20.12.04

1. Statalismo autoritario e totalitarismo

I. Certi nostri teorici contemporanei del potere hanno appena scoperto l'esistenza del Gulag. Non possiamo che congratularci con loro. C'e' voluto del tempo, e' vero, ma non e' mai troppo tardi. D'altronde, a giudicare dalla funzione che oggi assolve questo termine, vien fatto di pensare che se il Gulag non fosse esistito lo si sarebbe dovuto inventare. Come sarebbe stato possibile altrimenti anche solo dire, per cio' che concerne le societa' occidentali attuali, tante sciocchezze sulla democrazia liberale avanzata e le cosiddette "societa' permissive", societa' di cui certi "nuovi filosofi" nostrani, nello stesso tempo e opportunamente, hanno appena scoperto le virtu'?
Con i paragoni non si prova nulla. Gli aspetti totalitari del potere nei paesi dell'est, che pure esistono e non si possono, e' vero, equiparare (non in senso normativo, ma in senso scientifico) con il funzionamento delle nostre societa', non dovrebbero far dimenticare, come spesso accade, non solo i totalitarismi dell'occidente (Pinochet o Videla) ma la situazione piu' prosaica degli Stati nelle nostre societa' a regime democratico. Nelle societa' capitalistiche occidentali sono in atto considerevoli trasformazioni nello Stato. Si sta imponendo una nuova forma di Stato: bisognerebbe essere ciechi (e la passione, anche quando e' dettata da nobilissimi motivi, acceca sempre) per non accorgersene. In mancanza d'altro, designero' questa forma di Stato con il termine di statalismo autoritario. Termine che puo' indicare la tendenza generale della trasformazione seguente: l'accentuato accaparramento, da parte dello Stato, dell'insieme delle sfere della vita economico-sociale combinato con il declino decisivo delle istituzioni della democrazia politica e con la restrizione draconiana, e multiforme, delle cosiddette liberta' "formali" di cui si scopre, adesso che stanno scomparendo, la realta'. Benche' alcune di queste modificazioni siano in atto gia' da tempo, lo Stato attuale segna una vera e propria svolta rispetto alle forme di Stato precedenti.
Mi occupero' solamente dello Stato dei paesi capitalistici dominanti, detti piu' nobilmente sviluppati, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Certo, nella misura in cui queste trasformazioni dipendono dalla fase attuale del capitalismo e dalla sua riproduzione internazionale, esse riguardano l'insieme dei paesi capitalistici. Dato pero' l'attuale approfondirsi, dovuto all'internazionalizzazione dei rapporti capitalistici, delle divisioni nella catena imperialistica tra paesi dominanti e paesi dominati, non e' possibile fare appello a una teorizzazione generale dello Stato attuale che abbracci le sue trasformazioni nell'insieme di questi paesi. Se si assiste nella zona dei paesi dominati, per esempio in America Latina, all'emergere di una nuova forma di Stato dipendente (che, a sua volta, si manifesta sotto forme di regime diverse), questa ha pero' delle caratteristiche non trascurabili che la distinguono dalla nuova forma di Stato dei paesi dominanti.
Lo statalismo autoritario rientra dunque, essenzialmente, in una periodizzazione del capitalismo distinta in stadi e fasi. Esso corrisponde, a quanto pare, alla fase attuale dell'imperialismo e del capitalismo monopolistico nei paesi dominanti, proprio come lo Stato liberale corrispondeva allo stadio concorrenziale del capitalismo, e lo Stato interventista, nelle sue varie forme, alle fasi precedenti del capitalismo monopolistico. Lo statalismo autoritario rimanda cosi' alle modificazioni strutturali che specificano questa fase per quanto riguarda i rapporti di produzione, i processi e la divisione sociale del lavoro sia sul piano mondiale che sul piano nazionale. Certo, il ruolo economico dello Stato, inseparabile dal suo contenuto politico costituisce necessariamente il filo conduttore di una analisi dello statalismo autoritario; esso pero' e' ben lontano dall'esaurire tale analisi: si ha a che fare qui con una realta' istituzionale che richiede una trattazione specifica. Lo statalismo autoritario rimanda alle trasformazioni delle classi sociali, delle lotte politiche, dei rapporti di forza che caratterizzano la fase nel suo complesso, sia sul piano nazionale che sul piano mondiale.
Certo, e questo e' importante, lo statalismo autoritario esiste sotto forma di regimi differenti, a seconda delle congiunture originali dei paesi in questione. Ma sottolineare il suo rapporto con la fase attuale del capitalismo equivale gia' ad indicare che non si tratta di un semplice "fenomeno" di superficie. Una certa forma di democrazia politica e rappresentativa appare fin da ora superata nel capitalismo, cosi' come esso si presenta e si riproduce oggi. Mettere in causa lo statalismo autoritario, non solo quindi salvaguardare cio' che resta delle liberta' ma anche svilupparle ed estenderle, in breve realizzare un programma di sinistra, non appare possibile senza una modificazione reale dei fattori che inducono questa nuova forma di Stato.
