31.1.06

Pedrazzi: Gli intellettuali e la politica: Italia


Lo spazio dell'opinione. Le riviste di cultura e politica in Europa
Luigi Pedrazzi, "il Mulino"

Gli intellettuali e la politica: Italia

(versione non rivista dall'autore)

Il nostro tema, "Gli intellettuali e la politica", si puo' svolgere solo collocandolo in contesti storici e geografici determinati: vi e' un "cronotopo" che segna ogni esistenza, da cui non si puo' prescindere, ne' per fare ne' per conoscere.

Il primo quadro storico che trovo nel cronotopo della mia generazione, e' segnato dal comunismo (1917-1989) e dalle relazioni che si sono stabilite con esso, di consenso o di opposizione, di partecipazione o di resistenza. Realta' e mito del comunismo sono stati importantissimi per gli intellettuali vissuti nel secolo breve e sanguinoso: piu' di nazismo e fascismo, che pure vi sono stati molto rilevanti. Gia' la durata del fenomeno comunista e' stata assai superiore agli altri due totalitarismi (72 anni contro 12 e 23); i territori attraversati o invasi sono pure stati incomparabili per le dimensioni e la pluralita' di localizzazioni; anche la pretesa di "novita'" antropologica e' stata, con il comunismo (europeo, asiatico, latino-americano), piu' ampia e piu' radicale che nel fascismo (italiano, iberico, greco), che nel nazismo (tedesco e balcanico).

Gli intellettuali impegnati a favore del comunismo, comunisti iscritti o fiancheggiatori del partito, sono stati numerosissimi, anche nei paesi europei che non hanno sperimentato la conquista comunista del potere: in Italia, in particolare, il "lavoro culturale" del partito comunista, per lunghi anni, ha avuto dimensioni e articolazioni incomparabili rispetto a quello di ogni altra forza politica. E "comunista", questo dato va sottolineato perche' si sta attenuando nel ricordo, si diceva allora con riferimento forte all'esperienza sovietica: era l'Urss il "paese guida" del movimento comunista internazionale.

Per lunghi anni i problemi del mondo, e anche di numerose societa' nazionali, sono stati visti, giudicati, affrontati, a partire dal pensiero di Marx nella interpretazione che se ne dava in Urss, con grande attenzione ai "trattini" che univano Lenin a Marx, e Stalin a Lenin, con una compressione enorme di altre figure, accettando di fatto tutte le manipolazioni storiche imposte dall'alto del potere sovietico: non a caso, una sua definizione molto suggestiva ha parlato di "ideocrazia". Certo, vi sono, a un certo punto, anche le storie di Mao e Ho Ci Min, di Castro e Guevara, ma e' la vicenda sovietica che ha fornito il fondamento della grande convinzione: in nome della realta' dell'Urss, gli occhi di molti filosofi, storici, letterati, si sono chiusi su errori ed orrori del comunismo in azione; o, vedendoli, li si e' interpretati come prezzi necessari, da pagare in vista del grande obiettivo perseguito dalla Rivoluzione in via di affermarsi: prima in un solo paese, poi in un sesto del mondo, nel pensiero, pieno di entusiasmo o di timori, di una vittoria totale inevitabile.

In Occidente il consenso di tanti intellettuali alla Rivoluzione comunista non e' avvenuto per paura, ne' per corruzione: piuttosto, nell'adesione, si sono rivelati deboli il rigore critico e la sagacia politica di molti pur attrezzati culturalmente.

Non e' vero, pero', che l'egemonia culturale dei comunisti sia stata cosi' forte e travolgente come gli anticomunisti lamentano e denunciano, con un'aggressivita' che la dissoluzione comunista ha accresciuto nei peggiori di loro. Una "resistenza" al totalitarismo del regime e del movimento comunista, una opinione critica nei suoi confronti, c'e' sempre stata, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, in molti luoghi e contesti: anche contro i comunisti al governo, dissociandosi o opponendosi al loro regime, totalitario e totalizzante.

In Italia, per gli equilibri politici avutisi, la critica del comunismo non si e' associata a rischi esistenziali. e' sempre stata una opzione possibile, di fatto compiuta da molti. Gia' la semplice esistenza del Mulino, a Bologna, e la sua vitalita', dalle origini nel lontano 1951 ad oggi (ma le radici del nostro gruppo risalgono piu' indietro, al biennio 43-45), smentiscono la generalizzazione tendenziosa che voglia presentare come incontrastata una egemonia culturale comunista: riviste italiane di quell'epoca, dal "Ponte" a "Comunita'", per tacere di "Cronache sociali" (a mio giudizio la piu' importante del dopoguerra italiano), sono li' a provare che non ci sono stati solo intellettuali organici al Partito comunista. E anche per quelli che accettavano una relazione cosi' caratterizzante, occorre distinguere grano dal loglio, a cominciare dal "Politecnico", o guardando dentro i cataloghi di Einaudi e Laterza, o incontrando figure complesse come quella di Pasolini. In Italia, rischi veri si sono corsi, dagli anni Venti alla Liberazione, se si era antifascisti: questa e' una delle ragioni che rende piu' vitale, e piu' responsabilizzante, tra noi, la fedelta' alla Resistenza e molto delicato il passaggio, pur necessario, dall'antifascismo al postfascismo.

Noi del Mulino, sicuramente, mai siamo stati comunisti. Da sempre ci siamo collocati tra i critici del regime esistente in Urss, delle Democrazie popolari nei "satelliti" dell'Est europeo, e di parte grandissima della storia del Pci. Di questo partito, pero', abbiamo apprezzato il valore della scelta democratica, di fatto indicata da Togliatti fin da Salerno, e mantenuta per decenni, sia pure con ambiguita' gravi e contraddizioni palesi, che si sono sciolte solo lentamente. Gradualita' e fatiche del processo con cui si e' dissolta la "doppiezza" del Pci non hanno nascosto ai nostri occhi la "direzione" del cammino, da alcuni perseguito e da tutti percorso. Al Mulino non ci siamo, dunque, appiattiti sull'anticomunismo ideologico che, mitizzando le qualita' del mondo occidentale, non ha visto, in sede storica e politica, le ragioni e i diritti che le grandi democrazie occidentali hanno cosi' spesso calpestato o distorto, nel loro interno e nelle relazioni internazionali. E abbiamo mantenuto attenzione e rispetto per le ragioni, sia pure parziali e rischiose, che hanno alimentato movimenti rivoluzionari in contesti nazionali e locali dove ogni prospettiva di sviluppo pacifico era bloccata o inesistente.

Le scienze sociali, dal diritto all'antropologia, dall'economia alla psicologia, e una larga riflessione storica, non piu' nazionalistica e neppure eurocentrica, hanno fornito a tantissimi "intellettuali" con orizzonti e percorsi analoghi ai nostri, strumenti di analisi e ipotesi di lavoro del tutto alternativi all'ideologia comunista, anche quando essa occupava posizioni di grande potere nel mondo. I nostri pensieri, i nostri studi, le nostre pubblicazioni, l'azione svolta nella formazione delle opinioni, non si sono mai inclusi, e vanificati, nelle mistificazioni di una seconda ideologia, o ideologia di secondo ordine, costituita su un segno negativo cosi' polemico e paralizzante come e' stato l'anticomunismo per troppi, troppo a lungo. Al contrario, l'attenzione portata alle vicende della Sinistra italiana nel suo complesso, ha sempre mirato ad una valorizzazione di ogni passo compiuto verso una democrazia italiana ed europea da socialisti e comunisti, che, in partenza, nel 1945, ci risultavano troppo dipendenti dalle esperienze, reali e mitizzate, dell'Unione Sovietica. Per questo abbiamo lavorato, con qualche influenza sulla politica e sull'opinione, per il passaggio al primo centrosinistra, e poi, in una diversa stagione, di qui si sono mossi i maggiori protagonisti del progetto dell'Ulivo, con il tentativo di utilizzare e valorizzare in prospettiva seriamente riformista la forza residua del comunismo italiano, nel nome di consapevolezze e solidarieta' nazionali che abbiamo sentito piu' forti e feconde della "guerra fredda", ora del tutto esaurita.

Ne' comunisti, ne' anticomunisti: con un certo orgoglio al Mulino rivendichiamo queste due identita', o meglio questi due aspetti di una sola identita' "democratica", cui la dimensione intellettuale, che caratterizza il nostro lavoro di gruppo, ha conferito consapevolezze di motivazioni positive, di giudizi storici ed etici, di proposte politiche e programmatiche. Certo, nell'asprezza del confronto ideologico e della guerra fredda, protrattasi tra Usa e Urss per quasi quarant'anni, chi, come noi, ha mantenuto una severa distanza dalle semplificazioni e mistificazioni con cui si banalizzavano e degradavano opposte certezze, ha subito alcune limitazioni di "agibilita' politica", superate solo quando sono maturate situazioni e condizioni culturali e politiche nuove. Ma, per noi, e' stato relativamente facile mantenere e testimoniare una condizione di liberta' e di indipendenza, delle opinioni e delle iniziative, con cui contribuire all'avanzamento unitario della nostra societa' e allo sviluppo democratico complessivo della nostra Repubblica: in corso, con i modi e le garanzie previste dalla Costituzione, anche se tuttora siamo travagliati da molti problemi ed esposti a pericoli reali, vecchi e nuovi.

Nel nostro "cronotopo" troviamo altri due fenomeni storici, che hanno pure richiesto originalita' di analisi e grandi confronti di idee: meno coinvolgenti e pervasivi della questione comunista, ma, in prospettiva, ancora piu' influenti sulle forme di convivenza che dobbiamo costruire, per disporre di un futuro degno e pacifico. Sono due questioni di rilievo obiettivo per tutti, e che dovrebbero vedere all'opera, con zelo e convinzioni appassionate, tutti i segmenti e tutte le competenze del ceto "intellettuale": per capire e far capire.

Questi due grandi "eventi" sono stati: la fine dell'era coloniale europea, e i cambiamenti avvenuti nella Chiesa cattolica a cento anni dalla fine dello Stato Pontificio.

Voglio dire, brevemente, qualcosa di questo secondo evento, che mi ha coinvolto con grande forza, in ragione delle mie convinzioni religiose. Lo Stato della Chiesa, nel secolo scorso impedimento gravissimo per un risorgimento politico italiano, era divenuto incompatibile anche con un efficace esercizio pastorale, e del tutto inutile permanere nel suo rimpianto. Attraverso una complessa e lunga vicenda e' stato sostituito da un "nuovo papato", e viene crescendo, sia pure osteggiata da tenaci resistenze, una nuova sensibilita' ecclesiale, che spinge per applicazioni conciliari piu' convinte: a Roma, verso una nuova prassi sinodale; nei vari continenti, ad opera di Chiese locali progressivamente piu' sapienti; nell'ecumenismo, impegnato a riavvicinare tutte le confessioni cristiane; e in un dialogo interreligioso, che non abbia ne' forme intellettualistiche sincretistiche ne' le banalizzazioni della New Age, ma, al contrario, sia un forte recupero delle proprieta' piu' fondanti di ogni esperienza spirituale storicamente identificata, tutte depurate da interpretazioni di aggressivita' e di cupo proselitismo.

Come il Concilio ha rivelato e favorito, molte energie intellettuali e di fede autentica sono all'opera su queste frontiere, anche se si tratti ancora piu' di minoranze che di autorita' e di istituti potenti per tradizione: ma la successione dei quattro ultimi pontefici, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, ha segnato in modo indubitabile il cammino della Chiesa cattolica e la sua azione pastorale, cosi' come puo' essere diretta dal vertice ed e' gia' largamente apprezzata e amata in basso: restano da acquisire collaborazioni e obbedienze importanti. Senza indulgere a illusioni ideologiche mondane, il Concilio e i quattro Papi conciliari hanno corretto l'atteggiamento di ostilita' che troppo ha contrapposto tradizione cattolica e modernita'; si sono prese le distanze necessarie da ogni idea di guerre di religione e di coazione sulle coscienze; si e' riscoperto il nesso fecondo tra fede nel vangelo e rispetto dei diritti umani e esercizio scrupoloso dei doveri sociali. e' in forza di queste grandi acquisizioni conciliari che la cristianita' gioca un ruolo storico nella presente fase di mondializzazione, inevitabile, ricca di grandi occasioni e grandi pericoli.

Anche noi del Mulino abbiamo accompagnato l'evento conciliare, con attenzione sincera e ammirata, e con iniziative importanti della nostra societa' editrice, sia negli anni 60, sia ora. Anche in questo campo ci ha molto giovato essere di Bologna, la citta' del cardinal Lercaro, di Giuseppe Dossetti e dell'"officina" di Via san Vitale 114, che sta tuttora serbando una memoria attiva di quella grande stagione e servendo una sua conoscenza obiettiva e documentata.

