29.6.08

La sinistra? Un pennello

oggi la lettura dei giornali provoca stati di agitazione.


Ho letto (fonte Liberazione) che si sono riuniti, chiamati dal crs, un folto numero di esponenti della sinistra. Ecco un elenco parziale: Alfonso Gianni, Roberto Musacchio, Patrizia Sentinelli, Elettra Deiana, Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Goffredo Bettini, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Gianni Cuperlo, Fabio Mussi, Pietro Folena, Famiano Crucianelli, Carla Ravaioli, Sandro Curzi, Miriam Mafai, Beppe Vacca, Alfredo Reichlin, Aldo Bonomi, Mauro Calise.

Insomma il nuovo che avanza!

Il relatore Mario Tronti ha detto: “la sinistra deve tornare ad essere una forza che conti” (questo il titolo dell’articolo di Anubi D’Avossa Lussurgiu). E dopo aver sostenuto che bisogna “chiudere il dopo 89, superare la diaspora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti” ha concluso che il dubbio è se “fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra”.

C’è bisogno di commentare?


Claudio Fava (nuovo LEADER di Sinistra Democratica secondo la didascalia della foto pubblicata da Liberazione) lancia la Costituente della Sinistra e critica il PD per l’idea di autosufficienza.

Che vorrà dire?

Veltroni ascoltava in prima fila, seduto fra Vendola e Occhetto.

L’articolo non specificava chi era seduto alla sinistra di chi.

Ma Veltroni era al centro.


Sul Corriere della Sera ed altri quotidiani pagine e pagine sulla svolta (?) a destra di Barack Obama.

Dopo aver minacciato la guerra contro l’Iran ed aver proposto Gerusalemme capitale d’Israele adesso insiste per la pena di morte.

Su Liberazione neanche una riga.

Siamo ancora fermi al tifo che faceva Sansonetti per Obama?


ramon mantovani
http://ramonmantovani.wordpress.com/
28 giugno 2008

22.6.08

Marzabotto, i sopravvissuti. I bambini del '44 scampati alla strage dei nazisti

Linda Chiaramonte
MARZABOTTO (BOLOGNA)

