20.11.05

Democrazia a rischio?

Alfio Mastropaolo
NUVOLE - 08-10-2004

Che la democrazia sia ormai talmente poco democratica da aver reso superflua la minaccia del fascismo? E’ un'ipotesi che va presa assai sul serio. Ovunque ci si giri ‑ in tutto il mondo o, ad esser più precisi, in quei paesi, numerosissimi ormai, in cui i governanti si reclutano mediante un'elezione competitiva ‑ lo spettacolo è quello d'una democrazia oppressa da una desolante povertà culturale e morale, soffocata dal conformismo, impermeabile al dissenso, indifferente al destino di settori della popolazione molto ampi. Governata da circoli ristretti e onnipotenti come non mai, che si dissimulano nell'empireo dell'economia e della finanza globalizzate, fisicamente separati dal resto della società, quest'ultima comprende grosso modo altre due fasce: una, intermedia, che oscilla tra consumi opulenti e i pericoli d'impoverimento intrinseci all'economia globalizzata, gravemente insidiata (anche se sovente non se ne accorge) dallo smantellamento del welfare, ed una fascia inferiore, che è la più pesantemente colpita dalla flessibilizzazione dell'economia e dalla contrazione del welfare, e che appare condannata alla povertà economica, alla marginalità, ma anche all'inesistenza politica, giacché in politica questi strati non contano più nulla.
Non diversamente in tre fasce si divide ormai il pianeta: la superpotenza mondiale (ricca, brutale, arrogante); i suoi vassalli, più o meno prossimi, più o meno compiacenti; la larghissima fascia dei paesi oppressi dalla miseria o dalla guerra.
Rispetto a questo sconfortante scenario, se dappertutto le cose per la democrazia vanno male, in Italia vanno un po' peg gio. Giacché assai concretamente in Ita lia si corre il rischio di una degenerazio ne aggravata, ovvero di una fascistizza zione non troppo surrettizia del regime democratico. In Italia la democrazia è in decadenza come purtroppo avviene altrove. Ma forse più che altrove rischiano di dissolversi taluni aspetti essenziali della democrazia. Sia ben chiaro. Usando il concetto di fascismo non si fa che proporre una semplificazione affrettata e pure impropria. Tra la situazione che potrebbe determinarsi prossimamente nel nostro paese e il fascismo d'antan necessariamente vi sarebbero differenze enormi. Niente del resto lascia presagire la cancellazione delle libertà formali, che la complessità della società italiana non consentirebbe. Né il ritorno delle camicie nere, anche se quelle verdi suscitano qualche sospetto. Ed è arduo immaginare qualcuno che fugge in motoscafo a fare il muratore, o che varca l'Atlantico o ripara in Vaticano. Non è pur tuttavia esclusa la prospettiva di una risoluta compressione dello stato di diritto e di una vanificazione sostanziale delle libertà formali, ovvero di un declino democratico aggravato rispetto a quello che è osservabile altrove, pur mantenendo le apparenze della democrazia, e anzi innalzandone demagogicamente le insegne.
Un accentuato declino democratico è quello che in realtà minacciano lo stile e i contenuti dei ripetuti interventi pubblici berlusconiani, insieme alle nuove riforme istituzionali annunciate da tali interventi e allo scenario che gli fa da contorno: da un lato il decadimento del sistema produttivo, di cui il caso Fiat è solo l'ultimo episodio, dall'altro lo stato di polarizzazione estrema della pubblica opinione, in virtù soprattutto della forsennata campagna d'invettive condotta dal capo del governo e dai suoi alleati contro qualsiasi barlume di dissenso e di opposizione.

La società dei «co‑co‑co»

Qual è l'idea berlusconiana di società? Ove vi fossero stati dubbi, il disegno è ormai chiaro. E’ quello di una società consegnata agli appetiti anarco‑predatori dei ceti medi indipendenti, vecchi e nuo vi (piccoli imprenditori, commercianti, nuovi liberi professionisti, una buona quota di artigiani, ecc.: il popolo delle partite Iva, dei falsi in bilancio e dell'eva­sione fiscale), che vogliono alfine consu mare la propria rivincita su chi per una certa stagione li aveva messi più in diffi coltà, vale a dire il lavoro dipendente.
L'Italia, nel quadro europeo, è notoriamente un caso anomalo. La sua brillante ascesa economica del dopoguerra ha visto protagonisti proprio i ceti medi autonomi e la loro «mobilitazione individualistica». E’ solo quando si è esaurita la crescita, negli anni Settanta, che il lavoro dipendente, protetto dai sindacati, s'è fatto avanti. Ma la fase del neocorporativismo italiano, del patto tra grandi imprenditori e organizzazioni sindacali, è stata effimera e imperfetta. Il welfare ha conosciuto una significativa espansione. Ma le rappresentanze politiche del mondo del lavoro non sono neppure giunte al governo. Tanto è bastato comunque a nutrire una gagliarda volontà di rivalsa nel ceto medio autonomo.
