20.8.07

Erano anarchici e dovevano morire

In ricordo di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti

di Massimo Cavallini
(tratto da Liberazione della Domenica, 19/08/2007)

«Solo in una stanza d'albergo con Fred, lo implorai di dirmi tutta la verità…e quello che ascoltai mi gettò in uno stato di panico…mi disse che i due erano colpevoli e mi raccontò, in ogni dettaglio, come lui stesso avesse forgiato dal nulla i loro alibi…».
Sono passati ottant'anni dal giorno in cui Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti morirono sulla sedia elettrica nel carcere di Dedham, in Massachusetts. E trenta da quando, il 23 agosto del 1977, l'allora governatore dello Stato, Michael Dukakis, ufficialmente proclamò - in quello che venne considerato un atto di pubblico pentimento - il "Sacco and Vanzetti Memorial Day". Ma forse vale la pena di celebrare questo anniversario partendo proprio dal polo opposto. Ovvero: dall'ultimo dei tentativi di riaprire (o di chiudere per sempre) un caso divenuto, in America e nel mondo, simbolo d'una tragedia nella quale - citiamo dal "proclama" di Dukakis - «le forze dell'intolleranza, della paura e dell'odio» si «sono unite per sovrastare la razionalità, la saggezza e l'imparzialità alle quali deve aspirare ogni sistema giuridico». Le frasi citate all'inizio provengono, infatti, da una lettera che, poco prima della salita al patibolo dei due condannati, lo scrittore Upton Sinclair apparentemente inviò al suo legale, John Beardsley, narrando del colloquio da lui avuto, in un hotel di Detroit, con Fred H. Moore, l'eccentrico avvocato californiano che, fino alla prima sentenza di condanna, nel luglio del 1921, aveva difeso Nicola Sacco.
Sinclair non è, ovviamente, un qualunque scrittore. Non lo è in assoluto, avendo marcato con il suo The Jungle - straordinario j'accuse contro l'industria della carne di Chicago - la storia della letteratura americana. E non lo è, in particolare, nella vicenda di Sacco e Vanzetti, avendo egli proprio al caso dei due anarchici dedicato uno dei suoi libri più famosi - Boston , pubblicato nel 1928 - ancor oggi considerato, nonostante si tratti formalmente d'un romanzo, una delle più complete e brillanti ricostruzioni degli eventi che, iniziati il 15 aprile del 1920, con la rapina di South Braintree, culminarono, sette anni, tre mesi ed otto giorni più tardi, con la duplice esecuzione nel carcere di Dedham. Casualmente riesumata, alla fine del 2005, da un intonso pacco di vecchie carte, quella missiva diceva, o meglio, sembrava dire, due cose inequivocabili e, a loro modo, definitive. La prima: che lo stesso avvocato che, con tanta passione, aveva sostenuto in aula l'innocenza dei due accusati, era, non solo pienamente convinto della loro colpevolezza, ma aveva egli stesso provveduto a fabbricare gli alibi esibiti di fronte alla corte. La seconda: che lo stesso Upton Sinclair, uno dei più celebri sostenitori della causa di Sacco e Vanzetti, aveva, per ragioni d'opportunità politica, deliberatamente taciuto questa verità nello stilare il suo romanzo-inchiesta. Ed in questi termini la "scoperta" era stata prevedibilmente ripresa, agli inizi dello scorso anno, da un buon numero di commentatori di tendenza conservatrice. Piuttosto ovvia la natura "revisionista" della campagna. Sacco e Vanzetti, da ottant'anni additati, a sinistra, come vittime d'una palese ingiustizia, erano in realtà colpevoli al di là del proverbiale "ragionevole dubbio". E, nel proclamare la loro innocenza, i loro più vocianti ed illustri difensori erano stati - dall'inizio alla fine, ovvero, da Sinclair, a Dukakis, all'America "liberal" o "socialisteggiante" d'ogni tempo - in perfetta e dimostrabile malafede. Dunque: caso chiuso, per la pace d'ogni coscienza. E che Dio, una volta di più, benedica l'America.
Caso chiuso? Di questo documentato ed apparentemente definitivo contrattacco non resta in realtà, ad appena un anno di distanza, che qualche sbiadito ricordo. Perché? Per quale ragione quest'ennesimo tentativo di cancellare dalla memoria collettiva la simbologia del "caso Sacco e Vanzetti" è - nonostante l'evidenza della "confessione" di Sinclair - tanto rapidamente evaporato? Per molte ragioni, alcune contingenti - vale a dire, legate alla natura del documento riesumato - altre di ordine generale, inerenti la vera storia del processo, il suo vero ed ineludibile contesto politico-sociale. Ragioni - le prime e, soprattutto, le seconde, immutate nel tempo - che, a loro modo, offrono un'ideale piattaforma per la celebrazione di un ottantesimo anniversario che ritrova, intatti, tutti i motivi dello sdegno che, il 23 d'agosto del 1927, accompagnarono l'esecuzione di "Nic and Bart".
