9.5.04

Relazione di Michael Warshawski

(Casa dello Studente, Roma 26 febbraio 2002)

Vengo da Porto Alegre, che e' stato uno dei momenti forti di espressione di
questo movimento sociale di solidarieta' internazionalista. Ma sono rimasto
sorpreso, devo dirlo, dalla relativa marginalita' della questione della
guerra nei dibattiti generali, soprattutto nei dibattiti centrali che si
sono svolti a Porto Alegre.
So che non e' all'Italia che devo fare questo rimprovero, dove ci sono state
immense mobilitazioni di massa contro la guerra, realizzate prima e dopo l'
11 settembre. Ma credo che ci sia nel movimento internazionale contro la
mondializzazione capitalista e neoliberista una sottovalutazione del quadro
politico in cui si compie questa mondializzazione. Al centro della
riflessione prevale l'elemento economico e sociale della globalizzazione,
piu' che le sue dinamiche politiche.
La globalizzazione non e' soltanto un'economia neoliberista mondializzata: e
' anche un meccanismo per imporre ai popoli del mondo questo sistema
economico, si tratti del Plan Colombia, delle Filippine o della Palestina.
Cio' si puo' esprimere con la guerra, ma anche con la pace e anche con il
linguaggio. Un linguaggio pieno di trabocchetti per tutti noi, soprattutto
attraverso i mass media, come l'utilizzazione del concetto di violenza, che
diventa un concetto astratto e generalizzato in cui tutto si confonde.
Centinaia e migliaia di organizzazioni in tutto il mondo si specializzano a
livello di ricerca e messa in opera del concetto di conflitto, di
prevenzione dei conflitti e di risoluzione dei conflitti. Cosi' il mondo e'
paragonabile a dei bambini che litigano tra di loro e il problema e' di
"educare" alcune persone di buona volonta' per farli riconciliare, dando una
sberla a destra e una a sinistra. In questo modo il concetto di pace diventa
la giustificazione del meglio o del peggio per far la guerra o la pace.
Hanno imposto la guerra in nome della pace, hanno fatto massacri in nome
della pace. In Israele hanno inventato il concetto di "tortura per la pace".
Cioe' torturare dei militanti perche' e' l'unico modo per fermare il
conflitto, per fermare la violenza, per arrivare alla pace!
Il Medio Oriente, in questo senso, e' un laboratorio direi quasi banale dell
'uso combinato della pace e della guerra per imporre il nuovo ordine
mondiale. Questa strategia politica inizia con una guerra, e' seguita da un
processo di pace e oggi sfocia in un'offensiva di violenza senza precedenti
finalizzata a mettere il popolo palestinese in ginocchio. Lo stesso
imperialismo statunitense (e dei suoi alleati, siano essi gli europei o gli
israeliani) ha attraversato tre fasi.
La prima fase e' la guerra del Golfo del 1991, che aveva come obiettivo sia
quello di mettere in riga chi sembrava volesse ignorarla non accettando l'
egemonia statunitense, almeno nelle forme impose da Washington, sia quello
unificare lte insieme del mondo arabo sotto l'egemonia degli Stati Uniti
dopo la caduta dell'Unione Sovietica. Occorreva un Medio Oriente pacificato,
o almeno apparentemente tale, dalla guerra internazionale contro l'Iraq.
Oggi si tratta di risolvere la guerra in Palestina, guerra di "bassa
intensita'", come la chiamano gli strateghi statunitensi, che resta un
focolaio di destabilizzazione in quel nuovo Medio Oriente realizzato da Bush
sr.
La "pacificazione", antitesi del diritto
Vorrei sottolineare quattro aspetti che caratterizzano il processo di pace,
o il processo di Oslo. Prima di tutto, si tratterebbe di un progetto di
pacificazione della questione palestinese: almeno, e' questa la definizione
che hanno dato coloro che, nel quadro degli attuali rapporti di forza,
tentano di imporre la concezione stessa del processo di pace.
Per definizione, ed e' il secondo aspetto, pacificazione e' l'antitesi del
concetto di diritto. Il diritto e' stato espunto dal processo (data la
volonta' di ignorare le risoluzioni dell'Onu), ed e' stato sostituito da un
mercanteggiamento, in cui i rapporti di forza stabiliscono chi e' "realista"
e chi no.
