettibilmente a freddo, giacche' oggi come ieri, questo passaggio implica sempre una rottura. Ma, piu' che di una infiltrazione o di un investimento dall'esterno dell'apparato di Stato da parte del fascismo, come e' avvenuto per i fascismi storici, si potra' trattare di una rottura interna dello Stato, secondo linee fin d'ora tracciate nella sua attuale configurazione.
III. Lo statalismo autoritario rimanda dunque, attraverso le trasformazioni dei rapporti di produzione, dei processi e della divisione sociale del lavoro, ad alcune modificazioni considerevoli nei rapporti di classe: bisognera' tenerle presenti al momento dell'esame delle modificazioni istituzionali dello Stato.
Esaminiamo in primo luogo tali modificazioni nel campo delle masse popolari e della classe operaia: l'approfondirsi della divisione sociale del lavoro, sia sul piano mondiale tra gli Stati Uniti e l'Europa, sia all'interno di ciascun paese europeo, approfondimento corrispondente al lungo periodo di crescita e alle modificazioni nello stesso processo lavorativo, ha in realta' accentuato le ineguaglianze e le disparita' tra la classe operaia e le classi dominanti. Lo sfruttamento mediante l'aumento del plusvalore relativo ha assunto forme piu' complesse e surrettizie di quelle del passato: intensificazione dei ritmi, aumento della produttivita' del lavoro, deterioramento delle condizioni di vita. Il generale aumento delle lotte operaie in Europa, che ha preceduto gli effetti massicci della crisi economica, ha veramente segnato la fine della lunga tregua corrispondente piu' o meno al periodo della guerra fredda. La crisi economica, l'inflazione e soprattutto la disoccupazione il cui aumento spettacolare e' a quanto pare diventato un tratto strutturale della fase attuale, hanno dal canto loro contribuito a mettere in crisi un relativo consenso sociale fondato sulla crescita e il benessere. Gli stessi operai immigrati hanno incominciato a partecipare attivamente alle lotte dei cosiddetti paesi "accoglienti". Tutto questo ha provocato insieme l'aumento e la politicizzazione della lotta, le nuove rivendicazioni e le nuove forme di lotta nel movimento operaio europeo.
Ma questo movimento generale non si ferma alla classe operaia: questa fase d'accumulazione del capitale, detta fase d'industrializzazione accelerata, ha determinato massicce ineguaglianze in certe categorie della popolazione: i vecchi, i giovani, le donne. Quelli che vengono tagliati fuori e sono "esclusi" da questo processo non si contano piu': si tratti dei contadini o della piccola borghesia tradizionale (artigiani, piccoli commercianti). Ancora piu' significativo e' cio' che avviene nella nuova piccola borghesia, in considerevole estensione: tecnici, impiegati di ufficio e di commercio, quadri, funzionari. Le loro condizioni di vita, la loro mobilita' sociale ascendente, la loro situazione salariale e sicurezza d'impiego, i loro privilegi tradizionali di carriera ma anche la loro situazione nel lavoro (accentuazione della divisione sociale del lavoro in seno al lavoro intellettuale stesso) si deteriorano rapidamente per la schiacciante maggioranza di essi. Viene cosi' messa in causa l'alleanza classica, nei paesi europei, tra la borghesia e la piccola borghesia, tradizionale e nuova: e il campo oggettivo delle alleanze popolari si estende in modo considerevole. A tutto cio' si aggiungano poi altri conflitti che dipendono piu' in particolare dalla crisi ideologica, insieme origine ed effetto di nuove prese di coscienza delle masse popolari su una serie di problemi che, fin da ora, non sono piu' fronti secondari: movimento studentesco, movimento di liberazione della donna, movimento ecologico.
Parallelamente, si acutizzano le contraddizioni in seno alle classi dominanti. Anche questo e' un tratto permanente e strutturale della fase attuale: contraddizioni tra il capitale monopolistico e il capitale non monopolistico, dovute alle forme e ai ritmi di concentrazione del capitale e alle trasformazioni che esse inducono nei rapporti di produzione durante questa fase; contraddizioni in aumento anche all'interno del capitale monopolistico. Queste contraddizioni si intensificano nel contesto della crisi economica e possono essere colte in tutta la loro ampiezza solo tenendo conto delle attuali condizioni di internazionalizzazione del capitale. La riproduzione indotta del capitale straniero (soprattutto americano) all'interno dei vari paesi europei e la sua penetrazione complessa nel capitale autoctono producono all'interno di questo capitale gravi smembramenti. Comincia cosi' ad apparire la nuova divisione tra cio' che ho designato altrove con il termine di borghesia interna, che, pur essendo legata al capitale straniero (non si tratta di una borghesia nazionale vera e propria), e in grave conflitto con quest'ultimo, e' una borghesia completamente dipendente da tale capitale. Linea di divisione tendenziale che non combacia sempre con la divisione capitale monopolistico-capitale non monopolistico ma attraversa spesso questi capitali da parte a parte. Le contraddizioni interimperialistiche, riattivate dopo il periodo della loro pacificazione relativa sotto l'incontestata egemonia americana, si ripercuotono direttamente in seno al blocco al potere dei diversi paesi. Quest'insieme di fattori delimita un carattere strutturale di questa fase: una larvata ma permanente instabilita' egemonica delle borghesie dei paesi dominanti.
Cose risapute. Percio' e' piu' interessante passare brevemente in rassegna talune caratteristiche originali di questa fase che dipendono, questa volta, dal ruolo specifico dello Stato. Il ruolo economico dello Stato riveste le forme autoritarie attuali solo a causa di un fatto apparentemente paradossale: tale ruolo, incomprensibile al di qua di certi limiti, non solo cessa di essere un ruolo stabilizzante, ma addirittura diventa un fattore decisivo di destabilizzazione. Fatto paradossale: lo statalismo autoritario non e' la semplice risposta dello Stato a una crisi che esso cerca di superare, ma una risposta a una crisi che contribuisce a produrre: questo ruolo dello Stato e' di fatto l'acceleratore degli elementi generici di crisi politica e il produttore di questa stessa crisi. Le controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto, messe in opera dallo Stato per evitare le crisi, diventano fattori di una crisi che, per cio' stesso, va al di la' della crisi economica pura e semplice.
1. L'accentuazione propria della fase, delle contraddizioni in seno al blocco al potere rende necessaria un'intensificazione dell'impegno politico dello Stato finalizzato all'unificazione di questo blocco e alla riproduzione dell'egemonia. Ora, le azioni economiche attuali dello Stato (svalorizzazione di talune parti del capitale, ristrutturazioni industriali suscettibili di elevare il tasso del plusvalore relativo, accrescimento del ruolo in favore della concentrazione del capitale, aiuti selettivi a certi capitali, ruolo decisivo dello Stato nazionale nel quadro dell'internazionalizzazione del capitale) giocano massicciamente, e piu' che mai in favore degli interessi "economico-corporativi" ristretti di certe frazioni o capitali individuali a spese di altre. Sicche', questo intreccio diretto e crescente dello Stato con le contraddizioni economiche non fa che approfondire le incrinature del blocco al potere. Esso conferisce a tali contraddizioni un carattere politico e diventa cosi' un fattore diretto di crisi politica� mette costantemente in causa l'organizzazione statale dell'egemonia e dell'interesse generale della borghesia.
2. L'intervento dello Stato in una serie di sfere un tempo marginali e che ora invece integrano e allargano lo spazio di riproduzione e di accumulazione del capitale (urbanismo, trasporti, sanita', ambiente, attrezzature collettive, ecc.) ha per effetto una politicizzazione considerevole delle lotte delle masse popolari in tali sfere: qui queste masse si scontrano direttamente con lo Stato. Elemento generico di crisi politica gia' importante, ma che si accentua per il fatto che questi interventi dello Stato si spogliano, in periodo di crisi economica, del loro aspetto-illusione di "politica sociale". Appare quindi il loro legame con gli interessi del capitale e lo Stato accusa un deficit considerevole di legittimazione di fronte alle classi popolari. Questi interventi demoltiplicano cosi' gli elementi generici di crisi (si veda attualmente il caso lampante dell'assistenza alla disoccupazione o la formazione permanente). Lo statalismo autoritario: e' questa la verita' che emerge dalle macerie del mito dello Stato-provvidenza o Stato del benessere.
3. Il ruolo dello Stato in favore del capitale straniero o transnazionale accentua lo sviluppo ineguale del capitalismo in seno a ciascun paese in cui si riproduce il capitale straniero, con la creazione specialmente di nuovi "poli di sviluppo" di certe regioni a spese delle altre. Questo fatto, intrecciandosi con le varie forme della crisi ideologica, produce rotture dell'unita' nazionale della nazione che sottende lo Stato borghese: sviluppo caratteristico di movimenti regionalistici o di movimenti legati al risveglio delle diverse nazionalita', movimenti tipicamente politici spesso anche ambigui ma che costituiscono nondimeno importanti elementi di crisi. Cio' che caratterizza la fase attuale non e' affatto l'emergenza di un super-Stato al di sopra delle nazioni o la crisi dello Stato nazionale. Lo Stato autoritario non e' l'appendice locale di un super-Stato (americano, Cee) o di un super-apparato di Stato transnazionale (Cia, Nato, ecc.), ma corrisponde a un'effettiva rottura dell'unita' nazionale al suo interno, a un risveglio delle minoranze etniche e nazionali parallelo alla crescita delle lotte popolari.