Inizialmente citata solo a brani, la lettera di Upton Sinclair - la cui autenticità, peraltro, non è mai stata completamente dimostrata - presentava, infatti, nella sua completezza, un quadro ben più articolato di quel che era a prima vista apparso. Poiché, se vero era che Moore aveva apertamente dichiarato la sua convinzione della colpevolezza dei suoi assistiti - con questo "gettando nel panico" il suo interlocutore - vero era anche che questa rivelazione non era il prodotto d'una loro confessione (né Sacco né Vanzetti avevano mai ammesso, di fronte a Moore, la propria colpevolezza). E vero, soprattutto, era anche che lo stesso Sinclair aveva con molta meticolosità cercato, nelle settimane successive al colloquio, riscontri alle affermazioni di Moore, non trovandone alcuno. Nessuna delle persone vicine all'avvocato californiano, inclusa la moglie, avevano mai avuto il minimo sentore delle convinzioni di Fred nei giorni in cui egli stava "fabbricando alibi". Ed era stato per questo che lo stesso scrittore, pur comprensibilmente pieno di dubbi, era, infine, giunto alla conclusione - come spiegava a Beardsley - che, quelle di Fred Moore, fossero con ogni probabilità le parole d'una persona risentita (il suo "divorzio" da Sacco, nell'estate del 1921, non era stato propriamente consensuale) ed umanamente molto marcata dall'esperienza del processo (Moore, scrive Sinclair, era da molti anni schiavo della cocaina).
Del resto, chiunque si prenda oggi la briga di andarsi a rileggere Boston , può facilmente constatare come il libro lasci, in realtà, irrisolto il problema della colpevolezza o dell'innocenza degli imputati, sottolineando soprattutto gli orrori del sistema giuridico - e del clima politico - che avevano preventivamente condannato, per le loro origini etniche e per le loro idee, non per i crimini a loro imputati, i due uomini seduti alla sbarra.
Questa era - e questa resta, ottant'anni dopo - la vera essenza del caso "Sacco e Vanzetti". Moltissime, in questo lungo lasso di tempo, sono state le ricostruzioni del processo e del crimine che ne era alla base. E molte - una significativa maggioranza - sono quelle approdate ad una convinzione di assoluta innocenza; altre sono rimaste nel dubbio ed alcune sono, al contrario, giunte alla conclusione che almeno uno dei due imputati - Nicola Sacco - avesse in effetti preso parte alla rapina. Tutte, in ogni caso, appaiono (e non potrebbe essere altrimenti) concordi su un punto: quello che cominciò il 5 maggio del 1920, con il casuale arresto di Sacco e Vanzetti, e che si chiuse il 23 agosto del 1927, con la scarica elettrica che, nel nome dello Stato, li uccise entrambi, non fu in alcun modo - da qualunque parte lo si voglia osservare - un processo giusto. Fu, piuttosto, il più eclatante, sinistro e permanente riflesso di quella che passò agli archivi come The First Red Scare , la prima grande "paura rossa". "Nic and Bart" vennero giudicati, non come due persone sospettate di omicidio e rapina, ma come stranieri e anarchici. O meglio, come i portatori di quella che una consistente parte d'America considerava un'epidemia mortale, una duplice infezione che veniva dal profondo di un'Europa scossa dalla rivoluzione bolscevica e pronta ad "esportarla". Ovvero: come dagoes - termine dispregiativo usato per definire gli emigranti di origine mediterranea - e come anarchistic bastards . Poiché proprio queste furono le parole che il giudice Webster Thayer - l'uomo che doveva garantire la "imparzialità" del processo - ebbe più volte ad usare nei loro confronti nel privato del suo country club.
Spolpata dai quattro decenni di feroci polemiche, e di prove e controprove balistiche (relative soprattutto alla famosa "pallottola numero tre", secondo l'accusa sparata dalla pistola trovata in possesso di Nicola Sacco, ma mai approdate a risultati definitivi) la storia di Sacco e Vanzetti, resta di una disarmante semplicità. Alle 3 del pomeriggio del 15 aprile 1920, lungo la via principale di South Braintree, un centro della cintura industriale di Boston, due portavalori della Slater & Morril, una delle molte fabbriche di scarpe della zona (in una delle quali lavorava il calzolaio Nicola Sacco), erano stati assaltati ed assassinati a sangue freddo da una banda probabilmente formata da almeno cinque persone. Consistente (almeno per quei tempi) il bottino: quasi 16mila dollari. Le indagini del capo della polizia di Boston, Michael Stewart, si erano subito concentrate sui "circoli anarchici italiani". Ed era stato nel corso delle indagini relative ad un'auto che si supponeva usata nel corso della rapina (ma poi risultata del tutto estranea ai fatti) che, il 5 maggio successivo, Sacco e Vanzetti erano stati arrestati. Entrambi erano armati. Ed entrambi avevano mentito allorché erano stati interrogati sulla finalità delle due pistole che portavano con sé, e sui loro rapporti con i proprietari dell'auto indagata. La storia del loro processo comincia qui.