L'attacco al lavoro dipendente non è stato sferrato da ora. Era addirittura iniziato con Craxi, che nei ceti medi aveva intravisto un interessante potenziale elettorale. Dopo la crisi politica degli anni Novanta, l'attacco si è fatto più vigoroso. Caduto il bastione Dc, che li aveva tanto a lungo protetti ‑ mediando peraltro con il mondo del lavoro ‑ i ceti medi autonomi hanno alfine trovato in Berlusconi il loro leader. Il centro sinistra, e il sindacato, portano anch'essi le loro brave responsabilità. In nome del risanamento della finanza pubblica, e per ingraziarsi il mondo imprenditoriale, hanno ceduto non poco. Ma nulla hanno a che vedere i loro cedimenti con l'ideale berlusconiano, che è la società dei «co-co‑co» (contratti di collaborazione coordinata e continuativa): una società liberata dai rapporti di lavoro stabili, tanto nel privato, quanto nel pubblico. E’ la società dei lavori atipici, flessibili, part‑time, comunque di bassa lega (più sotto‑occupazione che occupazione, quantunque le statistiche ufficiali li spaccino per tale), che riguardano già il 10 per cento della popolazione e che sono in rapida espansione. Che ciascuno ‑ è il motto della nuova società ‑ si arrangi come meglio riesce. Nelle situazioni più gravi, gli faremo la carità. Ma il vero ammortizzatore sociale sono i loisir: tv, cinema, bingo, birrerie e tra breve pure le case chiuse.
Se questa è però la china lungo cui Berlusconi sta indirizzando la società italiana, con un impeto ignoto alle altre società europee (fatta eccezione per la Gran Bretagna), a complicare le cose ci si mette lo stallo che da tempo travaglia l'economia italiana. Sulle cause di tale stallo varrebbe la pena riflettere con cura. Vi hanno di sicuro concorso gli auspicabili, ma titanici sforzi per aderire alla moneta unica, in particolare quelli compiuti per risanare la finanza pubblica, ma forse ancor più l'ondata di privatizzazioní e di deregulation, voluta dal centrosinistra, ovvero la troppo repentina, e perciò sconsiderata, esposizione (viste le sue condizioni) dell'economia italiana alla concorrenza internazionale: né in Francia, né in Germania si è proceduto a deregolare e privatizzare con altrettanto entusiasmo. Né va dimenticata l'antica, ed estrema, fragilità del ceto imprenditoriale nazionale, una volta per tutte rivelata dal collasso di quella che veniva definita la sua «ala nobile». Che questo ceto fosse debole, culturalmente innanzitutto (donde la sua antica incapacità di assumersi alcuna responsabilità politica), lo si sapeva da sempre. L'integrazione dell'economia italiana in quella europea lo ha sottoposto a un clima concorrenziale assai vivace, al contempo privandolo di ogni stampella statale esplicita o occulta che fosse.
Nell'Italia che ha varcato la soglia del terzo millennio, in ossequio allo spirito dei tempi, ad una campagna denigratoria devastante e a politiche sconsiderate, è ormai scomparso lo Stato, che in passato, grazie ad alcuni nuclei di burocrazia pubblica di ottimo livello, nonché grazie alle partecipazioni statali (ai tempi buoni dell'Iri e dell'Eni, non ai tempi del loro degrado), non poco aveva sopperito alle carenze del sistema imprenditoriale. Ed è in pari tempo scomparsa ‑ o è ridotta a esili fantasmi ‑ la grande impresa: quella capace di innovazione tecnologica e di profittare delle opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati. Non c'è più la chimica fine, né l'industria farrnaceutica. Non c'è più l'elettronica. La meccanica è considerevolmente decaduta. Se ne sta andando la Fiat. Il sistema bancario è ritenuto unanimemente debolissimo e anche una potenza finanziaria come Generali è vittima di una spietata guerra per bande che potrebbe ridislocarne oltre confine la proprietà, come potrebbe presto o tardi accadere anche all'Eni. Mentre quel che rimane è un bel po' di distretti industriali (rubinetti pentole, divani, maglieria e compagnia cantando), vitali, ma comunque a bassa tecnologia, sottoposti a una spietata concorrenza da parte dei paesi di nuova industrializzazione, che potrebbero magari andar bene come contorno ad un «cuore» industriale robusto, ma che fanno corona invece solo ad alcune grandi aziende di servizi (Mediaset, protetta personalmente dal capo del governo; Telecom, coperta di debiti; Alitalia, in difficoltà come tutte le compagnie aeree, l'Enel in via di definitiva privatizzazione e smembramento, ecc.). Se a tutto questo aggiungiamo gli inconvenienti «normali» della globalizzazione e del progresso tecnologico (in primis la perdita di posti di lavoro in tantissimi settori: industria, banche, distribuzione, ecc.), non c'è niente di cui rallegrarsi.