4. A cio' si aggiunge il ruolo attuale dello Stato di fronte alla crisi economica in senso stretto. Il problema nuovo e' il seguente: nella misura in cui lo Stato interviene massicciamente nella riproduzione del capitale, nella misura in cui le crisi economiche sono anche, sotto un certo aspetto, dei fattori organici e necessari di questa riproduzione, lo Stato e' riuscito probabilmente a limitare l'aspetto selvaggio delle crisi economiche (come quella del 1930 per esempio), addossandosi in definitiva le funzioni assolte prima, per un periodo relativamente breve, proprio da queste crisi selvagge. Senza abusare del paradosso: e' come se, piu' che con uno Stato che riesce a controllare gli effetti della crisi economica, si avesse a che fare con uno Stato che promuove per conto proprio crisi economiche striscianti di cui non controlla gli effetti. Ne sono un effetto lampante la disoccupazione e l'inflazione attuali, direttamente orchestrate dallo Stato, sebbene non si debba vedere in questo solamente e neppure principalmente una strategia cosciente della borghesia, bensi' il risultato obiettivo del ruolo dello Stato. Cio' distingue nettamente lo Stato attuale dagli Stati precedenti, che si accontentavano di riparare, piu' o meno felicemente, i danni sociali delle crisi economiche selvagge. Il che comporta necessariamente una politicizzazione considerevole (contro la politica dello Stato) della lotta delle masse popolari.
Questa fase dunque e' caratterizzata sia da talune modificazioni strutturali dei rapporti di classe, sia dall'acuirsi degli elementi generici di crisi politica: e cio', a livelli ineguali, nell'insieme dei paesi capitalistici dominanti. Le contraddizioni si condensano, in certi paesi europei, in effettive crisi politiche. Questi paesi � Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo � presentano i tratti caratteristici di una crisi politica che si manifesta come crisi dello Stato. Lo statalismo autoritario deriva tanto da una trascrizione di questi cambiamenti nella struttura dello Stato quanto dai tentativi, da parte dello Stato, di adattarsi a tali cambiamenti, di tutelarsi rispetto agli elementi generici di crisi, di rispondere insomma alla crisi politica e alla sua propria crisi.
IV. Non potro' intraprendere nelle pagine che seguiranno un esame esauriente dello Stato attuale e delle trasformazioni della democrazia politica. Questo esame dovrebbe costituire l'oggetto di un lavoro particolare. Soprattutto non sviluppero' una questione essenziale, pure nota ma sulla quale non si insiste mai abbastanza: i rapporti tra la democrazia politica e la democrazia economico-sociale in senso lato. Oltre alle limitazioni e alle trasformazioni delle istituzioni della democrazia politica, cio' che caratterizza le societa' attuali, lo ripeto, e' la distanza crescente tra democrazia politica e democrazia sociale. Lo sviluppo del capitalismo, soprattutto nella sua fase attuale, invece di eliminare le ineguaglianze, le ha semplicemente riprodotte in forme nuove e le ha addirittura rafforzate. Le nuove forme di divisione e d'organizzazione sociali del lavoro nelle fabbriche, negli uffici, nelle grandi aree commerciali non hanno fatto che consolidare e sviluppare, a dispetto di tutti gli sproloqui sulle tecnostrutture, la disciplina e il dispotismo, le regole d'organizzazione quasi militare, la gerarchia, la centralizzazione delle decisioni e delle sanzioni. Inoltre: lo sviluppo del capitalismo non ha fatto che allargare le zone e i settori dei "nuovi poveri", definiti certo non in base ai criteri economico-sociali e culturali delle epoche passate, ne' a quello del depauperamento assoluto, ma in base alle realta' sociali attuali. Nuova poverta' gia' studiata da Harrington negli Stati Uniti e Townsed in Gran Bretagna e che riguarderebbe in Francia "la meta' delle persone che hanno superato i 65 anni (2.600.000), la meta' degli operai specializzati (1.300.000), la maggior parte dei manovali (1.100.000), i due terzi del personale di servizio (800.000), un quarto dei commercianti e artigiani (800.000), la maggior parte dei salariati agricoli (600.000)" situati oltre il limite della miseria {Le cifre sono quelle di L. Stole'ru, riprese da M. Maschino, Sauxe qui peut: de'mocratie a' la fran�aise, 1977}. Per non parlare delle categorie sociali marginalizzate, dei veri e propri "esclusi": i lavoratori immigrati, i disoccupati, le donne, una gran parte dei vecchi e dei giovani. In breve, si tratta di vaste fasce di popolazione le cui reali condizioni di vita, economiche, sociali, culturali, non solo le allontanano progressivamente dagli stereotipi giuridico-politici dell'eguaglianza, ma rendono sempre piu' aleatoria la loro partecipazione alle istituzioni della democrazia politica.
D'altro canto, sono note anche le altre facce del funzionamento delle istituzioni repubblicane. Un esempio tra mille: le risorse finanziarie dei partiti di maggioranza.
Non mi occupero' direttamente di queste questioni ma delle trasformazioni specifiche che investono, nello statalismo autoritario, la democrazia politica sul piano dei meccanismi statali. A questo proposito mi soffermero' essenzialmente su un solo esempio: le modificazioni nel ruolo della burocrazia-amministrazione statale e nel funzionamento attuale del sistema dei partiti politici. Certo il declino attuale della democrazia e le restrizioni delle liberta' investono sfere sempre piu' vaste. Si manifestano in forme diverse e contrassegnano piu' o meno l'insieme dei dispositivi del potere: vari autori si sono occupati della questione e rimando percio' alle loro analisi {Anche in questo caso la bibliografia e' immensa, e concerne la restrizione delle liberta' in tutte le sfere della vita pubblica. Da un punto di vista generale, si vedano in Francia, tra gli altri, i lavori recenti di R. Errera, M. Duverger, J.-P. Cot, Cl. Julien, J.-D. Bredin, P. Juquin, G. Burdeau, J.-P. Cheve'nement, L. Hamon, M. Maschino, P. Viansson-Ponte', quelli del sindacato della magistratura, ecc.}. Ma quello che ho scelto non e' un esempio a caso: tutta la storia dimostra che le forme d'esistenza e di funzionamento della democrazia rappresentativa in quanto sistema pluralistico reale dei partiti politici di fronte all'amministrazione-burocrazia statale sono, sul piano delle istituzioni dello Stato, in stretta correlazione con il funzionamento delle liberta' politiche. Il funzionamento di questo sistema condiziona quello delle liberta' in tutte le sfere della cosiddetta democrazia politica. La via democratica al socialismo, e il socialismo democratico escludono, lo si e' ripetuto tante volte, il partito unico ma anche la confusione tra partiti e amministrazione statale. Questa proposizione va intesa in senso forte: non come un elemento tra tanti altri di questa via, bensi' come una condizione, certo non sufficiente, ma assolutamente necessaria. Se questa condizione non viene rispettata e realizzata, non c'e' democrazia diretta e di base che possa impedire il totalitarismo, ne' freno che possa bloccare lo statalismo.

2. L'irresistibile ascesa dell'amministrazione statale

Il declino del parlamento, il rafforzamento dell'esecutivo, il ruolo politico che assolve attualmente l'amministrazione statale costituiscono ormai il leitmotiv degli studi politici. Ma se questi sono i tratti piu' evidenti delle trasformazioni dello Stato, sono anche i piu' difficili da cogliere nella loro portata reale.
Queste trasformazioni caratterizzano lo Stato sin dalla fine del capitalismo concorrenziale agli inizi del capitalismo monopolistico. Certo, come il ruolo economico dello Stato sotto il capitalismo monopolistico non deve far pensare che lo Stato liberale del capitalismo concorrenziale non intervenisse nell'economia, cosi' il rafforzamento dell'esecutivo non deve legittimare una immagine dello Stato liberale con parlamento onnipotente ed esecutivo quasi inesistente. L'amministrazione-burocrazia statale ha sempre avuto un posto importante, variabile da paese a paese, nell'organizzazione e nel funzionamento dello Stato borghese. Cio non toglie che un rafforzamento dell'esecutivo sia in atto fin dall'inizio del capitalismo monopolistico e segni del resto il passaggio dallo Stato liberale allo Stato interventista. Ma le forme attuali di questo fenomeno sono completamente nuove e concernono, a livelli ineguali, l'insieme dei paesi capitalistici sviluppati. Questo dunque non e affatto un fenomeno tipico della Francia, come pretende una tradizione ben consolidata del pensiero politico francese, riproposta di recente da A. Peyrefitte nel libro Il mal francese, e che per molto tempo ha costituito il cavallo di battaglia di Michel Crozier: quest'ultimo, nella Societa' bloccata, ha fatto i salti mortali per spiegare il maggio '68 con questa specificita' francese. Poi si e un po' lasciato andare alla scoperta delle virtu' degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Germania federale, che... eccetera eccetera. Basta far riferimento agli autori di questi paesi per constatare che questo stesso fenomeno, cosi' come si presenta da noi in Francia, e diventato un tema ossessivo delle loro analisi. Beninteso, la Francia ha le sue particolarita' e abbastanza note del resto: ma la stessa situazione francese presenta attualmente considerevoli trasformazioni, che non si puo' far finta di non vedere adducendo (con l'appoggio magari di certi storici) il pretesto della permanenza pura e semplice della tradizione. Trasformazioni di cui i gollisti sono, com'e' noto, in gran parte responsabili.
In parte, perche' si tratta appunto di un fenomeno molto piu' generale: il declino del parlamento e il rafforzamento dell'esecutivo sono strettamente legati alla crescita del ruolo economico dello Stato. Ma in gran parte perche' questo ruolo dello Stato non induce lo statalismo autoritario se non investito in una situazione politica precisa.

Prendiamo il caso della legge e del diritto, cosi' come questi si materializzano nella struttura del potere legislativo e nella sua distinzione relativa dal potere esecutivo; caso caratteristico, giacche' costituisce il punto di riferimento privilegiato di coloro i quali sostengono la "tecnicita'" dei cambiamenti attuali. Il ruolo preponderante del parlamento, santuario della legge e del potere legislativo, era fondato sull'emanazione di norme generali, universali e formali, tratto essenziale della legge moderna. Il parlamento, incarnazione della volonta' generale e dell'universalita' del popolo-nazione di fronte al dispotismo regio, corrispondeva appunto all'istituzionalizzazione della legge come incarnazione della ragione universale. Il controllo del governo e dell'amministrazione da parte del parlamento, lo Stato di diritto e della legge, sembrava consustanziale all'idea di un sistema normativo generale perfetto, legittimato dall'opinione pubblica.