Lo statalismo autoritario rimanda quindi alla crisi politica e alla crisi dello Stato. Cio', oggi, comincia a diventare un fatto evidente, ma fino a poco tempo fa non era cosi'. Sto pensando naturalmente alla maggior parte dei rappresentanti della scienza politica ufficiale, in Francia e altrove, dal funzionalismo tradizionale fino ai vari "sistemismi", per i quali la crisi politica e la crisi dello Stato erano e continuano ad essere rigorosamente impensabili: momento disfunzionale misterioso, che rompe brutalmente con gli equilibri naturali di un "sistema politico" che funzionerebbe per conto proprio in modo armonioso e secondo una logica autoregolatrice interna. Ce ne siamo dovute sorbire di celebrazioni del pluralismo dei poteri della societa' liberale! Societa' liberale che smentirebbe un marxismo ormai (gia'!) sorpassato, poiche' essa sarebbe riuscita a superare le sue contraddizioni, e addirittura la lotta fra le classi. Ma penso soprattutto a una corrente ben distinta dalla prima, e molto piu' interessante: quella dei pensatori contestatori, i quali, dalla scuola di Francoforte ai radicali americani, ci dipingevano l'immagine terrificante di uno Stato-Moloc totalitario e onnipotente, fondato sulle pratiche manipolatorie del capitalismo, che sarebbe riuscito a integrare le masse popolari (contro, ahime'!, le previsioni di Marx, ecc.) e che si accingerebbe ormai a divorare i soggetti.
Questa immagine e' falsa, e non solo a causa dei limiti strutturali che contrassegnano ogni Stato capitalistico, compreso quello della fase attuale: lo statalismo autoritario e' strettamente connesso con la crisi politica e con la crisi dello Stato. E' altresi' una risposta agli elementi di crisi, ivi compresi quelli della propria crisi. Sicche' lo statalismo non designa un rafforzamento univoco dello Stato, ma costituisce piuttosto l'effetto di una tendenza, i cui poli si sviluppano in modo ineguale, di rafforzamento-indebolimento dello Stato. Lo Stato attuale, di cui lo statalismo autoritario e' una manifestazione terribilmente reale, resta, malgrado (anzi, a causa di) cio', un colosso dai piedi d'argilla, che fugge in avanti su un suolo che sprofonda: tutto cio' appare tanto piu' chiaramente sul piano politico. Non si dimentichi pero' che le bestie ferite sono le piu' pericolose.
Ma mettere in rapporto lo Stato con la crisi politica non e' semplice. A questo proposito ci siamo cimentati in parecchi in un libro collettivo recente, La crisi dello Stato {Segnalo inoltre le opere collettive, pubblicate in Germania Federale, Sozialstruktur und politische Systeme, a cura di U. Jaeggi, 1976, e Politische System-Krisen, a cura di M. J�nicke, 1973}: percio' mi limitero' a indicare semplicemente il problema. Anche se la crisi economica attuale non e' una crisi passeggera bensi', sotto certi aspetti, una crisi strutturale, sarebbe sbagliato esaminarla come una "crisi generale" e riferirla all'insieme della fase capitalistica presente. Inoltre, sarebbe inesatto credere che questa crisi, che investe piu' o meno l'insieme dei paesi capitalistici (quelli che qui ci interessano), si manifesti necessariamente, nell'insieme di questi paesi, come un'effettiva crisi politica e, a maggior ragione, come una crisi dello Stato. La crisi politica non si riduce mai alla crisi economica, ne' la crisi dello Stato alla crisi politica: anzi lo Stato capitalistico e' in grado di assorbire le crisi politiche e di evitare che queste diventino crisi dello Stato. Non si puo' dunque caratterizzare globalmente lo Stato attuale, corrispondente a una fase del capitalismo, come uno Stato di crisi o uno Stato in crisi. Cio' equivarrebbe a diluire, alla maniera della III Internazionale, la specificita' del concetto di crisi, in breve a credere che il capitalismo, man mano che si riproduce, accentui automaticamente la sua "putrefazione" e che stia vivendo l'ultima fase della sua ineluttabile agonia. Si giunge cosi' a considerare che una certa fase della sua riproduzione (che poi, guarda caso, e' sempre quella in cui ci si trova) non esprimerebbe che una crisi permanente e, in un modo o nell'altro, sempre presente. Di qui la tentazione, anche di considerare lo Stato attuale come Stato in crisi, nel senso che rappresenterebbe necessariamente l'ultima forma possibile di Stato borghese prima dell'avvento ineluttabile del socialismo. Mentre invece e' evidente che occorre denotare con i concetti di crisi politica e di crisi dello Stato una congiuntura particolare e una condensazione di contraddizioni che si manifestano come caratteri specifici delle istituzioni statali.