Per rifarsi, imprenditori grandi, intermedi, piccoli e piccolissimi, capeggiati da Berlusconi, sono partiti all'attacco della spesa pubblica e del lavoro dipendente.
In più, Berlusconi gli ha promesso il ritorno ai vecchi metodi della tolleranza fiscale, del lassismo urbanistico e ambientale e magari della corruzione. Resta il fatto che la società italiana nell'insieme consuma poco. Se le categorie ad alto reddito si danno ai consumi di lusso e alla loro ostentazione, la società nell'insieme è depressa. Quindi, troppo poco consumano le altre fasce dei ceti medi, indipendenti e dipendenti, in apparenza situati al di qua della soglia di povertà, che sperano in Berlusconi per pagare meno tasse, ma che intanto sono ben lungi da una condizione stabile di benessere e di sicurezza. C'è poi la fascia amplissima che è collocata al di là della soglia della povertà e dell'esclusione. Ebbene, come potrà mai sostenere l'economia un popolo di consumatori che teme per il futuro, o che non ha i mezzi per il presente? Se poi questo popolo quando consuma, compra auto tedesche e giapponesi, cellulari finnici e personal taiwanesí, abiti made in India e mobili made in China, chi ne approfitta sono le esportazioni altrui e non il sistema produttivo di casa nostra. Il quale ristagna, anzi langue, inficiando di riflesso la capacità di spesa dello Stato. Le entrate fiscali si contraggono, il berlusconismo ideologicamente gli ha dato una mazzata, anche legittimando ulteriormente l'evasione, e ha iniziato a tagliare taluni servizi fondamentali, alcuni di per sé già stressati, e non poco, dall'andamento demografico (sanità e pensioni), altri che sarebbero vitali come scuola, università e ricerca.
A Berlusconi e all'alleanza politica e sociale che lo sostiene della scuola o della ricerca importa ben poco. I beni culturali sono pronti a venderli. Anche se i loro calcoli sono molto miopi, il declino del pubblico giova al disegno d'ingrassare il privato (magari «sociale»: le cooperative cielline), trasferendogli taluni servizi: sanità e scuola in primo luogo. Ma tutta la clientela potenziale del privato dovrà pure trovare i quattrini per pagare tali servizi. Le Monde del 9 gennaio, nel suo editoriale, scriveva che il governo italiano sta fronteggiando le difficoltà drammatiche della finanza pubblica con espedienti degni della Enron: «finanza creativa» e condoni. Per domani si pensa alla devolution, la quale serve proprio a questo: il primo passo è il trasferimento di competenze alle regioni, il secondo, ovvia e inevitabile conseguenza del primo, sarà il «federalismo fiscale»: le regioni al momento più ricche si terranno buona parte delle loro entrate fiscali, le regioni del Mezzogiorno saranno nei guai e s'impoveriranno ancor di più. Anche questo calcolo, ovviamente, è molto miope. Se il Veneto riuscirà a salvarsi a breve termine, non sarà così nei tempi medi, tenuto conto non solo della fragilità di fondo dell'economia di piccola impresa, ma anche del fatto che le altre regioni italiane sono un mercato fondamentale per il suoi prodotti. Forse confidano nei tempi lunghi, quando saremo tutti morti. Ma viviamo in epoca in cui i tempi lunghi minacciosamente si accorciano.
Lungi dal confidare nei tempi lunghi, c'è dunque da temere già per l'oggi e il domani. E’ difficile immaginare che finisca come in Argentina. Dove si assaltano i supermercati e le banche, manca ogni parvenza di mobilitazione politica e la società si arrangia malamente riscoprendo il baratto. La nostra storia è ben altra. E lasciamo pure da canto le ricorrenti teorie della catastrofe e del declino irreversibile. Il capitalismo, in genere, e le sue varianti nazionali hanno sempre dato prova di grande vitalità e di inattese capacità di recupero. Perché mai l'Italia non dovrebbe riprendersi? Allo stato degli atti c'è tuttavia da aspettarsi che il decadimento in atto dell'economia non si arresti troppo presto: la già ricordata debolezza del ceto imprenditoriale si somma alla mancanza di una qualche regia da parte dello Stato. Quanto alla dequalificazione dei servizi pubblici, con essa è ovvio si aggravi, e in misura sensibile, il disagio sociale che già ha investito i ceti deboli, allargandoli non poco, e che sta per coinvolgere le classi medie, al di là di quanto il governo si aspetta e ha messo in conto. E disagio sociale potrebbe significare non solo allentamento del tessuto sociale (con quello che già comporta: microcriminalità, consumo di stupefacenti, ecc.), ma soprattutto processi di mobilitazione collettiva e instabilità elettorale e politica.
