25.11.05

L'enigma democratico (di Mario Tronti)


il manifesto 22 Ottobre 2005

La democrazia reale non e' il potere dei piu' ma il potere di tutti, in cui, nell'omologazione di pensieri, sentimenti, gusti e comportamenti, la singolarita' e' concessa nel privato ma non nel pubblico. Un'anticipazione del saggio contenuto nel volume collettaneo "Guerra e democrazia" per manifestolibri
MARIO TRONTI
Credo sia proprio venuto il momento di passare a una critica della democrazia. Questi momenti arrivano sempre, arrivano quando le condizioni oggettive del tema s'incontrano con le disposizioni soggettive di chi lo guarda, lo analizza. e' maturato su questo terreno un percorso di pensiero, che mi pare arrivi oggi a cogliere la crisi di tutto un apparato pratico-concettuale. Perche' quando diciamo democrazia diciamo questo: istituzione piu' teoria; costituzione e dottrina. E qui, su questi termini, si instaura un intreccio molto forte, un nodo anzi. Un nodo che non lega soltanto strutture politico-sociali e tradizioni forti di pensiero - quelle della democrazia sono sempre tradizioni di pensiero forti, anche se la deriva della pratica di democrazia indica oggi un terreno debole; ma si stringe anche all'interno delle une e delle altre, delle strutture pratiche e delle tradizioni di pensiero. Perche' si stringono nella democrazia, nella sua storia, una pratica di dominio e nello stesso tempo un progetto di liberazione, che si presentano sempre insieme, compresenti. In alcuni periodi - periodi di crisi, di stato d'eccezione - queste due dimensioni configgono, in altri - come in questo di oggi che e' uno stato fondamentalmente di normalita' - si integrano. E queste due dimensioni, pratica di dominio e progetto di liberazione, non sono due facce, sono una faccia sola, bifronte, della democrazia. Una volta, appunto, si vede di piu' l'una, una volta si vede di piu' l'altra, a seconda di come il rapporto di forza tra l'alto e il basso della societa' s'instaura, si dimensiona, si costituisce. Credo che a questo punto il rapporto di forza sia talmente squilibrato da una parte - dalla parte avversa a noi - che non si vede piu' che una sola fronte. Questo e' il motivo per cui la democrazia non e' piu' il meglio del peggio, e' l'unica cosa che c'e'.

Tagliare il nodo

Se questo e' il nodo, mentre nel passato abbiamo cercato di scioglierlo, adesso mi sembra sia venuto il momento di tagliarlo. E su questo, allora, si dimensiona la critica della democrazia, e assume un carattere molto radicale. La critica determinata della democrazia che qui avanzo ha un padre, l'operaismo, e una madre, l'autonomia del politico. Ed e' una figlia femmina, perche' il pensiero e la pratica della differenza hanno anticipato questa critica con la messa in questione dell'universalismo del demos, che e' l'altra faccia del carattere neutro dell'individuo, e con quel "non credere di avere diritti" che non va piu' rivolto al singolo, ma al popolo. C'e' nella democrazia una vocazione identitaria ostile alla declinazione di qualsiasi differenza, e a qualsiasi ordine della differenza. Sia il demos che il kratos sono entita' uniche e univoche e non duali, non scisse e non scindibili. La democrazia, come e' noto, presuppone una identita' di sovrano e popolo: popolo sovrano, sovranita' popolare, come dice la dottrina. A questa identita' di sovrano e popolo si e' risposto, nell'800 e poi soprattutto nel '900, con una sorta di spirito di scissione dato dalla societa' divisa in classi, che metteva il dito nella falsita' ideologica di questa identita', anzi ne metteva in crisi proprio la struttura concettuale. In quella fase la stessa divisione dei poteri, dentro un apparato che tentava il grande passaggio dal liberalismo alla democrazia e poi alla coniugazione di liberalismo e democrazia, si e' rivelata, appunto, una maschera, maschera di unita' del potere in mano a una classe. E' da qui che bisogna ripartire per seguire, genealogicamente, il percorso di compimento della democrazia, nel passaggio dal pensiero alla storia. (...)

Parlo della democrazia reale, nello stesso senso in cui si e' potuto parlare del socialismo reale. Il socialismo reale non indicava una realizzazione particolare del socialismo che lasciava aperta la possibilita' di un altro socialismo, quello ideale, perche' il socialismo si e' talmente incarnato in quella realizzazione che ormai non c'e' un recupero possibile dell'ordine simbolico che era evocato da questa parola; non e' possibile staccarla dalla realta' che l'ha incarnata. Cosi' mi pare si possa dire dei sistemi democratici contemporanei, che non vanno letti come la "falsa" democrazia di fronte a cui ci sarebbe o dovrebbe esserci una "vera" democrazia, ma come l'inveramento della forma ideale, o concettuale, di democrazia: anche in questo caso, e' impossibile salvare questo concetto dalla sua effettiva realizzazione. E, al contrario di quanto si pensa oggi, non nel passato, non nelle sue teorie, ma in questa realizzazione la democrazia e' diventata un'idea debole. Tant'e' vero che "democrazia" e' un sostantivo che abbisogna sempre di aggettivi qualificativi, infatti oggi si dice democrazia liberale, democrazia socialista, democrazia progressiva, perfino democrazia totalitaria. (...)

La democrazia ha problemi con la liberta'. Se e' vero che la democrazia reale si configura come liberal-democrazia, e che questa alla fine e' stata la soluzione vincente, e' proprio questo binomio che lega insieme liberta' e democrazia che va aggredito criticamente. Si tratta di scomporre e contrapporre i due termini - liberta' vs democrazia - perche' tanto la democrazia e' identita' quanto la liberta' e' differenza. Allora il problema della democrazia va affrontato da due lati: una critica decostruttiva della democrazia deve accompagnarsi a una teoria costruttiva, fondativa o rifondativa della liberta', del concetto e della pratica della liberta'. (...)

Mi metto nel '900, pianto i piedi in quel secolo e da li' guardo indietro e in avanti e da li' non mi muovo e non intendo muovermi. Allora su questo tema gli autori che a me tornano sono Kelsen e Schmitt, che stranamente nello stesso periodo - Kelsen nel '29 in La democrazia e Schmitt nel '28 con La dottrina della costituzione - sebbene divisi su tutto si uniscono in fondo nella critica della democrazia, o meglio nel disvelamento dell'enigma democratico. Kelsen dice: "La discordanza tra la volonta' dell'individuo - punto di partenza dell'esigenza di liberta' - e l'ordine statale, che si presenta all'individuo come una volonta' estranea, e' inevitabile. La protesta contro il dominio esercitato da uno che e' simile a noi, porta nella coscienza politica a uno spostamento del soggetto del dominio che e' inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello stato. L'imperium parte da questa persona anonima, non dall'individuo come tale, da questa persona anonima dello stato. Le volonta' delle singole personalita' liberano una misteriosa volonta' collettiva e una persona collettiva addirittura mistica".

Schmitt e Kelsen

Analoghe sono le considerazioni di Schmitt: "La democrazia e' una forma di stato che corrisponde al principio di identita'; e' l'identita' dei dominati e dei dominanti, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che obbediscono. E la parola identita' e' utile nella definizione della democrazia perche' indica la completa identita' del popolo omogeneo, questo popolo esistente con se stesso in quanto unita' politica senza piu' bisogno di nessuna rappresentanza, perche' appunto si autorappresenta". e' su questa autorappresentazione che la democrazia diventa un concetto ideale, perche' indica, dice Schmitt, "tutto cio' che e' ideale, tutto cio' che e' bello, tutto cio' che e' simpatico. Identificata con il liberalismo, con il socialismo, con la giustizia, l'umanita', la pace, la riconciliazione dei popoli, tra i popoli". La democrazia - diceva un'altra bella frase di Schmitt - "e' uno di quei complessi pericolosi di idee in cui non si possono piu' distinguere i concetti". Ecco, questo e' l'enigma democratico.

Il punto e' quindi democrazia non come forma di governo ma come forma di stato, quella cosa che si chiamava stato democratico, che ha avuto una sua evoluzione dopo l'accoppiata novecentesca di rivoluzione operaia e di grande crisi, accoppiata decisiva per la storia seguente del capitale anche cosi' come vive oggi a livello del mondo. Attraverso lo stato sociale c'e' stato una sorta di graduale processo di estinzione dello stato, non compiuto ma in questa fase a buon punto, accelerato anche dai processi della globalizzazione. L'analisi della rete del dominio mondiale conferma questo passaggio. (...)

Una tesi che mi sento di sostenere e' che il capitalismo, man mano che si sviluppa, diventa sempre piu' e sempre meglio societa' borghese. La societa' borghese sembra un termine datato, desueto, ma secondo me ha un ritorno di estrema attualita'. Proprio nel senso in cui e' partita come b�rgerliche Gesellschaft, ossia come societa' civile e societa' borghese nello stesso tempo. Tutta la storia recente dell'ultimo '900, dopo gli anni '70 del movimento e del femminismo, e tutta la vicenda che ne e' seguita come risposta, si puo' leggere nella chiave di un recupero dell'egemonia capitalistica attraverso il ritorno della figura del bourgeois. Fino a che viene a cadere la distinzione-contrapposizione fra bourgeois e citoyen, perche' quest'ultimo viene recuperato in quello. e' l'incontro, questo si' di carattere epocale, fra homo oeconomicus e homo democraticus. Gli spiriti capitalistici hanno proprio questo soggetto che e' l'animal democraticum. C'e' questa figura ormai dominante, il borghese massa, che e' il vero soggetto interno al rapporto sociale. Non ci sara' una vera efficace critica della democrazia senza un grande affondo antropologico, antropologia sociale ma anche antropologia individuale, anche qui nel senso del pensiero-pratica della differenza.

Immaginario neocons

E qui bisogna dare molta importanza all'immaginario e al simbolico. Molto si gioca su questo terreno, vedi come viene giocato questo terreno, il mito che ritorna - e ritorna dagli Usa verso di noi - della societa' dei proprietari. Viene appunto dall'America di Bush e dei neocons, da questo interessante episodio di rivoluzione conservatrice che bisogna tenere molto sotto osservazione. Del resto, la democrazia e' sempre "democrazia in America"; e gli Usa hanno sempre esportato la democrazia con la guerra. Ci si meraviglia che lo facciano adesso ma lo hanno fatto sempre, anche in Europa (...)

Al contrario di quanto si sente in giro, soprattutto nell'opinione comune progressista, nego che la fase attuale veda una centralita' della guerra. Mi pare che questa enfasi odierna su pace-guerra sia del tutto fuori misura. Le guerre vivono tutte ai confini dell'impero, nelle sue faglie critiche, ma l'impero al suo interno sta vivendo la sua nuova pace, non so se sara' anch'essa dei cento anni. Ed e' in questa condizione di pace interna e guerra esterna che la democrazia non solo vince ma stravince. Per capire la sua potenza bisogna definire la sua base di massa. La democrazia di oggi non e' il potere dei piu' ma e' il potere di tutti. e' il kratos del demos, nel senso che e' il potere di tutti su ognuno. Perche' e' il processo appunto di omologazione, di massificazione dei pensieri, dei sentimenti, dei gusti, dei comportamenti, che si esprime in quella potenza politica che e' il senso comune. Il senso comune, quando diventa di massa e s'incontra col buon senso e costruisce quest'ordine simbolico democratico, invera un po' quello che diceva Marx quando sosteneva che la teoria diventa una forza materiale quando s'impadronisce della masse: anche il senso comune diventa forza materiale quando si fa massa. E questa massa s'incardina e si riunifica non tanto intorno ai beni quanto ai valori, ed e' questa forma di massa che bisogna riuscire a definire e a capire come si possa sgretolare. Perche' almeno il corpo del re era doppio, perche' c'era ancora sacralizzazione del potere. Ora invece, con la secolarizzazione del potere, il corpo del popolo e' unico, e' univoco. (...)