E qui, in buona misura, finisce. Perché proprio questa - quella che gli accusatori definirono allora consciousness of guilt , l'atteggiamento di chi mente perché colpevole - restò la vera "prova regina" contro i due imputati. L'unica prova, in effetti. Nessuna delle testimonianze oculari risultò decisiva. Molte, anzi, finirono per rivelarsi estorte o manipolate dalle autorità inquirenti (e, in particolare dal District Attorney, Frederick Katzmann). E, in ogni caso, tutte vennero più che controbilanciate - in un processo evidentemente privo, tuttavia, d'ogni equilibrio - da testimonianze che confermavano gli alibi degli imputati. Le prove materiali (soprattutto quelle relative alle armi del delitto) non pervennero che a molto controverse conclusioni (ancor oggi oggetto di accesi dibattiti). Nessun rapporto - di nessun tipo - venne mai stabilito dall'accusa tra i due presunti colpevoli, il bottino di 16mila dollari ed i complici d'una rapina compiuta, per l'appunto, da una banda di almeno cinque elementi. Contro il calzolaio Nicola Sacco - definito un lavoratore di «esemplare onestà ed affidabilità» dal proprietario della fabbrica nella quale lavorava - e contro il pescivendolo Bartolomeo Vanzetti (che al momento del delitto stava, a detta d'una soverchiante quantità di testimoni, vendendo pesce) giocarono soprattutto le bugie pronunciate al momento dell'arresto. Bugie che erano, per molti aspetti, nell'ordine delle cose. "Nic and Bart" non erano, infatti, due stinchi di santo. Erano (per quanto completamente incensurati) parte di un'organizzazione anarchica - quella di Luigi Galleani - che propugnava l'azione violenta. L'ordine di scuderia era, per i "galleanisti", in caso d'arresto, quello di negare, negare, negare. Per tutta la sinistra, del resto, erano quelli giorni di più che legittima paura. Le retate "antisovversivi" erano all'ordine del giorno, E poche settimane prima, a New York, un anarchico in stato di fermo, Andrea Salcedo, era misteriosamente volato dalla finestra della stazione di polizia...
A scrivere la vera storia del processo - o, se si preferisce, la parte del processo che davvero ha resistito, per la sua intima durezza, alla prova del tempo - non furono in effetti le prove (inconsistenti o, nel migliore dei casi, non conclusive) presentate dagli accusatori, ma le loro parole. Quelle che Frederick Katzmann usò, nel corso del processo, per rinfacciare ferocemente a Sacco - che a malapena parlava inglese - la natura sovversiva, «antiamericana» delle sue idee, ed a Vanzetti la fuga «antipatriottica» in Messico per evitare la leva e, con essa, una guerra che, da anarchico, aborriva. Quelle con cui, prima dell'ultima camera di consiglio, il giudice Thayer senza ritegno invitò i giurati ad essere, come «i soldati che partirono per il fronte», all'altezza del «dovere patrio» che imponeva loro di «combattere i nemici della nazione». Cosa che i giurati puntualmente ed eroicamente fecero nelle tre ore che separano il breakfast dal pranzo, sancendo con straordinario ardimento e velocità la colpevolezza dei due imputati. Quelle con le quali Lawrence Lowell, presidente dell'Università di Harvard, chiamato dal governatore del Massachusetts, Alvan Fuller, a dirigere la "commissione di saggi" che - tutta composta da "veri" americani - doveva stabilire se salvare o meno dalla forca i due imputati, con quasi sublime ipocrisia definì `nel complesso corretto» un iter processuale che aveva visto il summenzionato Webster Thayer decidere tutto: la sentenza di condanna, la legittimità dell'Appello, la credibilità della confessione con la quale un gangster portoghese, Celestino Madeiros, aveva a tre anni dalla condanna, attribuito a se stesso ed alla banda di Joe Morelli (sosia perfetto di Nicola Sacco) la rapina di South Braintree; e, persino, alla faccia dei checks and balances che sono l'anima della democrazia americana, l'ammissibilità della "legittima suspicione" sollevata nei suoi confronti per i pregiudizi da lui a più riprese testimoniati contro gli imputati. O, ancora, quelle che, con la forza di un macabro epitaffio, l'Attorney General Mitchell Palmer, grande regista del Red Scare , pronunciò quando i corpi di Sacco e Vanzetti avevano ormai cessato di friggere sulla sedia elettrica. «Appartenevano ad una banda di cospiratori che attaccavano cittadini con bombe e dinamite. Erano senza Dio che volevano il socialismo». Insomma: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano due anarchici e dovevano morire. La vera, perdurante ragione del loro processo, della loro condanna e della loro morte è tutta qui.
Ad eseguire la sentenza, poco prima dell'alba del 23 agosto, fu Robert G. Eliot, lo stesso che, solo qualche anno più tardi, in un nuovo lampo di celebrità, avrebbe tolto la vita a Bruno Richard Hauptman, accusato (ingiustamente secondo alcuni) del rapimento e dell'omicidio di "baby Lindbergh". Fu, il suo, l'impeccabile lavoro d'un vero professionista del patibolo. Ma, quel giorno, ad abbassare la leva furono in effetti - come avrebbe più tardi sancito il proclama di Michael Dukakis - molte mani. Le molte mani dell'intolleranza, della paura e dell'odio che, allora, muoveva un intero pezzo d'America. E che ancora lo muove. Dopo 80 anni, in quest'America, Nic and Bart continuano a raccontare la loro storia con le parole dei loro carnefici. E continueranno a raccontarla per molti anni a venire.