L'intervento economico dello Stato, oggi spettacolare, mette in causa quest'aspetto del sistema giuridico entro sfere sempre piu' importanti. Questo ruolo dello Stato non puo' piu' consistere nella creazione di norme generali, formali, universali, adattate essenzialmente a un impegno dello Stato finalizzato al mantenimento e alla riproduzione delle "condizioni generali" della produzione. Questo ruolo prende a modello regolamentazioni particolari, adattate a tali o a tali altre congiunture, situazioni e interessi precisi. La molteplicita' dei problemi economico-sociali affrontati dallo Stato esige altresi' una concretizzazione sempre piu' decisa di queste norme generali.
Cosi', la distinzione relativa tra potere legislativo e potere esecutivo s'attenua: il potere di fissare ed emanare le regole si sposta verso l'esecutivo e l'amministrazione, spostamento correlativo alle trasforma della natura di tale regolamentazione. La legittimazione, incarnata dal parlamento e che aveva per quadro di riferimento una razionalita' universale, slitta verso una legittimazione dell'ordine fondata su una razionalita' strumentale e sull'efficacia, incarnata dall'esecutivo-amministrazione. Inoltre le leggi generali ed universali che sono ancora emanate dal parlamento, semplici leggi-quadro, non vengono applicate se non dopo avere attraversato un processo di concretizzazione e di particolarizzazione predisposto dall'esecutivo. Mi riferisco al processo dei decreti, delle ordinanze, delle circolari, all'insieme degli aggiuntivi e correttivi stabiliti dall'amministrazione e senza i quali le norme emanate dal parlamento non hanno applicazione giuridica. Che tutto cio' permetta non solo l'ostruzione delle decisioni parlamentari ma anche la loro deformazione e' ormai noto a tutti. Per quello che concerne le proposte di legge, infine, l'iniziativa e' passata praticamente dal parlamento all'esecutivo. I progetti di legge vengono messi a punto direttamente dall'amministrazione. Le leggi non s'inscrivono piu' nella logica formale del sistema giuridico, fondata sull'universalita' della norma e sulla razionalita' della volonta' generale rappresentata dal suo emanatore, ma su un registro diverso, quello della politica economica concreta e quotidiana, incarnata dall'apparato amministrativo.
In ogni modo, il declino del parlamento e il ruolo preponderante dell'esecutivo-amministrazione implicano il declino della legge. Le trasformazioni della natura e della forma della regolamentazione sociale mettono in crisi il monopolio della legge nel sistema normativo.

Ma questa emarginazione della legge non e' dovuta semplicemente all'interventismo economico dello Stato. Essa si ricollega in vario modo alla natura degli interessi economici a beneficio dei quali la generalita' e l'universalita' della legge cedono il posto a una regolamentazione particolaristica. Cio' concerne la concentrazione e la centralizzazione del capitale, ma anche l'egemonia attuale del capitale monopolistico, ossia la larvata instabilita' che la caratterizza nel contesto di una crisi economica strutturale. Solo un rapporto di forze che presenta realmente un certo grado di stabilita' puo' essere giuridicamente regolato come un sistema di norme universali e generali che fissi da se' le regole e i limiti delle sue trasformazioni e che consenta quindi agli attori del gioco la previsione strategica. Mentre invece l'accrescimento delle contraddizioni in seno al blocco al potere determina appunto l'instabilita' egemonica del capitale monopolistico.
Inoltre: le nuove forme che le lotte popolari assumono attualmente, la politicizzazione di tali lotte e la crisi ideologica che investe i diversi apparati-istituzioni (scuola, carceri, magistratura, esercito, polizia, ecc.) conducono a nuove forme di dominio politico e a nuovi processi d'esercizio del potere, indipendenti del resto dalle trasformazioni nella gestione-riproduzione della forza-lavoro. Il controllo sociale, regolato da norme generali e universali che sanciscono la colpevolezza delle azioni e separano i soggetti legali dai fuorilegge, si associa a una regolamentazione individualizzata, ricalcata sulla "mentalita'" (l'intenzione presunta) di ciascun membro di un corpo sociale considerato globalmente sospetto, potenzialmente colpevole. L'internamento generale dei fuorilegge in luoghi di concentramento (carceri, manicomi, ecc.) circoscritti, nella loro materialita', dalle norme universali disciplinari e penali si congiunge e si articola con l'incasellamento della popolazione in circuiti multiformi e diffusi nella trama sociale, controllato da procedure poliziesche-amministrative adattate alle particolarita' di ogni categoria di soggetti: passaggio dall'atto punibile contemplato dalla universalita' e generalita' emanate dal parlamento, al caso sospetto sottoposto a una regolamentazione amministrativa flessibile, malleabile e particolaristica (modificazioni, per esempio, della definizione stessa del delitto politico). Ne consegue che la legge, senza pertanto essere, beninteso, decrepita, funziona ormai quasi in disparte.

Il fenomeno attuale del declino del parlamento e dell'importanza crescente dell'amministrazione statale e' legato a considerevoli trasformazioni nel funzionamento del sistema istituzionale dei partiti politici, nell'ambito e nel ruolo di questi partiti.
Questa trasformazione concerne essenzialmente quelli che potremmo designare come partiti di potere nel senso volgare del termine: quei partiti la cui inclinazione e' di partecipare (e partecipano), secondo una alternanza regolare organicamente fissata e prevista dall'insieme delle istituzioni attuali dello Stato (e non soltanto dalle regole costituzionali), al governo. Tralascio qui la questione della precisa caratterizzazione di classe di questi partiti, e adotto deliberatamente una terminologia piu' neutra, che puo' essere generalmente accolta; proprio per non entrare nella famosa questione di chi "rappresenta realmente" che cosa. Penso nondimeno che questi siano partiti borghesi o piccolo-borghesi, in senso politico: anche se i partiti non sono mai riducibili a una rappresentanza di classe semplice e univoca, la loro natura non si riduce neanche alla loro base elettorale. In ogni modo, questa caratterizzazione di partiti di potere include i partiti socialdemocratici tradizionali (partiti il cui elettorato e' tuttavia in larga parte operaio) cosi' come essi esistono nella maggior parte dei paesi europei, dal laburismo britannico alle socialdemocrazie scandinava o tedesca. Ma la trasformazione, piu' generale questa volta, del sistema dei partiti concerne anche gli altri partiti politici, i partiti comunisti e taluni partiti socialisti europei, specialmente l'attuale Partito socialista francese, sebbene in un senso completamente diverso. Questi ultimi subiscono gli effetti di questa trasformazione e, nella misura in cui fanno parte della sfera istituzionale, ne vengono investiti (come potrebbe essere diversamente?): problema evidentissimo oggi nel caso del Partito comunista italiano.
Per cio' che concerne i partiti di potere, si assiste oggi a un allentamento dei legami di rappresentativita' tra il blocco al potere e questi partiti, che rappresentano sia (e spesso contemporaneamente) talune frazioni di questo blocco, sia delle alleanze fra queste frazioni, sia ancora delle alleanze-compromesso tipiche (piu' o meno dichiarate) di queste frazioni con talune delle classi dominate (tanto talune componenti della classe operaia quanto la piccola borghesia, vecchia e nuova, o le classi contadine: ne e' un esempio classico in Francia la "sintesi repubblicana" espressa dal Partito radicale). Cio' che rinvia al tipo d'egemonia che instaura il capitale monopolistico, massicciamente preponderante, sia sulle altre componenti del blocco al potere che sull'insieme delle classi popolari, in breve al restringimento delle basi politico-sociali del capitale monopolistico. Cio' rinvia anche all'intensificarsi degli elementi generici di crisi politica che portano alla larvata crisi egemonica di questo capitale e dell'insieme della borghesia. Questo allentamento dei legami di rappresentativita', che giunge talvolta quasi alla rottura, accompagna la trasformazione del ruolo istituzionale dei partiti di potere. La accompagna: non ne e' la causa primaria. Sotto certi aspetti, e' la trasformazione del ruolo di questi partiti nel gioco istituzionale che determina la loro crisi di rappresentativita', crisi che a sua volta e dal canto suo non fa che indebolire il loro ruolo istituzionale. Non e' l'amministrazione-burocrazia che dapprima viene a compensare questa crisi dei partiti, ma e' la dislocazione dei partiti dal loro ruolo che la provoca, e che a sua volta accentua il ruolo dell'amministrazione.

L'amministrazione e' diventata da tempo il luogo centrale d'elaborazione dell'equilibrio instabile dei compromessi in seno al blocco al potere, tra questo e le masse popolari. Ma se questo processo spostava il centro di decisione politica, cio' avveniva sempre indirettamente e grazie all'azione preponderante dei partiti all'interno dell'amministrazione in qualita' di vettori principali dei diversi interessi economico-sociali: si prenda il caso tipico della Francia della III e IV Repubblica, in cui si constata allo stesso tempo un accrescimento del ruolo dell'amministrazione statale (falsamente attribuito a un permanere dell'amministrazione di fronte all'instabilita' ministeriale) e un ruolo importante dei partiti politici nella configurazione istituzionale. Cio' che lasciava ancora al parlamento un ruolo non trascurabile di controllo. D'altro canto, il parlamento conservava sempre la funzione d'espressione, in seno allo Stato, degli interessi delle masse popolari mediante i rappresentanti di queste, dunque continuava ad occupare un ruolo proprio nelle procedure di legittimazione. Ora, l'esecutivo e l'amministrazione monopolizzano attualmente il ruolo d'organizzazione e di direzione dello Stato nei riguardi del blocco al potere, quello dell'elaborazione di un interesse politico generale a lungo termine di tale blocco e di riproduzione dell'egemonia; concentrano la legittimazione dello Stato di fronte alle classi dominate. Infine, il ruolo dei partiti di potere non solo rimane in secondo piano, ma si trasforma totalmente. Queste modificazioni hanno effetti considerevoli nell'insieme della struttura statale; esse dipendono da un funzionamento politico della democrazia rappresentativa radicalmente nuovo.