Aggravato dai consistenti flussi migratori in entrata e dalla problematica integrazione degli immigrati, il berlusconismo tratta l'allentamento del tessuto sociale drammatizzandolo: ovvero la destra cerca consenso strumentalizzando le paure suscitate dall'immigrazione, dalla criminalità, dalla prostituzione per le strade e elabora politiche repressive, discriminatorie e razziste, non troppo diverse peraltro da quelle adottate in alcuni paesi europei volte a esorcizzare l'ossessione «securitaria» suscitata tra i cittadini. Quanto a una possibile ripresa della mobilitazione collettiva, per ora all'orizzonte non c'è un imprenditore politico in grado di attizzarla dandole un senso, né si avvertono segni decisi d'inversione di tendenza nelle preferenze degli elettori: ma anche questo potrebbe prima o dopo accadere. Con danni per Berlusconi alquanto gravi.

Qualche problema di consenso

Per Berlusconi si pone insomma un problema di consenso alquanto ostico. Una parziale ipotesi di soluzione è lo stato di divisione che il berlusconismo ha prodotto nella pubblica opinione, che non ha precedenti nell'ultimo mezzo secolo. La semina d'odio che il berlusconismo ha effettuato è anzi un pezzo importante della situazione italiana. Dove, lo si è detto tante volte, manca un tessuto di valori comuni. E' probabile, anzi sicuro, che questo tessuto mancasse in partenza. Forse è sempre mancato. Ma a tale mancanza ha, almeno nel dopoguerra, supplito la Costituzione, in quanto sistema di regole buone a far convivere attori divergenti sul piano dei valori. Col tempo, la Costituzione si era irrobustita, anzitutto per la sua durata nel tempo, in secondo luogo perché simbolicamente si era valorizzata la convergenza resistenziale tra le forze politiche che l'avevano redatta, infine perché in essa s'identificava l'ispirazione ideale di talune importanti riforme ridistributive. Orbene, superata la stagione del terrorismo, che aveva ulteriormente ravvicinato tra loro le forze politiche, lo scombinato dibattito sulle riforme istituzionali dapprima, e poi la disinvolta revisione della storia nazionale, hanno ridotto la Costituzione a brandelli, ne hanno delegittimato i principi e le prescrizioni, da ultimo permettendo a Berlusconi di aggiungerci i suoi possenti veleni mediatici.
La linea che separa la destra dalla sinistra sul piano elettorale non si è in realtà spostata di molto. La destra attuale coagula gran pare del vecchio elettorato Dc, socialista, liberale, repubblicano, socialdemocratico e missino. La sinistra ha recuperato una quota non piccolissima di questo elettorato. In compenso, le divergenze di valori (e interessi) che avevano animato l'asperrima conflittualità interpartitica nel dopoguerra si sono da tempo dissolte: il paese non fuoriesce da un'esperienza come il fascismo, l'Urss non c'è più, le disuguaglianze sociali, per quanto gravi e crescenti negli ultimi anni, non sono più cosi drammatiche, né lo sono le divergenze ideologiche. Ciò malgrado, specie l'elettorato moderato si è radicalizzato e avvelenato. Cosicché, senza le ragioni di allora, la politica italiana ha oggi toni da '48.
Tra parentesi, a parte la necessità di ripensare in maniera più pacata la storia del Pci, occorrerebbe anche piantarla di ridurre l'esperienza della Dc solo a diga contro il comunismo. Nella Dc, con i suoi enormi limiti, c'era assai di più. C'era un partito moderato, ma con una spiccata attenzione al temi sociali e con una cultura dello Stato. Non si Possono dimenticare Lima e Andreotti (malgrado il modo in cui si sta comportando dinnanzi ai giudici), ma neppure il Piano Fanfani, le riforme del centrosinistra, Moro, Zaccagnini, Ruffilli e tanti altri ancora. Forse, il problema, non era la Dc, la quale, bene o male i voti e gli alleati per governare se li guadagnava: era l'opposizione di sinistra, che non riusciva a persuadere gli italiani. A fine anni'80 ha pensato di aggirare l'ostacolo promuovendo un riassetto bipolare del sistema politico, comprimendo la propria estrema e dividendo il centro in due. Non riusciva a vincere la partita e allora ha cambiato (con tecniche alquanto discutibili: a un elettorato che ne poteva capire ben poco si è chiesto di pronunciarsi per via referendaria) le regole. Col brillante risultato che la Dc non c'è più, che al suo posto c'è Berlusconi e che neanche ora la sinistra riesce a convincere gli elettori. Non solo non ha conquistato un solo elettore nuovo. Ma ha perso pure un bel po' di quelli vecchi.