15.8.07

Cia 1947: «piano San Marino» contro il Pci

Fondi segreti e un ponte aereo dovevano influenzare il voto

di Ennio Caretto
(tratto da Corriere della Sera, 11/08/2007)

L' ordine del presidente Harry Truman di «compiere operazioni psicologiche clandestine per neutralizzare le attività sovietiche» in Europa perviene alla Cia il 14 dicembre 1947. Ma di nascosto dalla Casa Bianca e dal Congresso, il nuovissimo servizio segreto americano, erede dello Oss della seconda guerra mondiale, ha già avviato la prima da tre mesi, dal giorno stesso della fondazione. Una operazione, scrive Tim Weiner nel suo libro «Legacy of ashes» (Un' eredità di ceneri) che servirà da modello alla Cia in tutto il mondo per i successivi 40 anni, una delle più riuscite della storia della intelligence statunitense. La Cia potrà vantarsi, osserva Weiner, di avere salvato dal comunismo e quindi dall' Urss, alle elezioni del 1948, non soltanto l' Italia ma anche il Vaticano, «i due templi della cultura e religione occidentali». Uscito nel sessantenario della Cia, «Legacy of ashes» è un' aspra denuncia della sua incompetenza e delle sue illegalità semisecolari, come sottolinea l' autore, un giornalista del New York Times e premio Pulitzer, citando tra i suoi fiaschi il tentativo d' assassinare Fidel Castro. Ma nei capitoli iniziali è anche un riluttante riconoscimento del successo dei finanziamenti occulti dei partiti anticomunisti in Italia nell' immediato dopoguerra, successo ripetuto poi in Francia, dove Guy Mollet e vari altri leader della Quarta repubblica francese, riferisce Weiner, riuscirono a contenere i comunisti. In Italia la Cia fece il massimo investimento della sua storia versando, in meno di 30 anni, oltre 65 milioni di dollari, somma allora enorme, ai suoi «fiduciari» italiani, politici, sindacalisti, generali e leader religiosi e culturali. Ideatore dell' operazione - sconfiggere il fronte del Pci e del Psi alle elezioni chiave del 1948 - fu James Angleton, il capo della Cia in Italia, un ex agente dell' Oss che in gioventù aveva studiato a Roma, e suo esecutore un neofita, Mark Wyatt, deceduto un anno fa. La Cia non disponeva di propri fondi, afferma Weiner, e i ministri della Difesa James Forrestal e del Tesoro John Snyder attinsero a uno dei 200 milioni di dollari destinati alla ricostruzione dell' Europa. Dallo Exchange stabilization fund i soldi venivano mandati a ricchi italo americani come Giannini, il fondatore della Bank of America, e da essi smistati alla Dc e ai partiti alleati, alla Azione cattolica e ai sindacati, ai servizi segreti e alle Forze armate. Più tardi, la fonte dei finanziamenti fu il Piano Marshall. «Per il fisco americano era beneficenza», spiega Weiner. Nel libro, Mark Wyatt, che spesso contestò i metodi della Cia, ma che sapeva che il Pci era pagato da Mosca, narra di avere consegnato ai suoi clienti migliaia di dollari alla volta all' albergo Hassler di Roma, celati in pacchetti di carta o in borse marroni, «un sistema rozzo ma efficiente». Il suo ruolo però non fu di semplice postino. Rammento che un giorno, parlandomi dell' operazione, Wyatt si dilungò sulla «prova generale» delle elezioni italiane del ' 48 condotta dalla Cia a San Marino. «A San Marino», mi disse, «si votava poco prima che in Italia. Per noi era cruciale sconfiggere i comunisti, sapevamo che l' effetto psicologico sarebbe stato molto rilevante». Come vinceste? chiesi. «Andammo a caccia dei sammarinesi residenti negli Stati Uniti e li riportammo in patria in aereo