Certo, proprio perche' la crisi politica non e' un fulmine a ciel sereno, occorre far riferimento, innanzitutto, agli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato. Questi elementi, a differenza della crisi vera e propria, sono presenti in permanenza nella riproduzione delle forme politiche capitalistiche. La fase attuale nel suo insieme e' caratterizzata da un'accentuazione particolare degli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato, accentuazione che, dal canto suo, s'intreccia con la crisi economica del capitalismo. Ed e' questa accentuazione degli elementi generici di crisi politica e di crisi dello Stato che costituisce il tratto strutturale e permanente della fase attuale. Anche lo statalismo autoritario quindi si presenta come una risultante della, e una risposta alla, accentuazione di questi elementi di crisi. Ma in certi paesi europei si assiste a una vera e propria crisi politica che per di piu' si manifesta come crisi dello Stato. Lo statalismo autoritario e' cosi' segnato, in questi paesi, da una crisi dello Stato: e' il caso, a livelli differenti, della Spagna, del Portogallo, della Grecia, ma anche dell'Italia e della Francia.
Questa crisi dello Stato offre inoltre alla sinistra possibilita' oggettive nuove di transizione democratica al socialismo. Esistono varie specie di crisi politiche: la crisi attuale rappresenta per la sinistra un campo preciso, in rapporto alla possibilita' di questa transizione non si tratta di una crisi di doppio potere e neppure di una crisi di fascistizzazione.
II. Questo statalismo autoritario si identificherebbe con un totalitarismo, e persino con un fascismo di tipo nuovo? E' questa, sia detto en passant, la tesi sostenuta fino a qualche tempo fa da taluni dei nostri "nuovi filosofi", quando ancora erano "maoisti": ci parlavano spesso del "nuovo fascismo" e ci raccomandavano la "nuova resistenza" {Nouveau fascisme, nouvelle de'mocratie, cit. Si veda anche, a proposito della discussione attorno a queste questioni, il n. 31 della rivista Kursbuch, maggio 1973}, paragonando i governanti della Francia del 1972 agli occupanti nazisti di sinistra memoria. Ma allora non avevano ancora scoperto le virtu' della democrazia liberale avanzata. A questo proposito, il mio punto di vista l'ho illustrato in Fascismo e dittatura: come non vedo oggi in Giscard il romantico illuminato di un nuovo liberalismo, cosi' non lo vedevo allora nei panni di un qualche apprendista Goebbels agli ordini di un Pompidou-Hitler in erba.
Certo, le radici del totalitarismo, che e' un fenomeno propriamente moderno, affondano fin dentro i rapporti di produzione e la divisione sociale del lavoro capitalistici, si diramano nelle tecniche di potere dello Stato moderno (il processo di individualizzazione, la legge stessa), nelle matrici spaziali e temporali implicate da questi rapporti e tracciati entro la nazione e l'ossatura dello Stato. Ma queste radici non sono germi in progressiva espansione attraverso le astuzie della storia, verso la maturazione completa: il totalitarismo universale.
E apro immediatamente una parentesi, riguardo ai paesi dell'est, per ricordare che certe caratteristiche totalitarie del potere in questi paesi risiedono, a mio avviso, tra l'altro (giacche' il capitalismo non e' la fonte di tutti i mali) ma senza dubbio fondamentalmente negli "aspetti capitalistici" del loro Stato, dei rapporti di produzione e della divisione sociale del lavoro che lo sottendono. Ora, neanche in questo caso si ha a che fare con la maturazione pura e semplice dei germi totalitari. Le forme totalitarie che caratterizzano questi paesi dipendono da una serie di fattori storici (economici, politici, ecc.) precisi, sicche' costituiscono una forma di Stato del tutto particolare: in questi paesi, peraltro, essa non rappresenta l'eccezione, bensi' la regola. Viceversa, anche se questi Stati sono ben lontani dal costituire una semplice variante dello statalismo autoritario cosi' come lo conosciamo oggi nelle nostre societa', l'uno e gli altri hanno qualcosa in comune. Percio' le analisi che seguiranno, specialmente quelle del ruolo della burocrazia statale, riguardano anche i paesi dell'est. A patto pero' di rispettare la loro particolarita': tale affinita' non e' dovuta neppure a qualche tendenza uniforme alla "tecno-burocratizzazione" propria del mondo tecnologico-industriale attuale. I tratti dello Stato radicati nei rapporti di produzione e nella divisione sociale del lavoro rimandano a dei rapporti di classe e a rapporti politici che, in questi paesi, sono considerevolmente differenti.