Nove ergastoli per omicidio plurimo continuato e aggravato, tre dei quali definitivi. Il soldato semplice Spieler, condannato in primo grado, assolto, e Kusterer, comandante di squadra della terza compagnia, assolto in primo grado, condannato in appello all'ergastolo. Si è conclusa così, oltre alla richiesta di risarcimento danni alle parti civili e danno morale alle comunità, la fase del giudizio di merito del processo d'appello nei confronti dei 17 ufficiali e sottufficiali delle SS del 16° reparto esplorante, comandato dal maggiore Reder, responsabili degli eccidi di Marzabotto che causarono la morte di più di 800 civili, prevalentemente donne e bambini, compiuti il 29 e il 30 settembre, l'1 e il 5 ottobre 1944. Il procedimento penale è stato istruito dal procuratore militare della Repubblica Marco De Paolis, pubblica accusa a La Spezia, e avviato nella primavera 2005. Il dibattimento è entrato nel vivo l'8 febbraio 2006, giunto a sentenza il 13 gennaio 2007 dopo 32 udienze (sentenza di secondo grado emessa il 7 maggio del 2008), più di 80 testimoni tedeschi, di cui solo due si sono presentati in aula (probabilmente in quanto feriti prima dell'arrivo del reparto a Marzabotto), e 130 fra sopravvissuti e familiari delle vittime. Mai prima di La Spezia era stata pronunciata una sentenza. A raccontare le atrocità viste e subite o ascoltate dai ricordi dei familiari, anziani che hanno fatto riaffiorare la memoria della loro infanzia, con l'emozione e l'orrore ancora vivi come se tutto fosse accaduto solo pochi giorni prima. Sono stati ribattezzati «i bambini del '44», fra loro una sopravvissuta dopo aver testimoniato commossa non trovando più le parole, ha concluso «il resto ce lo portiamo ancora addosso». Ora si apre la fase della Cassazione nel caso la difesa volesse ricorrere, entro i primi di giugno sarà depositata la motivazione, da quella data ricorreranno altri 45 giorni prima di passare in giudicato. Nel frattempo la procura territoriale di Monaco di Baviera ha richiesto l'esecuzione della pena (gli arresti domiciliari) per due degli imputati, riconoscendo così l'efficacia della sentenza italiana e aprendo un procedimento penale omologo nei confronti degli stessi imputati. Una vittoria che arriva a 64 anni di distanza nella sede della procura generale militare di Roma, Palazzo Cesi, lo stesso in cui nel '94 il procuratore Intelisano, all'epoca accusa nel processo Priebke, si imbatté in un carteggio fra ministeri che rivelò la presenza di documenti di cui non vi era traccia a cui seguì un'indagine interna che portò alla luce l'armadio della vergogna, che si scoprì contenere 695 fascicoli su altrettanti episodi di eccidi compiuti su tutta la penisola, in particolare fra Toscana ed Emilia Romagna. Una volta rinvenuti furono inviati alle procure militari territorialmente competenti, La Spezia nel caso di Toscana, Emilia, Liguria. Dal '94 però sulla questione cala un silenzio lungo otto anni, interrotto solo nel 2002. Il primo insabbiamento risale al 1960, erano gli anni del boom economico, l'Italia voleva voltare pagina e lasciarsi alle spalle i ricordi di guerra. Fu l'allora procuratore generale Santacroce a porre un timbro di provvisoria archiviazione su tutti i fascicoli compiendo così «occultamento di fascicoli di crimini di guerra». Fra il 2001 e il 2002 le parti offese, familiari e istituzioni del territorio di Marzabotto, richiedono lo sviluppo delle indagini che si svolgeranno fino al 2005 e comporteranno le acquisizioni di tutti gli atti del processo del '51 al maggiore Reder svoltosi a Bologna, che si concluse con la condanna al carcere a vita (Reder fu rilasciato nell''85, morì nel '91), oltre ai verbali e alle testimonianze raccolte dalla war crime commission, ufficio investigativo della V armata americana che fra il '44 e il '48 raccolse le testimonianze dei prigionieri di guerra e dei sopravvissuti italiani agli eccidi (dal '48 con la Costituzione le competenze giurisdizionali passarono alle autorità di polizia giudiziaria italiana), oltre a tutte le schede matricolari personali e di ricovero dei militari presso gli ospedali. Fino ad arrivare al 2005 data d'inizio della fase processuale, in cui l'avvocato Andrea Speranzoni ha rappresentato 83 parti civili, il collega Bonetti 18, e il legale Giuseppe Giampaolo le istituzioni, fra cui Regione, Provincia e Comuni coinvolti. Fra i pochi sopravvissuti alle carneficine del 29 settembre '44 in territorio di Marzabotto Fernando Piretti, all'epoca 9 anni, oggi 72. E' contento il signor Piretti, ma è una gioia contenuta la sua, «è andata bene» dice «sono soddisfatto per come è andato il processo finora, spero solo che non si vada in Cassazione». L'esperienza del processo è stata emotivamente pesante per tutti i testimoni, che hanno voluto essere presenti anche all'appello di Roma. Piretti, che ha testimoniato cinque volte, commenta: «a raccontarla adesso sembra una favola, ma quelle cose lì non si possono mica dimenticare. Se chiudo gli occhi e ripenso ai fatti di allora è come se li vedessi. Li ho impressi nella mente. Rinnovare la memoria mi emoziona ancora troppo, mi viene il magone».
Sul lungo iter giudiziario usa parole dure: «Sono trascorsi 60 anni per colpa dell'armadio della vergogna, io il processo l'avrei fatto a chi ha nascosto. Non perdonerò mai chi da bambino mi ha tolto l'affetto della mamma, è da 60 anni che aspetto il suo conforto, ma lei è rimasta là, nell'oratorio di Cerpiano quel 29 settembre». Fernando Piretti è sopravvissuto all'eccidio di Cerpiano dove il mattino del 29 settembre 47 persone, più di trenta donne e una dozzina di bambini, furono riunite e rinchiuse nell'oratorio dove le SS gettarono bombe a mano dalle finestre. Piretti, ferito alla spalla si salvò, fu il corpo della madre a fargli da scudo, poi rimase riparato dai corpi dei morti. Oltre alla madre morì la sorella di 11 anni e alcuni cugini. Il padre era nascosto nel bosco, i tre fratelli più grandi erano partigiani. Il giorno dopo si svegliò con intorno solo cadaveri e un lago di sangue, il viso sporco, forse fu questo a salvarlo quando i tedeschi tornarono per finire a fucilate chi era rimasto vivo. A portarlo via di lì un giovane arrivato a cercare la madre, anche lei fra le vittime. Insieme a Piretti si salvò Paola Rossi di 7 anni e la maestra, la suora orsolina Antonietta Benni. La famiglia Piretti solo un mese prima si era rifugiata a Cerpiano da Gardelletta, località più a valle, pensando, come molti altri sfollati, che quei luoghi impervi di montagna fossero più sicuri.
Nei giorni precedenti c'erano stati molti rastrellamenti, case e bestiame bruciati. Piretti trascorse alcuni giorni nello stabile del massacro, poi con il padre s'incamminò attraverso i boschi fino a Marzabotto, e in camion fino Bologna. Qualche giorno dopo il padre morì in ospedale, lasciandolo «orfano di vittime civili». Insieme ad un fratello raggiunse in Romagna la sorella sposata. Dopo alcuni anni tornò a vivere nei luoghi degli eccidi. Secondo l'avvocato Speranzoni il processo, dice, «ha confermato la premeditazione di un'operazione studiata a tavolino: lo sterminio di massa di un'intera popolazione. Una comunità cancellata da componenti delle SS specializzati in uccisioni di massa, esperienza fatta nei campi di sterminio dell'est europeo, per bonificare l'area, zoccolo duro della resistenza partigiana. La 16esima divisione aveva dei precedenti: era responsabile della strage di S. Anna di Stazzema». «La sentenza», continua, «ha dimostrato come, a distanza di più di 60 anni, sia stato possibile raggiungere la prova di responsabilità di crimini contro l'umanità, cosa che avrebbe riguardato un numero molto più ampio di colpevoli se celebrata anni prima».
In fase dibattimentale è emerso che né durante gli eccidi, né in precedenza, vi furono combattimenti con i partigiani, la maggior parte degli eccidi avvennero in località dove non erano presenti partigiani. Le perdite fra loro furono modeste, circa una ventina, tutte le vittime erano civili inermi. Le azioni avvennero nelle località in cui operava la brigata Stella Rossa guidata da Mario Musolesi detto Lupo. Nessun'altra unità tedesca compì in Italia stragi paragonabili a quella di Marzabotto. Sulla sentenza è laconico l'avvocato di Kusterer Nicola Canestrini, dopo la condanna in appello del suo assistito seguita all'assoluzione in primo grado, preferisce non commentare prima della pubblicazione delle motivazioni.
Nel gennaio 2006, in occasione del processo penale di primo grado, è nata l'associazione delle vittime degli eccidi nazifascisti perpetrati sui territori dei comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi dalla primavera all'ottobre del 1944, composta da più di 300 tra superstiti, familiari ed eredi, con lo scopo di coordinare la tutela legale familiari.

(tratto da il manifesto, 21 Giugno 2008)

14.6.08

«Come posso credere che ci sia qualcuno che crea tutto e poi ci dice: scopritelo?»

Margherita Hack astronoma, prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia
a lei Roberto Salinas ha dedicato il documentario "Il secolo lungo"

Davide Turrini
Bologna

Margherita Hack ha appena compiuto 86 anni. Assieme a lei è passato il '900. E Il secolo lungo , documentario di Roberto Salinas, presentato alcuni giorni fa al Biografilm Festival, lo testimonia. Hack è un raro esempio di coerenza morale e virtù emancipatrice che hanno contraddistinto i momenti eticamente più significativi del secolo appena passato: prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia, politicamente e socialmente iperattiva, ateista e anticlericale convinta, prestante campionessa di atletica leggera, vegetariana fin dalla nascita. La incontriamo a Bologna, poco prima della proiezione del documentario a lei dedicato, dove si ripercorrono le tappe essenziali della sua vita: dall'infanzia a Firenze durante il fascismo, alla laurea in fisica sotto le bombe, fino alla cattedra ottenuta all'Università di Trieste nel 1964 e alle numerose presenze e ricerche in decine di università straniere. Una donna del ‘900, fiera, forte, intelligente, libera.