Il terzo elemento caratteristico di questo processo e' dato dal fatto che
esso si basa esclusivamente sui rapporti di forza esistenti. Un negoziato
basato esclusivamente su rapporti di forza squilibrati si chiama diktat! E,
come si e' visto in questi anni, consiste nel tentativo del governo
israeliano, sostenuto completamente dagli Stati Uniti, di imporre ai
palestinesi le condizioni di un accordo per la pacificazione della questione
palestinese.
L'ultimo elemento derivato dal processo di pace che vorrei sottolineare e'
la delegittimazione della lotta palestinese e del conflitto stesso: il solo
fatto di negoziare, il solo fatto di sedersi e partecipare a un processo di
pace ha delegittimato ogni tentativo di mettere in discussione il processo
di pace stesso.
Si vede bene, dunque, che si tratta di un diktat imposto a una delle due
parti; infatti, con i rapporti di forza dati, che sono gli unici possibili -
come dicono gli intermediari statunitensi - ogni tentativo di mettere in
discussione i diktat diventa inaccettabile, un atto di terrorismo.
Le ragioni del fallimento degli accordi di Oslo
Il fallimento del processo di Oslo e il fiasco del summit di Camp David dell
'estate 2000 hanno dimostrato che le forze della resistenza sono piu' forti
di coloro che tentano localmente e internazionalmente di imporre ai
palestinesi il diktat.
Ehud Barak e Bill Clinton erano convinti di riuscire a imporre ai
palestinesi il piano israeliano, e la loro sorpresa a Camp David era
sincera. Non si aspettavano che un popolo, il rappresentante di un popolo
cosi' debole, isolato, sotto la continua pressione internazionale e degli
stessi regimi arabi, avesse il coraggio di dire: "questo piano e'
inaccettabile". E questo spiega la sorpresa di Barak e di Clinton: una
sorpresa tipicamente coloniale, quella di chi e' convinto di potere imporre
alla popolazione indigena la propria concezione di "ordine" e "normalita'".
Questa sorpresa spiega anche l'odio di carattere coloniale: "come osa,
questo popolo miserabile, che non ha Stato, ne' esercito, ne' potenza econom
ica, una popolazione di rifugiati, mettere in discussione il nuovo ordine
cosi' come lo si sta imponendo e lo si intende costruire in Medio Oriente?".
Questo spiega la violenza della reazione israeliana. E' la violenza della
sorpresa e dell'odio. Il mondo che immaginavano, il mondo che noi diciamo
che non e' l'unico mondo possibile, li rende incapaci di concepire che
qualcuno possa mettere in discussione il "nostro processo di pace".
In questo senso, c'e' una continuita' diretta tra la reazione di Europa e
Stati Uniti di fronte a Saddam Hussein e all'Iraq dieci anni fa e la
reazione odierna del governo israeliano, di nuovo sostenuto dagli Usa,
contro i palestinesi: "li rimettiamo in riga, gli insegniamo quali sono i
confini - stabiliti da noi - che non possono essere oltrepassati". Si tratti
di quelli che gli Stati Uniti definiscono "Stati canaglia", si tratti dell'
Iraq, della Libia, dell'Iran o della Corea del Nord; e la lista si potrebbe
allungare, a seconda delle occasioni (si potrebbe magari arrivare un giorno
a inserire anche l'Italia fra gli "Stati canaglia".). Chiunque metta in
discussione i limiti fissati dall'imperialismo statunitense ed accettati
pedissequamente dai suoi alleati e' da richiamare all'ordine, da "rieducare"
.
Bisognerebbe studiare da vicino le motivazioni che sono alla base di quella
che molti definisco "guerra" in Palestina. In questo caso io non parlo di
"guerra". Per poter definire un conflitto "guerra" c'e' bisogno di una
simmetria tra le due parti. In Palestina e' in atto una repressione
coloniale che, nei fatti, costituisce il modello gia' applicato purtroppo in
questi anni e che verra' applicato anche in altre parti del mondo: un
modello di repressione dei popoli e dei movimenti che rifiutano di accettare
i piani imperialisti, i piani coloniali che si realizzano nel mondo.