Torniamo dunque al problema cosi' come esso si pone nelle societa' occidentali. Anche se il totalitarismo rimanda a una serie di fattori che sfuggono ancora a una spiegazione esauriente (e che il marxismo non puo' spiegare da solo), questa non e' una buona ragione per sprofondare nell'irrazionalismo piu' frusto a suon di nozioni terroristiche. Lo statalismo autoritario non e' la maturazione dei germi totalitari tuttavia inerenti a ogni Stato capitalistico. Il totalitarismo, si tratti del fascismo, della dittatura militare o del burocratismo, riveste nelle societa' che qui ci riguardano (i paesi dominanti in occidente) una forma specifica, costituisce un fenomeno politico definito che io ho designato, spiegandone anche i motivi, con il termine di forma di Stato d'eccezione. Esso corrisponde a una congiuntura precisa dei rapporti di classe, visti nella loro complessita', e a tratti istituzionali propri dello Stato che rompono con le forme di riproduzione del dominio politico borghese: quelle, grosso modo, della "repubblica democratica". Il fascismo specialmente, e cio' vale sia per il fascismo consolidato che per il processo di fascistizzazione che lo precede, rinvia a una crisi politica particolare. Esso non puo' caratterizzare lo Stato di una fase del capitalismo, cosi' come esiste e si riproduce nelle nostre societa': anche se lo Stato d'eccezione ha, in quanto Stato capitalistico, certi tratti in comune con la forma di Stato democratico della fase nella quale sorge. Lo Stato rooseveltiano o la repubblica francese presentavano, nell'epoca storica del fascismo, certi tratti dello Stato interventista (ruolo economico dello Stato e rafforzamento dell'esecutivo per esempio) che caratterizzavano anche i fascismi tedesco e italiano: cio' pero' non significa che lo Stato d'eccezione (il fascismo) in quella fase sia diventato la forma necessaria dello Stato. Le trasformazioni proprie degli Stati dell'epoca non corrispondevano, per filo e per segno, a una fascistizzazione dell'insieme di questi Stati (come invece ha creduto per lungo tempo la III Internazionale).
L'emergere dello statalismo autoritario dunque non puo' essere ridotto ne' a un nuovo fascismo ne' a un processo di fascistizzazione. Questo Stato non e' ne' la forma nuova di uno Stato d'eccezione effettivo ne', di per se', la forma transitoria verso uno Stato del genere: esso rappresenta la nuova forma "democratica" della repubblica borghese nella fase attuale. Ed e', se cosi' posso esprimermi, insieme migliore (esso conserva sicuramente una realta' democratica) e peggiore: non e' il frutto di una semplice congiuntura che basterebbe rovesciare per ristabilire delle liberta' che si restringono come una pelle di zigrino. Inoltre, lo Stato fascista corrisponde a una crisi politica e, per di piu', a una effettiva crisi dello Stato: viceversa in molti paesi lo statalismo autoritario s'impone, senza tuttavia corrispondere a uno Stato in crisi. Infine, anche nei paesi in cui questa forma di Stato si combina con una crisi dello Stato, non c'e' per il momento un processo o una crisi di fascistizzazione. Lo Stato fascista, la cui instaurazione d'altronde non avviene mai a freddo ma implica, in quanto Stato d'eccezione appunto, una vera e propria rottura nello Stato, presuppone prima di tutto una sconfitta storica del movimento popolare e della classe operaia. E' questa sconfitta che apre la strada alla fascistizzazione, non essendo mai il fascismo una reazione diretta e immediata all'ascesa del movimento popolare. Questa sconfitta non appare da nessuna parte, la' dove si assiste a una crisi effettiva dello Stato: anzi, avviene esattamente il contrario.
Cio' pero' non significa che le possibilita' di uno Stato d'eccezione, si tratti del fascismo, di una dittatura militare o di un neo-bonapartismo forte, siano ormai da escludere in Europa. Data la situazione politica attuale, specialmente in Francia, questa e', piu' o meno a lungo termine, un'eventualita' di cui occorre certamente tenere conto. E arrivo cosi' al secondo aspetto della questione: questo non riguarda semplicemente le limitazioni della democrazia rappresentativa e delle liberta' che lo Stato attuale implica nella sua stessa regolarita' democratica , ma esattamente gli elementi di fascistizzazione di ogni Stato capitalistico. Contrariamente questa volta alle tesi di chi fa le celebrazioni della differenza essenziale tra le varie forme democratiche (lo "Stato liberale") e i totalitarismi, entrambe le forme hanno, sotto il loro aspetto capitalistico, certi tratti in comune. Questi tratti, oltre all'eventuale appartenenza di questi Stati a una stessa fase del capitalismo (rafforzamento dell'esecutivo nel New Deal rooseveltiano e nello Stato fascista storico), dipendono dalle radici del totalitarismo. Ogni forma democratica di Stato capitalistico implica tendenze totalitarie.