Lei si è laureata nel gennaio del 1945, quando ancora l'Italia doveva essere liberata?
La sessione dell'ottobre '44 era stata spostata perché gli alleati stavano avanzando e i tedeschi avevano buttato giù tutti i ponti. Firenze era rimasta senza luce, senza acqua, senza gas. Tutta la vita s'era fermata.

Come è riuscita a conciliare il caos della guerra e della sopravvivenza con la concentrazione necessaria per studiare e laurearsi?
Le bombe caddero anche vicino a casa nostra, ma Firenze non fu bombardata come Milano, Torino e Bologna. Diciamo che si sopravviveva con la tessera annonaria, con la borsa nera e comprando il cibo dai contadini. Quando nel '44 arrivarono gli alleati, tutti i partiti uscirono allo scoperto. Ci fu un improvviso fervore, per noi del tutto nuovo. Mi ricordo che si correva qua e là a sentire tutti i comizi: repubblicani, liberali, comunisti, socialisti, democristiani. C'era un grande fermento che sfociò poi nelle votazioni per il referendum del 2 giugno '46 tra monarchia o repubblica.

Laurearsi in fisica durante la guerra richiedeva materiali e strumenti difficili da reperire?
Ho fatto una tesi osservativa e l'ho scritta sotto la luce del lume a petrolio. Per fortuna la mamma si ricordava dalla sua infanzia come si costruivano questi lumi.

Il documentario che la vede protagonista si intitola "Il secolo lungo", che significa?
Secondo me, questo secolo ha incluso un'infinità di eventi: c'è una tale differenza tra l'inizio del '900 e la fine. In un secolo si è concentrato più cambiamento che nei precedenti diciannove. Mutazioni sociali, politiche, dei modi di vivere, soprattutto dopo la guerra.

Il periodo della dittatura fascista è stato il peggiore?
Fino al 1938 noi ragazzini non sentivamo l'oppressione fascista. Certamente ci sono state atrocità anche nei primi anni: mi ricordo di quando avevo cinque anni e in casa si parlava con sdegno del delitto Matteotti. Da ragazzini però si apprezzava il divertimento di essere inquadrati nel fare sport. Io ho cominciato a capire cos'era realmente il fascismo solo nel '38 quando entrarono in vigore le leggi razziali. Era ottobre, facevo la seconda liceo e avevo una professoressa di scienze ebrea, Enrica Calabresi. Da un giorno all'altro è sparita, cacciata, sostituita da un'altra. Stessa sorte toccò a molti miei compagni di scuola. Allora cominciai a capire l'assurdità, le barbarie del regime. Solo lì sono diventata antifascista.

I suoi genitori l'hanno aiutata molto in questa emancipazione sociale e politica?
Loro sono sempre stati assolutamente antifascisti. Mio babbo era di religione protestante, la mamma cattolica ma entrambi erano poco interessati alle loro rispettive "fedi". Così aderirono alla teosofia, una dottrina di origine tibetana che, tra mille bubbole come la reincarnazione, propugnava il rispetto per tutte le forme di vita: anche per questo eravamo vegetariani. Essere vegetariano oggi è quasi normale ma una volta si portavano le stigmate della diversità. Io poi facevo atletica e con grandi risultati e non mangiando carne scandalizzavo gli istruttori. Dalla teosofia ho appreso anche quei principi contenuti negli articoli più significativi della nostra Costituzione: il rispetto di tutti indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalla religione, dallo stato sociale.

Dopo la cesura del dopoguerra, il secolo lungo ha previsto la cesura del '68: come l'ha vissuto?
Nella vita sociale il '68 ha prodotto una gran senso di liberazione, che io però non ho sentito perché ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia estremamente liberale. A casa mia babbo e mamma si dividevano i compiti, non c'erano ruoli predefiniti. Mio padre fu licenziato durante il fascismo e rimase disoccupato per molto tempo: allora fu mia madre a provvedere alla famiglia vendendo ai turisti davanti agli Uffizi le miniature che dipingeva. Mi hanno dato un'educazione molto libera senza impormi ruoli e quando è arrivato il '68 già mi sentivo più libera di tanti amici e compagni.

Lei nel '68 era già professoressa ordinaria. Cos'è cambiato nell'università?
Il '68 per noi scienziati è stato molto importante: c'è stata la liberalizzazione della scienza e dell'università. Nel '64, quando ho ottenuto la cattedra, gli osservatori astronomici erano istituti monocattedra in cui il direttore aveva pieni poteri, cioè non era tenuto ad informare i collaboratori dei finanziamenti, né discutere dei programmi di ricerca: semplicemente li imponeva. Nel '68 invece siamo riusciti a creare un collegio allargato di professori d'astronomia che si riuniva per discutere delle ricerche, dei finanziamenti, delle necessità dei vari osservatori. Sempre sull'onda dei movimenti di contestazione si mossero anche i ricercatori di astronomia e crearono una loro associazione. Insieme fondammo il Gna, Gruppo Nazionale Astronomia che comprendeva tutti: ricercatori e direttori. E' stato un modo per democratizzare la ricerca dell'astrofisica italiana. E oggi siamo tra i migliori al mondo.

Oggi si insiste nel parlare di crisi della ricerca, che ne pensa?
Purtroppo, almeno nel mio campo si sta tornando indietro. Noi del Gna ci siamo battuti molto per otteenere l'Istituto Nazionale Astrofisica, importante per la crescita della fisica delle particelle, ma che purtroppo è diventato una macchina burocratica i cui fondi sono spesi in gran parte per assumere una enorme quantità di personale amministrativo che sta a Roma.

Con il nuovo governo alla Ricerca scientifica è stata nominata la ministra Gelmini…
Non so chi sia. M'hanno detto che è un avvocato. In un ministero della Ricerca forse era più utile un tecnico, uno del ramo scientifico.

Però è una conferma del fatto che anche le donne, grazie alle battaglie combattute nel '900, stanno cominciando ad avere voce in capitolo nelle decisioni e responsabilità politiche del paese.
Certo, c'è stato un enorme cambiamento. Basti pensare che una volta una donna doveva solo seguire il marito e se aveva una sua carriera la doveva troncare. Le ragazze d'oggi non si rendono conto dell'enorme salto di qualità che è stato fatto.