Ma torniamo a Berlusconi. L'avvenire che ci aspetta non consisterà probabilmente in un controllo totalitario (o solamente autoritario) dell'opinione pubblica. Ma è difficile ignorare la presenza invasiva dei media berlusconiani, o berlusconizzati, la loro devastante influenza sul costume (turba non poco al riguardo il silenzio dei vescovi, i quali sono solitamente così queruli allorché si tratta di reclamare quattrini per le scuole private o di magnificare Padre Pio, ma che tacciono dinnanzi al bassissimo livello morale delle nostre trasmissioni televisive, quando non vi partecipano) e sul senso comune, da cui è realistico attendersi un duplice effetto: quello di creare un conformismo di massa, atto a consolidare il seguito elettorale della destra e quello di approfondire la sciagurata divisione suscitata nella società italiana, il muro contro muro.
A qualcuno è di recente capitato di vedere in tv un'inquietante trasmissione che si chiama Excalibur? Per chi ha un'idea «riflessiva» della democrazia, non erano granché i mentori televisivi della sinistra. Figurarsi i loro emuli di destra. Dedicata ai no‑global di Firenze, la trasmissione esordiva con un resoconto della manifestazione di Camp Darby, intorno alla base Usa. Lunghi primi piani di manifestanti pittorescamente abbigliati, con treccine e capelli colorati, una lunga intervista a un colonnello, che a grugniti tesseva le lodi della guerra, enunciando un credo morale, secondo cui la guerra non sarebbe né buona, né cattiva. I toni della trasmissione erano quindi nel complesso sguaiatamente aggressivi e corrispondevano appieno al nuovo stile del discorso politico: in assenza di argomenti domina l'invettiva. Questo forse non sposta voti da sinistra a destra e viceversa. Come reagirebbe però l'elettore medio berlusconiano (che, sia chiaro, non è un alieno, anzi è spesso amabilissima persona, salvo quando si parla di politica) se lo scontro politico si facesse più duro, combinandosi con lo scontro sociale?
Per Berlusconi la posta in gioco è alta. Anzitutto, per lui e i suoi compagni di strada, è il potere. Ma per lui c'è anche una posta personale, alquanto inconsueta per un leader politico. In special modo teme la possibile vendetta dei suoi oppositori contro se stesso e contro la sua smisurata fortuna. L'ipotesi più verosimile è che se tali oppositori tornassero in auge, sarebbero quanto mai generosi nei suoi riguardi, come del resto lo furono in passato, nella speranza di addomesticarlo. Poiché tuttavia resta un margine d'incertezza, Berlusconí li teme. E agisce di conseguenza, per cominciare eccitando una micidiale logica amico/nemico: da una parte c'è il governo, che incarnerebbe la maggioranza degli italiani; dal lato opposto ci sono i suoi nemici, che rinnegano il legittimo verdetto delle urne, illegittimamente aspirando a rovesciarlo. Perché quest'apparenza si consolidi, Berlusconi dall'alto del balcone mediatico di cui si è impadronito eccita le folle. E non solo attacca i giudici, ma cerca di soffocare ogni manifestazione e di criminalizzarla, anche la più soft, demagogicamente invocando il principio di maggioranza, nonché il consenso elettorale che a suo parere lo sostiene.
A perfezionare una miscela democraticamente già tanto rischiosa si aggiunge il fermo intendimento di negare un principio democratico essenziale qual è la separazione dei poteri, ovvero l'autonomia della magistratura, mediante la cosiddetta riforma della giustizia. A sua volta, la pubblica amministrazione è stata assoggettata grazie alla nuova legge sullo spoilsystem, peraltro anticipata dalle riforme bassaniniane, così poco consapevoli della mediocre cultura democratica del centrodestra). Mentre un passo decisivo nel disegno di blindatura del regime sarebbero le riforme istituzionali appena annunciate (semipresidenzialismo o premierato), volte ad azzittire parlamento e partiti. L'ultimo tocco sarebbe qualche misura d'emergenza in tema di ordine pubblico, giustificata dal clima di instabilità internazionale e dalla minaccia terroristica.
E’ probabile che Berlusconi abbia concepito la sua recente offensiva sulle riforme istituzionali soprattutto come un diversivo. Se ci s'infiamma sul presidenzialismo, o sul premierato, il quale nei fatti si e gia realizzato, passa in secondo piano l'economia, almeno per un po'. Sullo sfondo resta non di meno l'obiettivo d'immunizzarsi da eventuali sommovimenti all'interno della maggioranza parlamentare, e del suo seguito elettorale, che non sono esclusi, e che potrebbero manifestarsi, ma in pari tempo dal sorgere di un'opposizione sociale meno conciliante di quella politica (la quale peraltro se è al momento inesistente, potrebbe esistere se l'attuale confusa opposizione sociale dovesse rapprendersi e magari costruire un suo disegno politico), sovrapponendo al conformismo mediatico, un ferreo controllo sul parlamento, sugli apparati dello Stato, sulle forze di polizia.