Meno brillante, per ora dobbiamo confessarlo, e' il bilancio delle attenzioni italiane, e anche bolognesi, sulla fine del colonialismo europeo. Certo, l'impero coloniale italiano era di proporzioni incomparabilmente minori rispetto a quelli posseduti da altri paesi europei, e pertanto i processi storici, e i correlativi esami di coscienza, sono stati da noi assai minori che in altre democrazie del continente. Ma non vi e' solo un dato nazionale nella grande trasformazione avvenuta in Africa e in Asia con la fine delle colonie, portatevi dai bianchi fin dall'eta' delle scoperte geografiche e consolidate con la nascita dell'economia-mondo: vi sono in causa una antropologia, una conoscenza storica, una responsabilita' istituzionale, un potere economico, che si intrecciano con l'identita' europea nei suoi multiformi aspetti e nelle sue tremende forzature e contraffazioni.

Un sussulto di coscienza, volto a confrontare principi e comportamenti, si ebbe, in Europa, nel vivo delle lotte anticoloniali, in Francia in particolare per l'Algeria, e poi negli Stati Uniti per il coinvolgimento in Indocina: la pratica della tortura per penetrare nei quadri del Fronte di liberazione, l'azione dell'Oas, come non bastarono a vincere, provocarono una riflessione significativa tra gli intellettuali e spostarono l'opinione pubblica su ipotesi diverse da quelle illusorie dei militari. Analogamente, gli americani in Viet Nam, tra bombardamenti odiosi e una condotta di guerra pesante anche per i piu' forti, fecero esperienze che hanno concorso, non solo per la sconfitta alla fine registrata, ma per le verita' incontrate, a maturazioni culturali che hanno segnato la societa' americana e senz'altro influito su tutto il fenomeno del '68.

Ne' si puo' tacere, quando si rifletta su questo tipo di responsabilita' collettive, il peso tragico che ebbe in Afganistan l'intervento sovietico: influi', e' vero, sulla formazione in Russia di una certa opposizione morale a Breznev e al suo regime irrigidito e senile, ma, sul posto, incrociandosi errori e pochezza dei sovietici con un Islam particolarmente chiuso in tradizioni di iperisolamento, ci ha lasciato in eredita' il regime dei talebani.

Da decenni poi, tutti i dati internazionali relativi a produzione e consumi del petrolio complicano terribilmente le relazioni dei paesi occidentali con l'Islam e le sue terre di insediamento storico. Il collasso dell'Europa delle nazioni-nazionalistiche (i massacri di due Guerre mondiali!), con l'emergere di un policentrismo politico cosi' mal rappresentato dall'Onu, caricano tutti, e specie l'intelligenza delle societa' avanzate, di una responsabilita' a conoscere che resta largamente disattesa. Non parliamo poi della responsabilita' a fare.

Quello che fu, cento-duecento anni fa, la questione operaia dentro le nostre societa', e' ora la questione internazionale e il ritardo culturale con cui politica e istituzioni affrontano il loro livello di responsabilita' specifica sta illudendo tanti che la "globalizzazione", economicamente in corso con grande forza, contenga in se' vie di soluzione dei problemi e di composizione dei conflitti, mentre questa fiducia non ha fondamento critico adeguato; come non l'ha l'opposizione alla "globalizzazione" in se', fenomeno conseguente da sempre alla antropizzazione della terra e agli sviluppi del comunicare e lavorare degli uomini.

Il problema non e' di fermarla, ma di governarne le dinamiche. E proprio qui pesa il ritardo culturale, in senso proprio di cultura politica e in senso lato di cultura storica e sociale. Gravissimo da tutte le parti, come provano ogni giorno le lentezze dell'Europa a darsi istituzioni politiche adeguate, la fragilita' assoluta dell'Onu, e, infine, la cecita' della politica statunitense e del suo pericolosissimo vertice apparente.

I problemi reali che crescono da ogni parte sotto i nostri piedi sono molto piu' pericolosi dei nemici ideologici che ancora troppi vogliono immaginare esistenti di fronte a noi. I pericoli veri non stanno nelle iniziative dei "nemici", tutti molto piu' deboli delle loro parole in liberta': ma nelle insufficienze dell'azione cui poniamo mano con idee e comprensioni inadeguate, troppo compiacenti e tolleranti nei confronti delle banalita' che si ascoltano nel grande barnum mediatico, e disarmati di fronte alle durezze effettive, e foriere di guai ulteriori, compiute da quel tanto di governo che opera, quasi invisibile tra noi, al di fuori delle sedi ufficialmente deputate a preparare ed eseguire decisioni politiche.

Urge un grande riordino della politica, per porre fine a quell'Antico Regime di Stati e Partiti che tra noi e' tuttora Presente; e che sembra tutto, mentre e' quasi nulla di intelligenza e di responsabilita' esercitate.

La cultura costituzionale, in relazione ad azioni e pensieri laici davvero comuni; la consapevolezza conciliare, in rinnovamento delle tradizioni della fede ebraico-cristiana: sono acquisizioni spirituali gia' forti tra noi, sul piano dei principi; questo e' motivo di speranza e di fiducia. Troppo spesso, pero', i nostri grandi principi, sulla scena del mondo e anche nell'intimita' delle coscienze e delle responsabilita' quotidiane, purtroppo, sono principio di nulla. Senza ortoprassi adeguate, ne' i pensieri degli intelligenti, ne' parole, immagini, musiche degli intellettuali, possono bastare a sanare i guai che crescono insieme a disponibilita' e mobilitazione delle risorse. Per questo, pur apprezzando le ricchezze di ogni avanzamento culturale e l'estensione vertigionosa delle informazioni, pensiamo importante trovare punti di applicazione concreta delle forze positive esistenti in campo da tante parti, ma sempre a rischio di dispersione, conflittualita', esplosioni e implosioni, se esercizio e risultati del governare non crescono in proporzione a quantita' e qualita' delle forze in gioco.

Per questo, nel sommario elenco di problemi e fatti che vedono rilevanti presenze e assenze degli "intellettuali", cioe' degli uomini che hanno le responsabilita' di competenze maggiori e di piu' immediate capacita' comunicative, voglio soffermarmi, per concludere, sul nodo politico del governo, cioe' della forma istituzionale che e' necessario cercare di sviluppare e consolidare. Per poter vivere, nei fatti, ai livelli che gia' abbiamo raggiunto nelle coscienze: o nei loro punti apicali, cui sempre conviene attenersi, come persone e come collettivita', nei discorsi e nelle azioni; e quindi anche nella costruzione di regole che perseguano ordine e giustizia e cerchino di garantire liberta' e sicurezza.

All'interno di ogni societa', e quindi anche nell'ordine internazionale, e' sempre piu' evidente la necessita' di fondare democraticamente il governo nella scelta dei governati. L'assolutismo, in tutte le sue forme e giustificazioni, fa parte di illusione passate. La rappresentanza, di interessi e valori, ha gia' vinto da alcuni secoli le sue battaglie. La sfida di oggi, nazionale, continentale e mondiale, si gioca nella individuazione e nello sviluppo di regole che tolgano quanto sopravvive di potere assoluto nei rappresentanti: la "sovranita'" va trasferita dagli eletti agli elettori, il che implica di rinunciare ad elezioni finalizzate a realizzare rappresentanze proporzionali che poi formino un governo, per passare ad elezioni che decidano, esse stesse, il governo.

Anche questo passaggio e' gia' largamente acquisito, almeno nei paesi di piu' avanzata e solida democrazia. L'Italia lo ha compiuto da poco, e con modalita' largamente imperfette: ma, in soli sette anni, la regola maggioritaria si e' gia' consolidata nella nostra vita pubblica, come abbiamo visto nel voto del 13 maggio, che ha premiato le "coalizioni" (e chi e' in grado di farle), penalizzato i partiti riottosi ad accettarle, e praticamente cancellato quanti rifiutavano il bipolarismo in via di affermarsi, illudendosi di poter gestire in proprio una collocazione diversa rispetto ai due contendenti in campo per vincere. Il voto del 13 maggio, tra i non pochi risultati buoni che ha registrato, ha cancellato la velleita' e l'arroganza di chi confidava di sfruttare il mantenimento o, peggio, di procurare il ritorno della "proporzionale".

e' probabile che la Casa delle liberta' (coalizione tra Polo e Lega) contenga differenze e tensioni interne che renderanno non facile l'esercizio del governo a Berlusconi: ma oggi e' ben chiaro che, a differenza di sette anni fa, non vi saranno ribaltoni, ma, eventualmente, elezioni anticipate rispetto alla scadenza fisiologica prevista per il 2006: avremmo cioe' elezioni per mettere alla prova, non l'"opposizione" al governo di Berlusconi (in questo caso, sarebbe la Lega, o qualche altro scontento dell'appartamento ricevuto nella Casa delle liberta'), ma la vera "alternativa di governo" in campo, cioe' l'Ulivo: sarebbe infatti Rutelli e certo non Bossi a poter subentrare a palazzo Chigi dopo una nuova consultazione: a meno che la capacita' di Berlusconi di ottenere risultati come capo del governo, nonostante lo sfaldamento delle sue alleanze, non lo facesse preferire ancora dagli italiani, piu' disposti a punire ulteriormente la Lega ma non a perdere l'idea che Berlusconi sia, oltre che uno abile e molto ricco, anche un vero e grande statista.

Il risultato bipolarizzante del 13 maggio e' ben chiaro: ma non tutti gli italiani condividono appieno l'apprezzamento molto positivo che ne diamo noi qui: o perche', a sinistra, parecchi temono troppo Berlusconi e sottovalutano la solidita' della nostra democrazia; o perche', a destra, in molti credevano davvero che Berlusconi stesse per cancellare l'Ulivo, e ora sono preoccupati per la condizione di minoranza popolare in cui dovra' agire il loro capo: il quale e' si' legittimamente dotato di una grande maggioranza parlamentare, ma ha dovuto vedere che l'Ulivo e' tuttora alternativa reale di governo: e che Rutelli non e' affatto un prestanome di D'Alema! Le tensioni interne alla Casa delle liberta' dovranno molto disciplinarsi, perche' la falange berlusconiana non si dissolva in parlamento; molte formule di propaganda dovranno cedere il posto a sensate considerazioni, perche' l'alleanza elettorale della destra si possa radicare nel paese e allargarsi nell'opinione pubblica.

Molte maturazioni e ricomposizioni dovranno darsi anche all'ombra dell'Ulivo, perche' la sua alternativa di governo, che gia' esiste potenzialmente nei numeri popolari, diventi obiettivo perseguito con coerenza dai quadri politici che gestiscono nome e progetto dell'Ulivo, senza piu' lasciarsi troppo impacciare da memorie plurali: ricchezza culturale, ma limite e rischio politico.

Noi del Mulino siamo forse tra i maggioritari piu' convinti e determinati. Il passaggio ad una democrazia governante e bipolarizzata ci ha trovato tra i protagonisti piu' sottili e influenti, nella vicenda complessa che ha visto il vecchio partito di Occhetto e D'Alema abbandonare la difesa della proporzionale (qui almeno il nome di Gianfranco Pasquino non puo' essere taciuto), la Dc di Martinazzoli seguire Segni nelle riforme elettorali (e qui occorre citare almeno Arturo Parisi), e poi Romano Prodi scendere in campo per occupare con il progetto dell'Ulivo lo spazio che la crisi di centro e sinistra apriva ad una destra che Berlusconi a sua volta aveva saputo rinnovare con un nuovo soggetto, il Polo audacemente alleato di Msi e Lega, intoccabili da chi volesse governare negli equilibri culturali e politici precedenti.

Grandi sono stati gli anni degli inizi del Mulino, e giustamente li abbiamo ricordati. Ma non meno forti e signficative sono le vicende ultime, cui abbiamo preso parte a partire dal controllo pieno di strumenti di analisi e di capacita' di proposta. Abbiamo nelle nostre mani e nella nostra responsabilita' questo controllo inusuale, perche' abbiamo unito molti intellettuali ad applicarsi nelle iniziative che ci sono state possibili, e trovato collaboratori coerenti con questo assetto editoriale del tutto originale.

Stiamo attenti a non sopravvalutare il ruolo degli intellettuali, disposti come siamo un po'tutti a vedere meriti la' dove abbiamo piuttosto privilegi, parecchia fortuna e magari qualche scambio di favori. Ma la nostra esperienza dice che non vanno sottavalutate le condizioni giuridiche e organizzative piu' adatte a preservare qualita' e indipendenza del lavoro culturale, prezioso se, proprio come cittadini e come intellettuali, si riesce a evitare che la politica tolga liberta' alla cultura, e a ottenere che la cultura accresca la liberta' della politica.