Vedo insomma questa sorta di biopolitica di massa, in cui la singolarita' e' concessa nel privato ma e' negata nel pubblico. Quel comune di cui si parla oggi, quell'in-comune sembra gia' tutto occupato da questa sorta di autodittatura, da questa specie di tirannia su se stessi che e' la forma contemporanea di quella geniale idea moderna che e' stata appunto la servitu' volontaria. Dopo il tramonto delle gloriose giornate della lotta di classe, non ha vinto ne' il grande borghese ne' il piccolo borghese che abbiamo sempre odiato. Ha vinto il borghese medio. La democrazia e' questo: non e' la tirannia della maggioranza, e' la tirannia dell'uomo medio. E questo uomo medio fa massa dentro la categoria nietzschiana degli ultimi uomini . (...)

La democrazia e' antirivoluzionaria perche' e' antipolitica. C'e' un processo di spoliticizzazione e neutralizzazione che la pervade, che la spinge, che la stabilizza. E questa antipolitica della democrazia e' il punto che prendo come filiazione da tutta quella fase che ho detto dell'autonomia del politico. Del resto leggo empiricamente questo dato nella conquista e nella gestione del consenso con cui poi praticamente s'identificano i sistemi politici contemporanei. Ormai li chiamo non sistemi politici ma sistemi apolitici. La societa' occidentale e' divisa non piu' in classi, in quella antinomia del passato, ma in due grandi aggregazioni di consenso, di pari consistenza quantitativa: in tutti i paesi occidentali questo consenso, dagli Usa a noi, quando si fanno i conti alla fine risulta 49 a 48, o 51 a 50. Il consenso, insomma, e' diviso in due, perche'? Perche' da un lato ci sono pulsioni borghesi reazionarie, dall'altro pulsioni borghesi progressiste. Pulsioni, cioe' riflessi emotivi, immaginari simbolici, mossi tutti e governati dalle grandi comunicazioni di massa. Pulsioni reazionarie, pulsioni progressiste che hanno in comune pero' questo carattere medio borghese. Da un lato il conservatorismo compassionevole, dall'altro il politicamente corretto. Questi sono i due grandi blocchi, l'alternanza di governo che offrono i sistemi apolitici democratici.

Critica e'litista

In questa condizione non c'e' possibilita' ne' di essere ne' di fare maggioranza. Bisogna attestarsi su una condizione di minoranza forte e intelligente. e' da tempo che vado suggerendo, senza grande ascolto, la necessita' di rivisitare la grande stagione teorica degli e'litisti (...) gli unici ad aver formulato una critica della democrazia prima dei totalitarismi. E se quella critica della democrazia fosse stata tenuta in conto, forse una correzione dei sistemi democratici non avrebbe permesso l'eta' dei totalitarismi. Fu una critica della democrazia, quella degli e'litisti, non dal punto di vista dell'assolutismo. Ecco, su questo punto la filiazione invece e' dall'operaismo, e qui chiarisco questa affermazione che chiara non sembra. Pensando e ripensando, mi pare di capire che la classe operaia e' stata l'ultima grande forma storica di aristocrazia sociale. Minoranza in mezzo al popolo, le sue lotte hanno cambiato il capitalismo ma non hanno cambiato il mondo, e la ragione di questo e' appunto tutta da capire, ma quello che si capisce bene e' come il partito operaio sia diventato poi partito di tutto il popolo e come il potere operaio, la dove c'e' stato, sia diventato gestione popolare del socialismo, perdendo per questa via la carica distruttiva antagonista. E questo e' stato uno, non il solo, degli elementi che hanno reso possibile la sconfitta operaia.

Concludo. Non so se la moltitudine puo' intendersi come un aristocrazia di massa, se fosse cosi' questi discorsi andrebbero in qualche misura a incontrarsi e allora quest'opera di decostruzione potrebbe dare luogo a uno scatto superiore. Ma so anche che se le condizioni che abbiamo descritto permangono, il soggetto s'imbriglia dentro questa rete. Se la moltitudine rimane imbrigliata nella rete dell'attuale democrazia reale credo che non ce la fara' a uscire in modo risolutivo dalla stessa rete del potere neoimperiale. Caratteristica contemporanea dell'Impero e' infatti quella di essere un Impero democratico. Se non si mettono in crisi queste condizioni lo stesso soggetto non riesce efficacemente a manovrare politicamente, qui dentro, con una rete alternativa, per un'altra possibile rottura storica.

scheda
IL LIBRO
"Guerra e democrazia" e' il titolo del volume in libreria da martedi' prossimo (pp. 170, � 15). Edito da manifestolibri con Uninomade, una rete europea di ricercatori e di studenti che dal 2004 ha iniziato un percorso di autoformazione e di dibattito pubblico mettendo a tema i concetti, i linguaggi e le categorie che le esperienze teoriche e pratiche dei movimenti hanno espresso in questi ultimi anni. Un volume collettaneo che raccoglie testi di Mario Tronti ("Per la critica della democrazia politica") che anticipiamo in questa pagina per ampi stralci, Sandro Chignola, Alessandro Pandolfi, Filippo Del Lucchese, Christiana Marazzi, Adelino Zanini, Sandro Mezzadra, Giuseppe Caccia, Michele Surdi, Roberto Ciccarelli, Marco Bascetta, Toni Negri, Ida Dominijanni, Pierangelo Di Vittorio, Marcello Tari'. Contributi e riflessioni che si cimentano con la crisi della democrazia rappresentativa, con le trasformazioni della sovranita' nel mondo contemporaneo, con i soggetti conflittuali generati dalla globalizzazione. Nello scenario di uno stato permanente di guerra che produce continuamente nemici interni ed esterni.

20.11.05

Democrazia a rischio?

Alfio Mastropaolo
NUVOLE - 08-10-2004

Che la democrazia sia ormai talmente poco democratica da aver reso superflua la minaccia del fascismo? E’ un'ipotesi che va presa assai sul serio. Ovunque ci si giri ‑ in tutto il mondo o, ad esser più precisi, in quei paesi, numerosissimi ormai, in cui i governanti si reclutano mediante un'elezione competitiva ‑ lo spettacolo è quello d'una democrazia oppressa da una desolante povertà culturale e morale, soffocata dal conformismo, impermeabile al dissenso, indifferente al destino di settori della popolazione molto ampi. Governata da circoli ristretti e onnipotenti come non mai, che si dissimulano nell'empireo dell'economia e della finanza globalizzate, fisicamente separati dal resto della società, quest'ultima comprende grosso modo altre due fasce: una, intermedia, che oscilla tra consumi opulenti e i pericoli d'impoverimento intrinseci all'economia globalizzata, gravemente insidiata (anche se sovente non se ne accorge) dallo smantellamento del welfare, ed una fascia inferiore, che è la più pesantemente colpita dalla flessibilizzazione dell'economia e dalla contrazione del welfare, e che appare condannata alla povertà economica, alla marginalità, ma anche all'inesistenza politica, giacché in politica questi strati non contano più nulla.
Non diversamente in tre fasce si divide ormai il pianeta: la superpotenza mondiale (ricca, brutale, arrogante); i suoi vassalli, più o meno prossimi, più o meno compiacenti; la larghissima fascia dei paesi oppressi dalla miseria o dalla guerra.
Rispetto a questo sconfortante scenario, se dappertutto le cose per la democrazia vanno male, in Italia vanno un po' peg gio. Giacché assai concretamente in Ita lia si corre il rischio di una degenerazio ne aggravata, ovvero di una fascistizza zione non troppo surrettizia del regime democratico. In Italia la democrazia è in decadenza come purtroppo avviene altrove. Ma forse più che altrove rischiano di dissolversi taluni aspetti essenziali della democrazia. Sia ben chiaro. Usando il concetto di fascismo non si fa che proporre una semplificazione affrettata e pure impropria. Tra la situazione che potrebbe determinarsi prossimamente nel nostro paese e il fascismo d'antan necessariamente vi sarebbero differenze enormi. Niente del resto lascia presagire la cancellazione delle libertà formali, che la complessità della società italiana non consentirebbe. Né il ritorno delle camicie nere, anche se quelle verdi suscitano qualche sospetto. Ed è arduo immaginare qualcuno che fugge in motoscafo a fare il muratore, o che varca l'Atlantico o ripara in Vaticano. Non è pur tuttavia esclusa la prospettiva di una risoluta compressione dello stato di diritto e di una vanificazione sostanziale delle libertà formali, ovvero di un declino democratico aggravato rispetto a quello che è osservabile altrove, pur mantenendo le apparenze della democrazia, e anzi innalzandone demagogicamente le insegne.
Un accentuato declino democratico è quello che in realtà minacciano lo stile e i contenuti dei ripetuti interventi pubblici berlusconiani, insieme alle nuove riforme istituzionali annunciate da tali interventi e allo scenario che gli fa da contorno: da un lato il decadimento del sistema produttivo, di cui il caso Fiat è solo l'ultimo episodio, dall'altro lo stato di polarizzazione estrema della pubblica opinione, in virtù soprattutto della forsennata campagna d'invettive condotta dal capo del governo e dai suoi alleati contro qualsiasi barlume di dissenso e di opposizione.

La società dei «co‑co‑co»