a votare», rispose. «E naturalmente finanziammo i partiti amici». Secondo «Legacy of ashes», Angleton si era circondato di «duri a cui aveva garantito l' immunità dai crimini di guerra», ossia di ex fascisti. Al rientro a Washington nello stesso ' 48, lasciò il comando dell' operazione a Ray Rocca. Questi non esitò a ricorrere ai «duri» e alla mafia siciliana e còrsa quando i sindacati comunisti cercarono di bloccare lo sbarco in Italia di alimentari e di armi provenienti dall' America. Un rimedio estremo: la Cia voleva rilanciare l' economia italiana e gettare le basi di Gladio, la guerriglia nel caso che il Paese diventasse comunista. Weiner svela che più tardi per stroncare gli scioperi contro il Piano Marshall - il Pci voleva che fallisse - ricorsero alla mafia anche due sindacalisti americani, Irving Brown e Jay Lovestone. La Cia smise di pagare i boss mafiosi, tra cui il còrso Pierre Ferri Pisani, solo nel ' 53. In un capitolo sugli Anni Settanta, Weiner fa i nomi di alcuni beneficiari europei della Cia tra cui il Cancelliere tedesco Willy Brandt, e italiani tra cui - come «tutti i leader democristiani» - anche Giulio Andreotti. Evidenzia che sotto il presidente Johnson, che li giudicava «una vergogna annuale», molti finanziamenti vennero decurtati, ma che sotto Nixon vennero ripresi su grande scala. «Dal 1970 in tre anni Graham Martin l' ambasciatore a Roma distribuì 25 milioni di dollari alla Dc e ai neofascisti» dice Weiner «e l' agente della Cia Rocky Stone diede altri milioni a un gruppo conservatore e un gruppo segreto dell' estrema destra». Stando a «Legacy of ashes», fu l' operazione più bieca della Cia in Italia: «In parte quei soldi alimentarono il terrorismo fascista, di cui l' intelligence italiana incolpò l' estrema sinistra». Se il libro ha un merito, non è tanto di avere aggiunto qualche tassello al mosaico, in prevalenza noto, delle interferenze della Cia nella politica italiana, quanto di averle inquadrate in una storia che non torna a onore di alcune amministrazioni americane. Nel 1948, l' Italia rischiava di essere fagocitata dall' Urss. Ma nel 1970, la situazione era diversa. L' ambasciatore Martin, un falco, fu mandato a Roma su sollecitazione dell' industriale italo americano Pier Talenti per impedire che i socialisti salissero al potere, e per ricondurre l' Italia a destra. Ma il centrosinistra non era una minaccia per il Paese, semmai era l' espressione della sua maggioranza. Per fortuna, rileva Weiner, l' opera di corruzione della Cia a Roma cessò «in toto» alla partenza di Martin per Saigon. * * * Il disegno «Lo Stivale diviso in due come la Germania» In quell' epoca convulsa, la Cia sviluppò anche «contingency plans» o piani di emergenza nell' eventualità che l' Italia cadesse nelle mani del Pci ed entrasse nell' orbita dell' Urss. Uno scenario prevedeva che il Paese venisse spaccato in due, come la Germania, comunisti a nord e anticomunisti a sud. Ma Mark Wyatt (foto) accenna a Tim Weiner di «piani di golpe» caldeggiati da industriali banchieri e leader italo americani, piani che peraltro non furono accettati. Venne adottato invece, sia pure temporaneamente, scrive Weiner, il progetto di un dirigente della Cia, Franklin Lindsay, di istituire una Gladio per Trieste. Da agente dello Oss, Lindsay aveva combattuto con le truppe di Tito, e nel ' 47 aveva ospitato nella città occupata una delegazione parlamentare con il futuro presidente Nixon. Se Trieste fosse stata invasa dai titini, la resistenza avrebbe reagito.