Lo Stato attuale ha certamente questo di particolare: essendo una forma di Stato democratica in una fase d'acutizzazione strutturale degli elementi generici di crisi, corrispondente in certi paesi anche a una crisi politica effettiva e a una crisi dello Stato, gli elementi o tendenze di fascistizzazione vi si presentano in maniera molto piu' pronunciata che nel passato. Lo statalismo autoritario risiede quindi nella predisposizione di un intero dispositivo istituzionale preventivo, di fronte alla crescita delle lotte popolari e ai pericoli che questa rappresenta per l'egemonia. Questo vero e proprio arsenale, che non e' semplicemente un arsenale giuridico-costituzionale, non compare mai in prima fila nell'esercizio del potere: si manifesta soprattutto, almeno di fronte alla massa della popolazione (tolti i vari "asociali"), a scatti, come un motore sfasato. Ma questo arsenale, la repubblica lo tiene in serbo, pronto per essere impiegato in un processo di fascistizzazione. Questo Stato, probabilmente per la prima volta nell'esistenza e la storia degli Stati democratici, non solo contiene elementi sparsi e diffusi di totalitarismo, ma cristallizza il loro concatenamento organico in un dispositivo permanente e parallelo allo Stato ufficiale. Sdoppiamento dello Stato che sembra essere un tratto strutturale specifico dello statalismo autoritario: esso non implica pero' una reale impermeabilita' o dissociazione tra lo Stato ufficiale e il dispositivo in questione, ma piuttosto una loro sovrapposizione funzionale e una osmosi costante. Sicche', l'eventuale avvio di un processo di fascistizzazione indubbiamente qui non assumera' la stessa forma del passato. Non che possa realizzarsi gradualmente e impercettibilmente a freddo, giacche' oggi come ieri, questo passaggio implica sempre una rottura. Ma, piu' che di una infiltrazione o di un investimento dall'esterno dell'apparato di Stato da parte del fascismo, come e' avvenuto per i fascismi storici, si potra' trattare di una rottura interna dello Stato, secondo linee fin d'ora tracciate nella sua attuale configurazione.
III. Lo statalismo autoritario rimanda dunque, attraverso le trasformazioni dei rapporti di produzione, dei processi e della divisione sociale del lavoro, ad alcune modificazioni considerevoli nei rapporti di classe: bisognera' tenerle presenti al momento dell'esame delle modificazioni istituzionali dello Stato.
Esaminiamo in primo luogo tali modificazioni nel campo delle masse popolari e della classe operaia: l'approfondirsi della divisione sociale del lavoro, sia sul piano mondiale tra gli Stati Uniti e l'Europa, sia all'interno di ciascun paese europeo, approfondimento corrispondente al lungo periodo di crescita e alle modificazioni nello stesso processo lavorativo, ha in realta' accentuato le ineguaglianze e le disparita' tra la classe operaia e le classi dominanti. Lo sfruttamento mediante l'aumento del plusvalore relativo ha assunto forme piu' complesse e surrettizie di quelle del passato: intensificazione dei ritmi, aumento della produttivita' del lavoro, deterioramento delle condizioni di vita. Il generale aumento delle lotte operaie in Europa, che ha preceduto gli effetti massicci della crisi economica, ha veramente segnato la fine della lunga tregua corrispondente piu' o meno al periodo della guerra fredda. La crisi economica, l'inflazione e soprattutto la disoccupazione il cui aumento spettacolare e' a quanto pare diventato un tratto strutturale della fase attuale, hanno dal canto loro contribuito a mettere in crisi un relativo consenso sociale fondato sulla crescita e il benessere. Gli stessi operai immigrati hanno incominciato a partecipare attivamente alle lotte dei cosiddetti paesi "accoglienti". Tutto questo ha provocato insieme l'aumento e la politicizzazione della lotta, le nuove rivendicazioni e le nuove forme di lotta nel movimento operaio europeo.