La vendetta di fronte alla sorpresa si trasforma in volonta' di annullare il
popolo palestinese, per pacificarlo e imporgli cio' che ha rifiutato a Camp
David.
In questo senso occorre comprendere che cio' che e' piu' terribile nella
repressione israeliana non sono gli "assassini mirati", non sono i
bombardamenti delle citta', bensi' il blocco delle citta' e dei territori, l
'accerchiamento delle citta' e dei villaggi palestinesi e lo stato d'assedio
cui l'intera popolazione palestinese e' sottoposta. Si tratta di una
repressione di massa, di terrorismo contro un popolo intero, non solo contro
i militanti della resistenza, contro i militari o gli uomini politici. Si
tratta di obbligare ogni donna, ogni uomo, ogni bambino di Palestina a
mettersi in ginocchio, fino alla resa incondizionata e all'accettazione del
diktat israeliano.
L'11 settembre ha messo la politica israeliana in sintonia con la politica
internazionale, o meglio ha sintonizzato la politica internazionale con
quella israeliana. Molti tra noi hanno voluto credere che dopo l'11
settembre gli Stati Uniti avrebbero fatto pressioni su Israele per frenarla,
come e' successo con la guerra del Golfo del 1991, quando Bush senior chiese
ad Israele di defilarsi per potere costruire la grande coalizione contro l'
Iraq. Oggi, a mio avviso, si sottovaluta la nuova strategia statunitense, o
comunque l'uso strumentale da parte statunitense degli attentati dell'11
settembre. Washington non negozia piu' con i potenziali alleati arabi e
neanche con l'Europa; Washington impone. Il diktat statunitense viene
passivamente accettato dall'Unione europea, anche se in parte le si ritorce
contro. Il dato e' che ad essere rimessi in riga oggi non sono solo i paesi
potenzialmente anti-statunitensi.
E' la quadratura del bene contro il male, della civilta' contro la barbarie.
Sono le tesi di Bush junior, sono le tesi che sostanziano il sionismo da
oltre cent'anni. E cio' spiega perche', oggi come mai negli ultimi vent'
anni, la politica degli Stati Uniti e quella israeliana vivano in armoniosa
simbiosi.
Occorre comprendere cio' che questo significa. All'epoca della prima
Intifada, il comandante in capo dell'esercito israeliano, rispondendo in un'
intervista televisiva alla domanda sul perche' l'esercito non avesse
schiacciato la rivolta nei Territori occupati, disse che Israele aveva i
mezzi materiali per farlo, ma c'erano due ostacoli politici.. Il primo era
la comunita' internazionale: se superiamo un certo livello di violenza,
rischiamo un intervento internazionale. Il secondo ostacolo era l'opinione
pubblica israeliana: se superiamo una certa soglia repressiva usando metodi
inaccettabili, rischiamo di dividere in due l'opinione pubblica israeliana,
compreso l'esercito.
Dieci anni fa questi due ostacoli erano in grado di frenare la violenza
israeliana. Cosa avviene, invece, oggi? Dopo l'11 settembre, il governo
israeliano Sharon-Peres non deve piu' preoccuparsi troppo della comunita'
internazionale, della sua volonta' di frenare la violenza contro i
palestinesi.
Per cio' che riguarda il movimento pacifista israeliano, fino a qualche mese
fa neanche questo era un elemento sostanziale di opposizione e di freno alla
politica del governo. Nella sua stragrande maggioranza, l'opinione pubblica
israeliana - compresi i pacifisti, i liberali non estremisti - ha creduto
alle mistificazioni di Barak dopo il fiasco di Camp David. Barak, in
sostanza, sosteneva di avere fatto tutto il possibile, accettato tutti i
compromessi immaginabili, di avere concesso quasi tutto: eppure, i
palestinesi avevano rifiutato, il che dimostra che essi volevano in realta'
arrivare alla pace con Israele. Barak non ha mai detto: "noi non ci siamo
messi d'accordo"; non ha mai detto: "il loro massimo e il nostro minimo non
coincidono"; non ha mai detto: "non abbiamo trovato una formula in grado di
portarci all'accordo".. Egli ha detto, facendo breccia nell'opinione
pubblica israeliana e internazionale: "ho fatto tutti i compromessi
possibili e sono andato anche oltre, e ho dimostrato che sono i palestinesi
a non volere la pace. E se e' dimostrato che i palestinesi non vogliono la
pace, e' chiaro che vogliono la guerra; se vogliono la guerra, dobbiamo
difenderci, e se dobbiamo difenderci nella prospettiva dell'eterna rimessa
in discussione dell'esistenza del popolo ebraico da altre nazioni, non
abbiamo altra scelta che quella della guerra preventiva". Questo ha
distrutto il movimento pacifista in Israele.