Lei si è sempre battuta per rendere la società civile più laica come la nostra Costituzione vorrebbe. Quali sono ancora oggi i principali impedimenti per raggiungere questo scopo?
Beh, ci vorrebbe una bomba atomica sul Vaticano (ride, ndr ). No, forse è meglio riportare il Vaticano ad Avignone. A parte gli scherzi, con questo papa Ratzinger si sta regredendo assai: non che Wojtyla fosse un esempio di laicismo ma comunque adesso è in atto un grosso passo indietro. E poi i nostri politici sono succubi della chiesa cattolica: penso alla legge 40. E' mai possibile che non si riesca a fare una legge per le unioni di fatto sia etero che omosessuali? Perché deve esistere questa discriminazione di cittadini e questa mancanza di carità cristiana verso famiglie che sono basate sull'affetto e non sul timbro del sindaco o del parroco? Per non parlare di tutti i privilegi che si danno alla chiesa senza rispettare il dettato costituzionale. Perché dobbiamo foraggiare le scuole private? La costituzione dice: piena libertà purché senza oneri per lo stato. Invece assistiamo a questi favoritismi creati dai politici dello stato italiano per rendere materialmente ben poco cristiana la vita terrena della chiesa.

Sembra che dal dopoguerra ad oggi abbiamo pian piano perso coscienza civile. Di chi è la colpa?
Ma di Berlusconi, senz'altro. L'Italia è sempre stato un paese abbastanza amorale che ha sempre avuto poco senso dello stato, ma con l'esempio deleterio del berlusconismo questo difetto si è accentuato.

Torniamo a ciò che è rimasto di laico nella nostra società. Ci dia intanto una definizione di scienza.
Per me è la curiosità nello scoprire le leggi della natura utilizzando l'osservazione, l'esperimento e la ragione, per poi inquadrare quest'osservazione in una legge generale. E' qualcosa che deve essere libero il più possibile da pregiudizi.

Allora come possono convivere scienza e religione oggi?
Tanti scienziati sono credenti, ma ognuno deve operare nel suo campo scientifico basandosi sull'osservazione e gli esperimenti. Poi è padrone di credere che le cose vanno così perché l'ha voluto dio. La fede deve essere disgiunta dalla scienza. Il lavoro e la ricerca in campo scientifico possono anche essere combinati con dio, se uno ci crede. Però se uno pensa che dio è onnipotente, cioè che potrebbe aver creato tutto lui, allora io dico che è come se dio si mettesse a fare le parole crociate: ci dà le leggi della natura e poi ci dice, scopritele. Ritengo comunque che la fede è un'invenzione che l'umanità si è data sia per spiegare tutto quello che la scienza non è in grado di spiegare, sia perchè vuole semplicemente credere nell'aldilà o nella befana. Insomma, un segno di infantilismo (ride, ndr ). A parte gli scherzi: uno è libero di credere in quello che vuole, basta che non imponga la propria fede agli altri.


(tratto da Liberazione, 14/06/2008)

A lezione di capitalismo dal diavolo


Ingo Schulze, finalista del Grinzane, ci racconta il suo "Vite nuove", dalla Ddr all'illusione dell'ovest, nel segno di Goethe


Nell'immagine: Il protagonista del romanzo, Türmer, viene condotto nei segreti del capitalismo e del denaro ...

Tonino Bucci
Torino (nostro inviato)

Gennaio 1990, il Muro è caduto ma la Ddr formalmente esiste ancora. Un intero sistema sta crollando, quel che sarà del futuro nessuno sa prevederlo. L'unica certezza è che indietro non si torna. Ingo Schulze che ha fama d'essere uno degli scrittori tedeschi più talentuosi della scena contemporanea, ci racconta in Vite nuove (edito da Feltrinelli) una storia sprofondata nella provincia della Germania dell'est. Oggi si giocherà alla pari con lo spagnolo Bernardo Atxaga e Ljudmila Ulickaja il titolo di supervincitore del premio Grinzane (nella sezione degli italiani la terna è composta da Michele Mari, Elisabetta Rasy e Serena Vitale).
C'è persino chi nel lavoro di Schulze intravede la versione contemporanea del Bildungsroman per eccellenza, il Wilhelm Meister di Goethe. Classico, se vogliamo, è anche il genere epistolario che l'autore ha adottato. Il suo protagonista si chiama Enrico Türmer. Al momento del crollo della Ddr ha vent'anni. E' un talento letterario, ha scritto romanzi che per ora giacciono nel cassetto e ha lavora anche come drammaturgo per il teatro della sua città (una biografia che coincide con quella di Schulze). Ma con la fine del socialismo reale sente di doversi gettare a capofitto in una nuova vita. Fonda un giornale locale e mette in piedi una piccola redazione attorno a sé. E qui scopre il proprio alter ego, l'altra parte di sé, l'ambizione, la corsa al denaro e al successo. Come nel capolavoro di Goethe anche Türmer è protagonista di un itinerario di formazione - che poi sarà anche un processo di disillusione. Ma la conversione alla nuova vita ha un costo: deve rinunciare al talento letterario e alla poesia per poter entrare nel mondo del futuro. Sarà Clemens von Barrista, una sorta di figura mefistofelica, a condurlo nei segreti del capitalismo e del denaro facile. E' un vero e proprio patto col diavolo come nel Faust goethiano o nella versione faustiana di Thomas Mann. Il lettore entra nell'universo di Türmer attraverso il filtro delle lettere che indirizza alla sorella Vera - con la quale ha un rapporto incestuoso - all'amico Johann e a una donna dell'ovest, Nicoletta.