Ma questo movimento generale non si ferma alla classe operaia: questa fase d'accumulazione del capitale, detta fase d'industrializzazione accelerata, ha determinato massicce ineguaglianze in certe categorie della popolazione: i vecchi, i giovani, le donne. Quelli che vengono tagliati fuori e sono "esclusi" da questo processo non si contano piu': si tratti dei contadini o della piccola borghesia tradizionale (artigiani, piccoli commercianti). Ancora piu' significativo e' cio' che avviene nella nuova piccola borghesia, in considerevole estensione: tecnici, impiegati di ufficio e di commercio, quadri, funzionari. Le loro condizioni di vita, la loro mobilita' sociale ascendente, la loro situazione salariale e sicurezza d'impiego, i loro privilegi tradizionali di carriera ma anche la loro situazione nel lavoro (accentuazione della divisione sociale del lavoro in seno al lavoro intellettuale stesso) si deteriorano rapidamente per la schiacciante maggioranza di essi. Viene cosi' messa in causa l'alleanza classica, nei paesi europei, tra la borghesia e la piccola borghesia, tradizionale e nuova: e il campo oggettivo delle alleanze popolari si estende in modo considerevole. A tutto cio' si aggiungano poi altri conflitti che dipendono piu' in particolare dalla crisi ideologica, insieme origine ed effetto di nuove prese di coscienza delle masse popolari su una serie di problemi che, fin da ora, non sono piu' fronti secondari: movimento studentesco, movimento di liberazione della donna, movimento ecologico.
Parallelamente, si acutizzano le contraddizioni in seno alle classi dominanti. Anche questo e' un tratto permanente e strutturale della fase attuale: contraddizioni tra il capitale monopolistico e il capitale non monopolistico, dovute alle forme e ai ritmi di concentrazione del capitale e alle trasformazioni che esse inducono nei rapporti di produzione durante questa fase; contraddizioni in aumento anche all'interno del capitale monopolistico. Queste contraddizioni si intensificano nel contesto della crisi economica e possono essere colte in tutta la loro ampiezza solo tenendo conto delle attuali condizioni di internazionalizzazione del capitale. La riproduzione indotta del capitale straniero (soprattutto americano) all'interno dei vari paesi europei e la sua penetrazione complessa nel capitale autoctono producono all'interno di questo capitale gravi smembramenti. Comincia cosi' ad apparire la nuova divisione tra cio' che ho designato altrove con il termine di borghesia interna, che, pur essendo legata al capitale straniero (non si tratta di una borghesia nazionale vera e propria), e in grave conflitto con quest'ultimo, e' una borghesia completamente dipendente da tale capitale. Linea di divisione tendenziale che non combacia sempre con la divisione capitale monopolistico-capitale non monopolistico ma attraversa spesso questi capitali da parte a parte. Le contraddizioni interimperialistiche, riattivate dopo il periodo della loro pacificazione relativa sotto l'incontestata egemonia americana, si ripercuotono direttamente in seno al blocco al potere dei diversi paesi. Quest'insieme di fattori delimita un carattere strutturale di questa fase: una larvata ma permanente instabilita' egemonica delle borghesie dei paesi dominanti.
Cose risapute. Percio' e' piu' interessante passare brevemente in rassegna talune caratteristiche originali di questa fase che dipendono, questa volta, dal ruolo specifico dello Stato. Il ruolo economico dello Stato riveste le forme autoritarie attuali solo a causa di un fatto apparentemente paradossale: tale ruolo, incomprensibile al di qua di certi limiti, non solo cessa di essere un ruolo stabilizzante, ma addirittura diventa un fattore decisivo di destabilizzazione. Fatto paradossale: lo statalismo autoritario non e' la semplice risposta dello Stato a una crisi che esso cerca di superare, ma una risposta a una crisi che contribuisce a produrre: questo ruolo dello Stato e' di fatto l'acceleratore degli elementi generici di crisi politica e il produttore di questa stessa crisi. Le controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto, messe in opera dallo Stato per evitare le crisi, diventano fattori di una crisi che, per cio' stesso, va al di la' della crisi economica pura e semplice.
1. L'accentuazione propria della fase, delle contraddizioni in seno al blocco al potere rende necessaria un'intensificazione dell'impegno politico dello Stato finalizzato all'unificazione di questo blocco e alla riproduzione dell'egemonia. Ora, le azioni economiche attuali dello Stato (svalorizzazione di talune parti del capitale, ristrutturazioni industriali suscettibili di elevare il tasso del plusvalore relativo, accrescimento del ruolo in favore della concentrazione del capitale, aiuti selettivi a certi capitali, ruolo decisivo dello Stato nazionale nel quadro dell'internazionalizzazione del capitale) giocano massicciamente, e piu' che mai in favore degli interessi "economico-corporativi" ristretti di certe frazioni o capitali individuali a spese di altre. Sicche', questo intreccio diretto e crescente dello Stato con le contraddizioni economiche non fa che approfondire le incrinature del blocco al potere. Esso conferisce a tali contraddizioni un carattere politico e diventa cosi' un fattore diretto di crisi politica� mette costantemente in causa l'organizzazione statale dell'egemonia e dell'interesse generale della borghesia.