Nella loro stragrande maggioranza i pacifisti israeliani, coloro che in
centinaia di migliaia si sono mobilitati durante la guerra in Libano del
1982 e durante la prima Intifada del 1987, hanno sostenuto prima il governo
Barak e poi quello Sharon-Peres. Dopo un anno e mezzo, sembra esserci un
primo risveglio , assistiamo all'apertura di alcune crepe. Lo dico con
ottimismo, ma anche con molta cautela, perche' non bisogna sottovalutare la
portata della sconfitta, la profondita' della disfatta del pacifismo
israeliano.
Un nuovo movimento di rifiuto della guerra
C'e' oggi, ne avrete sentito parlare, un movimento che si riaffaccia nell'
esercito. Un movimento di soldati e ufficiali riservisti che rifiutano di
servire nei Territori occupati; e' un movimento nuovo e che si sovrappone al
vecchio movimento Yesh Gvul, quello di coloro che - in genere piu' di
sinistra - rifiutavano gia' il servizio militare a Gaza e in Cisgiordania.
Le mobilitazioni realizzate in Israele soprattutto dalle Donne in Nero, nel
quadro della coalizioni delle donne per la pace, che inizialmente
mobilitavano solo poche decine di persone, oggi sono in grado di mobilitarne
piu' di un migliaio. Anche nella stessa classe politica si sentono alcune
voci dissonanti, nel generale appiattimento consensuale di questi mesi sulle
posizioni del governo. Anche l'ex capo dei servizi di sicurezza israeliani,
l'ammiraglio Amil Ayalon, ha denunciato "il sistema nazista d'apartheid" nei
Territori occupati, e ha detto di comprendere quei soldati che si rifiutano
di andare nei Territori occupati. Il presidente del parlamento israeliano ha
denunciato, per la prima volta dopo un anno e mezzo, l'occupazione come il
cuore del problema, e non il rifiuto palestinese di riconoscere Israele.
Ci sono quindi dei segnali che, nel consenso dominante dopo il fallimento di
Camp David, le voci dissonanti - anche se ancora ultraminoritarie - e il
risveglio del movimento contro la guerra sono reali, pur se ancora
estremamente modesti rispetto alle necessita'.. Ci sono due condizioni da
realizzare - che ancora non si intravedono - per trasformare questo
movimento (che non e' piu' marginale, ma e' ancora molto minoritario) in un
vasto movimento d'opposizione. Si tratta di due elementi, uno dei quali
interno ad Israele e l'altro esterno. Il primo e' che il governo di unita'
nazionale (perche' abbiamo ancora un governo di unita' nazionale) cada e la
destra si trovi sola, senza l'appoggio dei laburisti e di Peres che siede
nel governo. Non ci sono mai stati movimenti di massa contro la guerra e per
la pace con i laburisti al governo. Cio' mostra la responsabilita' enorme
che ha sulle spalle Shimon Peres rispetto ai crimini di guerra e alla
strategia del terrore portata avanti nei Territori occupati. La seconda
condizione e' che ci sia una forte pressione internazionale. Cio' che ha
favorito la nascita di movimenti contro la guerra in Israele, sia durante la
guerra in Libano sia durante la prima Intifada, e' stata la pressione da
parte dei movimenti internazionali organizzati contro la politica
israeliana, che in questo modo veniva isolata a livello internazionale.