L'evoluzione del parlamento verso cio' che Laski e' stato il primo a definire "camera di registrazione" ha abbastanza attirato l'attenzione fino a questo momento i poteri di controllo, d'esame, di verifica, di proposta, di suggerimento del parlamento sono stati, un po' ovunque, limitati e troncati inesorabilmente. Questa limitazione concerne nello stesso tempo i poteri del parlamento nei riguardi dell'amministrazione in senso proprio e i poteri del parlamento nei riguardi del governo Lo spostamento massiccio, di diritto e soprattutto di fatto, delle responsabilita' di governo dal parlamento ai vertici dell'esecutivo porta con se' la restrizione decisiva dei poteri del parlamento sull'amministrazione, l'autonomizzazione del governo rispetto al parlamento, l'allontanamento dell'amministrazione dalla rappresentanza nazionale. Se l'opposizione, soprattutto quando non si accontenta di essere l'opposizione di sua maesta', e' la prima ad essere colpita, questa limitazione dei poteri colpisce anche i deputati della maggioranza: anche loro sono ridotti al ruolo di subalterni e di semplice massa di manovra del governo.
Ma questa restrizione dei poteri dei rappresentanti del popolo non riguarda soltanto il parlamento. Cio' che caratterizzava finora il funzionamento reale dei meccanismi politici era il tessuto multiforme dei legami organici, benche' extraparlamentari, tra i deputati e l'amministrazione. Facendo leva sul loro potere parlamentare nei riguardi del governo, i deputati intervenivano direttamente presso l'amministrazione attraverso tutta una serie di canali e circuiti codificati, benche' non inscritti nei testi costituzionali. Questi deputati costituivano in un certo senso gli interlocutori validi dell'amministrazione, gli intermediari di rivendicazioni ed interessi particolari, agendo nei suoi riguardi in qualita' di eletti del popolo e come rappresentanti legittimi di quegli interessi in quanto componenti dell'interesse nazionale. Era questa una delle funzioni essenziali, benche' non istituzionalizzata, del sistema rappresentativo. I deputati e i partiti politici non solo rappresentavano il popolo nel parlamento, ma lo rappresentavano anche di fronte alla burocrazia statale a tutti i livelli. I deputati dunque si impegnavano direttamente nella assunzione di decisioni in seno all'amministrazione: l'elaborazione politica era il risultato di un confronto stretto tra l'amministrazione, il governo, i deputati e i partiti politici.
Cio' che caratterizza specialmente la situazione attuale e', insieme al declino del parlamento, la rottura dei legami rappresentativi tra i deputati e l'amministrazione statale. I canali d'accesso dei deputati e dei partiti politici, in quanto rappresentanti legittimi di un "interesse nazionale", alla burocrazia statale si sono quasi totalmente bloccati, essendosi l'amministrazione rinchiusa in una sorta di compartimento stagno. Cio' vale innanzitutto per l'opposizione, ma anche per i deputati della maggioranza, o piuttosto per la maggior parte di loro. I circuiti partiti-deputati-amministrazione si sono spostati ormai quasi esclusivamente ai vertici, sono diventati una sfera riservata dell'esecutivo, dei ministri e dei gabinetti ministeriali. L'accesso dei deputati all'amministrazione e' in generale possibile solo quando questi si presentano in una veste che non sia appunto quella dei rappresentanti nazionali-popolari: quando esprimono interessi particolari e locali (se si tratta di un sindaco per esempio), ma, piu' spesso, quando incarnano direttamente i diversi interessi economici dominanti.

La seconda questione concerne i rapporti tra l'amministrazione e il governo. Naturalmente, specie in Francia, ci si ostina a credere in una sedicente autonomia quasi totale dell'amministrazione di fronte ai vari ministri. Non e' forse risaputo che il potere vero non e' esercitato dal governo ma dai direttori dei ministeri, anzi dai famosi grandi corpi dello Stato, i funzionari usciti da Ecole nationale d'administration gli allievi dell'Ecole polytechnique gli ingegneri del genio civile? Che i ministri non hanno neanche la liberta' di scegliere i loro collaboratori nell'amministrazione? Che il "malfrancese" si e' manifestato di recente nell'impotenza dei ministri gollisti di fronte alla burocrazia statale Poi e' la volta delle battaglie epiche di Edgard Pisani con l'amministrazione del ministero dell'agricoltura, o di Albin Chalandon con il genio civile nel suo ministero delle attrezzature e alloggi.
Quest'immagine cosi' accreditata e' falsa, anche se contiene qualche elemento di verita' Le contraddizioni interne all'esecutivo, che sono tuttavia reali e non si limitano a quelle tra il governo e l'alta amministrazione ma attraversano l'amministrazione da parte a parte, in verita' non sono significative di per se. Non costituiscono una disgiunzione qualunque del sistema politico ma sono un tratto organico dell'assunzione di decisioni I rapporti conflittuali tra il governo e l'amministrazione spesso sono segno di resistenze proprie della struttura dell'apparato statale e dell'organizzazione burocratica, resistenze che si manifestano anche nella rigidita' di tale apparato nei confronti della stessa borghesia. Queste resistenze esprimono d'altronde, a un primo livello, piu' una inadattabilita' generale al cambiamento, propria della forza d'inerzia della burocrazia e del suo orientamento verso lo statu quo, che non una resistenza alla natura concreta della politica governativa, cioe' agli obiettivi del governo{Tra gli altri, E. Suleiman, Les hauts fonctionnaires et la politique, 1976, nonche' i lavori di J. Sallois, M. Cretin, P. Gre'mion, A. Joxe, ecc.}.
Tenuto conto di queste riserve, c'e' un altro elemento importante: lo statalismo autoritario si caratterizza per una manomissione dei vertici dell'esecutivo sull'alta amministrazione e per l'accresciuto controllo politico di questa da parte di quelli. L'autonomizzazione della burocrazia statale rispetto ai parlamentari non ha fatto che rafforzare la subordinazione dei suoi vertici all'esecutivo presidenziale e governativo. Questa evoluzione segue, a seconda dei paesi, vie diverse e, piu' che a una questione di persone, rinvia a una serie di mutamenti istituzionali. Questi mutamenti sono evidenti anche in Francia: dallo sviluppo delle attribuzioni e del ruolo dei gabinetti ministeriali, centri effettivi di direzione e di controllo dell'amministrazione, fino alla creazione di dispositivi interministeriali a tutti i livelli controllati dal governo e dal personale pletorico di Palazzo Matignon e dell'Eliseo, alla disposizione di una serie di reti occulte che scavalcano la gerarchia tradizionale dei funzionari e alla dispersione orizzontale dei centri di decisione politica in seno allo Stato, la subordinazione politica dell'amministrazione ai vertici dello Stato segna una svolta decisiva rispetto alla situazione precedente.
Subordinazione indispensabile ormai: l'amministrazione non e' piu' l'apparato che, con piu' o meno iniziativa o resistenze, era incaricato dell'esecuzione della politica. La burocrazia statale, sotto l'autorita' dei vertici dell'esecutivo, diventa non solo il luogo, ma anche l'attore principale dell'elaborazione della politica statale. Non si ha piu' a che fare con una determinazione dei compromessi politici sulla scena parlamentare, cioe' con l'elaborazione pubblica degli interessi egemonici sotto forma di interesse nazionale. I diversi interessi economici sono ormai direttamente presenti, trascritti, tali e quali, in seno all'amministrazione. Piu' in particolare, l'egemonia massiccia del capitale monopolistico si e' ovunque attuata sotto l'egida dell'amministrazione e dell'esecutivo: in Francia come altrove, la politica monopolistica e' stata negoziata essenzialmente all'esterno del parlamento.
Anche qui, la questione principale non e' quella dell'origine sociale del personale amministrativo, ne' quella di una "e'lite al potere", sostituibile e circolante tra i posti dei manager del grande capitale e la direzione degli affari di Stato. Questo fenomeno non e' che un effetto delle trasformazioni istituzionali e non ha del resto l'importanza che gli viene attribuita. In Francia in particolare, sebbene le grandi scuole (tra le altre l'Ena e l'Ecole polytechnique) siano i vivai del personale dirigente tanto delle grandi imprese quanto dello Stato, questo movimento si produce essenzialmente dallo Stato agli affari privati (il "pantouflage") e raramente nel senso inverso; persino i gabinetti ministeriali sono composti essenzialmente da funzionari distaccati. Si tratta in sostanza della creazione, fortemente ritualizzata, di centri d'espressione diretta dei grandi interessi economici in seno all'amministrazione, le frazioni del capitale e soprattutto i dirigenti delle imprese monopolistiche essendo considerati dall'amministrazione come i suoi interlocutori privilegiati, quando essa stessa si erige a rappresentante legittima degli interessi monopolistici presentandoli come l'incarnazione del "progresso tecnologico", dell'"imperativo industriale", della "potenza economica" e come base della "grandezza nazionale". E' alla amministrazione che spetta, inversamente, la costituzione-presentazione degli interessi monopolistici come "interesse generale" e "nazionale", dunque il ruolo politico-ideologico di organizzazione del capitale monopolistico. Interi settori dell'apparato amministrativo, ministeri come quello dell'industria o direzioni intere del ministero delle finanze in Francia, il commissariato per il piano, ecc., sono organizzati come reti di presenza specifica degli interessi egemonici in seno allo Stato. Questo processo si associa all'istituzionalizzazione di tutta una trama di circuiti informali (comitati commissioni permanenti o provvisorie, gruppi di lavoro, delegazioni varie, cellule di missione) che hanno gli stessi fini.
Cio' non significa tuttavia che le altre frazioni del capitale non abbiano, anch'esse, delle teste di ponte e dei punti d'appoggio in seno all'amministrazione, e che questa non tenga conto delle lotte delle masse popolari. Queste frazioni del capitale sono anch'esse presenti in seno al dispositivo amministrativo sotto forma di interessi economico-corporativi (i diversi "interessi professionali"), e le rivendicazioni popolari principalmente sotto quella dell'espressione sindacale riformista. I sindacati operai "riformisti" sono ormai direttamente inseriti nel dispositivo amministrativo. In questo caso non si tratta piu' dell'integrazione pura e semplice dell'orientamento politico di questi sindacati, che e' tutto sommato cosa vecchia, bensi' della loro quasi-assimilazione nella materialita' istituzionale del dispositivo amministrativo (Svezia, Germania Federale, ecc.). Il che smentisce indubbiamente il loro presunto ruolo di contropoteri equilibranti, tanto celebrato dai sostenitori del neo-liberalismo pluralista.