Qual è l'idea berlusconiana di società? Ove vi fossero stati dubbi, il disegno è ormai chiaro. E’ quello di una società consegnata agli appetiti anarco‑predatori dei ceti medi indipendenti, vecchi e nuo vi (piccoli imprenditori, commercianti, nuovi liberi professionisti, una buona quota di artigiani, ecc.: il popolo delle partite Iva, dei falsi in bilancio e dell'eva­sione fiscale), che vogliono alfine consu mare la propria rivincita su chi per una certa stagione li aveva messi più in diffi coltà, vale a dire il lavoro dipendente.
L'Italia, nel quadro europeo, è notoriamente un caso anomalo. La sua brillante ascesa economica del dopoguerra ha visto protagonisti proprio i ceti medi autonomi e la loro «mobilitazione individualistica». E’ solo quando si è esaurita la crescita, negli anni Settanta, che il lavoro dipendente, protetto dai sindacati, s'è fatto avanti. Ma la fase del neocorporativismo italiano, del patto tra grandi imprenditori e organizzazioni sindacali, è stata effimera e imperfetta. Il welfare ha conosciuto una significativa espansione. Ma le rappresentanze politiche del mondo del lavoro non sono neppure giunte al governo. Tanto è bastato comunque a nutrire una gagliarda volontà di rivalsa nel ceto medio autonomo.
L'attacco al lavoro dipendente non è stato sferrato da ora. Era addirittura iniziato con Craxi, che nei ceti medi aveva intravisto un interessante potenziale elettorale. Dopo la crisi politica degli anni Novanta, l'attacco si è fatto più vigoroso. Caduto il bastione Dc, che li aveva tanto a lungo protetti ‑ mediando peraltro con il mondo del lavoro ‑ i ceti medi autonomi hanno alfine trovato in Berlusconi il loro leader. Il centro sinistra, e il sindacato, portano anch'essi le loro brave responsabilità. In nome del risanamento della finanza pubblica, e per ingraziarsi il mondo imprenditoriale, hanno ceduto non poco. Ma nulla hanno a che vedere i loro cedimenti con l'ideale berlusconiano, che è la società dei «co-co‑co» (contratti di collaborazione coordinata e continuativa): una società liberata dai rapporti di lavoro stabili, tanto nel privato, quanto nel pubblico. E’ la società dei lavori atipici, flessibili, part‑time, comunque di bassa lega (più sotto‑occupazione che occupazione, quantunque le statistiche ufficiali li spaccino per tale), che riguardano già il 10 per cento della popolazione e che sono in rapida espansione. Che ciascuno ‑ è il motto della nuova società ‑ si arrangi come meglio riesce. Nelle situazioni più gravi, gli faremo la carità. Ma il vero ammortizzatore sociale sono i loisir: tv, cinema, bingo, birrerie e tra breve pure le case chiuse.
Se questa è però la china lungo cui Berlusconi sta indirizzando la società italiana, con un impeto ignoto alle altre società europee (fatta eccezione per la Gran Bretagna), a complicare le cose ci si mette lo stallo che da tempo travaglia l'economia italiana. Sulle cause di tale stallo varrebbe la pena riflettere con cura. Vi hanno di sicuro concorso gli auspicabili, ma titanici sforzi per aderire alla moneta unica, in particolare quelli compiuti per risanare la finanza pubblica, ma forse ancor più l'ondata di privatizzazioní e di deregulation, voluta dal centrosinistra, ovvero la troppo repentina, e perciò sconsiderata, esposizione (viste le sue condizioni) dell'economia italiana alla concorrenza internazionale: né in Francia, né in Germania si è proceduto a deregolare e privatizzare con altrettanto entusiasmo. Né va dimenticata l'antica, ed estrema, fragilità del ceto imprenditoriale nazionale, una volta per tutte rivelata dal collasso di quella che veniva definita la sua «ala nobile». Che questo ceto fosse debole, culturalmente innanzitutto (donde la sua antica incapacità di assumersi alcuna responsabilità politica), lo si sapeva da sempre. L'integrazione dell'economia italiana in quella europea lo ha sottoposto a un clima concorrenziale assai vivace, al contempo privandolo di ogni stampella statale esplicita o occulta che fosse.
Nell'Italia che ha varcato la soglia del terzo millennio, in ossequio allo spirito dei tempi, ad una campagna denigratoria devastante e a politiche sconsiderate, è ormai scomparso lo Stato, che in passato, grazie ad alcuni nuclei di burocrazia pubblica di ottimo livello, nonché grazie alle partecipazioni statali (ai tempi buoni dell'Iri e dell'Eni, non ai tempi del loro degrado), non poco aveva sopperito alle carenze del sistema imprenditoriale. Ed è in pari tempo scomparsa ‑ o è ridotta a esili fantasmi ‑ la grande impresa: quella capace di innovazione tecnologica e di profittare delle opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati. Non c'è più la chimica fine, né l'industria farrnaceutica. Non c'è più l'elettronica. La meccanica è considerevolmente decaduta. Se ne sta andando la Fiat. Il sistema bancario è ritenuto unanimemente debolissimo e anche una potenza finanziaria come Generali è vittima di una spietata guerra per bande che potrebbe ridislocarne oltre confine la proprietà, come potrebbe presto o tardi accadere anche all'Eni. Mentre quel che rimane è un bel po' di distretti industriali (rubinetti pentole, divani, maglieria e compagnia cantando), vitali, ma comunque a bassa tecnologia, sottoposti a una spietata concorrenza da parte dei paesi di nuova industrializzazione, che potrebbero magari andar bene come contorno ad un «cuore» industriale robusto, ma che fanno corona invece solo ad alcune grandi aziende di servizi (Mediaset, protetta personalmente dal capo del governo; Telecom, coperta di debiti; Alitalia, in difficoltà come tutte le compagnie aeree, l'Enel in via di definitiva privatizzazione e smembramento, ecc.). Se a tutto questo aggiungiamo gli inconvenienti «normali» della globalizzazione e del progresso tecnologico (in primis la perdita di posti di lavoro in tantissimi settori: industria, banche, distribuzione, ecc.), non c'è niente di cui rallegrarsi.
Per rifarsi, imprenditori grandi, intermedi, piccoli e piccolissimi, capeggiati da Berlusconi, sono partiti all'attacco della spesa pubblica e del lavoro dipendente.
In più, Berlusconi gli ha promesso il ritorno ai vecchi metodi della tolleranza fiscale, del lassismo urbanistico e ambientale e magari della corruzione. Resta il fatto che la società italiana nell'insieme consuma poco. Se le categorie ad alto reddito si danno ai consumi di lusso e alla loro ostentazione, la società nell'insieme è depressa. Quindi, troppo poco consumano le altre fasce dei ceti medi, indipendenti e dipendenti, in apparenza situati al di qua della soglia di povertà, che sperano in Berlusconi per pagare meno tasse, ma che intanto sono ben lungi da una condizione stabile di benessere e di sicurezza. C'è poi la fascia amplissima che è collocata al di là della soglia della povertà e dell'esclusione. Ebbene, come potrà mai sostenere l'economia un popolo di consumatori che teme per il futuro, o che non ha i mezzi per il presente? Se poi questo popolo quando consuma, compra auto tedesche e giapponesi, cellulari finnici e personal taiwanesí, abiti made in India e mobili made in China, chi ne approfitta sono le esportazioni altrui e non il sistema produttivo di casa nostra. Il quale ristagna, anzi langue, inficiando di riflesso la capacità di spesa dello Stato. Le entrate fiscali si contraggono, il berlusconismo ideologicamente gli ha dato una mazzata, anche legittimando ulteriormente l'evasione, e ha iniziato a tagliare taluni servizi fondamentali, alcuni di per sé già stressati, e non poco, dall'andamento demografico (sanità e pensioni), altri che sarebbero vitali come scuola, università e ricerca.
A Berlusconi e all'alleanza politica e sociale che lo sostiene della scuola o della ricerca importa ben poco. I beni culturali sono pronti a venderli. Anche se i loro calcoli sono molto miopi, il declino del pubblico giova al disegno d'ingrassare il privato (magari «sociale»: le cooperative cielline), trasferendogli taluni servizi: sanità e scuola in primo luogo. Ma tutta la clientela potenziale del privato dovrà pure trovare i quattrini per pagare tali servizi. Le Monde del 9 gennaio, nel suo editoriale, scriveva che il governo italiano sta fronteggiando le difficoltà drammatiche della finanza pubblica con espedienti degni della Enron: «finanza creativa» e condoni. Per domani si pensa alla devolution, la quale serve proprio a questo: il primo passo è il trasferimento di competenze alle regioni, il secondo, ovvia e inevitabile conseguenza del primo, sarà il «federalismo fiscale»: le regioni al momento più ricche si terranno buona parte delle loro entrate fiscali, le regioni del Mezzogiorno saranno nei guai e s'impoveriranno ancor di più. Anche questo calcolo, ovviamente, è molto miope. Se il Veneto riuscirà a salvarsi a breve termine, non sarà così nei tempi medi, tenuto conto non solo della fragilità di fondo dell'economia di piccola impresa, ma anche del fatto che le altre regioni italiane sono un mercato fondamentale per il suoi prodotti. Forse confidano nei tempi lunghi, quando saremo tutti morti. Ma viviamo in epoca in cui i tempi lunghi minacciosamente si accorciano.
Lungi dal confidare nei tempi lunghi, c'è dunque da temere già per l'oggi e il domani. E’ difficile immaginare che finisca come in Argentina. Dove si assaltano i supermercati e le banche, manca ogni parvenza di mobilitazione politica e la società si arrangia malamente riscoprendo il baratto. La nostra storia è ben altra. E lasciamo pure da canto le ricorrenti teorie della catastrofe e del declino irreversibile. Il capitalismo, in genere, e le sue varianti nazionali hanno sempre dato prova di grande vitalità e di inattese capacità di recupero. Perché mai l'Italia non dovrebbe riprendersi? Allo stato degli atti c'è tuttavia da aspettarsi che il decadimento in atto dell'economia non si arresti troppo presto: la già ricordata debolezza del ceto imprenditoriale si somma alla mancanza di una qualche regia da parte dello Stato. Quanto alla dequalificazione dei servizi pubblici, con essa è ovvio si aggravi, e in misura sensibile, il disagio sociale che già ha investito i ceti deboli, allargandoli non poco, e che sta per coinvolgere le classi medie, al di là di quanto il governo si aspetta e ha messo in conto. E disagio sociale potrebbe significare non solo allentamento del tessuto sociale (con quello che già comporta: microcriminalità, consumo di stupefacenti, ecc.), ma soprattutto processi di mobilitazione collettiva e instabilità elettorale e politica.
Aggravato dai consistenti flussi migratori in entrata e dalla problematica integrazione degli immigrati, il berlusconismo tratta l'allentamento del tessuto sociale drammatizzandolo: ovvero la destra cerca consenso strumentalizzando le paure suscitate dall'immigrazione, dalla criminalità, dalla prostituzione per le strade e elabora politiche repressive, discriminatorie e razziste, non troppo diverse peraltro da quelle adottate in alcuni paesi europei volte a esorcizzare l'ossessione «securitaria» suscitata tra i cittadini. Quanto a una possibile ripresa della mobilitazione collettiva, per ora all'orizzonte non c'è un imprenditore politico in grado di attizzarla dandole un senso, né si avvertono segni decisi d'inversione di tendenza nelle preferenze degli elettori: ma anche questo potrebbe prima o dopo accadere. Con danni per Berlusconi alquanto gravi.