10.8.07

I partigiani e i nazisti, mio nonno e l'Osservatore romano bipartisan

di Ascanio Celestini
(tratto da il manifesto, 10/08/2007)

Rosario arriva a via Rasella qualche minuto prima delle due. Con lui, lungo la strada ci stanno gli altri partigiani. Ma dopo un'ora i tedeschi non sono ancora passati. Poi arrivano le tre... e poi le tre e mezza... e poi alle quattro meno un quarto si decide di aspettare fino alle quattro... e se i tedeschi non si fanno vedere l'azione verrà rimandata. E già Bentivegna pensa al carretto pieno di esplosivo che deve riportarsi indietro. Pensa che ci stava la pena di morte per uno che veniva trovato con la pistola... figuriamoci con 18 chili di tritolo...
Ma qualche minuto prima delle quattro viene dato il segnale. I tedeschi arrivano. Marciano cantando una canzone tedesca che dice «Salta ragazza mia...» Davanti c'è un gruppo d'avanguardia e in fondo c'è un carretto trascinato da un somaro e sul carretto ci sta' un fucile mitragliatore. Bentivegna col braciere della pipa accende la miccia e corre via. Carla Capponi gli corre dietro, gli nasconde la spalle con un impermeabile e scappano su un autobus. Mentre la miccia brucia... lungo la strada c'è un gruppo di ragazzini che gioca a pallone proprio vicino all'esplosivo. Allora Pasquale Balsamo, un altro partigiano, corre su da via del Boccaccio, arriva lì vicino a 'sto ragazzino e gli ruba il pallone. Dà un calcio a 'sto pallone e il pallone rotola giù per la discesa. Il ragazzino si gira e je dice: «Aho, a fijo de 'na mignotta ma che stai a fa'?» Poi vede che il pallone suo non c'è più e corre in fondo alla discesa per recuperarlo... così quei ragazzini si salveranno. Nel frattempo il carretto esplode e gli altri partigiani lanciano delle bombe a mano. Nell'esplosione moriranno 32 tedeschi e un ragazzino italiano. Piero Zuccheretti si chiamava.
I tedeschi non capiscono bene quello che è successo. Pensano che le bombe siano state buttate dall'alto e si mettono a sparare per aria. Sparano verso i tetti, verso i balconi e le finestre. È stata colpita l'undicesima compagnia del Polizei-regiment «Bozen» in fase di addestramento a Roma. Quando Adolf Hitler dalla Germania viene a sapere quello che è successo a Roma in pieno centro, in pieno giorno, in una città occupata... dà ordine che vengano uccisi 50 italiani per ogni soldato tedesco morto, e bisogna far saltare in aria l'intero quartiere. Questo è l'ordine che dà Hitler dalla Germania. Poi qualcuno dice: «50 sono troppi. Sarebbe meglio ucciderne 30, meglio 20» Io non lo so quello che si sono detti in quelle ore. Io credo che non lo sa nessuno con precisione e poi chissà quante cose so' state dette in quel momento... Però so quello che è successo e so quello che stava pure scritto sul giornale che ha letto mio nonno due giorni dopo. Un paio di giorni dopo... dopo la rappresaglia tedesca... sul giornale c'era scritto che erano stati uccisi dieci comunisti badogliani per ogni soldato tedesco morto. E se i tedeschi morti a via Rasella sono 32, il conto è facile: gli italiani da uccidere sono 320. 320 che però devono essere già stati condannati a morte per fare un'esecuzione esemplare davanti agli occhi di tutti. Ma 320 condannati a morte a Roma non ce ne stanno. Li vanno a contare e in galera ce ne stanno solo tre. E tre persone non sono 300.
Allora Herbert Kappler pensa bene che per sveltire la pratica... perché questo fu un crimine, ma i criminali che l'hanno compiuto non rassomigliano al mostro che ammazza le sue vittime divorandole. Tutto questo crimine rassomiglia ad una pratica burocratica dove i nazisti si trovarono a dover compilare delle liste come un qualunque funzionario di qualche anonimo ufficio del ministero... e così anche Kappler si trovò davanti all'urgenza di sveltire la pratica e forse per questo motivo pensò che era meglio passare dai condannati a morte a quelli che erano ipoteticamente condannabili. E nell'ipotesi, per Kappler, a Roma tutti potrebbero essere condannabili. Secondo Kappler era condannabile anche uno che si chiamava Ettore Ronconi. Questo faceva l'oste a Genzano. Faceva il vino... era un oste appena arrivato a Roma per portare il vino all'osteria di via Rasella. Anche lui ipoteticamente è condannabile per Kappler, e anche il giorno appresso verrà ammazzato all'Ardeatine.
Poi durante la notte muore un altro tedesco. Muore perché era rimasto ferito a via Rasella, ma muore per conto suo all'ospedale. Allora Kappler, senza che manco nessuno glielo lo va a comandare, decide che per un fatto di matematica e di giustizia bisogna mettere nel numero delle persone da ammazzare altri dieci italiani. Poi forse si sbaglia e ce ne mette 15 per un totale di 335 persone. (...)
Adesso c'è da fare più di 300 fucilazioni. Così i tedeschi si ricordano di quando Roma diventò la capitale. Di quando si costruirono le case e i ministeri e per recuperare calce e mattoni attorno a Roma si scavarono più di 170 cave con 3000 persone che ci lavoravano dentro. Adesso ci sta la guerra e nessuno pensa più a costruire cosicché le cave sono in disuso. Così i 335 vengono portati in una cava abbandonata sulla via Ardeatina. Li fanno entrare in gruppi di cinque con le mani legate dietro la schiena. L'ordine è preciso e anche questa è 'na cosa che deve essere scientifica, una pratica burocratica: le persone devono ricevere il colpo all'altezza della nuca col capo leggermente rovesciato in avanti in maniera che muoiono subito e non si sprechino troppe pallottole, ma qualcuno non muore subito. Durante l'esumazione il dottor Ascarelli ne troverà uno con quattro fori nel cranio. Per 39 di loro sarà impossibile reperire la testa, perché forse è scoppiata coi gas d'esplosione all'interno della scatola cranica. Tanti altri vengono trovati con ferite lievi e forse neanche so' morti subito.