"Bildungsroman", così hanno definito il suo romanzo. Una sorta di "Wilhelm Meister" del nostro tempo. Il protagonista deve rinunciare al suo passato e al suo talento per formarsi nel nuovo mondo. Sembra il destino collettivo dei tedeschi dell'est. Qual è il risultato, si sono convertiti alla nuova religione del denaro o è prevalsa la disillusione?
La letteratura non deve spiegare, però può aiutarci a comprendere questo cambiamento del mondo. Türmer viene da un mondo in cui le parole coprivano i numeri e le cifre della realtà. Ma dopo il crollo del Muro va verso un mondo in cui i numeri coprono le parole. Lui capisce subito verso quale società si sta andando. Prima dell'89 conta la parola. Dopo l'89 contano le cifre e il denaro. Devo però precisare che il romanzo è ambientato nel '90 e allora così sembravano le cose. Oggi mi sono reso conto che anche l'ovest è basato sull'ideologia. Cioè su parole. Tra l'altro, il termine "tedesco dell'est" nasce solo dopo la caduta del Muro. Prima o ci si sentiva cittadini della Ddr o ci si nascondeva, non c'era un'ulteriore identità. Altro esempio. Per me essere cresciuto all'est ha significato non avere avuto per lungo tempo nozione di cosa fosse il denaro. E ancora oggi ho una visione dell'ovest diversa da chi ci è nato e cresciuto. Il romanzo finisce nel luglio del 1990. Ho intenzione di scrivere su come andrà avanti questa formazione. Türmer potrebbe rendersi conto del fallimento e mettere da parte il vincolo col diavolo. Ma potrebbe diventare lui stesso un diavolo ancora più malvagio…

Mefistofele fa la comparsa nel romanzo come un esperto delle tentazioni del capitalismo. Anche lui come l'omonimo diavolo nel "Faust" di Goethe, alla fine ha un ruolo positivo? Vuole il male e fa il bene?
I ruoli sono interscambiabili. Mi hanno criticato per avere mostrato il diavolo in una luce troppo positiva. Ma io non ho fatto altro che mettergli in bocca le parole dei politici e dei governi. Ci parlano di crescita, di concorrenza ma nessuno mette più in discussione le versioni ufficiali. La mia generazione ha vissuto gli anni precedenti all'89, avevamo imparato a usare la critica, non solo verso lo Stato della Ddr ma anche nei nostri stessi confronti.

Altro motivo faustiano è l'opposizione tra arte e vita. Come l'hanno risolta oggi questa contraddizione gli intellettuali della ex-Ddr nella società capitalistica?
Molti hanno vissuto il passaggio come una perdita. Io stesso lavoravo in un teatro e nella Ddr il teatro era un'istituzione centrale. Aveva un impatto sulla società. Bisognava avere cura che un determinata piéce potesse essere messa in scena e in un certo modo, ma c'era una relativa libertà al di fuori delle chiese. I teatri erano importanti per i movimenti di opposizione. Poi dopo la caduta del Muro sono finiti. Per molti è stato difficile trovare un'esistenza borghese, diventare cittadini. Prima era tutto facile, pagare l'affitto, mangiare… Se facevi l'attore guadagnavi come un medico o un insegnante o un operaio specializzato. Dopo l'89 molti non hanno saputo più come vivere e sbarcare il lunario. Hanno smarrito i fondamenti esistenziali. Chiudevano i teatri, si smetteva di leggere libri, gli insegnanti venivano sbattuti fuori dalle scuole. Io sono contento che sia crollato il Muro, ho dato anche il mio contributo perché accadesse. Ma ad essere onesti il problema, oggi, è che anche l'ovest si sta smarrendo. Ha perso capacità di critica.

Qual è il nuovo occidente che si annuncia?
E' quello che dobbiamo capire. Cosa succede all'ovest dopo che è scomparso tutto il blocco orientale? Nella politica mondiale c'è l'egemonia degli Usa. Gli Stati nazionali hanno privatizzato tutte le sfere della vita e l'economia trionfa su tutto. Questo processo minaccia la democrazia, la svuota. La sfera politica ha sempre meno spazio. Non è importante quale partito governa. E' più urgente capire quali sono le aziende dominanti. Nessuno parla delle responsabilità dell'impresa nei confronti della società. L'unica legge delle aziende è guadagnare sempre di più e nel minore tempo possibile. Il mio protagonista è un imprenditore. Dobbiamo studiare di più l'economia, quel che succede nel mondo del lavoro e come viene guadagnato il denaro. Anche la letteratura deve occuparsene. C'è una barzelletta. Prima dell'89 potevi dire tutto sul tuo capo sul posto di lavoro ma non potevi dire una parola sul segretario generale del partito. Oggi puoi scherzare come vuoi sul Cancelliere ma non puoi azzardarti a dire nulla sul tuo capo in azienda. E' una limitazione della libertà di parola.

Dopo il crollo dell'est anche all'ovest siamo diventati meno capaci di criticare il potere?
Certo. Il silenzio della sinistra è un problema. Da noi in Germania dove pure la Linke è entrata in parlamento anche all'ovest, esistono disuguaglianze intollerabili. Ad esempio, c'è una sanità privata di serie A e una sanità pubblica di serie B. Mi vergogno d'avere un'assicurazione privata mentre mia moglie non ce l'ha.

(tratto da Liberazione, 14/06/2008)

10.6.08

Prc, ecco perchè sostenere Ferrero

Luciano Dondero, AprileOnLine.info 09 giugno 2008, 11:26

Dibattito Per salvaguardare il partito sarebbe meglio vincesse la mozione dell'ex ministro e Grassi che stanno cercando le origini della debacle vissuta e avanzano l'ipotesi di una gestione unitaria. Il documento sottoscritto da Vendola infatti cristallizza tutto ciò che ha fatto di Rifondazione un fallimento totale



Ho militato per vari decenni nel movimento trotskista, che è una versione radicale e rivoluzionaria del movimento comunista. Quando ho iniziato la mia militanza, Ernesto Che Guevara era ancora vivo, e il Maggio ‘68 era di là da venire.

Se oggi ho perso la fede della mia gioventù, in parte è anche grazie a Rifondazione comunista, alla sua insipienza, alla sua codardia teorico-politica - non si è mai voluto discutere del perché in URSS e in tutta l'Europa dell'Est il "comunismo" si sia disfatto come ghiaccio al sole, o del perché in Cina o in Corea del Nord il "comunismo" prosegua sotto forma di caricature imperscrutabili e/o patetiche.

Credo che la disfatta elettorale di Rifondazione e della sinistra arlecchina, pardon arcobaleno, che coincide con la totale cancellazione di ogni simbolo e riferimento al socialismo dal parlamento italiano, sia un evento grave. Tanto più per un partito che si è fatto sempre meno progetto per la rifondazione di una prospettiva di cambiamento sociale, e sempre di più veicolo per le ambizioni di poltrona e di carriera di un vero e proprio ceto, una minuscola appendice di quella "casta", come la si chiama oggi, che se ne sta abbarbicata nelle varie isole di governo e sottogoverno.

Un disastro di tale portata, se coloro che lo hanno gestito avessero un minimo di rispetto per se stessi e per gli altri, avrebbe dovuto avere una conclusione semplice e quasi banale: andarsene a casa, lasciare ad altri il compito di raccogliere i cocci e cercare di fare qualcosa di sensato.