Qualche problema di consenso

Per Berlusconi si pone insomma un problema di consenso alquanto ostico. Una parziale ipotesi di soluzione è lo stato di divisione che il berlusconismo ha prodotto nella pubblica opinione, che non ha precedenti nell'ultimo mezzo secolo. La semina d'odio che il berlusconismo ha effettuato è anzi un pezzo importante della situazione italiana. Dove, lo si è detto tante volte, manca un tessuto di valori comuni. E' probabile, anzi sicuro, che questo tessuto mancasse in partenza. Forse è sempre mancato. Ma a tale mancanza ha, almeno nel dopoguerra, supplito la Costituzione, in quanto sistema di regole buone a far convivere attori divergenti sul piano dei valori. Col tempo, la Costituzione si era irrobustita, anzitutto per la sua durata nel tempo, in secondo luogo perché simbolicamente si era valorizzata la convergenza resistenziale tra le forze politiche che l'avevano redatta, infine perché in essa s'identificava l'ispirazione ideale di talune importanti riforme ridistributive. Orbene, superata la stagione del terrorismo, che aveva ulteriormente ravvicinato tra loro le forze politiche, lo scombinato dibattito sulle riforme istituzionali dapprima, e poi la disinvolta revisione della storia nazionale, hanno ridotto la Costituzione a brandelli, ne hanno delegittimato i principi e le prescrizioni, da ultimo permettendo a Berlusconi di aggiungerci i suoi possenti veleni mediatici.
La linea che separa la destra dalla sinistra sul piano elettorale non si è in realtà spostata di molto. La destra attuale coagula gran pare del vecchio elettorato Dc, socialista, liberale, repubblicano, socialdemocratico e missino. La sinistra ha recuperato una quota non piccolissima di questo elettorato. In compenso, le divergenze di valori (e interessi) che avevano animato l'asperrima conflittualità interpartitica nel dopoguerra si sono da tempo dissolte: il paese non fuoriesce da un'esperienza come il fascismo, l'Urss non c'è più, le disuguaglianze sociali, per quanto gravi e crescenti negli ultimi anni, non sono più cosi drammatiche, né lo sono le divergenze ideologiche. Ciò malgrado, specie l'elettorato moderato si è radicalizzato e avvelenato. Cosicché, senza le ragioni di allora, la politica italiana ha oggi toni da '48.
Tra parentesi, a parte la necessità di ripensare in maniera più pacata la storia del Pci, occorrerebbe anche piantarla di ridurre l'esperienza della Dc solo a diga contro il comunismo. Nella Dc, con i suoi enormi limiti, c'era assai di più. C'era un partito moderato, ma con una spiccata attenzione al temi sociali e con una cultura dello Stato. Non si Possono dimenticare Lima e Andreotti (malgrado il modo in cui si sta comportando dinnanzi ai giudici), ma neppure il Piano Fanfani, le riforme del centrosinistra, Moro, Zaccagnini, Ruffilli e tanti altri ancora. Forse, il problema, non era la Dc, la quale, bene o male i voti e gli alleati per governare se li guadagnava: era l'opposizione di sinistra, che non riusciva a persuadere gli italiani. A fine anni'80 ha pensato di aggirare l'ostacolo promuovendo un riassetto bipolare del sistema politico, comprimendo la propria estrema e dividendo il centro in due. Non riusciva a vincere la partita e allora ha cambiato (con tecniche alquanto discutibili: a un elettorato che ne poteva capire ben poco si è chiesto di pronunciarsi per via referendaria) le regole. Col brillante risultato che la Dc non c'è più, che al suo posto c'è Berlusconi e che neanche ora la sinistra riesce a convincere gli elettori. Non solo non ha conquistato un solo elettore nuovo. Ma ha perso pure un bel po' di quelli vecchi.
Ma torniamo a Berlusconi. L'avvenire che ci aspetta non consisterà probabilmente in un controllo totalitario (o solamente autoritario) dell'opinione pubblica. Ma è difficile ignorare la presenza invasiva dei media berlusconiani, o berlusconizzati, la loro devastante influenza sul costume (turba non poco al riguardo il silenzio dei vescovi, i quali sono solitamente così queruli allorché si tratta di reclamare quattrini per le scuole private o di magnificare Padre Pio, ma che tacciono dinnanzi al bassissimo livello morale delle nostre trasmissioni televisive, quando non vi partecipano) e sul senso comune, da cui è realistico attendersi un duplice effetto: quello di creare un conformismo di massa, atto a consolidare il seguito elettorale della destra e quello di approfondire la sciagurata divisione suscitata nella società italiana, il muro contro muro.
A qualcuno è di recente capitato di vedere in tv un'inquietante trasmissione che si chiama Excalibur? Per chi ha un'idea «riflessiva» della democrazia, non erano granché i mentori televisivi della sinistra. Figurarsi i loro emuli di destra. Dedicata ai no‑global di Firenze, la trasmissione esordiva con un resoconto della manifestazione di Camp Darby, intorno alla base Usa. Lunghi primi piani di manifestanti pittorescamente abbigliati, con treccine e capelli colorati, una lunga intervista a un colonnello, che a grugniti tesseva le lodi della guerra, enunciando un credo morale, secondo cui la guerra non sarebbe né buona, né cattiva. I toni della trasmissione erano quindi nel complesso sguaiatamente aggressivi e corrispondevano appieno al nuovo stile del discorso politico: in assenza di argomenti domina l'invettiva. Questo forse non sposta voti da sinistra a destra e viceversa. Come reagirebbe però l'elettore medio berlusconiano (che, sia chiaro, non è un alieno, anzi è spesso amabilissima persona, salvo quando si parla di politica) se lo scontro politico si facesse più duro, combinandosi con lo scontro sociale?
Per Berlusconi la posta in gioco è alta. Anzitutto, per lui e i suoi compagni di strada, è il potere. Ma per lui c'è anche una posta personale, alquanto inconsueta per un leader politico. In special modo teme la possibile vendetta dei suoi oppositori contro se stesso e contro la sua smisurata fortuna. L'ipotesi più verosimile è che se tali oppositori tornassero in auge, sarebbero quanto mai generosi nei suoi riguardi, come del resto lo furono in passato, nella speranza di addomesticarlo. Poiché tuttavia resta un margine d'incertezza, Berlusconí li teme. E agisce di conseguenza, per cominciare eccitando una micidiale logica amico/nemico: da una parte c'è il governo, che incarnerebbe la maggioranza degli italiani; dal lato opposto ci sono i suoi nemici, che rinnegano il legittimo verdetto delle urne, illegittimamente aspirando a rovesciarlo. Perché quest'apparenza si consolidi, Berlusconi dall'alto del balcone mediatico di cui si è impadronito eccita le folle. E non solo attacca i giudici, ma cerca di soffocare ogni manifestazione e di criminalizzarla, anche la più soft, demagogicamente invocando il principio di maggioranza, nonché il consenso elettorale che a suo parere lo sostiene.
A perfezionare una miscela democraticamente già tanto rischiosa si aggiunge il fermo intendimento di negare un principio democratico essenziale qual è la separazione dei poteri, ovvero l'autonomia della magistratura, mediante la cosiddetta riforma della giustizia. A sua volta, la pubblica amministrazione è stata assoggettata grazie alla nuova legge sullo spoilsystem, peraltro anticipata dalle riforme bassaniniane, così poco consapevoli della mediocre cultura democratica del centrodestra). Mentre un passo decisivo nel disegno di blindatura del regime sarebbero le riforme istituzionali appena annunciate (semipresidenzialismo o premierato), volte ad azzittire parlamento e partiti. L'ultimo tocco sarebbe qualche misura d'emergenza in tema di ordine pubblico, giustificata dal clima di instabilità internazionale e dalla minaccia terroristica.
E’ probabile che Berlusconi abbia concepito la sua recente offensiva sulle riforme istituzionali soprattutto come un diversivo. Se ci s'infiamma sul presidenzialismo, o sul premierato, il quale nei fatti si e gia realizzato, passa in secondo piano l'economia, almeno per un po'. Sullo sfondo resta non di meno l'obiettivo d'immunizzarsi da eventuali sommovimenti all'interno della maggioranza parlamentare, e del suo seguito elettorale, che non sono esclusi, e che potrebbero manifestarsi, ma in pari tempo dal sorgere di un'opposizione sociale meno conciliante di quella politica (la quale peraltro se è al momento inesistente, potrebbe esistere se l'attuale confusa opposizione sociale dovesse rapprendersi e magari costruire un suo disegno politico), sovrapponendo al conformismo mediatico, un ferreo controllo sul parlamento, sugli apparati dello Stato, sulle forze di polizia.
Di cosa siano capaci le forze di polizia (ormai definitivamente acquisite alla causa della democrazia, secondo qualcuno), ma anche la magistratura (che è lo specchio del Paese: quindi anch'essa assai divisa), lo abbiamo visto a Genova e dopo Genova. Proviamo a immaginare cosa potrebbe accadere se Berlusconi riuscisse ad imporsi quale dominus incontrastato, insediato al Quirinale e dotato dei poteri che spettano al Presidente francese. 0 se diventasse un cancelliere alla Bismarck, con la cultura però di un padroncino padano che ama andare per le spicce. Berlusconi non è neppure un ex‑allievo dell'Ena, o un burocrate del franchismo. All'oscuro delle complessità della politica, è un disinvolto affarista per il quale finanche le regole del galateo sono un insopportabile intralcio. Libero e selvaggio. E dal governo lo sta dimostrando ogni giorno.
Fra l'altro, per il ceto imprenditoriale che con lui s'identifica, la deregulation sfrenata che si sta realizzando, accompagnata dalla sottomissione della magistratura, della polizia e delle pubbliche amministrazioni, offrirebbe anche nuove opportunità di guadagno, abbassando le barriere che separano la legalità dall'illegalità. L'economia ristagna, si fanno pochi e magri affari: perché rinunciare, potrebbe pensare qualcuno, ad arricchirsi coi traffici illegali, col commercio d'armi, di droghe e quant'altro, la cui domanda è sempre alta?
E’ possibile che Berlusconi e i suoi sodali non abbiamo ancora elaborato un disegno tanto chiaro. E' probabile che ciò cui soprattutto pensano, oltre al diversivo, e al consolidamento politico, è utilizzare il potere che caverebbero da una riforma delle istituzioni a modo loro per mettere in liquidazione il welfare. E’ una vecchissima idea. Già da principio le riforme istituzionali implicavano questa arrière pensée: per poter ridurre i servizi pubblici e abbattere la spesa pubblica, senza timore d'imboscate parlamentari o di mobilitazione collettiva. Ma istituzioni blindate potrebbero anche servire benissimo per reggere meglio allo stress della deindustrializzazione, dell'impoverimento del paese, del disagio sociale crescente e dei rischi di mobilitazione in varie forme.
Non illudiamoci troppo circa la nostra sedimentata cultura democratica (né su quella altrui), e non dimentichiamo neppure che Mussolini scoprì il fascismo cammin facendo. E’ probabile che quando pilotava le aggressioni dei fasci, ma anche quando si insediò al governo, non avesse in mente né la legge Acerbo, né il partito unico, né la Camera dei fasci e delle corporazioni, né la legislazione antiebraica. Non era neppure Mussolini. Da cosa, si sa, nasce cosa. Il mostro berlusconiano non era stato certo immaginato dal movimento referendario quando reclamava la riforma del sistema elettorale, né tanto meno da Occhetto quando volle la svolta del Pds (meno scuse ha D'Alema quando contrattava in bicamerale). E’ probabile che il berlusconismo non lo immaginasse, né desiderasse, neppure Craxi. Ciò comunque non toglie che l'odierno mostro berlusconiano potrebbe generare altri mostri, che non sono ancora neppur nella mente di Berlusconi. Le situazioni trascinano e imprigionano gli uomini. Vi sono gruppi sociali in difficoltà che hanno una propensione a trasgredire le regole maggiore degli altri. I commercianti hanno più chances di evadere il fisco che non i pubblici dipendenti. Un Berlusconi leader maximo chissà cosa potrebbe inventarsi.
Fermo restando il monito di Marx, sulla storia che si ripete due volte, una come tragedia, l'altra come farsa, anche in quest'ultimo caso c'è poco da stare allegri: il mercato anarchico (ancor più anarchico di quel che è attualmente, e addirittura elevato a valore morale) non è meglio dello Stato etico. Tanto più nella terribile cornice evocata in partenza: a parte gli effetti destabilizzanti della povertà su scala mondiale, le promesse di guerra di Bush, l'umiliazione del mondo islamico, l'impotenza dell'Ue, accentuata dall'allargamento ad est, le crescenti devastazioni ambientali, ecc., quale terribile futuro ci attende? S'è disgustato finanche Iddio, denuncia il Papa, seppur con la consueta reticenza a fare i nomi. Se a queste condizioni il destino della democrazia è ovunque piuttosto oscuro, come si può non esser ancor più preoccupati circa il futuro della democrazia italiana?

Che fare?