I primi effetti, quelli piu' evidenti, di questa effettiva svolta istituzionale sono noti. La politica dello Stato si elabora sotto il sigillo del segreto eretto a ragion di Stato permanente, attraverso meccanismi occulti, un regime di procedure amministrative che praticamente sfuggono a qualsiasi controllo dell'opinione pubblica. Il che costituisce una alterazione considerevole dei principi elementari della stessa democrazia rappresentativa borghese. Il principio di pubblicita' viene totalmente messo da parte a beneficio di un principio, istituzionalmente riconosciuto, di segretezza (in Francia, il funzionamento attuale del "segreto professionale" e dell'"obbligo di discrezione professionale"). Ma se il segreto e' indispensabile per la costituzione dell'egemonia monopolistica, non va pero' confuso con un effettivo mutismo dello Stato, che colpirebbe l'insieme dei suoi luoghi (peraltro i vertici dell'esecutivo non sono mai stati cosi' loquaci: vedi i mass media, per esempio). D'altro canto, questo segreto non copre soltanto malversazioni e scandali, e neanche una colonizzazione cospiratrice dell'apparato amministrativo da parte del capitale monopolistico. E' il modo strutturale di funzionamento dell'amministrazione statale (il segreto burocratico) attualmente portato al parossismo. Questo segreto dunque non indica tanto una perversione dell'amministrazione quanto un processo molto piu' inquietante: l'emergenza, come dispositivo dominante dello Stato; e, come centro privilegiato di elaborazione delle decisioni politiche, della burocrazia amministrativa e governativa che, per la sua struttura stessa, incarna per eccellenza la distanza tra dirigenti e diretti e l'impermeabilita' del potere di fronte a un controllo democratico.
Questa situazione ha effetti ben piu' ampi. Tra le istituzioni la burocrazia statale e' stata sempre quella piu' ribelle ai principi della democrazia rappresentativa, se si riconosce che i dispositivi di tale democrazia in ultima analisi furono istituiti proprio per limitare sul piano istituzionale i privilegi dell'amministrazione trasmessi dallo Stato assolutistico. E' questo il significato dello Stato di diritto e della legge come baluardo di fronte al dispotismo della burocrazia, e il significato anche della delimitazione delle liberta' pubbliche e politiche come dispositivi istituzionali di resistenza di fronte all'apparato centrale e permanente dello Stato. La distribuzione dei luoghi del potere e la loro nuova configurazione sotto la forma della democrazia rappresentativa nascono da un'evidenza imposta: l'eteromorfismo tra la burocrazia statale e le esigenze democratiche, idea fondamentale che attraversa, da Rousseau fino a Marx, il pensiero politico moderno. E cio' anche se la borghesia, servendosi della democrazia rappresentativa e identificando i propri interessi con l'espressione democratica, non mirava ad altro che a sottomettere l'apparato centrale dello Stato assolutistico (origine censitaria di tale democrazia).
L'assunzione nell'elaborazione della politica statale di certe rivendicazioni popolari diventa cosi' sempre piu' aleatoria, non solo a causa degli interessi del capitale monopolistico che queste modificazioni favoriscono, ma anche perche' l'apparato amministrativo e' materialmente organizzato in modo da escludere dal suo campo percettivo i bisogni popolari. Ma c'e' di piu': l'incontenibile spostamento del centro di gravita' verso la burocrazia statale implica immancabilmente, per la sua stessa logica e indipendentemente dai progetti governativi, una restrizione considerevole delle liberta' politiche, intese appunto come controllo pubblico dell'attivita' statale. Logica particolare che difficilmente e' controllabile dai vertici dello Stato e che talvolta va ben al di la' del loro disegno politico. Le varie sbavature tendono a diventare quasi dappertutto la regola: non sono piu', in senso forte, l'eccezione a una regola (la legge) posta altrove, bensi' l'espressione della regolamentazione specifica della burocrazia, creatrice ormai legittima della normativita' sociale. Queste sbavature non significano ne' che il potere governativo non riesce a sottomettere l'amministrazione, ne' che esse sono necessariamente teleguidate dai vertici dell'esecutivo: sono la conseguenza ineluttabile delle modificazioni istituzionali e della logica amministrativa-burocratica.
Ne consegue la concentrazione accelerata del potere reale in dispositivi sempre piu' circoscritti e la sua polarizzazione tendenziale attorno ai vertici governativi e amministrativi, l'eliminazione di cio' che rimaneva della separazione, sempre piu' o meno fittizia del resto, dei poteri nello Stato borghese (legislativo, esecutivo, giuridico). Questo processo si sostituisce a una certa distribuzione e suddivisione del potere fra i diversi luoghi statali che caratterizzava la configurazione dello Stato. Si tratta quindi del centralismo politico sempre piu' rafforzato dell'apparato statale, dello spostamento dei luoghi di potere reale verso l'apparato centrale dello Stato a scapito dei luoghi di potere municipali, regionali, ecc., e cio' a dispetto di tutte le riforme decentralizzatrici di tipo tecnico-amministrativo. Queste riforme, oggi necessarie per la borghesia giacche' il centralismo burocratico implica pesantezze intrinseche per essa alquanto fastidiose, non possono indebolire il centralismo politico dell'apparato di Stato. Indirettamente anzi, e grazie a queste riforme decentralizzatrici, il centralismo addirittura si rafforza: prova ne siano le peripezie del decentramento in Francia.
Concentrazione e centralizzazione rafforzate del potere che fanno sentire evidentemente tutto il loro peso sulla restrizione delle liberta' democratiche. Se questo centralismo-concentrazione del potere dipende dalle modificazioni economico-sociali e politiche, dipende altresi' da una logica burocratica propria: lo statalismo genera statalismo, l'autoritarismo genera autoritarismo. Moltiplicano questo processo, ne accelerano il ritmo, modulano il suo tracciato, soprattutto in un paese come la Francia, dove questo tracciato e' impresso nello Stato da moltissimo tempo. Questa logica tuttavia non e' quella della pura e semplice burocratizzazione, ma quella della trasformazione del ruolo politico dell'amministrazione.
Cio' spiega anche la tendenza alla personalizzazione del potere nel capo supremo dell'esecutivo, cioe' il presidenzialismo personalizzato. Contrariamente a tante analisi giuridico-formali-costituzionalistiche, questo fenomeno non corrisponde affatto a una bonapartizzazione del potere, cioe' (secondo un'immagine politica parzialmente inesatta dello stesso bonapartismo) a una detenzione reale del potere da parte di un solo uomo a scapito dei centri di potere governativi-amministrativi. Non corrisponde a una sorta di evanescenza del potere che andrebbe peraltro tutto a beneficio di un potere dispotico e insulare effettivo, anche se i testi costituzionali attribuiscono qua e la' al capo dell'esecutivo quelli che per convenzione si chiamano "poteri esorbitanti". Il presidenzialismo personalizzato funziona piuttosto come punto di focalizzazione dei diversi centri e circuiti amministrativi del potere, come convergenza di questi ultimi verso la parte alta del potere, e corrisponde al ruolo politico attuale del dispositivo amministrativo. Il capo supremo dell'esecutivo e' percio', oggi piu' che nel passato, l'ostaggio dello stesso meccanismo politico-amministrativo che gli assegna in larga parte questo ruolo preponderante.
Accrescimento della concentrazione-centralismo del potere: ma si tratta di un'evoluzione tendenziale, poiche' lo Stato, come del resto avviene per il suo apparato economico, non e' esclusivamente nelle mani del capitale monopolistico. Grosse contraddizioni attraversano lo Stato, e soggiacciono sempre al processo concentrazione-centralizzazione. Inoltre, l'attuale acuirsi delle contraddizioni in seno al blocco al potere accresce anche le contraddizioni in seno allo Stato. Il rafforzamento della concentrazione e del centralismo del potere non corrisponde a una effettiva omogeneizzazione uniforme dello Stato; e' anzi una risposta dello Stato all'accrescimento delle sue contraddizioni interne. Contraddizioni a effetti centripeti e dislocanti e che rinviano anche, anzi soprattutto, alle lotte popolari che lo attraversano. In questo caso insomma, come nel caso dell'apparato economico di Stato, questa evoluzione non deve fare pensare a uno sdoppiamento-dissociazione dello Stato: un super-apparato esclusivamente monopolistico, per di piu' univocamente localizzato nella "centralita'" e i "vertici" dello Stato (concentrazione-centralizzazione monopolistica dello Stato), e un dispositivo decentrato privo di potere, unico rifugio delle altre frazioni del capitale. Se e' vero che la concentrazione-centralizzazione attuale dello Stato corrisponde alla natura dell'egemonia monopolistica, e' vero anche che questa corrispondenza rimanda a dei processi ben piu' complessi. Le contraddizioni tra il capitale monopolistico e le altre frazioni del capitale, tra il blocco al potere e le masse popolari si manifestano nel cuore stesso dello Stato, nella sua centralita' e nei suoi vertici. Queste contraddizioni attraversano necessariamente il punto focale rappresentato dal capo supremo dell'esecutivo: non c'e' un solo presidente, ma piu' presidenti in uno. Le esitazioni, indecisioni o "gaffe" non sono dovute alla psicologia del personaggio, ma a questa situazione. Viceversa, gli studi sui poteri regionali o municipali mostrano che l'egemonia del capitale monopolistico si propaga anche nella periferia dello Stato, processo simultaneo alla disgregazione delle borghesie locali (che fanno parte essenzialmente del capitale non monopolistico) e al declino del potere dei diversi notabili di fronte all'amministrazione statale.