Invece no! E per di più si obbliga l'insieme del partito a schierarsi, a contarsi, allineandosi con una di cinque mozioni in vista del prossimo congresso.

Come è successo altre volte nel corso della breve e disgraziata vita di questo partito, spesso la reale sostanza delle posizioni di ciascuno è un pò nascosta dietro delle posizioni di facciata. Cercherò di fare un minimo di chiarezza, a partire dal mio punto di vista.

Brevemente, esprimo il mio parere nel merito. Ho molta considerazione per le posizioni dei compagni e compagne delle mozioni tre e quattro. Credo che in qualche modo esprimano un desiderio soggettivo di portare avanti le proprie posizioni in forma più o meno pura e più o meno rivoluzionaria, e quindi di rimanere variamente abbarbicati alle prospettive iniziali che diedero vita al progetto di una Rifondazione comunista quasi vent'anni fa.

Non posso però riconoscermi in loro. Intanto perché mi sembrano un pò anacronistici e in parte incoerenti, e poi perché temo che siano motivati in grande misura dal desiderio di contarsi e di gestire un proprio spazio di potere.

La quinta mozione è un'entità sconosciuta, un vacuo appello al "volemose bene" in un'organizzazione dilaniata dai prodromi di una scissione, dunque inefficace ed inutile.

La mozione due cristallizza in maniera quasi perfetta tutto ciò che ha fatto di Rifondazione un fallimento totale. Dal candidato segretario che fa comunella con la gerarchia cattolica in quel di Puglia in vista della santificazione di Padre Pio - ometto ogni ulteriore commento, da ateo impenitente quale mi sono scoperto ancora bambino e da materialista scientifico come gli studi mi hanno permesso di diventare. Si passa poi a questi incredibili burocrati, amministratori di un piccolo potere fatto di ufficetti e di incarichi da distribuire a destra e a manca, persone senza molta intelligenza e senza alcun'ambizione che non sia quella di piazzare se stessi e i propri famigli in qualche posizione.

Sono i principali responsabili del disastro di Rifondazione, i "compagni che dicono sempre di sì", insomma i leccapiedi di Bertinotti, quelli che in primis hanno voluto questo congresso dilaniante, quelli che sperano, buttando melma in giro sugli altri, di nascondere tutta la melma che li copre da capo a piedi. Come i Borboni, "non hanno dimenticato niente e non hanno imparato niente".

Invito caldamente tutte le compagne e i compagni a non votare per costoro.

Resta la mozione uno. Chi la compone in parte ha le stesse responsabilità di aver malamente gestito il partito della mozione due. La grande differenza che li separa dagli altri, è quasi un abisso, è questa: i compagni e le compagne della mozione uno si chiamano dentro e non fuori, non si sono dedicati a dare la colpa agli altri, o a un generico "tutti", ma hanno cercato di individuare le cause del disastro e stanno cercando di trovare una via d'uscita. Non ne condivido tutte le posizioni, ma almeno mi sembra che aprano uno spiraglio per riflettere su ciò che si dovrebbe fare in questo momento, con un saldo governo di destra insediato in Italia.

Mi fa ben sperare anche il fatto che la mozione uno ha detto chiaramente di essere pronta ad una gestione unitaria del partito, anzi il compagno Ferrero è stato esplicito nel criticare la scelta monocratica del congresso di Venezia. Questo è un dato molto positivo. Ovviamente non è venuta alcuna analoga considerazione da parte dalla mozione due, coloro che si considerano capi per diritto e non per una scelta delle base, insomma i delfini di Bertinotti, senza offesa per i delfini che sono mammiferi molto intelligenti.

Cosa può accadere a Rifondazione? Credo che in caso di vittoria della mozione due, i vari Giordano, Vendola, Migliore si troveranno presto un nuovo rifugio, alla corte di Veltroni, naturalmente cercando di fare tutto il male possibile a quel che resterà di Rifondazione. Temo che la mozione tre abbia anch'essa già intrapreso un percorso esterno, quella della cosiddetta "unità dei comunisti" insieme a Diliberto e ad altri improbabili partner di un improbabile progetto.

E dunque, comunque vadano le cose, ossia anche se vincerà la mozione uno, Rifondazione si ritroverà fortemente ridimensionata. E sarà così necessario procedere ad una nuova ricostruzione di un progetto seriamente di sinistra. Mi auguro davvero che ciò possa avvenire, e per questo esprimo il mio voto per la mozione di Ferrero-Grassi.

Questo testo è stato letto nella riunione del Comitato federale del PRC di Savona il 4 giugno 2008

5.6.08

«Sinistra quanti sbagli, hai mummificato la Resistenza»

Vittorio Bonanni

(tratto da Liberazione, 4 giugno 2008)

Dialogo con Massimo Storchi storico, esperto
del dopoguerra emiliano

Il triangolo rosso, la violenza postliberazione in Emilia fatta di vendette ed esecuzioni sommarie, la delegittimazione dunque di quella lotta che sta invece alla base della nostra repubblica e quindi dell'antifascismo. Tutti questi elementi sono all'origine del lento e inesorabile smantellamento del "mito" della Resistenza, che proprio in Emilia Romagna, e in particolare a Reggio, aveva conosciuto i momenti più epici e forgiato l'identità della regione. Quei fatti, lungi dall'essere oggetto di indagine storiografica, sono invece stati usati in chiave politica. Basti pensare al "Chi sa parli" del 1990 di matrice craxista che diede la stura ad una vulgata storica che ha conosciuto la sua punta di diamante nei lavori di Giampaolo Pansa, in particolare Il sangue dei vinti . Chi ha cercato di vederci chiaro negli avvenimenti drammatici di quegli anni - 1945-46 - restituendo loro una dignità storica è Massimo Storchi, storico e responsabile del polo archivistico del comune di Reggio Emilia, che nel suo libro Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945-46) (Aliberti editore, pp. 286, euro 16), senza tralasciare le vendette sommarie messe in atto da ex-partigiani, punta l'indice contro la mancanza di giustizia nei riguardi dei crimini fascisti e fa risalire proprio a questo peccato originale l'incapacità della repubblica italiana di trovare un'identità abbastanza forte da resistere alle sfide del tempo.