Il Mulino comincio' cinquanta anni fa, un 25 aprile che diceva fedelta' alla Resistenza, la scelta grande compiuta dai migliori dei nostri padri e dei fratelli appena un po'piu' anziani di noi. Ora, nella festa di una Repubblica che a noi piace, ci e' sempre piu' chiaro che resistenza puo' voler dire si' opposizione, contrasto coraggioso contro chi agisca male, ma per questo e' necessaria anche una piu' continua e penetrante resistenza: di noi stessi, nelle cose buone e belle che ci sia dato conoscere e praticare. e' questa anteriore resistenza, nel bene e nel giusto, che rende possibili e forti tutte le successive resistenze ai pericoli, quando essi si danno, siano vecchi o nuovi.

Con questa massima ci accingiamo a vivere la resistenza che ci attende nel futuro, con fiducia e con serenita'. Le teste, che nessuno rompe, basta usarle e formarle, ora che il rischio e' siano riempite di banalizzazioni. Ne' ci sono nemici tra noi, ma solo cittadini da convincere a votare meglio, ragionando meglio e di piu' su fatti, programmi, protagonisti. E se fosse l'ora degli intellettuali?

copyright 2001 by Societa' editrice il Mulino

24.1.06

L'EGEMONIA MOLTO OCCULTA DEI COMUNISTI


Em.ma (Emanuele Macaluso)
da: Il Riformista
martedi' 24 gennaio 2006

Nel corso del dibattito con Rutelli, il Cavaliere ci ha raccontato come i Ds abbiano ereditato l'egemonismo che il vecchio Pci esercitava sulla societa'. Tira fuori dalla tasca un foglietto di carta, ed elenca gli egemonizzati: la magistratura (uscieri inclusi); cinema e teatro, con registi e attori (ma anche le comparse); il 75% dei giornali, delle tv e dei giornalisti (nel 25% dei non egemonizzati c'e' Fede, e forse non c'e' piu' Rossella); scuola, con professori e maestri (e bidelli); l'economia con le cooperative rosse (senza trascurare cassiere e commesse dei supermercati); la cultura in generale, quindi case editrici, scrittori, scienziati, filosofi, poeti (escluso Sandro Bondi, poeta che non si fa egemonizzare da nessuno). Infine il Cavaliere ci ha ricordato che, grazie alla pigrizia degli azzurri che non votano ma dormono, i comunisti hanno vinto le elezioni e controllano regioni, comuni e province. Insomma, i comunisti avrebbero esercitato un'egemonia politico-culturale nella societa', dall'opposizione, gia' con la Dc sempre al governo, e continuerebbero ad esercitarla, sempre dall'opposizione, con la destra e il Cavaliere imprenditore al governo. Sciogliete voi questo enigma.

23.1.06

Testimonianze sull'egemonia culturale

Indro MONTANELLI
De Gasperi disse un giorno, a chi scrive, che, da parte del potere politico, l'unico modo di rispettare la cultura era di ignorarla. [...] Fatto sta che anche dopo il suo trionfo la Democrazia cristiana non sollecit� e non trov� nessun appoggio negl'intellettuali. E di questo approfittarono largamente le forze di sinistra per annetterseli con metodi non molto diversi da quelli usati da Mussolini. [...] Il Pci dimostr� la sua maestria nell'uso e abuso dei premi artistici e letterari, nel battage pubblicitario di chiunque � scrittore, pittore, scultore, regista � si prestasse al suo gioco, nell'amministrazione delle cattedre universitarie. Insomma fu lui il nuovo Principe di una classe intellettuale che, nei secoli, di un Principe non ha mai saputo n� voluto fare a meno.
MONTANELLI Indro - CERVI Mario, L'Italia del miracolo (14 luglio 1948 � 19 agosto 1954), Rizzoli, Milano 2001, p. 54-58.


Giorgio BOCCA
"In alcune case editrici (come l'editrice Einaudi), se non eri comunista non c'entravi. Questo � nato da due fatti. Uno, i comunisti non avendo il potere economico -secondo la lezione di Gramsci- volevano avere almeno l'egemonia culturale. Secondo, i quadri del Partito Comunista, avendo un impegno politico molto forte, erano lettori; mentre nella Dc e nel Psi nessuno leggeva. Quindi le case editrici (come l'Einaudi) che si occupavano di politica, di economia, ecc. avevano capito che il loro unico mercato era quello dell'area comunista. Su questo si aggiunge il fatto delle masse universitarie, per cui tutti gli insegnanti o quasi erano comunisti. [...] Tutti i premi sono andati a comunisti".
Programma della Rai I giorni e la storia. I primi dieci anni di pace 1945-1955, a cura di Arrigo Petacco, Rai 2, 27.10.1990.


Alain FINKIELKRAUT
Mullan, Moretti, De Gregori, Vecchioni, etc... "E' schiumando di rabbia contro il fascismo in piena ascensione che l'arte contemporanea fa man bassa delle istituzioni culturali. Non c'� nessuna fessura nella corazza dei fortunati del mondo post-sessantottino. Hanno lo stereotipo sulfureo, il clich� ribelle, l'opinione sopra le righe e pi� buona coscienza ancora che i notabili del museo di Bouville descritti da Sartre ne La Nausea. Perch� essi occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro, e quello, prestigioso, del Maledetto. Vivono come una sfida eroica all'ordine delle cose la loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma, sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro rari avversari. In breve, coniugano senza vergogna l'euforia del potere con l'ebbrezza della sovversione. Stronzi�.
Alain FINKIELKRAUT, L'Imparfait du pr�sent, Gallimard 2002, p. 102 (in Tempi, anno VIII, 12.09.2002, n. 37, taz&bao).


Indro MONTANELLI
"Comandavano attraverso quella frangia di intellettuali di sinistra, che poi facevano capo al PCI anche se non avevano la tessera. Non si pu� negarlo. Pensa al ghetto in cui fu rinchiuso Silone; pensa a tutta la campagna per impedire che la voce di Guareschi avesse un eco; pensa all'isolamento, riconosciuto poi dallo stesso Maccari, in cui fu lasciato Longanesi; pensa poi al ghetto nel quale fummo rinchiusi noi del Giornale per 10 anni quando era proibito fare il nostro nome. [...] Questa era l'intellighenzia italiana di sinistra. Ma come fa Placido a dire che non c'era questa autentica persecuzione verso chi non la pensava come loro. Come fanno a negarlo?".
Programma della Rai I giorni e la storia. I primi dieci anni di pace 1945-1955, a cura di Arrigo Petacco, Rai 2, 27.10.1990.

Melograni: L'egemonia culturale della sinistra


Piero Melograni, L'egemonia culturale della sinistra
"Prospettive nel mondo" n. 5, maggio 1990

Si discute molto, oggi, del potere che il Partito comunista italiano riusc� a esercitare in campo culturale nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Non si tratt� certamente di un potere dittatoriale, perch� l'Italia rimase uno Stato retto da una democrazia parlamentare, ricco di voci discordanti. Molti quotidiani e molte case editrici conservarono una totale autonomia nei confronti del Partito comunista. Il partito pi� forte, la Democrazia Cristiana, soprattutto all'indomani della grande vittoria elettorale riportata nel 1948, esercit� una forte autorit� nella scuola, nelle Universit�, nella RAI. Numerosi artisti conservarono sempre la capacit� di sottrarsi ai dettami del "realismo socialista" di marca staliniana. Ambienti culturali di notevole rilevanza, che si riconoscevano in periodici di prestigio come "Il Mondo" di Pannunzio o "Tempo Presente" di Silone e Chiaromonte, coltivarono ideali laici e per nulla comunisti. E tuttavia, bench� incontrasse molti ostacoli e non gli riuscisse mai di diventar maggioranza, il Partito comunista esercit� un potere assai esteso e consistente nel mondo della cultura.

Non � facile adottare criteri oggettivi per misurare questo potere. Si potrebbe compiere un censimento degli intellettuali e delle loro scelte politiche, analizzare la composizione politica delle redazioni dei giornali, oppure classificare la produzione delle case editrici e di quelle cinematografiche. Con questi e con altri criteri di misurazione, per�, molti aspetti non quantificabili del fenomeno sfuggirebbero all'attenzione. Alcuni dizionari affermano tra l'altro che con il termine di "intellettuale" si intende definire la persona non soltanto dotata di qualit� culturali, ma "per lo pi� destinata a rappresentare una parte direttiva o critica nell'ambito di un'organizzazione politica o di un indirizzo ideologico." Accettando una tale definizione, dovremmo senz'altro collocare attorno al PCI la grande maggioranza degli intellettuali italiani, poich� in quegli anni fu quasi esclusivamente il PCI a presentare l'immagine di un partito sempre pronto a valorizzare il ruolo degli scrittori e degli artisti. Ma accadde ancor pi� di questo, perch� il Partito comunista cerc� sempre di fare in modo che i suoi stessi dirigenti politici professionali, a partire da Togliatti, assumessero contegni e atteggiamenti propri degli intellettuali.

Discussioni e polemiche sulla presenza comunista nel mondo culturale italiano ebbero luogo gi� in anni lontani, e da esse potremmo ricavare conferme circa l'ampiezza di quella presenza. Restano memorabili i giudizi irritati espressi al riguardo da un uomo politico di primo piano come il democristiano Mario Scelba, ministro degli interni dal 1947 al 1953 e presidente del consiglio tra il l960 e il l962. Divenne celebre una sua frase sprezzante verso il "culturame" pronunciata il 6 giugno 1949, durante un congresso della Democrazia Cristiana svoltosi a Venezia. "Credete -chiese il ministro ai congressisti- che la DC avrebbe potuto vincere la battaglia del l8 aprile, se non avesse avuto in s� una forza morale, un'idea motrice, che vale molto pi� di tutto il culturame di certuni?". Nei giorni seguenti la sinistra social-comunista protest� con grande veemenza contro il neologismo diffamatorio. Ma in un' intervista pubblicata sul "Giornale d' Italia" del 10 giugno, Scelba precis� che, parlando di "culturame", intendeva riferirsi "a coloro i quali, per soddisfare la loro vanit�, o la loro ambizione politica (e talvolta pu� darsi anche le proprie necessit� economiche), mentre noi combattevamo la battaglia anticomunista del 18 aprile, che era fatta appunto in nome della cultura e della libert�, si schieravano dall'altra parte in alleanze ambigue con i negatori della cultura e della libert�. Io nego a questi uomini il diritto di parlare al popolo italiano in nome della cultura."

Secondo Nello Ajello, che ha dedicato un intero volume ai rapporti tra Intellettuali e PCI dal l944 al l958 (ed. Laterza, 1979), alle elezioni del 18 aprile 1948 circa i due terzi degli intellettuali italiani votarono per il "Fronte democratico popolare" che univa comunisti e socialisti sotto il simbolo di Garibaldi. Chi volesse conoscerne i nomi, potrebbe utilmente ricorrere al citato libro di Ajello. Aderirono al Fronte anche molte personalit� della cultura che non appartenevano n� al PCI n� al PSI e che provenivano dalle pi� diverse esperienze. Basti qui ricordare che tra gli aderenti vi furono scrittori come Massimo Bontempelli, Salvatore Quasimodo, Corrado Alvaro, Libero Bigiaretti, Sibilla Aleramo, Carlo Bernari, Leonida Repaci, Giuseppe Marotta; uomini di teatro come Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Lilla Brignone, Silvio D' Amico; pittori come Mario Mafai, Domenico Purificato e Carlo Levi.

Se qualcuno pensasse che il Fronte democratico popolare non avesse carattere comunista, poich� socialisti e indipendenti erano presenti in esso e perch� un personaggio come Garibaldi era stato scelto come simbolo, si ingannerebbe. La reg�a dell'intera operazione frontista rest� saldamente nelle mani del gruppo dirigente comunista. I socialisti erano ferreamente legati ai comunisti da un patto di unit� d'azione e avevano rinunziato alla loro autonomia. Alberto Jacometti, eletto segretario del Partito socialista nel 1948 confess�, in un intervista a Giampiero Mughini pubblicata da "Mondoperaio" nel gennaio 1978, che gli anni del frontismo furono "anni tremendi, perch� il Partito socialista divenne stalinista, una reimpressione del Partito comunista". Quando Stalin mor� nel marzo del '53, il gruppo senatoriale socialista diede incarico a Sandro Pertini di pronunciare in aula il discorso commemorativo. "Stalin - disse Pertini in quella occasione - � un gigante della storia e la sua memoria non conoscer� tramonto. Siamo costernati dinanzi a questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nell'umanit� intera." Alla Camera dei deputati, Pietro Nenni celebr� il dittatore con parole non molto diverse. "Nessuno - disse Nenni - tra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di s�, morendo, il vuoto che lascia Giuseppe Stalin." Secondo Nenni, che poco tempo prima aveva ricevuto a Mosca un premio dalle mani di Stalin, questo tiranno rappresentava la personificazione della saggezza: "Quando nell'estate scorsa ebbi occasione di incontrarlo, egli mi disse parole che mi sembrano oggi poter racchiudere la lezione della sua vita: non ammettere mai che non ci sia pi� niente da fare, non rompere mai il contatto con l'avversario o con il nemico, non puntare mai su una carta dubbia le sorti dello Stato, del partito, della collettivit�."