Di cosa siano capaci le forze di polizia (ormai definitivamente acquisite alla causa della democrazia, secondo qualcuno), ma anche la magistratura (che è lo specchio del Paese: quindi anch'essa assai divisa), lo abbiamo visto a Genova e dopo Genova. Proviamo a immaginare cosa potrebbe accadere se Berlusconi riuscisse ad imporsi quale dominus incontrastato, insediato al Quirinale e dotato dei poteri che spettano al Presidente francese. 0 se diventasse un cancelliere alla Bismarck, con la cultura però di un padroncino padano che ama andare per le spicce. Berlusconi non è neppure un ex‑allievo dell'Ena, o un burocrate del franchismo. All'oscuro delle complessità della politica, è un disinvolto affarista per il quale finanche le regole del galateo sono un insopportabile intralcio. Libero e selvaggio. E dal governo lo sta dimostrando ogni giorno.
Fra l'altro, per il ceto imprenditoriale che con lui s'identifica, la deregulation sfrenata che si sta realizzando, accompagnata dalla sottomissione della magistratura, della polizia e delle pubbliche amministrazioni, offrirebbe anche nuove opportunità di guadagno, abbassando le barriere che separano la legalità dall'illegalità. L'economia ristagna, si fanno pochi e magri affari: perché rinunciare, potrebbe pensare qualcuno, ad arricchirsi coi traffici illegali, col commercio d'armi, di droghe e quant'altro, la cui domanda è sempre alta?
E’ possibile che Berlusconi e i suoi sodali non abbiamo ancora elaborato un disegno tanto chiaro. E' probabile che ciò cui soprattutto pensano, oltre al diversivo, e al consolidamento politico, è utilizzare il potere che caverebbero da una riforma delle istituzioni a modo loro per mettere in liquidazione il welfare. E’ una vecchissima idea. Già da principio le riforme istituzionali implicavano questa arrière pensée: per poter ridurre i servizi pubblici e abbattere la spesa pubblica, senza timore d'imboscate parlamentari o di mobilitazione collettiva. Ma istituzioni blindate potrebbero anche servire benissimo per reggere meglio allo stress della deindustrializzazione, dell'impoverimento del paese, del disagio sociale crescente e dei rischi di mobilitazione in varie forme.
Non illudiamoci troppo circa la nostra sedimentata cultura democratica (né su quella altrui), e non dimentichiamo neppure che Mussolini scoprì il fascismo cammin facendo. E’ probabile che quando pilotava le aggressioni dei fasci, ma anche quando si insediò al governo, non avesse in mente né la legge Acerbo, né il partito unico, né la Camera dei fasci e delle corporazioni, né la legislazione antiebraica. Non era neppure Mussolini. Da cosa, si sa, nasce cosa. Il mostro berlusconiano non era stato certo immaginato dal movimento referendario quando reclamava la riforma del sistema elettorale, né tanto meno da Occhetto quando volle la svolta del Pds (meno scuse ha D'Alema quando contrattava in bicamerale). E’ probabile che il berlusconismo non lo immaginasse, né desiderasse, neppure Craxi. Ciò comunque non toglie che l'odierno mostro berlusconiano potrebbe generare altri mostri, che non sono ancora neppur nella mente di Berlusconi. Le situazioni trascinano e imprigionano gli uomini. Vi sono gruppi sociali in difficoltà che hanno una propensione a trasgredire le regole maggiore degli altri. I commercianti hanno più chances di evadere il fisco che non i pubblici dipendenti. Un Berlusconi leader maximo chissà cosa potrebbe inventarsi.
Fermo restando il monito di Marx, sulla storia che si ripete due volte, una come tragedia, l'altra come farsa, anche in quest'ultimo caso c'è poco da stare allegri: il mercato anarchico (ancor più anarchico di quel che è attualmente, e addirittura elevato a valore morale) non è meglio dello Stato etico. Tanto più nella terribile cornice evocata in partenza: a parte gli effetti destabilizzanti della povertà su scala mondiale, le promesse di guerra di Bush, l'umiliazione del mondo islamico, l'impotenza dell'Ue, accentuata dall'allargamento ad est, le crescenti devastazioni ambientali, ecc., quale terribile futuro ci attende? S'è disgustato finanche Iddio, denuncia il Papa, seppur con la consueta reticenza a fare i nomi. Se a queste condizioni il destino della democrazia è ovunque piuttosto oscuro, come si può non esser ancor più preoccupati circa il futuro della democrazia italiana?