L'amministrazione tende dunque a monopolizzare il ruolo d'organizzazione politica delle classi sociali e dell'egemonia, cio' che va di pari passo con la trasformazione dei partiti di potere (ivi compresi, in molti paesi, i partiti socialdemocratici). Tali partiti, piu' che luoghi di formulazione politica e d'elaborazione dei compromessi e delle alleanze sulla base di programmi piu' o meno precisi, piu' che organismi che mantengono effettivi legami di rappresentativita' con le classi sociali, sono ormai vere e proprie cinghie di trasmissione delle decisioni dell'esecutivo. Mentre prima, anche nelle fasi precedenti del capitalismo monopolistico e nelle forme statali corrispondenti, i partiti, il cui ruolo politico reale era gia' in declino, continuavano ad essere nondimeno reti essenziali di formazione dell'ideologia politica e del consenso. La legittimazione ora si sposta verso i circuiti plebiscitari e puramente manipolatori (mass media) dominati dall'amministrazione e dall'esecutivo.
Cio' incide sull'organizzazione dei partiti di potere. Anche se la democrazia interna e il controllo della base sulle cerchie dirigenti di questi partiti non sono mai stati che un'illusione, anche se la legge ferrea della burocratizzazione, espressione della distanza politica piu' generale tra dirigenti e diretti, era un loro tratto congenito, questi partiti continuavano tuttavia a funzionare come canali di circolazione delle informazioni e delle rivendicazioni che, giunte dalla base ed elaborate politicamente al loro interno, raggiungevano i centri dirigenti dello Stato. Conservavano cosi' in senso verticale un flusso organico d'influenze reciproche: tutto cio' viene oggi completamente scavalcato dalle reti e dalle tecniche amministrative (inchieste, sondaggi, informazioni generali, marketing politico). Questi partiti diventano semplici canali di divulgazione e di propaganda di una politica statale in larga misura decisa al di fuori di essi. L'elezione dei loro deputati consiste essenzialmente in un'investitura accordata dal vertice, la cui qualita' di vertice dei partiti e' funzione del suo inserimento nei circuiti governativi.
Non solo la distanza tra i vertici e i militanti, aderenti o simpatizzanti di questi partiti non e' mai stata cosi' grande, ma si restringe considerevolmente anche il ventaglio delle scelte politiche offerte ai cittadini dai partiti stessi; tratto significativo della famosa alternanza bipartitica propria della maggior parte delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Germania Federale, ecc.). E' vero che neanche prima questi partiti offrivano alternative politiche reali alla riproduzione del capitalismo, ma almeno permettevano di scegliere fra centri d'elaborazione della politica borghese diversi. Le loro divergenze si riducono oggi ai vari modi in cui ciascuno di essi divulga tale o talaltro aspetto della politica dell'amministrazione e dell'esecutivo; e alla propaganda, diversificata a seconda delle classi alle quali questi partiti si rivolgono, della stessa politica dell'amministrazione e dell'esecutivo. E' questa la famosa "disideologizzazione" di tali partiti, la scomparsa dei loro tratti ideologici distintivi e la loro trasformazione in partiti "acchiappatutto". Cio' non vuol dire tuttavia che le differenze tra questi partiti sono ormai diventate puramente fittizie (se non e' zuppa e' pan bagnato). Le differenze tra Re'publicains inde'pendants e Rassemblement pour la re'publique in Francia, quella tra democrazia cristiana e socialdemocrazia in Germania, quelle tra Partito democratico e Partito repubblicano negli Stati Uniti corrispondono in realta' a reali contraddizioni fra le frazioni del blocco al potere, per cio' che riguarda i loro interessi specifici e le varianti della politica preconizzata nei confronti delle masse popolari. Ma questi partiti non sono piu' i reali luoghi di mediazione di tali contraddizioni. Sono piuttosto casse di risonanza di contraddizioni in atto altrove: nell'amministrazione e nell'esecutivo. Cio' e' evidentissimo nell'attuale funzionamento delle componenti della maggioranza presidenziale in Francia.
Trasformazione dei partiti di potere; trasformazione del loro personale: da rappresentanti delle classi presso i vertici dello Stato in rappresentanti e plenipotenziari, anzi in missi dominici, dello Stato presso le classi; trasformazione nello stesso senso del parlamento e del ruolo dei deputati. Queste evoluzioni corrispondono alla trasformazione della democrazia rappresentativa in statalismo autoritario. Tanto e' vero che il ruolo organico assolto prima dai partiti politici e' stato un elemento essenziale del funzionamento della democrazia rappresentativa: lo dimostrano la profonda diffidenza della borghesia e dell'apparato centrale dello Stato nei loro confronti (persino nei confronti dei partiti borghesi e piccolo-borghesi) e il fatto che il riconoscimento ufficiale e costituzionale della loro esistenza e' arrivato alquanto tardi (in Francia nel 1945). Il sistema rappresentativo dei partiti politici e' stato sempre, parallelamente certo alle lotte popolari dirette, uno dei dispositivi essenziali (per quanto monco) di un controllo (per quanto limitato) dell'attivita' dello Stato da parte dei cittadini e la garanzia (per quanto relativa) delle liberta'. L'oscillazione, in seno allo Stato moderno, tra l'estensione e la restrizione, il mantenimento e la soppressione delle liberta' politiche e' stata sempre funzione diretta dell'esistenza e del ruolo dei partiti. I fascismi, le dittature militari o i bonapartismi non hanno soppresso unicamente i partiti operai o rivoluzionari, bensi' l'insieme dei partiti democratici tradizionali, compresi i partiti borghesi e piccolo-borghesi, nella misura in cui questi, parallelamente alle loro funzioni di classe, esprimevano la presenza al loro interno di talune rivendicazioni delle masse popolari di cui non potevano non tener conto. Quindi il correlato assoluto del mantenimento della democrazia rappresentativa e delle liberta' e' il sistema stesso dei partiti, non solo di una pluralita' di partiti ma di partiti che funzionano in modo organico e relativamente a distanza dall'apparato amministrativo centrale dello Stato. La sovversione attuale di questo funzionamento, spesso mascherata dalla permanenza di un pluralismo di partiti, condiziona la restrizione delle liberta' nello statalismo autoritario.
Tanto piu' che si tratta, beninteso, di trasformazioni del sistema politico dei partiti ben piu' generali: esse riguardano il rapporto di tutti i partiti con l'amministrazione statale. In particolare, i partiti che si situavano al di fuori della cerchia del potere hanno mantenuto, fin qui, non solo un ruolo di controllo parlamentare, ma anche la famosa funzione tribunizia di rappresentanti delle masse popolari di fronte all'amministrazione statale. Funzione che e' anch'essa messa radicalmente in causa: quanti deputati socialisti, per non parlare dei deputati comunisti, hanno oggi realmente accesso, almeno nella loro veste di rappresentanti del popolo, all'amministrazione in Francia? Lo statalismo autoritario non lascia ai partiti la possibilita' di scegliere: o devono subordinarsi all'amministrazione statale, oppure devono rinunciare ad accedervi. I cittadini sono costretti a un confronto diretto con l'amministrazione, e non c'e' da stupirsi se essi, al di la' del voto, in genere si allontanano dai partiti che dovrebbero rappresentarli in seno all'amministrazione statale. Che questa situazione, oltre alla restrizione considerevole delle liberta' che di per se' implica, crei le condizioni di una eventuale bonapartizzazione del potere, e' cosa abbastanza risaputa.

3. Il partito dominante di massa

Le modificazioni attuali dello Stato implicano infine l'esistenza e il ruolo particolare di un partito dominante di massa, partito statale per eccellenza. Ruolo che, nel caso dell'alternanza bipartitica, spetta successivamente all'uno o all'altro partito. Contrariamente a certe analisi superficiali, questa alternanza non modifica affatto il fenomeno attuale del partito statale dominante, strutturalmente necessario al funzionamento dello statalismo autoritario. La permanenza ventennale del gollismo in Francia non e' la causa principale dello "Stato-Udr", sebbene abbia contribuito ad accentuare il fenomeno.
La devoluzione dall'organizzazione politica dei partiti all'amministrazione-esecutivo non e' un passaggio semplice. La permutazione delle funzioni fra i diversi apparati di Stato si scontra sempre con ostacoli derivanti dalla loro materialita' specifica, in questo caso da quella dell'amministrazione statale. L amministrazione, anche se, come negli Stati Uniti, presenta un'instabilita' dei suoi alti funzionari, sostituiti in blocco in caso di modificazioni governative, incarna per eccellenza la continuita' dello Stato borghese ed e' contrassegnata da rigidita' e resistenze. Il piu' delle volte e' sottomessa a regole statutarie (di diritto o di fatto) di permanenza e di centralismo gerarchico dipendenti dalla divisione sociale del lavoro al suo interno. E' cementata da una ideologia particolare (sia essa quella repubblicana tradizionale dell'interesse generale o quella neo-tecnocratica dell'efficienza) e presenta anche, riprodotte per cooptazione, divisioni e segmentazioni in clan, consorterie, fazioni (i grandi corpi dello Stato in Francia, per esempio), essendo ciascuno di questi gruppi caratterizzato da una logica propria. Cio' pone notevoli problemi, soprattutto nella misura in cui il regime delle procedure amministrative si erige a dispositivo privilegiato d'organizzazione dell'egemonia in un quadro che conserva, come nel caso dello statalismo autoritario attuale, una realta' democratica. Il ruolo attuale dell'amministrazione non corrisponde affatto, come spesso si afferma, a un neo-corporativismo. I diversi interessi si esprimono in seno all'amministrazione in maniera specifica e richiedono un'elaborazione politica. Il funzionamento di uno Stato corporativo, forma d'eccezione dello Stato borghese (fascismi specialmente), rientra in una categoria diversa. Nel caso del corporativismo statale, l'amministrazione burocratica, rete centrale delle istituzioni corporative, non ha del resto mai assolto il ruolo politico dominante (cio' non e' accaduto ne' nel caso dei fascismi ne' nel caso delle dittature militari di tipo corporativo), giacche' queste forme di Stato hanno sempre avuto a disposizione un apparato politico (partiti fascisti, esercito, polizia politica) distinto dall'amministrazione corporativizzata.