Che fare, allora? Per noi, motivo aggiuntivo di timore sono le reazioni ‑ flebili, a dir poco ‑ che giungono dal grosso dell'opposizione politico‑parlamentare. Il potere è anche ciò che gli permettono di essere i suoi oppositori. Gli attuali oppositori ufficiali di Berlusconi si saranno pur convertiti or non è molto al pacifismo (ma terranno molto a lungo?), ma dall'inizio di questa avventura stanno lì a contemplare con occhio attonito la situazione, distanti dalla società italiana e dal suo sentire, in molti casi portatori di un'idea di società che è solo un po' più moderna di quella berlusconiana: seppellito ogni disegno di accordo tra i ceti produttivi, per un pezzo del centrosinistra la società non ha bisogno di alcun nucleo. Attento alle ragioni della grande impresa (quel poco che ne resta) e delle grandi banche, considera essenziali soprattutto i conti in ordine. La società della tarda modernità, per costoro, non è che una somma d'individui e sono pertanto gli individui e i loro individuali diritti e bisogni il target d'ogni iniziativa politica. Così, per cominciare, questa sinistra ha banalizzato il tema delle disuguaglianze, con l'effetto che esse sono tornate ad essere nel senso comune, anche dei disperati (che peraltro in tal modo s'immunizzano da frustrazioni ulteriori), naturali e quindi incurabili attraverso la politica. Pure la sinistra ha fatto insomma la sua parte nel degradare il lavoro e nell'accreditargli attorno un nuovo senso comune, per il quale esso non è più motivo di dignità, ma una sorta di optional (non v'è da illudersi, diceva qualcuno ai più giovani, sul «posto fisso»). Quando sono in vena di generosità, certi settori del centrosinistra propongono l'ipocrisia delle politiche «attive» del lavoro: un po' di formazione, per rendere meno drammatico il transito da un lavoro all’altro. E’ questo che ha con ogni probabilità garantito a Berlusconi un seguito tanto ampio pure tra le fasce deboli della società. Tra le sue mirabolanti promesse e le scomode minacce del centrosinistra, pur non credendo alle prime, perché non provarci?
Nella gran confusione che abbiamo dinnanzi, la prima cosa che dunque serve, se si vuol reagire a Berlusconi, è un disegno politico. Non rivoluzionario, ma alternativo. E’ inutile farla troppo lunga. Il punto di partenza è una rivoluzione nel linguaggio. Bisogna convincersi, e persuadere gli elettori, che la società è un'impresa collettiva. Che siamo tutti nella stessa barca. La formula oggidì prevalente è invece quella secondo cui ciascuno deve salvarsi da solo. Ciascuno deve individualmente investire nella tutela della salute, nell'istruzione dei figli, nel futuro fuori del lavoro. Ebbene, un plausibile programma politico di sinistra deve cancellare quest'idea, purtroppo diffusissima pure a sinistra. Il tema chiave, in politica interna, potrebbe essere proprio il lavoro: anzi, la sicurezza del posto di lavoro. Il lavoro è principio di identità individuale e la stabilità del lavoro è principio di coesione sociale. Che razza di società può essere la società dei «co‑co‑co»? Che presente e che avvenire può avere una società ove i giovani lavorano sei mesi l'anno, magari part time, in cui di continuo ci si deve adattare a un nuovo lavoro e in cui mancano prospettive di reddito stabili? Pazienza per il privato (cui si possono però offrire incentivi per rendere il lavoro più stabile), ma almeno la pubblica amministrazione potrebbe assumere più gente e non solo per qualche mese. C'è un grandissimo bisogno di servizi pubblici di qualità: nell'istruzione, nella ricerca, nella sanità, nella cultura, e via di seguito. Ma come possono i giovani emanciparsi dai genitori, farsi una famiglia, mettere al mondo dei figli?
Il secondo grande tema programmatico è la pace. Un vento di follia spazza il pianeta. Le disuguaglianze tra ricchi e poveri non sono mai state così profonde. I poveri sono disperati. E c'è chi recluta tra questi disperati per concepire atroci deliri di potere: è il caso del miliardario Bin Laden. Poi c'è il terrorismo tout court dei disperati: è il dramma palestinese. La superpotenza prospera su queste tragedie. E nella sua dirigenza vi è chi coltiva deliri di onnipotenza non meno atroci. In ossequio alle analisi di Samuel P. Huntington, questa situazione lascia presagire nientemeno che una riproduzione allargata, anzi su scala globale, e protratta nel tempo, del conflitto che dilania Israele e la Palestina. Anche qui c'è un circuito perverso, che è culturale anzitutto, che va spezzato. La società è governata dalla legge del più forte. Ed è il più forte a dettare il diritto. E’ mai possibile che nessuno sia disposto a fare un passo indietro, a capire le ragioni degli altri, che i più forti non intendano qual è il dramma dei deboli? Un programma di sinistra deve necessariamente avere pure questo secondo fuoco. Per ragioni morali. Per ragioni politiche. Non è questo il mondo in cui val la pena vivere. Infine, anche perché una condizione di guerra sarebbe di sicuro la più propizia a un'ulteriore involuzione del berlusconismo: non a caso con prontezza arruolatosi nelle milizie di Bush (seppure proponendosi solo per gli spettacoli ai soldati). Purtroppo, la democrazia è compatibile con la guerra, che, per quanto giustificata possa essere, la imbastardisce e la corrompe. Di contro, la pace, e la sua cultura, sono per la democrazia un corroborante prezioso.
Non meno rilevante è la questione del personale politico. Un personale politico ci vuole. Quello che c'è suscita non poche perplessità. Ha innanzitutto una colpa politica che non gli si può perdonare: un accordo di tutte le forze del centrosinistra con Rifondazione e Di Pietro avrebbe impedito a Berlusconi di dilagare, conquistando, con una risicatissima maggioranza elettorale, una maggioranza parlamentare straripante, che ha messo la Costituzione e lo Stato sociale alla sua mercé. Questa colpa consiglia un profondo rinnovamento, da ogni parte. L'attuale personale politico di opposizione è lacerato assai più dalle incomprensioni e dalle incompatibilità personali che non dalle divisioni politiche. Non che queste ultime vadano sottovalutate. C'è tuttavia da sperare che l'emergenza democratica in atto li induca a superare divergenze di questa fatta. Ma un avvicendamento di un ceto politico logoro e litigioso è comunque auspicabile. Non attingendo, se possibile, tra i ranghi dei trombati, tra coloro che sgomitano in cerca di riciclaggio, spacciandosi per società civile, bensì dalla società civile reale: tra i giovani, nel mondo delle associazioni, nelle amministrazioni locali. Se in un paese di sessanta milioni di abitanti non si trova materiale sufficiente per selezionare quelle poche centinaia di persone che si richiedono per dare vita a un nuovo personale politico, tanto vale levarci mano.
Da ultimo, servono uno (o più) strumenti politici. Per completare questo quadro sconfortante, non c'è da evocare soltanto le incertezze del centrosinistra e le divisioni della sinistra. Va evocata la loro mancanza di strumenti. La politica è notoriamente un codice, piuttosto complesso per giunta. I cittadini, in media, non sono elettori razionali, che soppesano le diverse alternative. Votano perché qualcuno li socializza al codice della politica e perché sono inseriti in reti sociali organizzative, di valori, ecc. Quando non dispongono di questo codice, quando mancano reti che li includono, si estraniano, ovvero si astengono, oppure scelgono le soluzioni più ovvie: la politica personale, le parole d'ordine semplici (sicurezza e il razzismo, per esempio), suggestioni televisive, l'identificazione coi ricchi e coi potenti, e quant'altro. Per essere socializzati al codice della politica lo strumento essenziale è forse la scuola: quella però che propone idee generali, che suscita capacità critiche, non quella che propone know‑how da investire sul mercato (altra scoperta della sinistra), Nel suo articolo, Federico Repetto sottolinea l'importanza degli “intellettuali di base” a suo tempo evocati da Lazarsfeld. Servono gli insegnanti e serve rilegittimare un'intellettualità diffusa, che arricchisca il senso comune. A questo, una volta ‑ e a quei settori sociali ove l'istruzione non arriva ‑ provvedevano i partiti, strumento fondamentale di educazione politica e collante sociale prezioso. Ebbene, la sinistra ha rinunciato ai partiti. Ha dismesso il suo strumento essenziale di manutenzione del «numero», che era il partito di massa, illudendosi che ormai a orientare l'elettorato bastassero i media. E’ vero, i media hanno occupato un larghissimo spazio. Ma perché glielo hanno lasciato. Non era affatto detto che i partiti dovessero abbandonarlo. Come rimediare allora a questo tragico errore? Se una cosa dimostra il girotondismo, insieme al successo degli scioperi indetti dalla Cgil, è che una forte disponibilità alla militanza persiste. Perché non profittarne? Che si chiami Ulivo, o in qualche altro modo, è irrilevante. Pure irrilevante che sia un soggetto unitario o una sommatoria di forze diverse, che sia un partito «indiretto», secondo l'antica tradizione socialdemocratica, o una costellazione politica che si ricompone per le elezioni. L'essenziale è che una qualche struttura vi sia: uno strumento che presidi la società, che le parli: che non la abbandoni alla seduzione televisiva.

17.11.05

Questions About Power: Lessons from the Louisiana Hurricane

SSRC | Understanding Katrina: Perspectives from the Social Sciences


Questions About Power: Lessons from the Louisiana Hurricane

By Steven Lukes
The following was presented as the Vilhelm Aubert Memorial Lecture at the Institutt for Samfunnsforskning in Oslo, Norway, September 22, 2005.


In his interesting and adventurous book The Hidden Society Vilhelm Aubert wrote that

Societies define, through their powerful agencies, certain structures and activities as central, proper and visible, while others are defined as peripheral, deviant and private.

The law, his main field of interest and writing, is the archetype of the former, but he was clearly fascinated by the latter—by ‘improper or undesirable’ activities of the deviant, by sleep, the ‘night-side’ of society, by ‘love as a sociological problem’, by the role of chance and the seemingly meaningless and absurd, by total institutions hidden from view, for instance on ships, and by the sociology of secrecy, as exemplified in underground organizations. In this lecture I also want to explore what is, but in a different way, hidden: that is, I want to talk about what is hidden from view in normal times but which an abnormal event, such as a sudden disaster, can reveal. In a sense, the revelation tells us nothing new, nothing that we did not already know. No normally intelligent and sensitive tourist visiting New Orleans, for example, can have failed to notice, alongside its exotic and historic allure, that it was an impoverished southern town exhibiting in concentrated form the interlocking and worsening inequalities of race and class that run through contemporary American society. What I want to talk about today is what can no longer be hidden from view after the disaster that has befallen that town and its surroundings.

From time to time disastrous events interrupt the normal course of history and throw into sharp relief questions that are normally the province of specialists and experts, transforming them into public issues, into urgent matters of public concern and discussion. At such times not only public intellectuals, pundits and journalists but innumerable ordinary citizens confront and debate questions that normally preoccupy only those who devote their energies, skills and careers to posing them and developing ways of answering them. Disasters can lift veils. Questions are asked that previously went unformulated and the answers can shed floods of light on what nearly everyone previously failed to attend to and took for granted. During wars everyone acquires views about friends and enemies and about geopolitics, military strategy, the grounds and duties of patriotism, the pros and cons of pacifism and the ethics of killing. ‘Abnormal times’, for instance revolutions, can, as Gramsci observed, bring to consciousness alternative conceptions of the world. Disasters can generate what Durkheim called ‘moments of effervescence’, ‘periods of creation and renewal’, when ‘men are brought into more intimate relations with one another, when meetings and assemblies are more frequent, relationships more solid and the exchange of ideas more active’. Such civic moments can be moments of intense contestation. They can be transformative or confirmatory: they can generate new ways of thinking and acting or else they can reinforce and consolidate prevailing orthodoxies and structures of power.

The Lisbon earthquake of 1755, it is said, shocked the Western world more than any event since the fall of Rome. In ten minutes the quake destroyed churches, palaces and simple homes, precious treasures and works of art, and it killed at least fifteen thousand people. The earthquake was quickly followed first by terrible fires and then by tidal waves tearing ships from their anchors and drowning hundreds. Priests and theologians vied with one another in announcing what it was that had led God to wreak such havoc. One professor of philosophy in Prussia saw it as God’s warning of the impending end of the world, heralded by massive conflagration. Since Portugal was a Jesuit hotbed, Jansenists claimed that God wanted to crush the Inquisition, while Jesuits argued that it was God’s reaction to the Inquisition’s having grown too lax and they duly followed it with an auto-da-fe. One Jesuit, a miracle-working Italian named Malagrida, proclaimed that

It is scandalous to pretend the earthquake was just a natural event, for if that be true, there is no need to repent and to try to avert the wrath of God.