È il 24 marzo del 1944. Quattro giorni più tardi, i tedeschi tornano alle cave Ardeatine, fanno delle buche, mettono delle cariche d'esplosivo e fanno saltare in aria l'intera cava. Una montagna di terra crolla sopra una montagna di morti. Una montagna dentro un'altra montagna. E adesso... come dice pure l'ultima frase del giornale che ha letto mio nonno: l'ordine è stato eseguito.
Ma in quei giorni esce anche un altro giornale, un giornale che esce ancora e si chiama L'Osservatore romano. È il quotidiano del Vaticano e c'è un articolo curioso che la gente n'ha parlato per tanto tempo. Se ne parla ancora oggi tutte le volte che si riparla della storia di via Rasella. E io mi immagino la gente che voleva sapere cosa c'era scritto sull'articolo... la gente analfabeta al tempo della guerra. Io mi immagino che si andava a cercare qualcuno che glielo poteva leggere questo articolo tanto importante. Così... mi immagino tutta 'sta gente che se ne va al cinema Iris odierno cinema Gioiello in fondo a via Nomentana, a Porta Pia da mio nonno Giulio e gli fa: «Sor Giulio, dite 'n po' che c'è scritto sull'Osservatore romano?» E mio nonno che dice: «C'è scritto: 32 vittime da una parte, 320 sacrificati dall'altra per i colpevoli sfuggiti all'arresto».
Mio nonno legge il giornale.... e il giornale dice che quelli ammazzati alle Ardeatine sono sacrificati, come se fosse un evento biblico e non un crimine umano. Nel giornale i nazisti diventano le vittime e i partigiani sono i colpevoli...
Dico alla bassetta che è qui che incomincia la storia. Da questo punto dovremmo incominciare a raccontarla. Fino ad ora io ho solo messo in fila i fatti, ma è da questo momento che qualcuno ha incominciato a raccontarli. È qui che nasce il racconto e anche la polemica che lo accompagna. A questo punto abbiamo incominciato a sentire qualcuno che diceva: «Ma lo sai che quei 33 soldati che vennero ammazzati dai partigiani a via Rasella erano altoatesini? Mica erano tedeschi, erano proprio altoatesini! Dunque questo attentato di via Rasella fu un gesto criminale senza motivo perché andò a colpire altri italiani... italiani dell'Alto Adige invece delle truppe d'occupazione tedesche!» E io dico che sì... è vero! I 33 uccisi a via Rasella erano altoatesini, erano del Polizei-regiment «Bozen», erano altoatesini. Ma non erano mica gli stessi altoatesini che fanno lo speck sulle alpi! Dico che questi erano nazisti! E poi non credo che la nazionalità conti qualcosa, nel senso che i partigiani romani non facevano un'azione contro qualcuno soltanto perché si trattava di un tedesco. Anche tra i tedeschi ci stanno le differenze e i partigiani non avrebbero sparato a qualcuno solo perché era nato in Germania. Nessuno avrebbe sparato a Hegel, il filosofo, oppure a un ortolano di Berlino o a Schumacher il pilota della Ferrari! Credo che ci sta una bella differenza tra un filosofo, un ortolano, un pilota di formula uno e... un nazista!
E poi c'è l'altra polemica... quella dei manifesti. Perché tanta gente dice che i tedeschi stamparono dei manifesti. Manifesti sui quali c'era scritto che i tedeschi avevano arrestate 300 persone e l'avrebbero salvate soltanto se i partigiani autori dell'azione di via Rasella si fossero presentati. E visto che i partigiani non si presentarono i tedeschi si sentirono autorizzati a compiere l'eccidio delle Ardeatine.
Ma, dico alla bassetta... come potevano stampare i manifesti se la bomba di via Rasella scoppia alle quattro di pomeriggio del 23 marzo... e soltanto un giorno appresso i 335 delle Ardeatine erano già stati uccisi? Come potevano avere il tempo di stampare i manifesti e attaccarli sui muri di Roma?
E poi lo dicono persino i tedeschi che i manifesti non furono mai stampati. Lo dicono al processo nel novembre del '46 quando il giudice dice a Kesserling che avrebbe potuto avvisare la popolazione di quello che stava succedendo e lui risponde: «Sì, adesso a distanza di due anni credo che l'idea sarebbe stata buona!» E il giudice gli fa: «Però non lo faceste?» E Kesserling: «No. Non lo feci!»
E poi i tedeschi non avevano motivo di avvertire i romani che stavano per ammazzare più di 300 persone. Se l'avessero fatto a Roma sarebbe scoppiata una rivolta.
Insomma, i tedeschi non dissero niente se non dopo che la cosa era successa. Eppure ancora oggi tanta gente dice: «Mio nonno li ha visti i manifesti... mio zio li ha visti... c'erano i manifesti», perché la gente i manifesti li ha visti pure se nessuno li ha mai stampati... e mica per cattiveria... ma perché in questa menzogna che si porta avanti da più di cinquant'anni s'è trovata una speranza per questi 335... una speranza che davvero non gliel'ha data mai nessuno. Qualcuno ti dice: «io l'ho sentito perfino alla radio 'sto comunicato!» Ma la realtà è che se tu avessi acceso la radio in quei giorni mica sentivi i comunicati. Se avessi acceso la radio avresti sentito le canzonette che mandava il regime. Ascanio Celestini è considerato uno dei migliori esponenti del cosiddetto teatro di narrazione. Nel 2000-2001 ha scritto e rappresentato Radio Clandestina (da cui è tratto il testo a fianco, ed. Donzelli), un racconto costruito a partire dal libro l'Ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli, premio Viareggio '99, che raccoglie la memoria orale legata all'eccidio delle fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. Lo spettacolo fu presentato nei locali dell'ex-carcere nazista di via Tasso (ora Museo della Liberazione) in forma di studio per i Luoghi della Memoria, manifestazione organizzata dal Comune di Roma e dal Teatro di Roma. Attualmente sta lavorando al suo primo disco, che uscirà a ottobre e si intitolerà «Parole sante».