Che fare?

Che fare, allora? Per noi, motivo aggiuntivo di timore sono le reazioni ‑ flebili, a dir poco ‑ che giungono dal grosso dell'opposizione politico‑parlamentare. Il potere è anche ciò che gli permettono di essere i suoi oppositori. Gli attuali oppositori ufficiali di Berlusconi si saranno pur convertiti or non è molto al pacifismo (ma terranno molto a lungo?), ma dall'inizio di questa avventura stanno lì a contemplare con occhio attonito la situazione, distanti dalla società italiana e dal suo sentire, in molti casi portatori di un'idea di società che è solo un po' più moderna di quella berlusconiana: seppellito ogni disegno di accordo tra i ceti produttivi, per un pezzo del centrosinistra la società non ha bisogno di alcun nucleo. Attento alle ragioni della grande impresa (quel poco che ne resta) e delle grandi banche, considera essenziali soprattutto i conti in ordine. La società della tarda modernità, per costoro, non è che una somma d'individui e sono pertanto gli individui e i loro individuali diritti e bisogni il target d'ogni iniziativa politica. Così, per cominciare, questa sinistra ha banalizzato il tema delle disuguaglianze, con l'effetto che esse sono tornate ad essere nel senso comune, anche dei disperati (che peraltro in tal modo s'immunizzano da frustrazioni ulteriori), naturali e quindi incurabili attraverso la politica. Pure la sinistra ha fatto insomma la sua parte nel degradare il lavoro e nell'accreditargli attorno un nuovo senso comune, per il quale esso non è più motivo di dignità, ma una sorta di optional (non v'è da illudersi, diceva qualcuno ai più giovani, sul «posto fisso»). Quando sono in vena di generosità, certi settori del centrosinistra propongono l'ipocrisia delle politiche «attive» del lavoro: un po' di formazione, per rendere meno drammatico il transito da un lavoro all’altro. E’ questo che ha con ogni probabilità garantito a Berlusconi un seguito tanto ampio pure tra le fasce deboli della società. Tra le sue mirabolanti promesse e le scomode minacce del centrosinistra, pur non credendo alle prime, perché non provarci?
Nella gran confusione che abbiamo dinnanzi, la prima cosa che dunque serve, se si vuol reagire a Berlusconi, è un disegno politico. Non rivoluzionario, ma alternativo. E’ inutile farla troppo lunga. Il punto di partenza è una rivoluzione nel linguaggio. Bisogna convincersi, e persuadere gli elettori, che la società è un'impresa collettiva. Che siamo tutti nella stessa barca. La formula oggidì prevalente è invece quella secondo cui ciascuno deve salvarsi da solo. Ciascuno deve individualmente investire nella tutela della salute, nell'istruzione dei figli, nel futuro fuori del lavoro. Ebbene, un plausibile programma politico di sinistra deve cancellare quest'idea, purtroppo diffusissima pure a sinistra. Il tema chiave, in politica interna, potrebbe essere proprio il lavoro: anzi, la sicurezza del posto di lavoro. Il lavoro è principio di identità individuale e la stabilità del lavoro è principio di coesione sociale. Che razza di società può essere la società dei «co‑co‑co»? Che presente e che avvenire può avere una società ove i giovani lavorano sei mesi l'anno, magari part time, in cui di continuo ci si deve adattare a un nuovo lavoro e in cui mancano prospettive di reddito stabili? Pazienza per il privato (cui si possono però offrire incentivi per rendere il lavoro più stabile), ma almeno la pubblica amministrazione potrebbe assumere più gente e non solo per qualche mese. C'è un grandissimo bisogno di servizi pubblici di qualità: nell'istruzione, nella ricerca, nella sanità, nella cultura, e via di seguito. Ma come possono i giovani emanciparsi dai genitori, farsi una famiglia, mettere al mondo dei figli?