Oggi vari esponenti del Partito comunista tentano di far credere che negli anni 1944-1953 il loro partito non fosse stalinista, ma sarebbe molto ingenuo prestar loro fede. I comunisti, i socialisti e quasi tutti i loro compagni di strada ricevettero in quegli anni una fortissima impronta staliniana. Tra il 1944 e il 1948, il PCI divent� un partito numeroso, forte e influente, proprio perch� utilizz� in modo pesante i miti di Stalin, dell'Unione Sovietica e dell'Armata Rossa vittoriosa. Esso rimase sempre un partito assai obbediente al gruppo dirigente moscovita, dato che Stalin non era uomo col quale si potesse scherzare. Tutte le scelte politiche del PCI di quegli anni, compresa la svolta di Salerno, furono decise da Stalin. Nel 1947, quando fu fondato il Cominform, gli italiani entrarono disciplinatamente a farvi parte applicandone senza discutere le decisioni. Allorch� quindi si parla di penetrazione culturale comunista negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, non si deve scordare che un numero assai elevato di intellettuali italiani condivisero i pi� rozzi elementi di un'ideologia oggi respinta dallo stesso Partito comunista. Abbiamo detto all'inizio che il potere culturale esercitato dal PCI non fu un potere dittatoriale, e questo � vero nel senso che una parte del mondo culturale italiano si sottrasse all'influenza comunista. Ma l� dove questa influenza venne esercitata, il potere assunse connotazioni dittatoriali proprio perch� ebbe caratteri stalinisti. Le discussioni, all'interno della sinistra staliniana, non erano affatto libere. Il dissenso equivaleva all'eresia, alla condanna, all'esclusione.

Un giovane storico, Loreto Di Nucci, ha dedicato di recente uno studio ai pellegrinaggi politici degli intellettuali italiani nei Paesi socialisti (lo studio � stato pubblicato in appendice al libro di Paul Hollander, Pellegrini politici, Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba, ed. Il Mulino, 1988). Le ricerche compiute dal Di Nucci, servono a rammentarci che nel 1952 anche un intellettuale raffinato come Italo Calvino, dopo essersi recato nella Russia di Stalin, pubblic� sull' "Unit�" resoconti di viaggio che oggi ci appaiono imbottiti di sciocchezze assolutamente in linea con lo stalinismo. Secondo Calvino, la vita degli abitanti di Mosca era idilliaca, il popolo russo sprizzava allegria e amore per i suoi capi, e lo stesso museo con i doni ricevuti da Stalin per il suo 70� compleanno poteva essere considerato una meraviglia.

Il 24-25 novembre 1950, l'Associazione Italia-URSS organizzava a Firenze un convegno nazionale, durante il quale prendevano la parola, per onorare la scienza e la cultura dell'URSS staliniana, autorevolissimi intellettuali come l'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, il filosofo Antonio Banfi, il musicologo Fedele d'Amico, il pittore Renato Guttuso, lo psicanalista Cesare Musatti. Quest'ultimo dedicava la sua relazione alla "Teoria pavloviana dei riflessi condizionati", guardandosi bene dal denunciare il fatto che la psicanalisi era bandita in URSS e nelle cosiddette "democrazie popolari". In quello stesso anno 1950, l'Associazione Italia -URSS pubblicava un volumetto dal titolo "Noi siamo stati nell'URSS", in cui una ventina di "viaggiatori", tra cui ancora una volta Guttuso e Banfi, non facevano che dir bene dello Stato staliniano. Guttuso, che avrebbe dovuto denunciare con energia lo stucchevole e arcaico conformismo della pittura ufficiale sovietica (nonch� le persecuzioni esercitate contro gli artisti ribelli), scriveva invece che l'URSS "anche nel campo della cultura era il paese pi� avanzato del mondo", e rendeva omaggio all'insegnamento di Stalin, il quale: "contro il cosmopolitismo della forma e contro la distruzione dei contenuti ha detto per la prima volta che l'arte deve essere nazionale nella forma e socialista nel contenuto." Il filosofo Antonio Banfi, trascurando l'esistenza dei campi di concentramento, proclamava che in URSS stava nascendo finalmente una umanit� nuova "liberata da ogni timore".

Le cause dei successi conseguiti dai comunisti italiani nel mondo della cultura furono certamente numerose, e una prima causa pu� essere trovata nell'attenzione da essi sempre mostrata nei confronti degli intellettuali. Secondo i comunisti, difatti, il proletariato industriale costituiva una classe rivoluzionaria, che da sola non era in grado di conquistare il potere. Le occorrevano la guida del partito e il soccorso degli intellettuali "organici al partito della classe operaia". Togliatti e il gruppo dirigente del PCI, di conseguenza, si impegnarono in modo consistente per allargare il numero di questi "intellettuali organici". Ma la politica culturale del PCI non avrebbe avuto il successo che ebbe se non avesse trovato un terreno favorevole.

La cultura di tipo idealistico e assai poco empirica diffusa tra gli intellettuali italiani, li predisponeva difatti a farsi sedurre da programmi - come quello comunista - aventi una forte carica utopica. Anche per questa ragioni i viaggi che quegli intellettuali compivano nei paesi del socialismo "reale" servivano a poco. Ci� che contava era soprattutto il paese del socialismo "irreale". Essi erano portati a idealizzare perfino le violenze avutesi nei Paesi dell'Est, immaginando che rispondessero a una necessit� rivoluzionaria. Forse che i francesi non avevano a loro tempo adoperato la ghigliottina? Ora toccava ai bolscevichi di adoperarla. Il terrore esercitato negli Stati comunisti veniva giustificato con le stesse argomentazioni utilizzate per giustificare il terrore giacobino. Il mito di Robespierre e il mito di Stalin, in tal modo, finivano per sovrapporsi, confondersi e sorreggersi tra loro.

Gli intellettuali italiani, inoltre, vivevano in quegli anni la fase forse pi� acuta della crisi epocale legata al processo di modernizzazione. L'avvento del mondo industriale stava distruggendo, anche in Italia, la societ� fondata sull'agricoltura e con essa stava distruggendo una civilt� e una cultura antiche. Anzi, a ben vedere, stava distruggendo proprio la cultura in base alla quale gli intellettuali si erano formati nei loro studi e grazie alla quale, dunque, essi avrebbero potuto esercitare un certo potere. Avanzava il mondo del denaro, degli interessi borghesi, dei consumi crescenti. Molti videro nel comunismo una rivolta contro le trasformazioni incontrollabili della modernizzazione, la ricetta migliore per pianificare e incatenare il mondo, la soluzione pi� adatta per restituire potere agli intellettuali nella societ� futura.

Gli intellettuali, infine, potevano essere individui deboli, incerti e irrazionali come tutti gli altri uomini. Anch'essi uscivano da due catastrofiche guerre mondiali. Anch'essi intendevano reagire alle follie e alle mostruosit� del mondo. Anch'essi potevano avvertire il bisogno di trovare un "salvatore" che li proteggesse nell'immediato avvenire. E anzi potevano avvertirlo pi� ancora degli altri individui proprio perch� in essi la crisi culturale era pi� profonda, la sensazione dell'insuccesso era pi� bruciante, l'esigenza di sicurezza molto pi� sentita. Coloro che avevano fede in Dio potevano cercare la salvezza rifugiandosi nei valori trascendenti. Altri, che avevano fede anche in loro stessi, si adattavano al mondo sforzandosi di capirlo, di assecondarlo e di guidarlo nei limiti circoscritti in cui si pu� sperare di riuscirvi. Ma quanti non avevano fede n� in Dio n� in loro stessi si rivolgevano alle pseudo-religioni politiche tra le quali si distingueva quella del comunismo con i suoi dei, i suoi mausolei e i suoi testi sacri.

Alcuni di costoro, e forse non erano pochi, avevano poi qualche conto da regolare con il recente passato, poich� si erano fatti incantare da Mussolini, gli avevano reso omaggio nei loro scritti o nei loro affreschi, o ne erano stati beneficiati magari fino al punto di indossare la divisa di Accademici d'Italia, come era stato il caso di Massimo Bontempelli, la cui elezione al primo Senato della Repubblica, nelle liste del Fronte social-comunista, fu poi invalidata per questa sua compromissione col passato regime. Il mito del comunismo nazionale e vittorioso, che in quel momento Stalin personificava, non costringeva gli ex-fedeli del mito mussoliniano a ricostruire fin dalle fondamenta la loro personalit�. Appariva come la via pi� breve per cancellare gli errori trascorsi e i relativi sensi di colpa.

22.1.06

Finetti: Egemonia di sinistra, cultura del veleno?

La cosiddetta ��egemonia�� post-comunista
in campo culturale ̬ frutto soprattutto del
disimpegno da parte opposta

EGEMONIA DI SINISTRA, CULTURA DEL VELENO?