Via Rasella, un legittimo atto di guerra

La Cassazione dà ragione al partigiano Bentivegna e condanna Feltri e il Giornale. E' la terza sentenza definitiva sul 23 marzo 1944. Soddisfatto e scettico l'ex Gap

di Andrea Fabozzi
(tratto da il manifesto, 08/08/2007)

Per la terza volta la corte di Cassazione ha sentenziato la legittimità dell'atto di guerra del 23 marzo 1944, via Rasella. Per la terza volta ha dato ragione ai partigiani, a Rosario Bentivegna che è l'ultimo sopravvissuto del gruppo dei Gap che in quel giorno del '44 portò a segno - si legge nella sentenza - un «legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante», l'undicesima compagnia del 3° battaglione dello SS Polizeiregiment Bozen. E per la terza volta i giudici di Cassazione - la terza sezione civile - hanno dato torto agli improvvisati revisionisti, stavolta si tratta di due giornalisti. Francobaldo Chiocci e più di lui Vittorio Feltri che da direttore del Giornale il 6 aprile 1996 in un fondo («Una giustizia un po' partigiana») aveva equiparato Bentivegna ad Erik Priebke, il capitano delle SS boia delle Fosse Ardeatine. Feltri, Chiocci e la società editrice del Giornale (di proprietà di Paolo Berlusconi) erano stati condannati tre anni fa a un risarcimento danni di 45mila euro in favore di Bentivegna. Ora la sentenza della Cassazione (n° 17172) rende definitiva quella condanna e stabilisce che l'azione di via Rasella era «diretta a colpire unicamente dei militari».
Il fatto che debba essere un tribunale a sancire la verità storica su uno degli episodi più importanti della guerra partigiana a Roma e in Italia non consente di esultare. A 85 anni Rosario Bentivegna (Paolo) accoglie la notizia con sperimentato scetticismo: «I faziosi e gli imbecilli che continueranno a ignorare la verità ci saranno sempre». Medico, marito di una partigiana medaglia d'oro, Carla Capponi, Bentivegna che è stato anche giornalista all'Unità è la memoria vivente dei Gap romani, con Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini. Di via Rasella ha scritto varie volte, l'ultima solo l'anno scorso pubblicando (per la casa editrice del manifesto) un istruttivo carteggio con Bruno Vespa che nel suo abituale best seller natalizio aveva ripetuto le banali falsità sul 23 marzo '44, dalla più atroce - i partigiani non si erano consegnati ai nazisti così permettendo la «rappresaglia» delle Ardeatine - alla più patetica - le 33 vittime erano solo ignari concittadini.
Secondo i giudici di Cassazione invece le SS altoatesine non erano «vecchi militari disarmati», come sostenuto dal Giornale, ma «si trattava di soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e pistole (ciascuno, ndr)». Non erano nemmeno cittadini italiani «in quanto facendo parte dell'esercito tedesco i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica». I giudici hanno poi confermato con sentenza quello che era già scritto in un libro di Sandro Portelli - L'ordine è già stato eseguito - di otto anni fa: non è vero che erano stati affissi dei manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi. Anzi questa affermazione, di Feltri (e successivamente, tra gli altri, di Vespa) secondo la Cassazione «trova puntuale smentita». Nella «circostanza che la rappresaglia delle Ardeatine (335 morti) era iniziata circa 21 ore dopo l'attentato e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si sottacesse la notizia di via Rasella che venne effettivamente data a rappresaglia avvenuta». Di qui la condanna al Giornale, perché secondo la sentenza «la libertà di critica ha valore scriminante solo quando rispetti la verità dei fatti» altrimenti «diviene un mero pretesto per offendere l'altrui reputazione».
Via Rasella era stata portata in tribunale già subito dopo la fine delle guerra, nel 1949, quando i famigliari di Pietro Zuccheretti, un bambino che fu una delle due vittime civili della bomba fatta esplodere dai partigiani, intentarono una causa civile contro i Gap e contro Amendola, Bauer e Pertini come dirigenti del Cnl che cinque giorni dopo avevano rivendicato «l'atto di guerra». La vicenda si chiuse nel '57 con una prima sentenza della Cassazione che respinse la richiesta di risarcimento danni. Una seconda sentenza è del '99 e si tratta di un annullamento senza rinvio di una decisione del gip di Roma che suscitando scandalo aveva archiviato una denuncia per strage contro i partigiani ma solo perché il fatto era «coperto da amnistia». La prima sezione penale della Cassazione stabilì invece che l'azione via Rasella non è considerata dalla legge come reato in quanto «azione di guerra».

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