La trasformazione dell'amministrazione in partito politico reale dell'insieme della borghesia, sotto l'egemonia del capitale monopolistico, in un quadro democratico, non e' dunque un processo di generazione spontanea e si scontra con dei limiti. Nasce cosi' la necessita' di un partito statale dominante che assolva una funzione supplementare a quella di cinghia di trasmissione alla base delle decisioni burocratiche: la funzione di unificare e omogeneizzare l'amministrazione statale, di controllare e promuovere (nella direzione della politica governativa generale) la coerenza fra le sue diverse branche e sottoapparati in senso orizzontale (inter-branche) e insieme verticale (apparato centrale, apparati regionali), di assicurare la sua fedelta' ai vertici dell'esecutivo. Unificazione e coesione assolutamente indispensabili alla funzione politica che l'amministrazione assolve ormai da sola: questo partito dominante assume il ruolo di polizia (in senso lato) dell'internazionalizzazione [???] amministrazione, di sorvegliante e garante dell'apparato burocratico. Senza questo partito, tale ruolo devoluto parallelamente alle alte sfere governative dell'esecutivo puo' essere assolto solo parzialmente. Il loro controllo politico-amministrativo dall'alto si scontrera' costantemente con le resistenze multiformi della burocrazia statale. Le misure disciplinari e i richiami all'ordine nell'amministrazione, sebbene siano in aumento attualmente (il caso del Berufsverbot in Germania, per quanto estremo ed esemplare, non e' affatto eccezionale: si veda al riguardo la situazione della Francia), si scontrano d'altro canto con le resistenze dei sindacati e dell'opinione pubblica. Questo partito statale dominante funziona dunque parallelamente come rete di stretta subordinazione politica dell'insieme amministrativo ai vertici dell'esecutivo. Ruolo che non puo' essere praticamente assolto se non da un partito dominante, fortemente unificato e strutturato al suo interno. Un ruolo del genere "equamente" ripartito fra piu' partiti non farebbe che accrescere i vizi a cui appunto occorre porre rimedio.
Questo partito dominante deve essere a sua volta rigorosamente controllato dai vertici dell'esecutivo (il presidente, il primo ministro), sia che questi vertici si siano elevati a tale posto perche' controllavano e disponevano gia' di un partito del genere, sia che riescano a controllarlo perche' sono, o sono diventati, le alte sfere dello Stato. E' facile riconoscere sotto questo aspetto lo sviluppo della politica gollista, da De Gaulle fino a Pompidou, rispetto al partito-movimento gollista (che non deve essere un partito come quelli di una volta � movimento � ma che, nondimeno...) e anche i problemi incontrati da Giscard d'Estaing di fronte a Chirac e all'Union pour la de'fense de la re'publique (Udr), dopo che il primo non e' riuscito ne' a erigere i repubblicani indipendenti a partito statale dominante, ne' a controllare il partito gollista. Problemi che, per quanto minori possano sembrare a prima vista quanto alla loro pertinenza politica (di classe), hanno tuttavia portato alla crisi istituzionale che conosciamo.
Il ruolo principale di questo partito dunque non e' di rappresentare di fronte all'amministrazione gli interessi del grande capitale: cio' avviene ormai direttamente. L'egemonia in seno allo Stato del capitale monopolistico, in Francia per esempio, non e' una conseguenza dello "Stato-Udr", di una Udr che, in quanto strumento del grande capitale, avrebbe colonizzato una amministrazione neutrale. E' piuttosto l'affarismo di questo partito ad essere una delle conseguenze del suo ruolo piu' generale di commissario dell'amministrazione, a dispetto di coloro che si compiacciono di contrapporre la neutralita' virginea degli alti funzionari alla corruzione dei politicanti borghesi. Questo partito puo' assolvere il suo ruolo solo in quanto e' direttamente presente (partito di Stato) in seno all'amministrazione: ma non e' questa presenza in quanto tale che in primo luogo politicizza l'amministrazione. Questa presenza in un certo senso e' l'effetto del ruolo politico ormai devoluto all'amministrazione statale, effetto che, a sua volta, amplifica la politicizzazione. Incaricata ormai del ruolo d'organizzazione dell'egemonia, costretta a scontrassi direttamente con gli interessi economico-sociali che essa deve mediare politicamente, l'amministrazione statale riesce sempre meno a operare la distinzione fittizia tra decisioni amministrative e decisioni politiche. Si politicizza ormai in modo aperto e massiccio: con aonon si vuol sottintendere che sia mai stata realmente neutrale, ma che i centri decisionali sono ormai riposti all'interno dei suoi circuiti. Parallelamente, il partito dominante investe l'alta amministrazione, vi fa avanzare le sue pedine, monopolizza i posti di comando peri suoi aderenti o simpatizzanti, espelle o neutralizza i recalcitranti su dei binari morti, rompe la gerarchia tradizionale del corpo dei funzionari, modifica e riadatta le istituzioni statali per utilizzarle meglio. Questo processo d'altronde non si attua tanto sotto la direzione dei suoi eletti e dei suoi deputati, o perlomeno nella loro qualita' di eletti e di deputati, ma piuttosto sotto la direzione dei diversi baroni e responsabili che controllano il partito.
Processo a doppio senso: a causa della politicizzazione diretta dell'amministrazione, da una parte sono i funzionari stessi che si polarizzano attorno al partito dominante, dall'altra e' quest'ultimo che fa avanzare i suoi uomini di fiducia nell'amministrazione. Si tratta di una vera osmosi reciproca e a doppio senso, inscritta ormai nella materialita' istituzionale, tra l'apparato statale e il partito dominante. La cerchia dirigente di questo partito e il governo sempre di piu' abbracciano dei membri della funzione pubblica: in Francia questo fenomeno e impressionante.
Ne deriva una serie di conseguenze: il blocco nella circolazione del personale politico; la costituzione di tutta una serie di interessi corporativi multiformi fondata sull'occupazione dei posti, la distribuzione delle prebende statali, il dirottamento di fondi pubblici a fini di partito, la sovrapposizione di influenza tra il partito dominante e lo Stato, l'affarismo del partito dominante. Tratti che hanno sempre caratterizzato lo Stato borghese ma che assumono attualmente dimensioni prodigiose. Fenomeni secondari certo, ma che moltiplicano considerevolmente le resistenze dello Stato-partito dominante di fronte alle alternative democratiche: la perdita del potere governativo significa, a parte i danni eventuali per le classi dominanti, la perdita di tutta una serie di privilegi materiali, ma anche il pericolo della disintegrazione per un partito la cui importanza dipende precisamente dal suo ruolo nello Stato.
Insisto nel dire che questa situazione solo in via accessoria e' dovuta a un lungo periodo di non-alternanza governativa (Udr in Francia, Democrazia cristiana per diverso tempo in Germania e ancora fino ad oggi in Italia). Il funzionamento di un partito dominante trascende tale alternanza, trattandosi spesso in questo caso di un'alternanza tra partiti dominanti Si constata d'altro canto, nel caso di un'alternanza bipartitica piu' o meno regolare (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania Federale), la creazione di vere e proprie reti interpartitiche, la cristallizzazione di una trama permanente di circuiti nati dalla combinazione di forze personali e dispositivi appartenenti ai due partiti dominanti e che funzionano in un certo senso come nucleo di partito unico, nucleo riposto nell'apparato centrale dello Stato. Questo nucleo di partito unico, effettivo, va al di la' dei puri e semplici rapporti interpersonali tra membri di una stessa "e'lite al potere", messi in risalto da taluni autori perspicaci, Wright Mills specialmente {Wright Mills, L'e'lite del potere, Milano, Feltrinelli,1973 (3. ed.); si veda anche R. Miliband, Lo Stato nella societa' capitalistica, Bari, Laterza, 1974 (3. ed.), e, piu' di recente, P. Birnbaum, Les summet de l'Etat, 1977}, per spiegare questo fenomeno emergente. Esso e' ancorato ormai alla materialita' dei dispositivi dei partiti di potere dominanti articolata su quella, nuova, dell'apparato di Stato. Nucleo di partito unico che assolve allora il medesimo ruolo di controllo generale dell'amministrazione ma nei confronti degli altri: non solo nei confronti di coloro che rappresentano una reale alternativa politica, ma nei confronti di chiunque altro osi, anche minimamente, sottrarsi all'influenza di tale nucleo. Quanto basta per diventare pericolosi rivoluzionari: questo nucleo di partito unico trova la sua identita' soltanto erigendo l'altro a nemico.
Di conseguenza sarebbe completamente sbagliato ridurre questo fenomeno alla questione, tutto sommato abbastanza vecchia, della mancanza d'alternativa politica reale attraverso i diversi partiti di potere, senza andare oltre la critica tradizionale della "formalita'" del sistema pluralistico. Questa situazione non limita il gioco democratico solo perche' si restringe il ventaglio delle scelte politiche offerte ai cittadini. Al di la' dell'alternativa, c'e' anche la questione, certamente piu' prosaica, dell'alternanza. Questa alternanza prima esisteva, anche se non implicava alternative politiche. Ma di quale alternanza si puo' parlare oggi, se l'interscambiabilita' del personale governativo dei partiti di potere dominanti s'inscrive spesso nella rete di partito unico di tipo nuovo che sembra si stia consolidando un po' ovunque, proprio nei casi del bipartitismo dei paesi occidentali? Che questa situazione ponga rigorose restrizioni al controllo democratico piu' elementare, che, per quanto limitato, prima esisteva anche nei casi d'assenza d'alternativa chi avrebbe il coraggio di negarlo se non i cantori desueti della democrazia liberale avanzata, Raymond Aron compreso? I quali deplorano che in Francia, a causa dell'internazionalizzazione alternativa rappresentata dall'Union de la gauche, non ci sia possibilita' d'alternanza: come se, la' dove questa alternativa attualmente non esiste, ci si trovasse di fronte a chissa' quale reale alternanza. Certo, l'ho detto e lo ripeto, lo statalismo autoritario attuale non e' un totalitarismo mascherato, cioe' un regime a partito unico autentico. Tuttavia l'istituzionalizzazione di questo nucleo di partito unico, in un quadro certamente democratico, ci da' gia' un'idea della portata delle trasformazioni di questa democrazia.