Proprio lo smantellamento della memoria legata alla Resistenza in Emilia Romagna ha dato il via ad una progressiva rimozione di quell'atto fondativo della nostra repubblica che ha portato poi all'attuale scenario, dove una destra aggressiva e all'attacco sta mettendo le altre forze politiche in un angolo...
Questo smantellamento della memoria, come lo chiama lei, deve essere suddiviso in due parti. La prima riguarda innanzitutto ciò che hanno fatto gli ex nemici, e cioè i post-fascisti, i neo-fascisti o i fascisti tout-court, a seconda di come li vogliamo chiamare. Hanno sempre avuto un comportamento molto lineare e hanno sempre difeso la loro storia. Di fronte a questo ciò che è venuto meno, ed è il secondo punto, è l'antifascismo, come ha detto con grande chiarezza il saggio di Luzzatto di qualche anno fa. Ed è venuto meno sia perché la Resistenza è stata mummificata ed è stata trasformata in una cosa così poco appetibile dai giovanissimi, sia perché, trasformandola in qualcosa che doveva andare bene a tutti, è stata svuotata anche dei contrasti, presentandola come un'esperienza realizzata da eroi bellissimi e biondi. In realtà è stato un episodio del 900 italiano fatto da uomini in cui, come in tutte le guerre e i momenti di crisi, non sono certo mancate le contraddizioni.

Restano però i principii...
Che è ciò che io sostengo sempre quando vado a parlare nelle scuole. Bisogna rendersi conto, dico agli studenti, di una cosa molto chiara: da una parte c'era Auschwitz e dall'altra parte c'era chi combatteva contro quel progetto. A parte dunque i principii la Resistenza resta un fenomeno storico che va analizzato con gli strumenti della ricerca storiografica, nel bene e nel male. Come dicevo, la colpa dell'antifascismo è di aver accettata questa museificazione, che ha le radici nella "guerra fredda", e di aver scelto il silenzio su tutta una serie di vicende che poi sono state usate strumentalmente. Quelle uccisioni del dopoguerra andavano raccontate da noi, perché facevano parte di quella storia, difficile e contraddittoria. Ci sono state insomma delle omissioni, poi si può valutare se in buona fede o meno. Anche la storia che racconto nel mio penultimo libro, Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani. La storia di "Azor" , sull'uccisione di questo comandante partigiano, andava certamente raccontata prima. Capisco la difficoltà di portare alla luce certe vicende durante la contrapposizione est-ovest ma arrivati agli anni '80 o '90 continuare a tenere sotto silenzio determinati episodi è stato soltanto autolesionistico perché gli altri non aspettavano altro di poter accedere a quella serie di cliché composta dagli eccidi, dal mistero, dal complotto, dalla rivoluzione bolscevica e via dicendo. Per queste ragioni la Resistenza non è mai diventato un oggetto storiografico ma è sempre stato un oggetto politico. Usato a seconda dei periodi, la resistenza tradita, la resistenza rossa, quella bianca, ma sempre strumentalmente per colpire l'avversario di turno.

Lei sostiene che nel 1989 i comunisti italiani furono incapaci di «aprire una riflessione a tutto campo, in termini non solo storici ma culturali» e scontarono in pieno la crisi dell'antifascismo. Insomma, invece di parlare dei "ragazzi di Salò", come fece Violante, come avrebbero dovuto agire?
Che mi sembra abbia espresso, Violante, il suo assenso ad una via intitolata ad Almirante. Tutto questo comunque testimonia di una perdurante "confusione". Io non credo che gli storici siano i più indicati nel presentare linee politiche, per l'amor di dio. Però certamente il fatto che dopo l'89 si è semplicemente volta dopo volta assunto o imitato vari modelli, dagli ecologisti, a Blair o a Clinton, pur di non fermarsi un attimo e dire «noi chi siamo, che cosa abbiamo fatto, della nostra storia, e anche di questo antifascismo che cosa dobbiamo tenere e cosa invece è giusto abbandonare?». Questa riflessione non è mai stata fatta semplicemente per mantenere il potere e conservare gli stessi medesimi gruppi dirigenti. E come quel personaggio del film di Woody Allen Zelig che a forza di voler imitare gli altri non sa più quale sia la propria identità. Non c'è stata insomma una riflessione e progressivamente anche la Resistenza è diventata un peso, una cosa un po' noiosa, perché bisognava essere un partito moderno, ma sempre imitando gli altri. Recentemente sull' Espresso è stato pubblicato un bell'intervento di Piero Ignazi che parla proprio della trionfante koiné della destra. Per tanto tempo si è parlato di un'egemonia culturale della sinistra, ma negli ultimi quindici anni ha preso corpo un'egemonia culturale della destra. E su quei modelli la sinistra arranca, cerca di imitare, cerca di stargli dietro, ma, come si suol dire, è sempre meglio l'originale che la copia e la gente infatti sceglie l'originale.

Come si può contrapporre questa deriva che ha portata alla nascita di quella che lei definisce "asimmetria della memoria"?
Si deve partire dalla scuola e dalla cultura in generale dando importanza a questi temi e anche mettendo a disposizione delle risorse. E dobbiamo agire sempre con la convinzione che siamo già nella fase successiva alla vittoria del berlusconismo. Non dobbiamo pensare di contrastarlo perché ha già vinto e quindi ora sta a noi vedere che cosa possiamo fare. Noi a Reggio ogni anno organizziamo i viaggi della memoria, come ha fatto Veltroni a Roma. Ma nella nostra città, dove non abbiamo la popolazione scolastica di Roma, ogni anno andiamo con 600 studenti. Ad Auschwitz, a Dachau, a Buchenwald. Ma non è soltanto il viaggio puro e semplice, c'è tutta la preparazione prima, per mesi con gli studenti ne parliamo insieme agli storici e agli insegnanti. Con loro si costruisce un percorso, ci si prepara, si fa il viaggio, si torna a casa, si lavora sui materiali, si fanno work-shop, libri, video. Un progetto che coinvolge 600 studenti e dunque almeno 1200 genitori che entrano in questo circuito di conoscenza.

Tutto questo ragionamento non può non collegarsi con i fatti inquietanti di questi ultimi giorni e settimane, dall'omicidio di Verona alla recente aggressione squadristica alla Sapienza, passando per l'incendio ai campi rom e alla spedizione punitiva al Pigneto di Roma. Come possiamo ridare forza, a questo punto, ad un sentimento come quello dell'antifascismo?