di Ugo Finetti

domande di confine
anno 3 - numero 2 - 2004

A guardarlo sembra il tipico carrozzone antifascista degli anni Trenta disegnato dal capo della propaganda del Komintern, Willi Munzenberg: nulla di partitico, ma solo il primato della moralit�� e dell�۪obiettivit��. Si tratta del vertice dell�۪Insmli, l�۪Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione italiano, che da culla della memorialistica dei comandanti comunisti partigiani ̬ diventato in Italia ��� attraverso successive convenzioni con il ministero della Pubblica Istruzione ��� il perno della ricerca e della didattica dell�۪intero Novecento. Come presidente ��� novello conte Karoly ��� hanno messo Oscar Luigi Scalfaro e come presidente onorario figura ��� come se fosse l�۪esploratore Nansen ��� Tina Anselmi. Ma la ��cucina�� ̬ in mani sicure: segretario Gianfranco Maris e nel comitato scientifico i vari Collotti, De Luna e De Bernardi.
Il dibattito sull�۪��egemonia�� in Italia della cultura filiata dalla tradizione marxista e comunista rischia infatti di essere un lamento a vuoto se non se ne mettono a fuoco strutture e creativit��. Egemonia ̬ appunto �� � nell�۪accezione gramsciana ��� il risultato di ��forza pi�? consenso��, non un�۪operazione demoniaca, ma capacit�� organizzativa e ricerca, studio e lavoro.
In verit�� questa egemonia ��� per quanto teorizzata e messa in atto da Togliatti ��� fu fino all�۪inizio degli anni Sessanta molto limitata. Il punto forte fu ��� dopo l�۪assassinio di Gentile e l�۪emarginazione di Croce ��� la sostituzione dell�۪idealismo con lo storicismo marxista, ma appunto con questa operazione i campi di intervento privilegiati si concentrarono e si delimitarono su storia ed estetica. Nessun segno duraturo ha lasciato il marxismo italiano nel campo delle discipline scientifiche e, soprattutto, nell�۪economia. I suoi economisti hanno prodotto solo letteratura e convegnistica. Anche in campo artistico tutta l�۪esperienza delle avanguardie e neoavanguardie ��� dai pittori agli scrittori ��� si ̬ sviluppata al di fuori dell�۪influenza del Pci che svolse, anzi, un ruolo frenante e di sostanziale conservazione. Successivamente negli anni Sessanta, sull�۪onda della riproposizione dell�۪unit�� antifascista ��� dopo i moti del luglio �۪60 e con l�۪apertura sinistra inizialmente ancora priva di ��delimitazione della maggioranza�� ��� il Pci riusc�� ad archiviare nella societ�� italiana il rigetto che lo aveva circondato dopo i fatti di Ungheria del �۪56. E poi, finalmente, con il �۪68 ��� quando si afferm�? che ��tutto ̬ politica�� ��� la lettura classista divenne pensiero unico e le semplificazioni e le astrattezze dettero diritto di cittadinanza al marxismo in ogni campo.
Ma oggi ��� con l�۪uscita di scena dell�۪Urss e del Pci ��� l�۪egemonia ̬ un�۪onda lunga certamente importante, ma sostanzialmente circoscritta in campo culturale alla spinta propulsiva del sistema delle lottizzazioni negli enti culturali definite negli anni Settanta (ancora oggi vale il dogma che canali e reti televisive siano sempre di sinistra secondo il ��patto�� siglato all�۪epoca dell�۪��unit�� nazionale�� con il Pci in maggioranza).
La cosiddetta ��egemonia�� post-comunista in campo culturale ̬ frutto soprattutto del disimpegno da parte opposta. �� una vecchia storia. L�۪anticomunismo democratico non ha mai avuto vita facile in Italia ed ̬ stato sempre una presenza molto contenuta: basti pensare alla chiusura del Ceses di Renato Mieli imposta dai sovietici al momento di concludere contratti con societ�� come la Montedison che l�۪aveva fino ad allora sostenuto, oppure al boicottaggio della Biennale del Dissenso nel 1977 da parte di un arco che andava dalla Rizzoli alla Snia Viscosa, dalla Ricordi alla Fondazione Cini.
In Italia ha sempre prevalso la tesi secondo cui alla cultura impegnata andasse contrapposta ��� soprattutto tra i giovani e nel mondo della scuola ��� non un�۪altra cultura, ma il divertimento, l�۪evasione e la superficialit�� ovvero il rifiuto della cultura: il disimpegno contro l�۪impegno nella convinzione che chi ama andare a ballare o vedere le partite di calcio non si interroghi sulla sua esistenza e sia solo un mucchio di superficiali non interessati anche a leggere e scrivere. �� cos�� che in Italia non ha avuto alcun effetto, per esempio, il caso Solgenitzin. Mentre la pubblicazione di ��arcipelago Gulag�� a met�� degli anni Settanta in Francia apr�� una crisi nella sinistra (con fenomeni come ��les nouvaux philosophes��), in Italia quelle rivelazioni furono acqua sulla roccia.
Certamente oggi ��� dopo la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento del comunismo in Europa ��� quasi nessuno si dichiara pi�? comunista, ma se si guarda ai testi scolastici maggiormente usati per l�۪insegnamento della storia non c�۪̬ stata nessuna revisione. Solo qualche prudente e pudica aggiunta: gulag, foibe e Cefalonia. Ma l�۪impianto rimane invariato.
Oggi il cuore dell�۪egemonia ��� ovvero della cultura del veleno ��� ̬ infatti soprattutto in campo storico. Permane cio̬ ��� nella ricerca e nella didattica all�۪ombra dell�۪Insmli ��� la lettura del Novecento ��alla Hobsbawn�� come teatro di scontro tra capitalismo reazionario a deriva fascista e movimento operaio imperniato sui partiti comunisti e ai giovani si propaganda ancora il dogma della incompatibilit�� tra anticomunismo e antifascismo.
Il passato ̬ riletto alla luce del presente secondo la lotta tra il Vecchio e il Nuovo, tra progresso e reazione, che indica una ��linea rossa�� che va dai Gracchi ai ghibellini, dagli eretici ai giacobini, dall�۪illuminismo al rivoluzionarismo marxista e comunista. Nel Novecento alla cui luce viene visto l�۪intero passato diventa centrale il fascismo che non ̬ pi�? un periodo storico, bens�� una categoria centrale secolare, una chiave di lettura senza limiti di spazio e di tempo. Non pi�? ��stadio�� della borghesia come sosteneva Stalin, ma comunque ��pericolo sempre incombente��, secondo la prosa postalinista da Berlinguer in poi, inscindibile dalla natura stessa della borghesia italiana. Conseguentemente si insegna la tesi del fascismo come figlio dell�۪Italia liberale e padre dell�۪Italia della democrazia repubblicana. Cos�� sintetizza infatti Giorgio Rochat l�۪insegnamento partorito da Guido Quazza, presidente dell�۪Insmli dal 1972 al 1996: ��La sottolineatura della continuit�� della societ�� e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuit�� tra scelte moderate e nazionaliste, in cui la Resistenza rappresenta un momento di rottura democratica��. Pertanto abbiamo una manualistica dominante volta a inculcare un senso di vergogna per quella che ̬ stata in Italia la ��democrazia reale�� senza il Pci, dipingendo la mafia come conseguenza dello sbarco anglo-americano in Sicilia, il terrorismo come conseguenza dell�۪adesione dell�۪Italia alla Nato, la corruzione come conseguenza dell�۪esclusione del Partito comunista dal governo.
Siamo allo ��storicismo marxista in un unico paese��: solo in Italia l�۪insegnamento della storia ̬ blindato ignorando la comunit�� scientifica internazionale sul Novecento da Furet a Nolte, da Pipes a Conquest e Courtois.

Melograni: Oltre le ceneri di Gramsci


Piero Melograni
Oltre le ceneri di Gramsci
"Ideazione"
novembre - dicembre 1996 pp. 58-66

Antonio Gramsci fu un uomo tormentato dalle molte difficolt� in cui il movimento comunista si dibatteva. Elabor� un nuovo concetto di "egemonia politica" proprio allo scopo di aiutare i compagni a superare almeno in parte queste difficolt�. Affid� ai Quaderni del carcere un programma di azione dimostrando in qual modo, attraverso un uso sapiente della "egemonia", i comunisti avrebbero potuto correggere molte loro rozzezze e magari conseguire il successo. E' evidente, pertanto, che non siamo in grado capire il programma di Gramsci, lo spirito dei Quaderni e lo stesso concetto di "egemonia" senza rammentare, sia pure per sommi capi, la situazione in cui lo stesso Gramsci operava. (*)

Nel novembre 1917 era avvenuto un fatto straordinario e apparentemente molto positivo per il movimento comunista internazionale, quale la conquista del potere da parte dei bolscevichi. Ma Gramsci, che aveva allora ventisei anni, ebbe l' ardire di dichiarare subito, senza esitazioni e in pubblico che questa conquista non apparteneva al marxismo. Il 24 dicembre 1917, con un articolo di fondo apparso sull' "Avanti!", egli salut� la rivoluzione bolscevica scrivendo che si trattava appunto di "una rivoluzione contro il Capitale", vale a dire contro il Capitale, con la "C" maiuscola", di Karl Marx. Secondo le previsioni di Marx, infatti, la rivoluzione proletaria sarebbe dovuta scoppiare in un paese economicamente sviluppato, dotato di una consistente classe operaia e provvisto quindi di un forte movimento operaio, come era per esempio il caso della Germania. Non era previsto che dovesse scoppiare in un paese come la Russia zarista, decisamente contadina, niente affatto all' avanguardia del progresso tecnologico, e con un partito comunista che raccoglieva appena trentamila iscritti. "I bolscevichi rinnegano Carlo Marx", scrisse Gramsci con grande franchezza.

Lo stesso Lenin aveva immaginato che il suo governo, in un paese come la Russia, non avrebbe potuto durare a lungo. Il capo dei bolscevichi si era impadronito di Petrogrado approfittando di un improvviso vuoto di potere e pensando di offrire al mondo una testimonianza simile a quella che era stata offerta, mezzo secolo prima, dalla Comune di Parigi. La Comune era durata poco pi� di due mesi, ma era restata nel cuore del movimento socialista internazionale come un evento indimenticabile. Se i bolscevichi fossero restati al governo anche solo per qualche settimana, avrebbero conquistato un prestigio simile a quello dei comunardi.

Restarono al governo per decenni. Ma i limiti del loro potere apparvero con evidenza fin dall' inizio. Gi� nel marzo del 1918, contravvenendo alle regole dell' internazionalismo proletario, il governo di Lenin era costretto a concludere la pace separata di Brest-Litowsk con i capitalisti tedeschi e con quelli austriaci. Consapevoli del fatto che la pace di Brest Litowsk costituiva un grave tradimento dei principii internazionalistici, quasi tutti i bolscevichi tentarono di opporsi a essa fino all' ultimo.

Nel 1919-20, in coincidenza con il "biennio rosso" italiano, i bolscevichi riacquistarono un grande prestigio internazionale grazie alla vittoria riportata dall' Armata rossa nei confronti dei controrivoluzionari filo-zaristi. I socialisti italiani ritennero a quel punto che, anche nella gestione del potere e della economia, Lenin e i suoi compagni fossero vittoriosi. Ma il disinganno arriv� dopo che alcuni dirigenti del Partito socialista italiano, nell' autunno del 1920, fecero ritorno dal loro primo viaggio di esplorazione in Russia portando notizie di prima mano. Tutto era riultato molto diverso dalle fantasie che attorno alla Russia erano state costruite in Italia. Giacinto Menotti Serrati, in un discorso pronunciato a Trieste e pubblicato sull' "Avanti!" del 5 ottobre 1920 (ediz. piemontese) descrisse il tragico caos della societ� comunista. Disse che i bolscevichi, nel 1917, erano stati costretti dalle circostanze a prendere le redini della rivoluzione, ma che essi costituivano una "minoranza infima di fronte a una enorme maggioranza passiva". Serrati annunci� che il compimento della rivoluzione russa era lontano: "Lenin dice: ci vorranno cinquant' anni. Altri dicono cento".

Il disinganno fu ancora pi� grande nel 1921, quando arriv� notizia della terribile carestia scoppiata nella regione del Volga, in seguito alla quale morirono cinque milioni di persone. In quello stesso 1921 i marinai di Kronstadt si ribellarono con le armi contro il potere bolscevico e Lenin dovette reintrodurre, con la Nep (Nuova politica economica), alcuni elementi dell' economia capitalistico-borghese. La gigantesca crisi di immagine del comunismo russo contribu� non poco a favorire, nell' Italia del 1921-22, la vittoria di Mussolini.
Lenin, che nel 1918 era stato ferito in un attentato compiuto contro di lui da una rivoluzionaria disillusa, Fanja Kaplan, si ammalava gravemente nel 1922 e moriva nel 1924. Scoppiava in quegli anni una durissima lotta per la successione del potere destinata a concludersi con la vittoria di Stalin. E Gramsci, come � stato gi� documentato da numerosi storici, non ebbe affatto un buon rapporto con Stalin. Si pu� perfino sospettare che negli ultimissimi anni della sua vita egli preferisse restare nell' Italia mussoliniana, dove era curato in una clinica e dove stava riacquistando la libert�, sia pur vigilata, piuttosto che recarsi in Unione Sovietica da dove i dissidenti, come Trotski, erano costretti a fuggire, e dove, chiunque dissentiva, finiva facilmente imprigionato e ucciso.

E' probabile che Gramsci non avesse mai dimenticato le parole con le quali aveva indicato, fin dal 1917, i vizi di origine che la rivoluzione russa portava in s�. Gli eventi successivi al 1917 dovettero rendere ancora pi� severo il giudizio. Il piccolo nucleo di bolscevichi guidati da Lenin e da Trotskij, impossessandosi di Pietrogrado, sembrava aver compiuto un colpo di Stato, pi� che una rivoluzione. La forza di quei pochi rivoluzionari era stata sufficiente per impadronirsi del potere centrale, espropriare le imprese capitalistiche, costituire un grande esercito. Ma dov'era la civilt� nuova? Le manchevolezze dell'esperimento bolscevico indussero Gramsci a ripensare criticamente l'intera storia del cosiddetto "movimento operaio".

Certo � che Gramsci, nei suoi Quaderni, tenne a sottolineare che: "Ci pu� e ci deve essere una "egemonia politica" anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso [il governo] d� per esercitare la direzione o egemonia politica." [Quaderni del carcere, p. 41] E rileggendo questa frase potremmo scorgere una critica rivolta non soltanto a Lenin, ma anche a Marx. L'uno e l'altro, infatti, avevano individuato il fondamento del potere soprattutto nella forza, mentre Gramsci lo collocava, in modo prevalente anche se non esclusivo, nella superiorit� culturale e dunque nella "egemonia politica". La parola "egemonia", derivata dal greco, era stata usata in Italia fin dai primi decenni del XIX secolo, e stava a indicare la supremazia di uno Stato o di una citt� su Stati o citt� minori. Per estensione il termine era quindi servito a definire una posizione di preminenza capace di condizionare un determinato ambiente o un'intera societ�. In Gramsci, come si � appena visto, tale preminenza assumeva una connotazione "politica", anzich� "materiale".

In modo repentino e violento, Lenin aveva liquidato e sottomesso quanti lo avversavano. Ma le elezioni per l'Assemblea Costituente, svoltesi nell'ex-impero zarista quando il potere era gi� nelle mani dei bolscevichi, si erano concluse con una sconfitta degli stessi bolscevichi. E la Costituente era stata sciolta con la forza dalle Guardie Rosse. Nelle sue meditazioni carcerarie, Gramsci scrisse parole che esprimevano dissenso verso questi metodi. I bolscevichi non erano riusciti a diventare "dirigenti", oltre che "dominanti". Gli altri partiti comunisti del mondo non avrebbero dovuto quindi prenderli a modello, perch�: "Un gruppo sociale pu� e anzi deve essere dirigente gi� prima di conquistare il potere governativo (� questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, [quel gruppo sociale] diventa dominante ma deve continuare ad essere anche "dirigente". [Quaderni del carcere, pp. 2010-11] Gramsci doveva necessariamente esprimersi con un linguaggio criptico e allusivo dato che, in caso contrario, l'autorit� carceraria avrebbe provveduto a confiscargli i quaderni. Per non suscitare sospetti evitava di scrivere il nome "Lenin" o il nome "Marx". E anche il marxismo diventava "filosofia della praxis". Egli cercava tuttavia di fare in modo che le sue allusioni potessero essere comprese, in futuro, dai lettori pi� smaliziati.