Il secondo grande tema programmatico è la pace. Un vento di follia spazza il pianeta. Le disuguaglianze tra ricchi e poveri non sono mai state così profonde. I poveri sono disperati. E c'è chi recluta tra questi disperati per concepire atroci deliri di potere: è il caso del miliardario Bin Laden. Poi c'è il terrorismo tout court dei disperati: è il dramma palestinese. La superpotenza prospera su queste tragedie. E nella sua dirigenza vi è chi coltiva deliri di onnipotenza non meno atroci. In ossequio alle analisi di Samuel P. Huntington, questa situazione lascia presagire nientemeno che una riproduzione allargata, anzi su scala globale, e protratta nel tempo, del conflitto che dilania Israele e la Palestina. Anche qui c'è un circuito perverso, che è culturale anzitutto, che va spezzato. La società è governata dalla legge del più forte. Ed è il più forte a dettare il diritto. E’ mai possibile che nessuno sia disposto a fare un passo indietro, a capire le ragioni degli altri, che i più forti non intendano qual è il dramma dei deboli? Un programma di sinistra deve necessariamente avere pure questo secondo fuoco. Per ragioni morali. Per ragioni politiche. Non è questo il mondo in cui val la pena vivere. Infine, anche perché una condizione di guerra sarebbe di sicuro la più propizia a un'ulteriore involuzione del berlusconismo: non a caso con prontezza arruolatosi nelle milizie di Bush (seppure proponendosi solo per gli spettacoli ai soldati). Purtroppo, la democrazia è compatibile con la guerra, che, per quanto giustificata possa essere, la imbastardisce e la corrompe. Di contro, la pace, e la sua cultura, sono per la democrazia un corroborante prezioso.
Non meno rilevante è la questione del personale politico. Un personale politico ci vuole. Quello che c'è suscita non poche perplessità. Ha innanzitutto una colpa politica che non gli si può perdonare: un accordo di tutte le forze del centrosinistra con Rifondazione e Di Pietro avrebbe impedito a Berlusconi di dilagare, conquistando, con una risicatissima maggioranza elettorale, una maggioranza parlamentare straripante, che ha messo la Costituzione e lo Stato sociale alla sua mercé. Questa colpa consiglia un profondo rinnovamento, da ogni parte. L'attuale personale politico di opposizione è lacerato assai più dalle incomprensioni e dalle incompatibilità personali che non dalle divisioni politiche. Non che queste ultime vadano sottovalutate. C'è tuttavia da sperare che l'emergenza democratica in atto li induca a superare divergenze di questa fatta. Ma un avvicendamento di un ceto politico logoro e litigioso è comunque auspicabile. Non attingendo, se possibile, tra i ranghi dei trombati, tra coloro che sgomitano in cerca di riciclaggio, spacciandosi per società civile, bensì dalla società civile reale: tra i giovani, nel mondo delle associazioni, nelle amministrazioni locali. Se in un paese di sessanta milioni di abitanti non si trova materiale sufficiente per selezionare quelle poche centinaia di persone che si richiedono per dare vita a un nuovo personale politico, tanto vale levarci mano.
Da ultimo, servono uno (o più) strumenti politici. Per completare questo quadro sconfortante, non c'è da evocare soltanto le incertezze del centrosinistra e le divisioni della sinistra. Va evocata la loro mancanza di strumenti. La politica è notoriamente un codice, piuttosto complesso per giunta. I cittadini, in media, non sono elettori razionali, che soppesano le diverse alternative. Votano perché qualcuno li socializza al codice della politica e perché sono inseriti in reti sociali organizzative, di valori, ecc. Quando non dispongono di questo codice, quando mancano reti che li includono, si estraniano, ovvero si astengono, oppure scelgono le soluzioni più ovvie: la politica personale, le parole d'ordine semplici (sicurezza e il razzismo, per esempio), suggestioni televisive, l'identificazione coi ricchi e coi potenti, e quant'altro. Per essere socializzati al codice della politica lo strumento essenziale è forse la scuola: quella però che propone idee generali, che suscita capacità critiche, non quella che propone know‑how da investire sul mercato (altra scoperta della sinistra), Nel suo articolo, Federico Repetto sottolinea l'importanza degli “intellettuali di base” a suo tempo evocati da Lazarsfeld. Servono gli insegnanti e serve rilegittimare un'intellettualità diffusa, che arricchisca il senso comune. A questo, una volta ‑ e a quei settori sociali ove l'istruzione non arriva ‑ provvedevano i partiti, strumento fondamentale di educazione politica e collante sociale prezioso. Ebbene, la sinistra ha rinunciato ai partiti. Ha dismesso il suo strumento essenziale di manutenzione del «numero», che era il partito di massa, illudendosi che ormai a orientare l'elettorato bastassero i media. E’ vero, i media hanno occupato un larghissimo spazio. Ma perché glielo hanno lasciato. Non era affatto detto che i partiti dovessero abbandonarlo. Come rimediare allora a questo tragico errore? Se una cosa dimostra il girotondismo, insieme al successo degli scioperi indetti dalla Cgil, è che una forte disponibilità alla militanza persiste. Perché non profittarne? Che si chiami Ulivo, o in qualche altro modo, è irrilevante. Pure irrilevante che sia un soggetto unitario o una sommatoria di forze diverse, che sia un partito «indiretto», secondo l'antica tradizione socialdemocratica, o una costellazione politica che si ricompone per le elezioni. L'essenziale è che una qualche struttura vi sia: uno strumento che presidi la società, che le parli: che non la abbandoni alla seduzione televisiva.

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