Torniamo all'osmosi, ormai strutturale, tra lo Stato e un partito dominante di massa: se la ragione essenziale va ricercata nel controllo politico dell'amministrazione, ce ne sono altre che rientrano, questa volta, nel campo delle procedure di legittimazione, cio' che permette di comprendere perche' si ha a che fare qui con un partito di massa. I dispositivi di sollecitazione del consenso si spostano dai partiti politici e, del resto, dagli altri apparati specializzati fino a questo momento in questa funzione (scuola, apparato culturale, famiglia) verso l'amministrazione statale. Cio' implica modificazioni considerevoli sia del contenuto dell'ideologia dominante, sia delle modalita' della sua riproduzione e del suo inculcamento. Ma anche qui questo spostamento si scontra con i limiti derivanti dalla materialita' della rete amministrativa (materialita' fondata sulla sua "separazione" tipica dalle masse popolari) e dalla specificita' dei meccanismi ideologici. Di qui la necessita' di un partito dominante di massa che funzioni non come luogo d'elaborazione di questa ideologia, ma come commutatore-veicolo dell'ideologia statale verso le masse popolari e appendice della legittimazione plebiscitaria dell'amministrazione statale e dell'esecutivo. Ruolo che solo in parte puo' essere assolto dalla personalizzazione carismatica dei vertici dello Stato e dai mass media.
E' chiaro dunque che questa osmosi organica Stato-partito dominante di massa, anche quando non conduca al consolidamento del nucleo di partito unico, induce considerevoli trasformazioni istituzionali, che vanno appunto nel senso del declino della democrazia rappresentativa e delle liberta'.
Ma questa situazione comporta anche dei pericoli per la sinistra nell'eventualita' di un suo accesso al potere, specialmente in Francia. Certo, non si tratta assolutamente di assimilare, nel caso francese o altrove, i partiti di sinistra e i partiti di potere della maggioranza. Ne' si tratta di fare il processo alle intenzioni ai partiti della sinistra: e' esattamente il contrario. Esattamente il contrario, ripeto, perche' si tratta qui dell'osmosi strutturale, tracciata nella materialita' dello Stato attuale, tra l'apparato statale e un partito dominante di massa. L'ambito e il ruolo di un partito del genere sono in un certo senso inscritti nella realta' istituzionale. Il rischio che si corre dunque, se lo Stato non viene radicalmente trasformato dalla sinistra al potere, e indipendentemente dalle intenzioni dei partiti di sinistra e' che uno di tali partiti sia spinto, dalla forza delle cose come si dice, ad occupare il posto di partito dominante di massa. Con il rischio ulteriore di protrarre la situazione nella quale si trovano oggi i diritti delle diverse opposizioni, da qualunque parte emergano.
Sembra che questa situazione oggettiva riguardi in Francia, essenzialmente e innanzitutto il partito socialista: e cio' non perche' esso, in quanto tale e nel suo complesso conserverebbe la macchia originale e indelebile della "collaborazione di classe", ma per motivi istituzionali evidenti (atteggiamento dell'amministrazione nei suoi confronti, insediamento nelle reti municipali e regionali, peso del suo dispositivo elettorale e dei suoi deputati, ecc.). Sia chiaro: il problema non e' di stabilire se il partito socialista debba contare piu' del partito comunista o viceversa. Quello che qui ci interessa va al di 1a' della discussione sull'"equilibramento" delle forze in seno alla sinistra. Il problema e': come evitare il pericolo che il partito socialista vada ad occupare lo spazio e il ruolo di un partito dominante di massa? Pericolo di cui taluni dei suoi dirigenti, del resto, sembrano coscienti. Certo, uno "Stato-Psf" non sarebbe analogo a uno "Stato-Udr". Ma la situazione istituzionale di un partito dominante di massa comporta di per se', e al di la' della natura del partito che occupa questo spazio, una restrizione del controllo democratico e delle liberta'. C'e' il pericolo che la democratizzazione dello Stato, le misure previste dalla sinistra specialmente per il rinnovamento del ruolo proprio dei partiti nell'esercizio della democrazia, restino lettera morta.
In ogni modo, non bisogna illudersi: lo statalismo autoritario implica considerevoli trasformazioni della democrazia. Queste trasformazioni si riassumono nella rafforzata esclusione delle masse dai centri di decisione politica, la separazione e la distanza accentuata tra apparati di Stato e cittadini nel momento stesso in cui lo Stato tuttavia invade l'insieme della vita sociale, il centralismo statale che raggiunge livelli senza precedenti, i tentativi di irreggimentazione allargata delle masse tramite i processi di "partecipazione", in breve l'accresciuto autoritarismo dei meccanismi politici. Questo autoritarismo non concerne solo l'amministrazione burocratica e, quindi, l'insieme degli apparati di Stato, ne' consiste semplicemente in un aumento della repressione fisica organizzata o in un rafforzamento della manipolazione ideologica. Si manifesta decisamente nella introduzione di nuove tecniche di potere, nella messa a punto di una serie di pratiche, di canali, di supporti che mirano a creare una nuova materialita' del corpo sociale sul quale s'esercita il potere. Materialita' che differisce considerevolmente da quella del corpo politico nazionale-popolare degli individui-cittadini liberi ed eguali dinanzi alla legge, da quella della dissociazione istituzionalizzata tra il pubblico e il privato, fondamento della democrazia rappresentativa tradizionale.
Questa nuova matrice d'esercizio del potere, ancorata agli stessi processi che condizionano il nuovo ruolo dell'amministrazione-burocrazia statale, riposta nel nucleo principale ed esemplare dell'amministrazione, si irradia e si propaga in tutte le sfere della vita sociale. Essa va ben al di la' dei soli apparati di Stato (anche concependo, come e' necessario, lo spazio dello Stato in maniera ampia) nei quali tuttavia essa per eccellenza si elabora. Al di la' di una statalizzazione della vita sociale, ma innestandosi e appoggiandosi su tale statalizzazione, del resto ben reale e crescente, una nuova modulazione statalistico-autoritaria d'esercizio del potere s'erige a reale codice generale nel quale s'inscrive il funzionamento del potere nel complesso delle relazioni e rapporti sociali. Se non si tratta qui di una semplice moltiplicazione analogica, per mimetismo, di un "modello" d'esercizio statale del potere nei dispositivi extra-statali (cio' che si sarebbe tentati di pensare se si considerasse lo Stato come fondamento primo e fonte esclusiva di qualsiasi potere), non si tratta neppure di un archetipo-diagramma che governa, in modo immanente a ogni potere, micropoteri molecolari nei quali lo Stato si dissolverebbe. Si tratta, in definitiva, della matrice di nuove forme di divisione sociale del lavoro, presente certo, come stampo originario, nei diversi rapporti sociali ma che, attualmente, s'elabora e si riutilizza innanzitutto nel dispositivo amministrativo dello Stato verso cui convergono i rapporti sociali. Ogni potere attuale e' orientato verso lo statalismo autoritario.
Se lo statalismo autoritario si distingue dunque dal totalitarismo, se non puo' identificarsi con un fascismo di tipo nuovo o con un processo di fascistizzazione, si distingue anche dalle precedenti forme democratiche dello Stato. Esso non comprende in se' puramente e semplicemente germi o elementi diffusi di fascistizzazione, ma cristallizza il loro concatenamento organico in un dispositivo permanente e parallelo allo Stato ufficiale. Dispositivo che non e' solo tenuto a disposizione dalle classi dominanti, ma s'interseca in permanenza con lo Stato ufficiale nel funzionamento e nell'esercizio quotidiano del potere. Gli esempi abbondano: lo sdoppiamento e la dislocazione di ogni branca e apparato di Stato (esercito, polizia, giustizia, ecc.), da un lato reti formali e apparenti, dall'altro nuclei strettamente controllati dai vertici dell'esecutivo, e lo spostamento costante dei centri di potere reale dalle prime ai secondi: meccanismo implicato nel ruolo attuale dell'amministrazione, sorvegliato e assicurato dal partito dominante; lo sviluppo massiccio, direttamente orchestrato dalle alte sfere dello Stato e in osmosi con il partito dominante, di reti statali parallele, pubbliche, semipubbliche e parapubbliche, che hanno la funzione di cementare, di unificare e di controllare i nuclei dell'apparato di Stato (in Francia, il Service d'action civique, le polizie parallele, ecc.). Si potrebbe facilmente (anche troppo) allungare l'elenco.
In questa trasformazione infine si inscrivono oggi le modificazioni dello Stato sotto il suo aspetto di Stato nazionale. Altrove ho dimostrato che lo Stato nazionale continua ad avere sempre una sua pertinenza, contro tutta una corrente che vede nell'internazionalizzazione attuale del capitale il decadimento puro e semplice degli Stati nazionali in Europa di fronte alle societa' multinazionali, al super-Stato americano o al super-Stato dell'Europa unita. Nondimeno esso presenta a tal proposito modificazioni importanti, su cui non mi soffermero' se non per sottolineare che le modificazioni in questione non sono direttamente dovute a fattori esterni (alle "pressioni" degli altri Stati su ogni Stato nazionale). Questi fattori agiscono su ogni Stato nazionale solo se interiorizzati, inscritti nelle sue trasformazioni specifiche. E' sotto tali trasformazioni che ha luogo, oggi, l'arretramento della sovranita' nazionale, non solo nella politica dei governi europei, ma nella materialita' istituzionale dei diversi Stati. E' innanzitutto in questo Stato parallelo, in questa trama politico-amministrativa profonda, che prendono corpo le reti trans-statali, dalla "cooperazione" delle polizie e dei centri d'informazione fino alle varie procedure trans-nazionali di presa di decisione: le istituzioni internazionali ufficiali sono solo la punta dell'iceberg. Difficilmente potrei essere tacciato di fantapolitica, ma come non fantasticare su questo nucleo di partito unico in una dimensione internazionale? La famosa "commissione trilaterale" ne e' forse la prefigurazione.

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