Alcun sostengono che Gramsci fu il primo a capire come la strategia bolscevica avesse scarse probabilit� di successo in Occidente. Bisognerebbe per� ricordare che Rosa Luxembrug, in uno famoso scritto del 1918 reso pubblico dopo la sua morte, aveva gi� posto sotto accusa i metodi dei bolscevichi, per motivi in parte simili a quelli di Gramsci, ma con energia ben maggiore di Gramsci: "Senza elezioni generali, senza libert� illimitata di stampa e di riunione, senza libera lotta di opinioni -aveva scritto Rosa Luxemburg- la vita muore in ogni istituzione pubblica, diviene vita apparente ove la burocrazia rimane l'unico elemento attivo. [...] La libert� riservata ai partigiani del governo [...] non � libert�. La libert� � sempre e soltanto di chi la pensa diversamente." Nella Luxemburg, ancor pi� che in Gramsci, agiva un profondo risentimento dei comunisti russi immaturi, rozzi e quasi barbari, che si stavano permettendo di sottrarre ai compagni tedeschi la guida del movimento operaio internazionale. [R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Roma 1967, pp. 553-95.]

Le posizioni di Gramsci erano assai meno radicali. Mentre la Luxemburg invocava in termini perentori la libert� di tutti e in particolare la libert� di chi la pensava diversamente dai comunisti, Gramsci riduceva la democrazia a un meccanismo "molecolare" di mobilit� sociale, a un mero rinsanguamento del gruppo dirigente con elementi provenienti dai gruppi diretti: "Tra i tanti significati di democrazia -scriveva Gramsci- quello pi� realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell'economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente." [Quaderni del carcere, p. 1056].

Non vi son dubbi sul fatto che il pensiero di Gramsci fosse innovativo nei confronti del leninismo e dello stesso marxismo, proprio perch� poneva in primo piano i valori politici della cultura. "Si pu� dire -scriveva infatti nei Quaderni- che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase pi� recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell'egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella "valorizzazione" del fatto culturale, dell'attivit� culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici." [Quaderni del carcere, p. 1224] Tuttavia questa valorizzazione dei fatti culturali era posta al servizio di un disegno politico molto lontano dalla democrazia liberale. Ed � sintomatico, a questo proposito, che un comunista come Luciano Gruppi, nel 1976, arrivasse ad ammettere che, restando fedeli al disegno gramsciano, non si poteva arrivare al "pluralismo". ["L'Espresso", 1976, n. 49, p. 71]. Luciano Pellicani, lo studioso che forse pi� di ogni altro ci ha aiutati a comprendere i limiti di Gramsci, ha sostenuto che restandogli fedeli non soltanto non si poteva arrivare al pluralismo, ma si giungeva addirittura "al totalitarismo ecclesiale, vale a dire al monolitismo politico, economico e culturale, l'esatto contrario della "societ� aperta" scaturita dal processo di secolarizzazione." [L. Pellicani, Il centauro comunista, Firenze 1979, p. 61]

Il comunismo � stato una dei pi� potenti movimenti politico-religiosi di tutti i tempi e Gramsci non si pose mai al di fuori di esso, contribuendo viceversa a irrobustirne le tendenze messianiche. Per spegarcelo dobbiamo ricorrere di nuovo a una spiegazione storica, questa volta legata alla grande crisi spirituale prodottasi nel mondo in seguito alla rivoluzione tecnologica. Stava crollando una grande civilt�, quella agricola, durata ben diecimila anni, e la nuova civilt� tecnologica appariva ancora informe, immatura, incapace di sostituirsi all'antica. Si attendeva insomma il messia dei tempi nuovi. I terribili strumenti della prima guerra mondiale, dai gas asfissianti agli aereoplani, avevano per di pi� svelato come anche il progresso tecnologico possedesse un volto demoniaco, rafforzando di molto le attese messianiche indirizzate verso l'istaurazione di un ordine nuovo, capace di riportare armonia nella civilt� in frantumi. Il giovane Gramsci condivise queste attese e, nella tumultuosa citt� di Torino, usc� dal suo isolamento di studente sardo, povero, infelice, stringendo legami di amicizia e di partito con tanti altri che, come lui, erano animati da queste eccitanti speranze. Il comunismo avrebbe interpretato la svolta epocale sostituendosi al cristianesimo: "Il Partito comunista -scrisse- �, nell'attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunit� religiose del cristianesimo primitivo", ma non certo al fine di perpetuarle. [A. Gramsci, L'Ordine Nuovo 1919-1920, Torino 1954, p. 156] A giudizio di Gramsci il comunismo era anzi "La religione che doveva ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch'esso � una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perch� ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realt� spirituale." [A. Gramsci, Sotto la mole, Torino 1960, p. 228]

In questo progetto politico-religioso del mondo, la societ� doveva possedere una organizzazione piramidale con il Partito comunista collocato al vertice. Nei quaderni gramsciani il partito assume il ruolo di un "Pricipe" dominatore e totalitario, quale neppure Machiavelli aveva mai disegnato: "Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali -scrisse Gramsci- in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinit� e dell' imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume." [Quaderni del carcere, p. 1561]

Il partito-Principe si trovava al vertice della piramide sociale e politica del nuovo mondo immaginato da Gramsci. Ma il partito era costituito dagli intellettuali. Essi sarebbero stati il Principe della societ� rinnovata. "Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un'affermazione che pu� prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di pi� esatto. Sar� da fare distinzione di gradi [...] non � ci� che importa: importa la funzione che � direttiva e organizzativa, cio� educativa, cio� intellettuale." [Quaderni del carcere, p. 1523] Rifuggendo dalle individualistiche torri di avorio, gli intellettuali dovevano immergersi nella vita pratica e trasformarsi in "dirigenti organici di partito", dovevano diventare insomma "intellettuali organici" come si ripet� tanto spesso nei tempi in cui le idee di Gramsci imperavano. La classe operaia, teoricamente posta al centro della storia, non possedeva la capacit� di emanciparsi da sola. Per affrancarsi dallo sfruttamento capitalistico aveva bisogno del partito e dunque degli "intellettuali organici". Da sola, sarebbe rimasta un corpo privo di testa. "L'innovazione -concluse Gramsci- non pu� diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una �lite" [Quaderni del carcere, p. 1387]. Ecco una delle ragioni per le quali il Partito comunista ebbe sempre tanto successo fra gli intellettuali: prometteva di risolvere il problema della civilt� nuova affidando proprio a loro posizioni di prestigio e di comando di gran lunga superiori a quelle che essi avevano mai raggiunte nel passato.

Fra tutti i partiti comunisti del mondo, quello italiano sub� pi� di ogni altro l'influsso delle idee di Gramsci, il che gli consent� di penetrare negli ambienti intellettuali, esercitando l'egemonia in primo luogo nei loro confronti. Ed ecco perch� esso riusc� ad essere cos� presente nei giornali, nelle televisioni, nel cinema, nelle universit�, nelle case editrici. L'utilizzazione degli intellettuali consent� inoltre al Partito comunista di potenziare e perfezionare le tecniche di propaganda come agli altri partiti non era concesso. Tutti questi fatti contribuirono a far s� che il Pci diventasse il partito comunista pi� forte e numeroso di tutto l'Occidente, in grado di esercitare il suo prestigio non solo all'interno dei confini nazionali, ma pure all'estero, inclusi vari ambienti intellettuali degli Stati Uniti d'America.

Le indicazioni di Gramsci, tuttavia, se servivano a far conquistare consistenti posizione di potere, non bastavano di certo a garantire la sopravvivenza del partito nel mondo tecnologico. Erano intimamente pervase da spirito totalitario, non avrebbero condotto il Pci a una separazione dall'Unione sovietica e non gli avrebbero neppure consentito di trovare riparo dal crollo del Muro di Berlino. Erano indicazioni intelligenti ed efficaci, le quali tuttavia non coglievano l'essenza delle gigantesche trasformazioni in atto nel mondo. Apportavano un miglioramento significativo al patrimonio culturale del marxismo-leninismo, ma non comportavano un superamento di esso, come sarebbe stato necessario.

(*) Le citazioni dai Quaderni del carcere sono tratte dalla edizione curata da Velentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975.

Martinotti a Ricolfi

Sinistra antipatica o una questione di stile?
Guido Martinotti


Caro Luca,
la faccenda della sinistra antipatica, che hai ripreso nella intervista al Corriere del 5 Gennaio mi convince poco. Da un certo punto di vista � constatazione ovvia, perch� chi vuole cambiare le cose deve anche battersi contro l�ideologia (cio� la visione del mondo che fa comodo alle classi dominanti) e questa non pu� certo essere una �operazione simpatia�. La sinistra � sempre stata antipaticuzza, come, nel nostro mestiere, lo sono i metodologi, che devono sempre far le pulci agli altri per beruf. Chi vuole cambiare deve proporre una moralit� diversa, forse non migliore, ma diversa (come � stato convincentemente dimostrato da Karl Mannheim, pi� di recente ripreso, con altri, anche da Paul Ricoeur) altrimenti che motivazione cՏ? Mi sembra che, al contrario di quel che dici, la �sinistra di governo� dimostri scarsa diversit� morale.

Ecco perch� � particolarmente deprimente, e in questo concordo con una opinione diffusa che tu riprendi, che alcuni leaders dei Ds non siano riusciti a trovare uno stile di potere che li diversifichi dagli altri. E la riprova � che i loro sostenitori sono pubblicamente desolati della mancanza di specificit� e differenza, mentre gli avversari ne gongolano in modo plateale, a cominciare da chi, con tutta probabilit�, ha fatto diffondere le intercettazioni. Nessuno nega a Massimo D�Alema il �diritto� di comprarsi una barca, ma non � questione di diritti: � una questione di stile. Che diremmo se Blair, che pure non � un trappista, si presentasse un giorno con caschetto bianco, stivali, frustino e mazza da polo? C�era davvero bisogno di comperarsi una barca cos�? Ci sono molti modi di fare la vela, ma appare particolarmente stonato che chi proviene dal partito comunista scelga quello pi� vistoso e meno sportivo: regate che sono spesso solo delle passerelle del lusso. Forse io ho una concezione troppo austera della vela, di derivazione Glenaniera, ma ho sempre pensato che il vero velista � quello che le scotte se le cazza da s�, non quello che le fa cazzare da robusti giovinotti al macinacaff�, mentre lui � in posa alla ruota del timone. E poi la vela � un lusso che si misura rigorosamente in piedi, se non in pollici, e uno come D�Alema sar� sempre considerato un parvenu, senza il necessario numero di piedi.

Per� la tua affermazione che gli intellettuali di sinistra non siano critici della propria parte � fattualmente infondata: da Fo, a Stajano, a Pardi, a Moretti, a Flores, a Deaglio, a Bosetti, a Furio Colombo. Andiamo, Luca: la lista � veramente lunga. In tutta questa faccenda mi sembra poi sorprendente che, sulla scia del tuo libro, tutti concordino entusiasticamente che sia la sinistra a peccare di righteousness moralistica proprio nel pieno di una offensiva della destra che si presenta come l�unica portatrice di �valori� � ovviamente i propri, perch� quelli degli altri non contano. Ma dove guardate?
Il punto che pi� mi ha colpito della tua intervista al Corriere riguarda l�universit� e la scuola. Scrivi che �il ceto intellettuale ha fatto scena muta di fronte alla distruzione della scuola e dell�universit� di cui sono stati protagonisti due ministri di sinistra: Luigi Berlinguer e Tullio de Mauro.� A parte che un precisino come sei tu dovrebbe sapere che la riforma dell�universit�, cio� la legge 509, � stata attuata dal Ministro Zecchino (come ricorda sempre puntualmente, anche di recente su La Repubblica, Aldo Schiavone) la tua � una frase fatta. Per quanto mi risulta c�era ben poco da rovinare, ma forse anche se eravamo nella stessa universit� abbiamo visto due realt� diverse: tu eri un giovane ed entusiasta ricercatore, io un preside alquanto pi� critico. Comunque questa frase fatta viene ripetuta pedissequamente da molti, anche se non tutti la pensano cos�. Per�, nel dirla, tu abbandoni del tutto la tua rigorosa posa metodologica e butti l� una opinione soggettiva come verit� accertata e condivisa, ma, allora, a che serve la tua competenza di ricercatore? La �scena muta del ceto intellettuale� poi � affermazione priva di un qualsivoglia riscontro empirico: scusa, ma dove hai vissuto in questi anni? Su queste riforme (scuola, universit�) cՏ stato un dibattito accesissimo: prima, durante, dopo. Si sono pubblicati a favore e contro decine di libri e centinaia, a dir poco, di articoli. Di qualit� variabile, lo ammetto, anche se un lettore che avesse un minimo di pazienza non ci metterebbe molto a separare il grano dal loglio. Ti sfido a trovarmi una riforma universitaria o una riforma tout court che sia stata pi� dibattuta di questa. E� un dibattito che continua ancora oggi e chi ha una posizione critica verso la riforma lo grida dalle colonne dei principali quotidiani, esattamente come stai facendo tu. Ma sono spesso opinioni e affermazioni gratuite, come la tua, buttate l�, con molta alterigia e poca informazione aggiuntiva: argomentazioni e dati a sostegno se ne leggono veramente pochi.
Tuo, Guido Martinotti