Popular reactions ranged from sermons to eyewitness sketches to poetry. Among Enlightenment philosophers it posed the issue of natural versus supernatural explanation. It is said to have brought a six-year-old Goethe to doubt and consciousness. Kant wrote that the earthquake showed that humans cannot understand God’s purposes. Rousseau and Voltaire agreed its causes were natural and argued about its meaning, Rousseau blaming the victims for living in cities, Voltaire blaming the God of Deism for his inhumanity. Susan Neiman in her book Evil in Modern Thought sees these debates as marking an unsettling moment in the Western world’s reflections upon evil.
Like the Lisbon earthquake, the Louisiana hurricane is generating a widespread and wide-ranging debate among intellectuals, politicians and ordinary people, on television, in the press, on the internet and in workplaces, throughout the United States and across the world. The eighteenth-century debate was theological and philosophical: the theologians argued about God’s motives, the Enlightenment philosophers about how to reconcile a Providential and increasingly transparent natural order with a natural disaster. The present debate, by contrast, is sociological and political, in which the central questions are questions such as these. To what extent could this disaster have been averted—by whom, when and how? What could have been done, in the absence of advance planning, once disaster was on the way? Once it struck, how are we to explain the lack of a coordinated and effective response across Federal, state, county and local city authorities? Where does responsibility lie? What were and what should be the priorities in the response—the securing of ‘order’ or responding to urgent needs? Why was the response so much less effective than that to the San Francisco earthquake of 1906 or to the Mississippi flood of 1927 (or, come to that, I might add, to the Lisbon earthquake of 1755) or than that of the Netherlands to the breaching of its dikes? To what extent were and are prevailing political ideologies and agendas at work, and specifically neo-liberal prejudices against centralized public administration, in inhibiting an adequate and effective response? Why did the poor and black bear the brunt of the disaster? And, most simply, to what extent has racism been at work? And who should be protecting people from hurricanes?

So far, at any rate, and perhaps surprisingly, the supernatural has been largely absent from the debate in the United States. The Turkish earthquake in 1999, which killed eighty thousand, generated a mass of fundamentalist Islamic claims about God’s punishment for the Turks’ secular government and similar reactions occurred in the wake of the even larger Indian earthquake two years later and after the Tsunami this year. After the September 11 terrorist attacks, Christian fundamentalists likewise declared it to be divine punishment. Two days after 9/11, Jerry Falwell, one of the most famous right-wing Christian evangelists, took to the airwaves to proclaim that God had allowed the United States to be attacked because ‘the pagans and the abortionists and the feminists and the gays and the lesbians’ had tried to transform America into a secular society. And now, sure enough, after the hurricane, a group calling itself Columbia Christians for Life claims that a satellite image of Hurricane Katrina as it hit the Gulf Coast had a most familiar look. ‘The image of the hurricane...with its eye already ashore at 12:32 p.m. Monday, August 29, looks like a fetus (unborn human baby) facing to the left (west) in the womb, in the early weeks of gestation (approx. 6 weeks)’, the group’s e-mail message says. ‘Even the orange color of the image is reminiscent of a commonly used pro-life picture of early prenatal development.’ ‘Louisiana has 10 child-murder-by-abortion centers’, the groups says, and ‘five are in New Orleans.’ But why would God single out Louisiana? Other states have many more abortion clinics, and Louisiana and the other states hit hardest by Katrina all voted for the pro-life president of the United States. Columbian Christians for Life have the answer. God has already punished California with earthquakes, forest fires and mudslides; New York with 9/11; and Florida with a series of hurricanes.Yet, so far anyway, the supernatural has not otherwise been much invoked. One obvious reason why fundamentalist explanations have been muted is that the disaster struck their own heartland. God’s punishing New York and Washington makes good sense; divine retribution on Louisiana, especially on its poor and black, is that much harder to explain.

What I want to do in this lecture is to ask what sociological and political lessons are being drawn from this disaster in the debate that is currently in full flow and, more particularly, what lessons can be drawn from that debate about how we think about power. And I shall suggest that the debate can itself be seen as a contest for power. The participants are seeking to gain acceptance for alternative framings or interpretations of what occurred, framings that have large-scale political consequences.

The question of how aspects of the events are to be described is already part of the debate. Take ‘looting’. An interviewer on television questioned someone at the height of the crisis, coming from a store in the dark with something in his arms. ‘Why are you looting?’, the interviewer asked. The reply was striking. ‘Can you see anyone to pay?’ The concept of looting presupposes a context of assertable property rights. Moreover, what counted as ‘looting’ was not colour-blind. On Yahoo News two photos were published. In one a man wades through chest-deep waters with a large black bag filled with items from a grocery store. In another, two people wade through equally high waters, carrying bread and soda. What drew attention to these two photos was their captions. In the first, the young man, who is black, is described as having ‘looted’ the items. In the second, the pair, who are white or light-skinned, are described as ‘finding’ the items. The photos sparked a flurry of blog entries, emails and calls contending that the captions were unfair to blacks. Another matter in contention was the description of the displaced victims as ‘refugees’—an appellation they could be seen fiercely rejecting on television, insisting that they are ‘American citizens’. They insist that the correct term for themselves is ‘evacuees’.

A wider and, perhaps, more interesting question is how to characterize the disaster itself. Was it a ‘natural disaster’? Or was it—or to what extent was it—the consequence of human failures, of specifiable actions and inactions, and thus a social, indeed political disaster? The levees of New Orleans, for example, were constructed to withstand a quickly receding Category 3 hurricane. Katrina was a Category 4 hurricane when it hit Louisiana, and such a flood-causing hurricane was bound to happen eventually, with a probability that was widely known to be increasing, because the wetlands and barrier islands are disappearing and very possibly because of global warming. (The probable breaching of the levees was indeed predicted in an official report published in 2001.) The disaster was, in significant part, the result of an explicit risk assessment, compounded by the recent slashing of funding for raising the levees, the meaning of which is plain: that protection from hurricanes was seen as a public good only up to Category 3. Beyond that the message to the citizens of New Orleans was: ‘You are on your own’. And is the disaster properly to be called an ‘emergency’? Emergencies are, for those whose job it is to deal with them, entirely normal. Like ‘normal accidents’, they are exceptional but expected and predictable. This hurricane, though predictable and indeed predicted, was not a normal emergency and, as we know, it far exceeded the capacity of the Federal Emergency Management Agency. Leave aside the by now well-known deficiencies of that Agency and the facts that, as the Washington Post observed, five of its eight top officials were Bush loyalists and political operatives who ‘came to their posts with virtually no experience in handling disasters’ and that this previously highly effective agency had been swallowed up by the Department of Homeland Security, which was engaged in perpetual reorganization and preoccupied with fighting terrorism rather than coping with natural disasters. The point I am here making is that Katrina was no normal emergency, but rather a catastrophe. An appropriate response to catastrophe is that those in various positions of authority, from top to bottom, need to bypass the normal bureaucratic mechanisms for dealing with emergencies. That in so many cases they failed to do so requires explanation. As Time magazine summed it up, ‘Leaders were afraid to actually lead, reluctant to cost businesses money, break jurisdictional rules or spawn lawsuits.’ Many have asked to what extent racism is part of the explanation—not overt, active racism (though that was in evidence too: a white river-taxi operator who rescued only white people from hard-hit St. Bernard Parish told Newsweek ‘A nigger is a nigger is a nigger’), but the racism of ‘racial stigma’ and routine self-reinforcing stereotypes.

What questions about power are posed by Katrina and its aftermath, including in the latter the continuing debate over its interpretation? Let me begin with the notion of powerlessness. At its most general we can say that power is the capacity to bring about outcomes, and that, when speaking of human agents as powerful or powerless, when we don’t specify powerful or powerless in respect of what, we mean that the powerful are those capable of bringing about significant outcomes and, in particular, outcomes which maintain or further their central interests and that the powerless are those who are incapable of doing this. To be powerless is to be unable to maintain and further your central interests. In normal times, there is leeway for dispute about what people’s central interests are, and so we can disagree about how powerless people really are. Take the extreme case of landless peasants or Indian untouchables. You could say that, despite their low status and social exclusion, they are not, after all, powerless. They are able to bring up their children and feed their families, engage in religious ritual, live virtuous lives, and so on. Slaves too, you may say, can live well by their own lights. If you say this, then it might be because you hold that you find out what people’s interests are by observing what they say and do. Look and see what slaves, peasants and untouchables attach value to in their lives and you will see where there central interests lie and you will probably find that they have the power to maintain and further these.

This might seem a naïve and superficial approach and so you might say that observing what those of lowly status say and do is a poor way of ascertaining their central interests. You should discover what their grievances are, their often suppressed desires and aspirations, which may not be evident in their everyday behaviour and in public. They really have an interest, you might say, in freedom or in a higher caste status. Look deeper into their lives, someone may suggest, and you will see that these are what they really want. But suppose you do look more deeply and you find slaves, peasants and untouchables who to all appearances accept their lot in life, either because they are resigned to it, or because they can conceive of no alternative or even because they embrace it as right and just. At this point Professor James Scott will come along and declare that the appearances are deceptive: that the observer is looking in the wrong place and in the wrong way. In their secret lives, in the inner rooms of their dwellings they nurture resistance and even rebellion, and, if that is not even true, they feel these things and express them in code in their songs, folktales and body language, whose ‘hidden transcripts’ need to be decoded to discover where their interests really lie. They resist and rebel in their hearts and minds, but they keep their powder dry. He cites the earthy Ethiopian proverb that when the great lord passes by, the wise peasant bows low and silently farts.

But what if Professor Scott is wrong? Maybe people sometimes do accept their lowly lot in life and even embrace it. This thought leads some to start speaking of people’s failing to see their ‘true’ or ‘real’ or ‘objective’ interests. If you speak this way, you will say that people can be fooled and misled (and indeed fool and mislead themselves) as to where their real interests lie and you will then certainly be accused of arrogance and paternalism. How can anyone presume to pronounce upon what is the interests of others? Is not each man, as Jeremy Bentham said, the best judge of his own interests? My point here is not to go further into these arguments about how to identify interests and thus powerlessness. It is simply to point out that Hurricane Katrina has reminded us of an indisputable and elemental sense of ‘objective’ interests and thus of a sense in which people can be powerless because they are incapable of maintaining and pursuing them.

In New Orleans, some 100,000 people lacked their own means of transportation. Many possessed a clutch of consumer goods but lacked bank accounts. In the light of what occurred, these elementary facts illustrate the simple truth that one indisputable way in which one can be powerless is to lack the means of escape when the normal functioning of the institutional context of one’s life breaks down. Institutions form the framework of our lives in more than one way. Most obviously, we all depend on them—shops, schools, the police, medical, transportation, communication and banking systems and so on indefinitely—to guarantee the supply of virtually all of our wants and needs. As Hobbes clearly saw, if they were all to break down globally, we would all become equal and equally powerless in a war of all against all. But when, as in Louisiana, they break down totally but locally, a divide appears between those who have access to means of escape and survival and those who, until help arrives, have not. Their dependence on the normal functioning of their institutional environment is total and they are the truly powerless.