2. L'intervento dello Stato in una serie di sfere un tempo marginali e che ora invece integrano e allargano lo spazio di riproduzione e di accumulazione del capitale (urbanismo, trasporti, sanita', ambiente, attrezzature collettive, ecc.) ha per effetto una politicizzazione considerevole delle lotte delle masse popolari in tali sfere: qui queste masse si scontrano direttamente con lo Stato. Elemento generico di crisi politica gia' importante, ma che si accentua per il fatto che questi interventi dello Stato si spogliano, in periodo di crisi economica, del loro aspetto-illusione di "politica sociale". Appare quindi il loro legame con gli interessi del capitale e lo Stato accusa un deficit considerevole di legittimazione di fronte alle classi popolari. Questi interventi demoltiplicano cosi' gli elementi generici di crisi (si veda attualmente il caso lampante dell'assistenza alla disoccupazione o la formazione permanente). Lo statalismo autoritario: e' questa la verita' che emerge dalle macerie del mito dello Stato-provvidenza o Stato del benessere.
3. Il ruolo dello Stato in favore del capitale straniero o transnazionale accentua lo sviluppo ineguale del capitalismo in seno a ciascun paese in cui si riproduce il capitale straniero, con la creazione specialmente di nuovi "poli di sviluppo" di certe regioni a spese delle altre. Questo fatto, intrecciandosi con le varie forme della crisi ideologica, produce rotture dell'unita' nazionale della nazione che sottende lo Stato borghese: sviluppo caratteristico di movimenti regionalistici o di movimenti legati al risveglio delle diverse nazionalita', movimenti tipicamente politici spesso anche ambigui ma che costituiscono nondimeno importanti elementi di crisi. Cio' che caratterizza la fase attuale non e' affatto l'emergenza di un super-Stato al di sopra delle nazioni o la crisi dello Stato nazionale. Lo Stato autoritario non e' l'appendice locale di un super-Stato (americano, Cee) o di un super-apparato di Stato transnazionale (Cia, Nato, ecc.), ma corrisponde a un'effettiva rottura dell'unita' nazionale al suo interno, a un risveglio delle minoranze etniche e nazionali parallelo alla crescita delle lotte popolari.
4. A cio' si aggiunge il ruolo attuale dello Stato di fronte alla crisi economica in senso stretto. Il problema nuovo e' il seguente: nella misura in cui lo Stato interviene massicciamente nella riproduzione del capitale, nella misura in cui le crisi economiche sono anche, sotto un certo aspetto, dei fattori organici e necessari di questa riproduzione, lo Stato e' riuscito probabilmente a limitare l'aspetto selvaggio delle crisi economiche (come quella del 1930 per esempio), addossandosi in definitiva le funzioni assolte prima, per un periodo relativamente breve, proprio da queste crisi selvagge. Senza abusare del paradosso: e' come se, piu' che con uno Stato che riesce a controllare gli effetti della crisi economica, si avesse a che fare con uno Stato che promuove per conto proprio crisi economiche striscianti di cui non controlla gli effetti. Ne sono un effetto lampante la disoccupazione e l'inflazione attuali, direttamente orchestrate dallo Stato, sebbene non si debba vedere in questo solamente e neppure principalmente una strategia cosciente della borghesia, bensi' il risultato obiettivo del ruolo dello Stato. Cio' distingue nettamente lo Stato attuale dagli Stati precedenti, che si accontentavano di riparare, piu' o meno felicemente, i danni sociali delle crisi economiche selvagge. Il che comporta necessariamente una politicizzazione considerevole (contro la politica dello Stato) della lotta delle masse popolari.
Questa fase dunque e' caratterizzata sia da talune modificazioni strutturali dei rapporti di classe, sia dall'acuirsi degli elementi generici di crisi politica: e cio', a livelli ineguali, nell'insieme dei paesi capitalistici dominanti. Le contraddizioni si condensano, in certi paesi europei, in effettive crisi politiche. Questi paesi � Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo � presentano i tratti caratteristici di una crisi politica che si manifesta come crisi dello Stato. Lo statalismo autoritario deriva tanto da una trascrizione di questi cambiamenti nella struttura dello Stato quanto dai tentativi, da parte dello Stato, di adattarsi a tali cambiamenti, di tutelarsi rispetto agli elementi generici di crisi, di rispondere insomma alla crisi politica e alla sua propria crisi.