A questo livello che si colloca la vostra responsabilita'. Si tratta di
"smuovere" la politica internazionale. In primo luogo, per un motivo
puramente e semplicemente morale: non c'e' alcuna assistenza a un popolo che
viene massacrato, c'e' un'omissione di soccorso. Ma qui non voglio entrare
nel dibattito umanitario. C'e' una richiesta forte che viene dai palestinesi
per una forza di interposizione. Ed e' ridicolo che i governi europei
cerchino l'accordo dell'aggressore per mandare delle truppe a difendere gli
aggrediti. E' urgente che si facciano pressioni forti ed efficaci da parte
della societa' civile, in particolare europea. Perche' l'Europa ha, tra l'
altro, posizioni diverse da quelle degli Stati Uniti riguardo al Medio
Oriente, posizioni che rischiano di scontrarsi. Occorre quindi spingere
perche' si passi dalla teoria alla pratica.
Sono due le occasioni concrete che avete d fronte. Una e' la grande
manifestazione, io spero grandissima, che si sta preparando per il 9 marzo
in Italia. Spero che effettivamente ci sia un movimento che richiami alle
proprie responsabilita' i vostri parlamentari e, per loro tramite, il
parlamento europeo. La seconda occasione e' l'invio di una massiccia
missione civile per la protezione del popolo palestinese alla fine del mese,
con la quale noi speriamo di ripetere, migliorandola e rafforzandola, la
mobilitazione di Natale e Capodanno scorsi, in cui centinaia di volontari e
militanti europei e statunitensi sono venuti sul terreno per esprimere
solidarieta' ai palestinesi, ma anche per confrontarsi pacificamente con l'
occupazione, lo stato d'assedio e il blocco.
Sono tre gli effetti di queste azioni di protezione della popolazione
civile, e sono importanti. Innanzitutto, la solidarieta', che i palestinesi
hanno bisogno di vedere e sentire a casa propria. Poi, una pressione reale -
anche se limitata - sulle forze di occupazione e sull'opinione pubblica
israeliana; queste azioni sono riprese dalle televisioni, veniamo visti
mentre compiamo i nostri crimini, e sono rari gli oppressori che sono
contenti di mostrarli. Ma il terzo effetto, che e' il piu' importante, e' il
ritorno dei militanti nei rispettivi paesi per testimoniare, per cambiare la
propria opinione pubblica e rafforzare le pressioni sui parlamenti; e questo
e' cio' che i palestinesi e i loro amici israeliani si aspettano piu' di
ogni altra cosa da voi e dalle missioni civili che vengono in Palestina.
Sharon mette in discussione la sopravvivenza della comunita' ebraica in
Palestina.
Finisco su uno degli argomenti piu' usati dal governo israeliano e da certi
dirigenti delle comunita' ebraiche (da dirigenti delle comunita' ebraiche)
in Europa, che ricattano i movimenti di solidarieta' con i palestinesi. Cio'
che oggi e' in gioco in Palestina non e' il futuro del popolo palestinese.
Il popolo palestinese e' radicato nella sua terra , nonostante i metodi
terribili usati dall'esercito israeliano, resiste e resistera', non ho ombra
di dubbio su questo. Cio' che rischia di essere messo in discussione grazie
alla politica criminale del governo israeliano e' la sopravvivenza stessa di
una comunita' ebraica in Medio Oriente. E qui e' chiara l'irresponsabilita'
non solo dei dirigenti politici israeliani, ma anche di coloro che in Europa
si definiscono "amici" del popolo israeliano.
Chi ha veramente a cuore l'avvenire della comunita' ebraica in Medio
Oriente, il futuro della comunita' israeliana, deve capire che l'ultima
chance che ha la nostra comunita' di vivere in coesistenza e in pace nel
mondo arabo e musulmano che la circonda e' mettersi al primo posto nelle
mobilitazioni, anche in Europa, contro la politica di guerra del governo
israeliano, che ci sta portando alla catastrofe e al suicidio.
La politica dell'impunita' che chiedono Israele e i suoi sedicenti amici ci
sta spingendo nel baratro e sta mettendo in discussione la sopravvivenza
stessa dei nostri figli in Medio Oriente!

Roma 26 febbraio 2002

Michael Warschawski, presidente dell'Alternative Information Center di
Gerusalemme, e' stato uno dei primi israeliani a rifiutare ripetutamente di
prestare servizio militare fuori dai confini, durante la guerra del Libano
del 1982, ed e' stato per questo piu' volte incarcerato.

This page is powered by Blogger. Isn't yours?

Locations of visitors to this page