But we also depend on institutions in a more interesting way. Institutions not only guarantee the satisfaction of our interests; they constitute them. For, by virtue of the human institution of language, institutions consist of regulative and constitutive rules, and the latter make possible actions and relationships that could not occur without the rules that define them as the actions and relationships that they are. You can only play chess or vote, and you can only castle in chess or vote Republican, by virtue of the rules which define what it is to play chess or vote. So, for instance, money is only money by virtue of the general acceptance of the rules that make it so; similarly the police are only police by virtue of general acceptance of their roles, defining their authority in terms of a range of rights and obligations. My point is that in the immediate aftermath of the flood in New Orleans, we caught a glimpse of a kind of powerlessness on which we do not normally reflect: the sudden unavailability of social objects, actions and relationships. If there is no-one to pay and the waters are rising, you can’t buy and you can’t even loot. The authority of a policeman, even his being a policeman can begin to lose meaning in the chaos of the Superdome. What began to appear for a brief period until social institutions began to re-acquire their grip was what Giorgio Agamben has called ‘bare life’—the powerlessness to live social lives fit for human beings.

There are, of course, other, more straightforward ways of being powerless. You can be faced with a challenge that far exceeds your capacities and resources. Such was the case of the city government of New Orleans and the state government of Louisiana. As Oliver Thomas, the New Orleans City Council president observed, ‘Everybody’s trying to look at it like the city of New Orleans messed up. But you mean to tell me that in the richest nation in the world, people really expected a little town with less that 500,000 people to handle a disaster like that? That’s ludicrous to even think that.’ And Andrew Kopplin, Governor Blanco’s chief of staff took a similar position: ‘This was a bigger national disaster than any state could handle by itself, let alone a small state and a relatively poor one.’ And a further way of being powerless is through organizational weakness and managerial incompetence. This was, all now admit, the case of FEMA, the Federal Emergency Management Agency, which put bureaucratic obstacles in the way of supplying desperate needs, training firefighters for days in community relations and sexual harassment in Atlanta before sending them to the devastated area, stopping trucks carrying thousands of bottles of water because they lacked ‘tasker numbers’, refusing to allow the state of Arkansas to send buses and planes to evacuate people displaced by the flooding, and so on.

Let me now turn to what it is to have power, or be powerful. Human agents, whether individuals or collectivities, have power or are powerful within structural limits, which enable and constrain their power. The natural way to distinguish between power and structure is to say that we attribute power to agents when it is in their power to act or not to act. They have two-way powers: they have power when it is in their power to act otherwise. If they are so structurally constrained or determined that they are unable to act otherwise than they do, then they are powerless to do so, and so they are powerless, not powerful. They simply enact or transmit the dictates of the structures that uniquely constrain them. But determining when this is so and when it is not is not a straightforward matter of fact but of judgment (the judgment of both actors and observers) and so highly contentious. So who, during the Louisiana Hurricane and its aftermath had power? This has been a topic of intense debate.

According to the New York Times, those in authority at the Federal level were preoccupied with the constitutional constraints within which they took themselves to be placed.

As New Orleans descended into near anarchy, the White House considered sending active-duty troops to impose order. The Pentagon was not keen to have combat troops take on a domestic lawkeeping role. ‘The way it’s arranged under our Constitution’, Defense Secretary Donald H. Rumsfeld noted in a news briefing, ‘state and local officials are the first responders.’

Pentagon, White House and Justice officials debated for two days whether the president should seize control of the relief mission from Governor Blanco. But they worried about the political fallout of stepping on the state’s authority, according to the officials involved in the discussions. They ultimately rejected the idea and instead decided to try to speed the arrival of National Guard forces, including many trained as military police.

Paul McHale, the assistant secretary of defense for homeland security, explained that decision in an interview… ‘Could we have physically moved combat forces into an American city, without the governor’s consent, for purposes of using those forces—untrained at that point in law enforcement—for law enforcement duties? Yes.’

But, he asked, ‘Would you have wanted that on your conscience?’

For some of those on the ground, those discussions in Washington seemed remote. Before the city calmed down six days after the storm, both Mayor Nagin [of New Orleans] and Colonel Ebbert [the city’s emergency operations director] lashed out. Governor Blanco almost mocked the words of assurance federal officials had offered. ‘It was like “they are coming, they are coming, they are coming, they are coming”’, she said in an interview. ‘It was all in route. Everything was in motion.’

Of course, factual questions are in part at issue here. It is true that the request for Federal help was, as the New York Times put it, ‘ill-defined’. On Monday, before the waters breached the levees, submerging the city, Governor Blanco told the president, ‘I need everything you’ve got. I am going to need all the help you can send me.’ But, as Colonel Ebbert observed, ‘When you go to war, you don’t have time to ask for each round of ammunition that you need.’ On the other hand, it seems that at a meeting with the President on Friday aboard Air Force One, the Governor was reluctant to give up her authority, but ‘Bush didn’t press’. According to Mr. Knocke, spokesman for the Department of Homeland Security, ‘There was a significant amount of discussions between the parties and likely some confusion about what was requested and what was needed.’ It is clear that these discussions and thus Federal action was significantly constrained by the preoccupation with constitutional proprieties (and also by the possible costs of failing to observe them). So where did power lie?

It is clear that the answer to this question is inextricably tied to judgments about what was in the power of key agents in this dramatic story, and that those judgments are in part moral and political. Would you have wanted, Paul McHale asks, to have the deployment of combat troops, without the governor’s consent, on your conscience? It would appear, from what I have just cited, that the governor did consent already on Monday, but, even if she had not, or if, as is most likely, it was unclear to the various parties whether she had or not, the question is a real one in the contemporary Federal U.S. context. So what prevented decisive and timely executive Federal action was a combination of beliefs in the actors’ minds: belief in the legal impropriety by the military of domestic (as opposed to international) intervention in the affairs of States, combined with a general ideological predisposition against centralized public administration (a belief that has also been operative in the Adminsitration’s approach to the rebuilding of Iraq). It would appear that these beliefs were held strongly enough to withstand the sense that what was occuring was not just a normal emergency but that a catastrophe was unfolding involving the submerging of an entire city and the displacement and deaths of probably thousands of its citizens. It is noteworthy that not everyone in authority was so restrained. For instance, Sheriff Warren C. Evans of Wayne County, Michigan ignored his governor’s public plea to wait for formal requests and sent food, water and medical supplies and a team to engage in search and rescue missions to the New Orleans French Quarter, commenting that ‘I could look at CNN and see people dying, and I couldn’t in good conscience wait for a coordinated response.’

Notice that if, in all good conscience, you share the inhibiting beliefs, with whatever degree of conviction, you will to that degree be inclined to say that the president and his officials were structurally constrained and thus lacked the power to have intervened to avert the disaster. Moreover your attitudes to the facts of race and poverty will also have a bearing on that apparently factual judgment. In an article in Newsweek Jonathan Alter writes:

The president has made a point of hiring more high-ranking African-Americans than any of his predecessors. But his identification with blacks is a long way from, say, LBJ’s intoning, as he did in 1965, ‘Their cause must be our cause too…And we shall overcome.’ Bush rarely meets with the poor or their representatives. His mother made headlines when she visited the Houston Astrodome and said: ‘So many of the people in the arenas here, you know, were underprivileged anyway. So this is working very well for them’—as if sharing space with 10,000 strangers was a step up.

Not surprisingly, this leads me to the question of the relation between the notions of power and responsibility. What is the link here? I believe it lies in the answer to the question: What do we need the concept of power for? What role does it play? Why do we want to know where power lies, who has more and who has less? One answer (not the only one) is that in attributing and locating power, we assign responsibility to agents, individual and collective, for significant, often lamentable outcomes, actual or potential. Now, there are different kinds of responsibility—most obviously legal, moral and political. Taking power to be a capacity, which may or may not be exercised, its relation to the assignment of legal responsibility is rather clearcut, though it has some complexity. Laws define my legal powers but obviously I have power that goes beyond these. Of course, as a law-abiding citizen, I am expected responsibly to obey the law. If, in exercising my power, I break a law, I am, other things being equal, responsible. Of course ‘exercising’ suggests intentional action and positive intervention in the course of events. I can also be held legally responsible for failing to act in certain situations, as in cases of negligence (as, for instance, in a car accident). I can even be held responsible for not knowing what I should or even, as when drug companies or automobile manufacturers fail to do adequate tests, for not finding out what I should. Power as capacity is also relevant to legal responsibility in a negative way. First, it can be shown that I could not have committed a crime—that it was not in my power to commit it (because, say, I was a hundred miles away). This is the role of an alibi: my defence is to show that I lacked the power to commit the crime. But, secondly, I can also defend myself against the charge of not preventing some lamentable event by claiming that I lacked the power to do so. As Lord Salisbury remarked, ‘Those who have the absolute power of preventing lamentable events and, knowing what is taking place, refuse to exercise that power, are responsible for what happens.’ In other words, I can deny responsibility by demonstrating lack of power.

Similar points can be made about the assignment of moral responsibility. Both praise and blame attach to agents assumed to be responsible for their actions. I am morally responsible and blameworthy when I act or culpably fail to act in ways that violate a moral principle or the dictates of conscience, and indeed in some cases it can be morally responsible to break the law. If I can show that the bad act was not within my power I am exonerated; and if I can show that it was not within my power to prevent some disaster, then I am not morally responsible.

Political responsibility raises further issues. In drawing his famous distinction between an ethic of responsibility and an ethic of ultimate ends, Max Weber characterized the former as requiring that ‘one has to give an account of the foreseeable results of one’s actions’. Like Machiavelli he confronted the thought that the Prince may need to know how not to be good: he may need, under the pressure of political necessity, to violate moral principles and the dictates of conscience And, it is clear, he may also need to override or bypass formal legal rules. His responsibility—and that of the ‘men of power’, as C. Wright Mills called them—was a matter of accountability for foreseeable consequences. But Mills focused not only on what the men of power do but also on what they fail to do. He argued that we attribute power to those in strategic positions who are able to initiate changes that are in the interests of broad segments of society, but do not. Mills claimed it to be ‘now sociologically realistic, morally fair and politically imperative to make demands upon the men of power and to hold them responsible for specific courses of events.’

In the light of Wright Mills’s thought, we can see that one central question in the public debate over the Lousiana Hurricane is this: as the waters rose, didn’t those in strategic positions have an overwhelming responsibility, that was both moral and political, to bypass formal legal rules? Exactly one week ago President Bush acknowledged his and, by implication, his adminstration’s responsibility for what had occurred in a televised speech to the nation from New Orleans. He said:

Four years after the frightening experience of September 11th, Americans have every right to expect a more effective response in a time of emergency. When the federal government fails to meet such an obligation, I as President am responsible for the problem, and for the solution.

What is still not clear is what this acknowledgment was an acknowledgement of. He certainly did not give (in Weber’s phrase) ‘an account of the foreseeable results of his actions’, including his and his officials’ inaction, in the critical days of the hurricane and its immediate aftermath, and it is not clear that he will. The responsibility acknowledged ignores the past. It is exclusively forward-looking and promises to be severely limited in scope. It is true that he said that he was prepared to undertake ‘one of the largest reconstruction efforts the world has ever seen’. It is also true that, in the face of the stark obviousness of the fact that those left homeless and endangered by Katrina were mostly poor and black, he also acknowledged that poverty ‘has roots in a history of racial discrimination, which cuts off generations from the opportunity of America’. But the responsibility acknowledged for the reconstruction and for these far wider issues of poverty and inequality looks certain to have obvious sharp limits (though fiscally conservative Republicans are clearly alarmed that, given the scale of the problem and the political pressures on the Administration to respond to it, these may be breached). There will be no tax increases for Gulf relief, and the plan to cut taxes, including abolishing the esate tax, benefiting only the very rich, will, it appears, go ahead (alongside a war and a huge reconstruction effort) and so there will be further cuts in programs such as Medicaid, which supplies health care for the poor. And the manner of reconstruction will exemplify the Administration’s deeply ingrained neo-liberal distrust of Federal agencies and central planning, and its ideological commitments to fostering individual self-reliance and local political responsibilities (in two southern states, Louisiana and Mississippi, notorious for their corruption). Already it is planned to favour tax breaks for businesses and school vouchers. The law enforcing the locally prevailing wage has been suspended, as have environmental regulations, and presidential adviser and guru Karl Rove is in charge. Churches and charities will be the favoured means of channelling aid. One telling fact is that the Army Corps of Engineers’ top man in the reclamation effort was formerly one of the Corps’ top men overseeing contracts in Iraq.