Egemonia, non lasciamo alla destra una cosa troppo seria

Egemonia, non lasciamo alla destra una cosa troppo seria

di Angelo d'Orsi

su Liberazione del 01/11/2005

Ricco di spunti di riflessione il convegno realizzato a Napoli e a Salerno. Dai primi usi della parola nell'antica Grecia di Tucidite e Erodoto all'elaborazione di Antonio Gramsci che fa compiere al lemma un netto salto di qualit�

Un convegno ricco di spunti preziosi quello intitolato "Egemonia. Usi e abusi di una parola controversa", appena concluso a Napoli-Salerno, dove � stato organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, le fondazioni Gramsci di Roma e di Torino, il Dipartimento di Filosofia dell'Universit� di Napoli e quello di Sociologia e Scienza della politica dell'Universit� di Salerno.
L'"egemonia" in Grecia � l'istituto politico che nei rapporti fra le poleis indica la preponderanza politico-economica di una di esse, alla quale spetta la guida. Lo Stato egemone dirige la guerra e gestisce i contributi che gli affiliati debbono alla cassa comune della Lega che unisce quel gruppo di citt�, e nomina i comandanti. La parola � usata da Tucidide: "egemoni" sono gli Ateniesi in seno all'Alleanza contro i Persiani: si intende un potere che trapassa dal piano militare a quello politico. Ma prima di lui il termine si trova in Erodoto, sia con il significato politico-militare, sia con quello pi� ampio di guida ed indirizzo.

La parola italiana � registrata ai primi del XIX secolo (fra gli autori, Gioberti). Da allora ha compiuto il percorso nel quale via via si intorbidava� Soltanto l'elaborazione di Gramsci fa compiere un salto di qualit� sul piano teorico al lemma, non senza i significativi impulsi che troviamo in teorici che lo precedono, segnatamente in Labriola, a prescindere dal ricorso alla parola (l'ha dimostrato Luigi Punzo) o, naturalmente, sul piano extra-italiano, Lenin, che lo riprende da Plechanov, contribuendo a un dibattito importante fra i bolscevichi (come ben documenta il contributo di Anna Di Biagio).

V'� per� indipendentemente dalla terminologia marxista, un largo impiego del termine nelle relazioni internazionali, a cominciare dai tedeschi Ranke e Dehio (se ne sono occupati sia Vittorio Dini sul piano teorico, sia Giorgio Carnevali relativamente all'attuale contesto); nell'ambito marxista, proprio sulla scorta delle indicazioni gramsciane (peraltro contestate aspramente da Amadeo Bordiga, come ha mostrato Gianfranco Borrelli), il dibattito sull'egemonia ha avuto fortuna, anche quando per tanti, compresi gli ex-comunisti (pentiti, e pronti a giurare di non esserlo mai stati), Gramsci era diventato un "cane morto". Eppure, sul piano internazionale negli ultimi decenni il pensiero di Gramsci ha conosciuto un'enorme fortuna, anche tra studiosi che non avevano nulla a che fare con il marxismo o con il comunismo. Egemonia, rivoluzione passiva, blocco storico, cesarismo progressivo e regressivo, societ� civile� sono diventati patrimonio comune di scienziati politici, filosofi, storici, letterati, rivelando una impensata capacit� di fornire contributi rilevanti all'analisi del mondo contemporaneo.

L'accezione gramsciana del termine � stata, nella ventina di relazioni presentate, davvero "egemonica"; anche se - come diversi interventi hanno posto in luce - non mancano oscillazioni nei testi, tanto da lasciar spazio a interpretazioni non sempre univoche: il tragitto � stato ricostruito da Giuseppe Cospito, mentre Giuseppe Vacca ha insistito sulla novit� dei Quaderni del carcere rispetto alla precedente elaborazione (ricostruita da Francesco Giasi), dando una lettura del concetto specie in chiave internazionalistica, e Guido Liguori ha con attenzione ripercorso la complessa storia delle interpretazioni date dell'egemonia gramsciana nel corso dei decenni. Anche se la sua connessione con l'economia � forte (l'ha messo in evidenza Alberto Burgio), � fuor di dubbio la dimensione sovrastrutturale del concetto, che si intreccia a questioni come il consenso, il ruolo degli intellettuali, la rinuncia alla coercizione (di qui Pasquale Voza ha costruito un percorso di attualizzazione verso la nonviolenza); interessantissimo il confronto con Croce (di cui si � occupato Salvatore Cingari). Per Gramsci, in sostanza, un gruppo politico o sociale pu� impadronirsi del potere ed esercitarlo solo se, esprimendo un insieme di valori, esercita l'egemonia sul resto della societ�, ottenendo il consenso delle altre classi.

Insomma, il convegno ha ribadito che l'egemonia � legata indissolubilmente, nel dibattito pubblico e nella cultura, a Gramsci. Eppure a questa presenza non corrisponde una circolazione reale del concetto fra gli studiosi delle diverse discipline interessate, dalla scienza politica alle dottrine politiche, dalla filosofia alla linguistica, dalle relazioni internazionali alla giuspubblicistica� Sicch� mentre questo concetto, cos� come Gramsci ce lo affida, pu� essere usato anche prescindendo da lui, essendo diventato patrimonio del pensare, mezzo di penetrazione e di scomposizione nel reale a fini di comprensione, prima che di azione, in Italia l'egemonia � stata, perlopi� una parola maledetta, usata da parte di una destra che ha cambiato varie volte fisionomia per colpire la sinistra. Raoul Mordenti, con grande efficacia, ha mostrato che si intende colpire Togliatti e il suo ruolo nella storia italiana, e io stesso ho ricostruito il dipanarsi di queste polemiche, dalle prime isteriche reazioni all'assegnazione postuma del Premio Viareggio alle Lettere dal carcere di Gramsci (1947), libro che fece scoprire innanzi tutto l'eccezionale tempra dell'uomo, fino ai via via pi� pretestuosi attacchi della coppia Galli della Loggia-Panebianco sul Corriere della Sera. Ma davvero gli strumenti della produzione e della diffusione culturale sono stati appannaggio della sinistra? Possibile che essa avesse il controllo di testate giornalistiche, cattedre universitarie, editori, radio, televisioni, case di produzione cinematografiche e quant'altro? L'annosa polemica sull'Einaudi, come ho dimostrato (ma se ne sono occupati anche Mordenti e Zanantoni), non ha vero fondamento, anche negli anni in cui i rapporti tra direzione del Pci e vertice della casa torinese furono stretti; in realt�, sempre, fu interesse reciproco conservare l'indipendenza. E la pubblicazione delle opere di Gramsci, usata dai detrattori come una "prova" della cattiva egemonia dei comunisti, con l'occhiuta regia di Togliatti, mostra la lungimiranza sia dello staff editoriale, sia della leadership del Pci, a cominciare dal vituperato Togliatti.

Il Convegno aveva, in definitiva, lo scopo di capire se questo concetto "plurale" (Burgio) - che con Antonio Gramsci trova il suo baricentro, ma che pu� altres� indirizzarsi verso fecondi confronti con altri pensatori, quali Edward Said (cui � attento Giorgio Baratta) - anche da noi possa riprendere a circolare nel mondo degli studi, dalla linguistica (di cui si � occupato Giancarlo Schirru) alla Scienza politica (a cui si � dedicato Silvano Belligni) e come ci si possa difendere da letture riduttivistiche e volgari: e la risposta � decisamente positiva. Insomma, � ora di dire che l'"Egemonia" � cosa troppo seria per lasciarla in monopolio alla destra pi� retriva o a un pensiero neocon che, ammantato di liberalismo e modernismo, conduce le sue battaglie, prima ancora che contro il sole dell'avvenire, contro il lume della ragione.

20.1.06

Cicchitto: La continuit�à dei comunisti

Pubblichiamo il discorso tenuto dall'On Fabrizio Cicchitto in occasione della sua visita al comitato redazionale di Ragionpolitica, lo scorso 12 febbraio. E' di particolare interesse il riferimento alla continuità storica e ideologica del comunismo italiano.

La continuità dei comunisti
di Fabrizio Cicchitto - 26 febbraio 2005

La carta di identità della sinistra di oggi, protagonista di un'opposizione urlata e senza contenuti programmatici apprezzabili, porta la fotografia del partito comunista più importante dell'Occidente europeo. Il fallimento delle strategie della sinistra è nelle ragioni del fallimento del sistema comunista, alla cui ideologia l'Unione odierna è ancora in gran parte intimamente legata.

Per quanto gli storici e i dirigenti comunisti e post comunisti si siano affannati a dimostrare l'autonomia del PCI da certe inclinazioni e scelte del Partito Comunista Sovietico, una vera indipendenza sostanziale da Mosca non c'è mai stata; ha semmai sempre prevalso l'organicità e il fedele sentimento verso la centrale sovietica del comunismo internazionale. Il mito della rivoluzione bolscevica internazionale era giunto anche da noi, nella prima metà del '900; e si incamminava verso la sua probabile realizzazione storica con la resistenza comunista nell'ultima guerra. Il sogno dei comunisti di allora era vedere l'Italia nella sfera sovietica del Patto di Varsavia. Lo stesso comportamento di Togliatti parla chiaro, nonostante la vulgata storica di parte che si è stratificata sui fatti di quegli anni fino ad occultarne almeno parzialmente la verità sostanziale.

Proprio su Togliatti potremmo aprire un capitolo vasto e interessante; per quanto i comunisti di oggi si dicano progressisti e aperti al confronto, difendono Togliatti e ne sostengono un'interpretazione "autonomista". Ma l'ex "compagno Ercoli", fin dai tempi del suo soggiorno moscovita, in cui faceva parte del gruppo dirigente del Comintern, fu uomo di fede stalinista rigidamente ortodossa, condividendo anche la correponsabilità di "grandi processi".

La stessa "svolta di Salerno", presentata nei libri di storia come una coraggiosa e autonoma scelta di Togliatti, fu in realtà un decisione imposta da Stalin. Il dittatore sovietico, nel rispetto della geopolitica di Yalta, fece presente la necessità di lasciare l'Italia fuori dalla strategia rivoluzionaria comunista: l'alterazione dell'equilibrio internazionale che ne sarebbe conseguita non sarebbe certo stata gradita agli americani. Dunque anche la tanto decantata strada democratica non fu che il frutto dell'ennesimo atto di obbedienza al partito guida (buon per l'Italia!). L'ortodossia di Togliatti, inossidabile fino all'ultimo, è ravvisabile anche nella pressione da lui esercitata su Mosca in favore dell'intervento in Ungheria.

Nel '68 questo comunismo ancora organicamente legato a Mosca e che cercava di utilizzare il concetto gramsciano di egemonia in una duplice versione (conquista delle "casamatte" politico-culturali del sistema: scuola, giornali, TV, magistratura; politica delle alleanze: il compromesso storico, per conquistare il sistema dall'interno, fu scavalcato a sinistra dal movimentismo prima studentesco ('68) poi operaio ('69). In quel movimentismo dapprima furono prevalenti elementi di liberazione personale (fra cui quella sessuale) poi prevalsero in esso tutte le componenti ereticali della storia della sinistra (maoismo, trotskismo, guevarismo). Anche per risposta allo stragismo rapidamente in quelle derive estremiste prevalsero le componenti da cui derivarono forti correnti terroriste (BR, Prima Linea) che si proponevano di costruire il partito armato per la rivoluzione. Uno dei retroterra di quel terrorimo fu la componente partigiana di origine secchiana che coltivava la teoria (e poi la pratica) della "resistenza tradita".

Quel movimento tutto era fuor che pacifista, fuor che democratico. Questa è stata la stagione che ha formato buona parte della classe intellettuale di oggi, ancora prona ai miti internazionalisti del comunismo tradizionale, riciclati in salsa terzomondista, filoaraba, pacifista e ambientalista; estendendosi perfino ad interessare il cristianesimo sociale. Le Brigate Rosse ebbero rapporti con i Palestinesi e con i servizi cecoslovacchi, con Carlos. La stagione violenta del terrorismo è figlia di quella rivoluzionaria che l'ha preceduta.