IV. Non potro' intraprendere nelle pagine che seguiranno un esame esauriente dello Stato attuale e delle trasformazioni della democrazia politica. Questo esame dovrebbe costituire l'oggetto di un lavoro particolare. Soprattutto non sviluppero' una questione essenziale, pure nota ma sulla quale non si insiste mai abbastanza: i rapporti tra la democrazia politica e la democrazia economico-sociale in senso lato. Oltre alle limitazioni e alle trasformazioni delle istituzioni della democrazia politica, cio' che caratterizza le societa' attuali, lo ripeto, e' la distanza crescente tra democrazia politica e democrazia sociale. Lo sviluppo del capitalismo, soprattutto nella sua fase attuale, invece di eliminare le ineguaglianze, le ha semplicemente riprodotte in forme nuove e le ha addirittura rafforzate. Le nuove forme di divisione e d'organizzazione sociali del lavoro nelle fabbriche, negli uffici, nelle grandi aree commerciali non hanno fatto che consolidare e sviluppare, a dispetto di tutti gli sproloqui sulle tecnostrutture, la disciplina e il dispotismo, le regole d'organizzazione quasi militare, la gerarchia, la centralizzazione delle decisioni e delle sanzioni. Inoltre: lo sviluppo del capitalismo non ha fatto che allargare le zone e i settori dei "nuovi poveri", definiti certo non in base ai criteri economico-sociali e culturali delle epoche passate, ne' a quello del depauperamento assoluto, ma in base alle realta' sociali attuali. Nuova poverta' gia' studiata da Harrington negli Stati Uniti e Townsed in Gran Bretagna e che riguarderebbe in Francia "la meta' delle persone che hanno superato i 65 anni (2.600.000), la meta' degli operai specializzati (1.300.000), la maggior parte dei manovali (1.100.000), i due terzi del personale di servizio (800.000), un quarto dei commercianti e artigiani (800.000), la maggior parte dei salariati agricoli (600.000)" situati oltre il limite della miseria {Le cifre sono quelle di L. Stole'ru, riprese da M. Maschino, Sauxe qui peut: de'mocratie a' la fran�aise, 1977}. Per non parlare delle categorie sociali marginalizzate, dei veri e propri "esclusi": i lavoratori immigrati, i disoccupati, le donne, una gran parte dei vecchi e dei giovani. In breve, si tratta di vaste fasce di popolazione le cui reali condizioni di vita, economiche, sociali, culturali, non solo le allontanano progressivamente dagli stereotipi giuridico-politici dell'eguaglianza, ma rendono sempre piu' aleatoria la loro partecipazione alle istituzioni della democrazia politica.
D'altro canto, sono note anche le altre facce del funzionamento delle istituzioni repubblicane. Un esempio tra mille: le risorse finanziarie dei partiti di maggioranza.
Non mi occupero' direttamente di queste questioni ma delle trasformazioni specifiche che investono, nello statalismo autoritario, la democrazia politica sul piano dei meccanismi statali. A questo proposito mi soffermero' essenzialmente su un solo esempio: le modificazioni nel ruolo della burocrazia-amministrazione statale e nel funzionamento attuale del sistema dei partiti politici. Certo il declino attuale della democrazia e le restrizioni delle liberta' investono sfere sempre piu' vaste. Si manifestano in forme diverse e contrassegnano piu' o meno l'insieme dei dispositivi del potere: vari autori si sono occupati della questione e rimando percio' alle loro analisi {Anche in questo caso la bibliografia e' immensa, e concerne la restrizione delle liberta' in tutte le sfere della vita pubblica. Da un punto di vista generale, si vedano in Francia, tra gli altri, i lavori recenti di R. Errera, M. Duverger, J.-P. Cot, Cl. Julien, J.-D. Bredin, P. Juquin, G. Burdeau, J.-P. Cheve'nement, L. Hamon, M. Maschino, P. Viansson-Ponte', quelli del sindacato della magistratura, ecc.}. Ma quello che ho scelto non e' un esempio a caso: tutta la storia dimostra che le forme d'esistenza e di funzionamento della democrazia rappresentativa in quanto sistema pluralistico reale dei partiti politici di fronte all'amministrazione-burocrazia statale sono, sul piano delle istituzioni dello Stato, in stretta correlazione con il funzionamento delle liberta' politiche. Il funzionamento di questo sistema condiziona quello delle liberta' in tutte le sfere della cosiddetta democrazia politica. La via democratica al socialismo, e il socialismo democratico escludono, lo si e' ripetuto tante volte, il partito unico ma anche la confusione tra partiti e amministrazione statale. Questa proposizione va intesa in senso forte: non come un elemento tra tanti altri di questa via, bensi' come una condizione, certo non sufficiente, ma assolutamente necessaria. Se questa condizione non viene rispettata e realizzata, non c'e' democrazia diretta e di base che possa impedire il totalitarismo, ne' freno che possa bloccare lo statalismo.

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