The public debate over the hurricane and its aftermath ranges over these questions of responsibility. In respect of responsibility for the faltering response to the disaster, the strategy of the administration and its supporters has been to seek to shift attention from the past to the future. So they counter criticism by denouncing what they call ‘the blame game’ (while encouraging the blaming of Democrats and state and local officials). The White House is resisting the setting up of a full-scale inquiry like the 9/11 commission (which it also resisted at the time) and it has portrayed the Democrats as politicking in opposing a bipartisan panel proposed by Republican congressional leaders. Time reports Ken Mehlman, the Republican party’s chairman, as saying that viewers at home will think it ‘kind of ghoulish, the extent to which you’ve got political leaders saying not “Let’s help the people in need” but making snide comments about vacations.’ (The reference is to the president cutting short his long vacation at his ranch.) And some Democrats, notably Joseph Lieberman, have joined in the practice of denigrating the very idea of identifying past responsibilities, suggesting that the problems were not failures of power but of structure, not faults of leadership but of ‘the system’, for which everyone and no-one is responsible: that the disaster was, as the cover of Time puts it, a ‘system failure’.

As for future responsibilities and the questions of how far and how deep governmental responsibilities reach and of which governments are responsible, the public debate is only now beginning. Already lines are being drawn, with fiscal conservatives sounding alarm bells. Thus Senator Tom Coburn, Republican from Oklahoma, has said: ‘I don’t believe that everything that should happen in Louisiana should be paid for by the rest of the country. I believe there are certain responsibilities that are due the people of Louisiana.’ Others, as I have said, are looking for spending cuts. On the other hand, Senator Harry Reid, leader of the Democrats, has said that he believes that providing rapid and extensive help overrode the need to cut spending elsewhere. ‘I think we have to understand’, he said, ‘that we have a devastation that has to be taken care of.’

What is clear is that this public debate is no Habermasian argument in an ideal speech situation, in which the force of the better argument can be expected to prevail. It is a power struggle of competing rhetorics over how the Louisiana hurricane is to be framed and interpreted. In this lecture I have discussed the ways in which topics that are normally the preserve of political theorists and sociologists have, more or less explicitly, entered public discourse: the nature of powerlessness, the relations between power and interests, between power, or agency, and structure and between power and responsibility. But there is a final topic which these specialists have much debated of late, on which I would like to conclude: namely the relation between states of normality and states of exception. Carl Schmitt is famous for having suggested that attending to the latter can reveal profound and often unwelcome truths about the former.

It has been almost a commonplace of the public debate over the hurricane that the deluging of New Orleans has revealed for all to see the extent and causes of poverty in America—and, moreover, vividly to see the reality of it. Despite increasing economic growth, last year saw an increase in poverty in America. 37 million of its 300 million people live below the poverty line ($14,680 for a family of three): its poverty rate is by far the highest in the industrialized world and it has been largely absent from public view. It is an invisible presence, largely absent from television screens, newspapers and magazines. Jonathan Alter comments in Newsweek: ‘For the moment, at least, Americans are ready to fix their restless gaze on enduring problems of poverty, race and class that have escaped their attention.’ As John Berger wrote in the British paper, The Guardian, 'With her terrible gesture she (Katrina) wiped the opaque screens clean for a little while.’ But what will the consequences of this revelation be? Will the restless gaze restlessly move on? Is there any chance that this moment of collective effervescence could be what Durkheim called a ‘period of creation and renewal’? Are there any signs that political figures or intellectuals, or even sociologists, whose turf this public debate has invaded, can seize on the president’s forced acknowledgment that providing housing, health care and jobs after a disaster are a public responsibility? If that is true in a state of exception, why is it not true in the normal state? Is that normal state itself not what Senator Reid calls ‘a devastation that has to be taken care of’? Will the Louisiana Hurricane end up being seen as an emergency, as a catastrophe or as a metaphor for the distribution of power and powerlessness in the contemporary United States?


Steven Lukes is professor of sociology at New York University. He has published a number of books, including a new, expanded edition of Power: A Radical View, Individualism, and a critical-historical study of Emile Durkheim.

10.11.05

Melchionda: Le conseguenze delle primarie


Dopo il grande successo della consultazione del 16 ottobre, non si puo' certo dire che il discorso sulle primarie sia archiviato. Romano Prodi ha ottenuto non solo la legittimazione popolare diretta che tanto desiderava ma anche il clamoroso rilancio del progetto della lista unica dell'Ulivo, che sembrava definitivamente accantonato dopo lo strappo della Margherita mentre ora e' stato digerito perfino dalla sinistra dei Ds. Anzi, a partire dal cosiddetto popolo delle primarie, pare decollare a questo punto la stessa ipotesi ambiziosa di procedere alla formazione di un partito democratico (o "partito delle primarie"), cosi' come e' stato sistematizzato, senza incontrare obiezioni di rilievo, dal documento di Amato e Parisi del 25 ottobre e dal convegno dell'associazione "Governare per" del 3-4 novembre. Dunque, quello che emerge dalle primarie si profila chiaramente come un progetto moderato, che infatti viene presentato come una "normalizzazione" della politica italiana, nel senso di un superamento definitivo delle tradizionali identita' politiche e di un consolidamento dell'assetto maggioritario e bipolare del nostro sistema democratico (ritenuto tanto piu' necessario a fronte della "regressione proporzionalista" contestata al centro destra). In particolare, l'abbandono del riferimento socialdemocratico in favore del modello americano si profila tutt'altro che come un ennesimo escamotage nominalistico, ma piuttosto come una modalita' per posizionarsi in una collocazione politica piu' pragmatica, la cui piattaforma sarebbe caratterizzata dall'accettazione piena (e senza piu' alcuna riserva) del mercato, della globalizzazione, della necessita' di smantellare il welfare e della disponibilita' all'uso della forza in politica internazionale. Che siano questi i contenuti obbligati di un eventuale partito democratico si evince non solo dalle opinioni di osservatori simpatetici come il politologo Kupchan o il direttore dell'"Economist" Emmott, ma anche dalle posizioni programmatiche espresse in questi ultimi tempi dai leader del centro sinistra, nonche' dagli atteggiamenti tenuti in vicende come quella di Bologna o dell'Iran. E' questo il significato che sta assumendo oggettivamente il progetto del partito delle primarie. Non c'e' che dire: e' proprio un bel risultato per chi confidava nelle primarie per uno spostamento a sinistra dell'asse dell'Unione!
Ma, a parte questi pesanti effetti politici sull'area moderata del centro sinistra, le primarie fanno temere implicazioni culturali e sociali ancora piu' ampie all'interno dello schieramento, senza risparmiare neppure l'area alternativa. Del resto, per quanto deludente sia stato il risultato ottenuto da Bertinotti, l'investimento che il leader di Rifondazione ha fatto sulle primarie e' stato cosi' carico da farlo rimanere ostaggio non solo della leadership che ha contribuito a rafforzare ma anche della logica plebiscitaria che allo strumento e' connaturata. Infatti, la valorizzazione della partecipazione (quale bene in se') non puo' ignorare il senso in cui essa e' stata sollecitata e in cui e' stata incanalata effettivamente. Ora, non ci sono dubbi (nessuno lo nega) che essa e' stata sollecitata in funzione anti-berlusconiana e incanalata in direzione maggioritaristica. Una mobilitazione certamente importante, quindi, nella misura in cui e' stata diretta contro un governo e un premier cosi' indecenti e contro eventuali tentativi, sempre temibili, di congegnare le regole per manipolare i risultati elettorali. Una mobilitazione importante, ripeto, ma non piu' di questo. Perche' in questo modo la mobilitazione e' servita di fatto ad accantonare le questioni programmatiche, in particolare ad evitare ogni vero coinvolgimento popolare nella sua definizione, e ad affermare una certa concezione della democrazia che, nel mentre si proclama partecipativa, in realta' alla partecipazione riserva una funzione delimitata e deviante. Quel che e' riemerso il 16 ottobre, infatti, e' piuttosto lo "spirito degli anni novanta", cioe' quell'orientamento populista e anti-partitocratico che e' gia' servito ad affossare la prima repubblica e che ci aveva promesso la moralizzazione della politica e il bipartitismo anglosassone ma invece ci ha regalato il berlusconismo e altre belle cose. Il 16 ottobre e' stato l'apoteosi del girotondismo, attizzato e rafforzato questa volta dal leader "senza partito" (cioe' a-partitico) Prodi. Non e' un caso che la composizione della cittadinanza che si e' mobilitata, il gia' mitizzato "popolo delle primarie", a ben vedere sia stata contrassegnata da quegli stessi ceti medi radicalizzati ("riflessivi"?) che si erano visti in azione nelle precedenti occasioni.
Ora, se e' questo il segno culturale e sociale della mobilitazione avvenuta in queste primarie, il rischio e' che una coalizione da essa cementata finisca per assumerne come perno e riferimento determinante la cultura e la base sociale. Il che vorrebbe dire abbandonare definitivamente ai margini quei ceti popolari e quegli interessi del lavoro subalterno che sono stati la base tradizionale della sinistra e ora si trovano costretti in maniera sempre piu' pressante alla scelta tra alienazione politica e fiammate populiste (di destra). E vorrebbe dire quindi smantellare del tutto le strutture di rappresentanza organizzata e di massa che hanno costituito la modalita' propria del movimento operaio per bilanciare almeno in parte gli squilibri sociali. Di qui la tendenza verso una democrazia plebiscitaria, dove la partecipazione si riduce alla pura investitura dei leader e non serve piu' a strutturare un processo collettivo di formazione di gruppi dirigenti responsabili e legati a un progetto comune. Certo, una tale tendenza e' gia' in atto da tempo, ormai introiettata da tutti i partiti, compresi quelli di sinistra. Solo cosi' si spiegano, del resto, le illusioni che lo strumento delle primarie ha creato nella base di partiti come i Ds e Rifondazione, gia' intaccati dall'indebolimento del processo democratico collettivo e dalla penetrazione di logiche personalistiche. Ma qui si tratterebbe di un passo ulteriore, da cui la funzione dei partiti verrebbe ad essere davvero svuotata, lasciando campo libero a ogni tipo di imprenditore politico in grado di mettere a frutto risorse sostanziose. Come nel caso americano, appunto. Si sbaglia di grosso chi pensa che attraverso strumenti come le primarie si possano rivitalizzare l'impulso partecipativo e la democrazia partitica, contrastando i fenomeni oligarchici che interessano i vari ceti politici. Come si fa a non vedere che, al contrario, strumenti del genere rendono i ceti politici ancora piu' autoreferenziali? Dobbiamo aspettare che comincino ad emergere i Berlusconi di sinistra, dotati delle risorse per imporsi nelle nomination affidate alle elezioni primarie, per mettere mano (quando ormai sara' troppo tardi) alla ricostruzione di organizzazioni collettive genuinamente democratiche e partecipative?

Enrico Melchionda (7 novembre 2005)

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