Il messaggio totalitario si è affievolito man mano che ci si addentrava negli anni '80, fino alla caduta del muro di Berlino e dell'impero sovietico. Quegli avvenimenti, liberatori per l'umanità, rappresentano il crollo dei riferimenti storici del comunismo italiano. In quel momento la storia rigettava l'ideologia comunista come un pensiero totalitario che sapeva produrre solo dittature sanguinarie. Il cambio del nome, da PCI a PDS, non fu il frutto di una conversione democratica della sinistra comunista, ma di un'operazione politica e tattica, di un preciso calcolo strategico: come salvare il partito nella nuova situazione mondiale. Infatti il cambio del nome non avvenne prima, bensì dopo il crollo del muro: fu la conseguenza di una necessità strategica nel quadro politico improvvisamente mutato.

Da allora, non potendo più sperare nella realizzazione del socialismo storico con i mezzi tradizionali, è apparso utile il ricorso alla rivoluzione giustizialista: questa è stata Mani Pulite, che fra il 1992 e il 1994 ha fatto tabula rasa di un'intera classe politica italiana che poteva essere in qualche modo di ostacolo alla conquista del potere da parte dei comunisti (riciclati o meno).

Adesso che anche quel progetto si è impantanato, alla sinistra di matrice comunista è rimasto solo il pensiero negativo, accompagnato dalla retorica della demonizzazione. La sinistra è solo anti-qualcosa, perché non sa più cosa deve pensare nemmeno di se stessa. Le resta l'odio per Berlusconi e per tutto ciò che è diverso da lei: in questa chiave si possono intendere l'antiglobalismo, l'ambientalismo integralista, lo stesso filoarabismo portato alle estreme conseguenze. Ma sotto a tutte queste posizioni, complessivamente antioccidentali e antidemocratiche, c'è il DNA del comunismo, la sua propensione utopistica e rivoluzionaria, la sua anima totalitaria e intollerante.

Il comunismo sembra morto, e di certo le sue terribili forme storiche non sono oggi riproponibili; ma l'idea è viva e produce odio misto ad una pratica politica inaccettabile fatta di calunnia e slealtà, di menzogna e progettualità antidemocratica. Ad un periodico come Ragionpolitica è affidato il compito di formare una specie di "diga culturale" contro le ricette e i messaggi di una diffusa retorica negativa; la missione di fungere da autentico polo innovatore contro le armi dei veri conservatori, che non stanno certo nella Casa delle Libertà.

19.1.06

Baget Bozzo: Perch� non possiamo non dirci anticomunisti

Perch� non possiamo non dirci anticomunisti
di Gianni Baget Bozzo - tratto da Il Giornale del 2 febbraio 2005

E' singolare che si possa pensare a una chiusura del problema comunista in Italia quando due partiti comunisti sono rappresentati in Parlamento. Ma l'anticomunismo � una parola difficile da pronunziarsi; lo era gi� ai tempi in cui Togliatti considerava l'anticomunismo una parola sconfitta. Ed eravamo nel corso degli anni '50.

La ragione � che il Pci � riuscito a creare un linguaggio politico, che � diventato lentamente maggioritario nella cultura italiana e ci� ha determinato il fatto che non si potesse pi� parlare di anticomunismo come posizione culturale. Veniva cos� definito l'anticomunismo come un mero linguaggio propagandistico privo di dignit� culturale. La stessa Dc abbandon� rapidamente la sua posizione di centro, definita una corrispondenza di antifascismo e di anticomunismo. Pur tuttavia la questione comunista esisteva e diveniva la base di linguaggio anche dei movimenti che nascevano a sinistra del Pci.

Ancora oggi esiste in Italia una questione comunista, non limitata alla sola esistenza dei due partiti comunisti. Essa appare anche nel modo in cui il Pci � passato alla nuova definizione di Democratici di Sinistra. Il gruppo dirigente del Pci si � trasferito nel nuovo partito eliminando una generazione di comunisti, quella che era stata dirigente in prima persona nel Pci negli anni della sua egemonia. Vi fu un ricambio generazionale all'interno del medesimo gruppo dirigente: vi fu perci� una perfetta continuit�, sicch� in realt� l'identit� comunista rimase, declinata al passato, l'identit� di base del partito.

Proprio grazie a questa identit� del Pci il Pds si salv� dalla tempesta di Tangentopoli: esso era gi� strutturato in modo da evadere l'azione della magistratura e di emergere duro e puro anche nella figura di Primo Greganti. Ne venne il paradosso che il partito pi� compromesso con finanziamenti illeciti provenienti dall'Unione Sovietica riusc� a passare come il partito chiave del passaggio alla seconda Repubblica.

La base di tutto era il fatto che il Pci possedeva una forte identit� dovuta al tema della rivoluzione, che gli consentiva di rimanere intatto e sopportare tutti i cambiamenti esterni nella conservazione della propria identit�. Il Pci-Pds riusc� a cambiare il suo linguaggio politico rimanendo se stesso, conservando la memoria comunista come sua differenza e come base della sua militanza.

Ci� fu percepito dall'opinione pubblica ed � alla base della nascita della Casa delle Libert� in Italia, cio� della ribellione dell'elettorato di centro alla gestione della grande crisi da parte del Pci-Pds. L'anticomunismo, emarginato nella cultura politica, rimaneva nella cultura di base. Il sentimento della differenza dei comunisti era percepito dagli elettori di centro nonostante tutta la stampa accettasse, nel '94, che il passaggio alla seconda Repubblica, legato al sistema maggioritario, fosse gestito da un partito postcomunista.

L'anticomunismo � una posizione legata al sentimento degli elettori anche quando ad esso viene negata la dignit� culturale. La prova evidente sta nel fatto che, per quanto il Ds fosse l'unico partito veramente esistente, esso cerc� sempre di velare la sua presa del potere con alleanze che portavano al vertice candidati non comunisti (Prodi, Rutelli) e sostenne partiti non pi� esistenti, come i Socialisti Italiani o i Repubblicani Europei, pur di vincere il sentimento, diffuso nel paese, che i Ds siano l'unica forza sopravissuta alla prima Repubblica e la vera guida di tutto il centrosinistra. I primi a rendersi conto che la questione comunista esiste nel paese sono appunto i Ds, disposti a qualunque cambiamento di facciata e di linguaggio pur di conservare quella unit� profonda che a loro deriva dalla memoria rivoluzionaria.

L'anticomunismo non � una cultura politica in Italia per via dell'egemonia comunista della cultura che dura dagli anni '50, ma � una questione politica vivente nel paese. Gli elettori del centrodestra comprendono che il nucleo forte del centrosinistra � ancora la memoria comunista, che d� una militanza.

Il titolo di governo di una coalizione di sinistra � sempre questa militanza che trae dalla sua memoria, e non dal consenso, la sua profonda legittimit�. La questione comunista esiste nei Ds prima ancora che nei partiti che si dichiarano formalmente comunisti. L'identit� comunista che conta � quella rimossa dai Ds pi� di quella emergente in Rifondazione e nei Comunisti Italiani.

Rosti: I comunisti esistono ancora

Simone ROSTI
I comunisti esistono ancora

Finalmente dopo sessant'anni dallo spaventoso esodo dalla Dalmazia e dall'Istria e dai massacri compiuti dai comunisti titini col sostegno dei partigiani comunisti italiani, la Camera ha approvato la legge che istituisce la Giornata del Ricordo delle vittime delle Foibe e degli esuli istriani.

E' senz'altro una svolta importante. E' un segnale positivo per la storia d'Italia, perch� rappresenta un momento di memoria condivisa da quasi tutti i partiti. E' un passo in avanti verso una rivoluzione culturale che l'Italia necessita affinch� venga riconosciuto universalmente che il comunismo � stato, ed � a tutt'oggi, un sistema criminale mirato all'annientamento della libert�, della dignit� e della vita umana.

Tuttavia, sebbene vi sia stato un segnale positivo e condiviso (la norma � stata votata da 502 deputati, 15 quelli contrari, e 4 gli astenuti) ha dimostrato ancora una volta, se ve ne fosse stato bisogno, che i comunisti esistono ancora. Ma hanno sub�to l'influenza delle teorie marxiste applicate alla scienza, vale a dire dell'evoluzionismo darwiniano. Mi spiego. Dal ceppo originario dei comunisti si sono evolute (o involute) due specie: i comunisti senza comunismo e i vetero comunisti, quelli duri e puri.

I comunisti senza comunismo (post-comunisti, catto-comunisti) nelle parole di due dei loro massimi rappresentanti, il segretario nazionale Fassino e il capogruppo alla Camera Violante, hanno fatto un passo in avanti nel riconoscere il dramma degli esuli italiani, amputati della propria identit� per volere del comunista Tito, rilevando in tal modo alcune responsabilit� (almeno morali) dell'allora PCI. Tuttavia, i due esponenti DS hanno "dimenticato" di affrontare il dramma delle foibe (le cavit� carsiche nelle quali i comunisti jugoslavi aiutati da partigiani marxisti gettavano cittadini italiani, colpevoli solo di essere vittime designate di un progetto di pulizia etnica), perch� ci� avrebbe comportato una riflessione e un mea culpa sulle responsabilit� del Partito Comunista Italiano. E avrebbe aperto un'ulteriore discussione rispetto a certi disegni, gi� teorizzati da Gianpaolo Pansa ne "Il sangue dei vinti", dei partigiani comunisti tesi a una seconda guerra civile volta a gettare le basi per una rivoluzione proletaria dopo la Seconda Guerra mondiale. Ripeto, � senz'altro apprezzabile il passo in avanti dei dirigenti DS, ma � una svolta monca, non completa. E', come spesso accade, una mezza verit�, un'ammissione di verit� storica pilatesca, in classico stile bolscevico.

Vi � poi l'altra categoria di discendenti dal ceppo comunista, quella involuta, e cio� i neocomunisti o comunisti tout-court: Rifondazione, Comunisti Italiani e la galassia che ruota attorno ad essi, l'humus di cui si nutrono (anarchici, centri sociali, no global & co.). La loro posizione rispetto a questi temi � riassumibile nelle affermazioni di Armando Cossutta (leader del PDCI): nessuna abiura, nessun passo indietro. Come dire, cari infoibati eravate agnelli sacrificali, eravate degli ostacoli collaterali ad un disegno pi� grande, quello del trionfo del Socialismo reale. E infatti Comunisti Italiani e Rifondazione hanno votato contro l'istituzione della Giornata del Ricordo: siamo comunisti e lo saremo sempre.

Nessuna novit�, almeno per chi scrive, in questo atteggiamento. Del resto i leaders di entrambi i partiti hanno gi� dato prova di estremo attaccamento all'ideologia marxista leninista. L'anno scorso il segretario dei Comunisti Italiani, Oliviero Diliberto, ha siglato un protocollo d'intesa con il Partito Comunista Cubano (l'unico movimento politico, che si identifica con lo Stato, dell'isola caraibica). Secondo l'ex Ministro della Giustizia, infatti, Cuba rappresenta un esempio da seguire, un paradiso terreno: nessuna libert� politica, nessun diritto civile, le giovani donne che si prostituiscono per mantenere la famiglia, popolazione allo stremo, nessuna elezione da pi� di quarant'anni, detenuti politici torturati e uccisi, esecuzioni sommarie. Da parte sua, invece, Fausto Bertinotti � grande amico e frequente ospite del subcomandante Marcos, leader delle FARC (le milizie rivoluzionarie colombiane) che hanno il merito, a suo dire, di lottare per i diritti dei pi� poveri. Soprattutto di quei contadini sudamericani ai quali estorcono denaro per la rivoluzione o dei cocaleros (i coltivatori dei campi di cocaina) utili pedine per il narcotraffico grazie al quale la guerriglia sudamericana si finanzia e continua a violentare un paese.

Quelle sopradescritte sono brevi ma chiare dimostrazioni dell'ancora attuale anomalia italiana (ma in parte anche europea) rispetto alla storia del Novecento: il comunismo non � ancora considerato un sistema criminale come il nazismo, nonostante la storia, dal 1917 al 2004, abbia dimostrato questa tesi. Un'eccezione culturale che necessariamente si riflette sulla vita politica del paese. La falce e il martello devono essere considerati alla stregua della svastica. I nostri studenti devono apprendere i gulag come i lager, devono avere la possibilit� di studiare Stalin, Lenin, Pol Pot e Castro come Hitler. Devono insomma imparare che il comunismo rappresenta (come il nazionalsocialismo) l'antitesi della libert�, della democrazia e della giustizia.

La sinistra e l'intellighenzia italiana continuano ad accusare Berlusconi di lanciare anatemi insensati e anacronistici rispetto alle posizioni marxiane dell'opposizione. Ma tale � la realt� e un paese intriso di rigurgiti comunisti nei propri apparati non sar� mai uno Stato realmente libero e democratico

(tratto da www.ragionpolitica.it, 19.02.2004)

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