Bisogna ricordare che l'antifascismo in Europa è ancora molto sentito, è un grosso valore. In Germania ci guardano come matti quando sanno che uno come Ciarrapico esterna le sue simpatie per il fascismo e viene pure eletto in parlamento. Da noi, dicono i tedeschi, uno come lui lo carceriamo subito. Non arriva neanche alla tv. Mentre in Italia un'organizzazione come Forza Nuova viene considerato come il Rotary Club e l'aggressione all'università non ci fa né caldo né freddo. Questo per dire che i valori dell'antifascismo hanno costruito l'Europa e non è un fatto che riguarda solo noi. Il vecchio continente nasce sul concetto "mai più una guerra tra di noi" e appunto sull'antifascismo. Poi noi abbiamo avuto la fortuna che l'antifascismo ha fortemente influenzato la nostra Costituzione e quindi se non vogliamo più parlare di antifascismo applichiamo almeno la Costituzione. Ma seriamente, cercando di colmare così la carenza etica di questa nostra fase storica. Basti pensare che la nostra, e credo proprio di non sbagliarmi, è la sola nel mondo dove l'articolo 1 parla del valore del lavoro, il quale è stato uno dei tanti frutti dell'antifascismo.

«L'antifascismo si fa anche coi nomi delle strade»

di Tonino Bucci

(tratto da Liberazione, 4 giugno 2008)

Dialogo con Enzo Collotti storico della Resistenza
e dei fascismi europei

La politica di oggi ama definirsi bipartisan e dialogante. L'Italia delle istituzioni appare un paese soft . Nei palazzi del potere si scrivono le leggi tutti assieme. Maggioranza e minoranza vanno di comune accordo e finalmente (per loro) il parlamento è stato "semplificato" (eufemismo per dire che non c'è più la sinistra rompiscatole). Il governo di centrodestra tira diritto per la sua strada ma senza scontri frontali. E lancia messaggi di moderatismo e concordia.
Eppure la società ci rinvia un'immagine di segno opposto, quella di un'Italia hard , di un paese percorso nelle sue tante periferie da spiriti animali. Dalle città giungono notizie in sequenza di aggressioni, pogrom e caccia allo straniero in pieno stile neofascista. La società con i suoi processi di disgregazione, con le sue paure e le sue pulsioni violente, è pervasa da una cultura di destra che è divenuta ormai senso comune da bar.
C'è contraddizione fra il moderatismo della politica e le pulsioni viscerali del paese? In superficie forse sì. Il protagonismo aggressivo di formazioni di estrema destra come Forza Nuova - o dello squadrismo spontaneo che comunque ha interiorizzato i tratti culturali del fascismo - sono un ostacolo per la destra di governo, certo. Ma osservate in profondità quelle due Italie sono figlie l'una dell'altra. Sono il frutto di un corto circuito fra una politica di destra, padronale e securitaria, da un lato, e il populismo xenofobo di cui la prima ha bisogno per camminare e prosperare, dall'altro. C'è da farsi poche illusioni sul presunto moderatismo della destra di governo. Anche per quel che essa sta facendo nella cultura di questo paese.
Prendiamo l'esempio della toponomastica come la intende il neosindaco di Roma Alemanno. Nulla di più innocuo in apparenza. In fondo, dedicare una via ad Almirante e una a Berlinguer, una a Craxi e un'altra pure a Fanfani, sembrerebbe un gesto bipartisan, un segno di pacificazione fra tutte le storie politiche italiane. Ma dietro il linguaggio rassicurante della politica della destra si nasconde un estremismo minaccioso per la convivenza civile. Siamo di fronte a una gigantesca operazione sulla memoria storica: riaccreditare la storia del fascismo italiano nell'alveo delle culture politiche legittime e smantellare nel senso comune del paese quel che resta della cultura resistenziale e dei principi della Costituzione. Enzo Collotti non è certo tra coloro che ne sottovalutano la portata. C'è da credergli vista la sua lunga esperienza da storico della Resistenza e dei fascismi in Europa.

Lo spirito bipartisan nella toponomastica sembra innocuo. Ma non è la spia del pericoloso "sovversivismo" che si annida dietro il finto moderatismo?
Questo è il vero pericolo. E' un'operazione molto sottile tesa a far passare come "normali" cose che non lo sono affatto. Qui si finisce per legittimare la storia del fascismo italiano.

Giornali e tv hanno la loro parte di responsabilità nel modo in cui si occupano di storia?
Nei media prevale un comportamento superficiale verso l'informazione sui temi storici. E siccome viviamo in un clima orrendo…

Ma si possono mettere sullo stesso piano Almirante, Berlinguer, Craxi e Fanfani?
Basterebbe ricordare la biografia delle persone. Io non ho nessuna simpatia per Craxi ma non trovo giusto che venga messo assieme ad Almirante. Sono due storie diverse. Questa è la confusione delle lingue, una Babele storica dove magari Almirante fa bella figura accanto a un componente del Cln. Sono considerazioni che possono indurre alla malinconia, ma questi sono i temi sui quali oggi bisogna condurre una battaglia. Non è possibile fare finta di nulla. Il giorno che si accetta via Almirante, si è accettato il fascismo. Lo si legittima come una delle tante forze politiche e si rinuncia alla critica.

Ma qual è il rischio di questa operazione sul piano della memoria storica pubblica?
Di perdere la consapevolezza storica delle differenze fra il fascismo e le altre epoche della storia italiana. Queste sono battaglie di principio fondamentali.

In certe trasmissioni compaiono personaggi alla Alessandra Mussolini, alla Borghezio, alla Stefano Fiore e via via fino alla vedova Almirante. E' solo folclore?
E' questo il punto nevralgico. Tutti vengono legittimati, ognuno ha diritto a dire la sua in nome di una regola bipartisan che mette nello stesso calderone fascisti, leghisti e via dicendo. Passa anche per i salotti televisivi l'operazione di accreditamento di questi personaggi e della loro cultura politica. Ci siamo dimenticati che esiste ancora il reato di apologia del fascismo? Perché nessuno lo ricorda? Se continua così il sindaco Alemanno fa apologia di fascismo.

Però va a rendere omaggio alle vittime delle Fosse ardeatine e si presenta come il sindaco di tutti...
Sì, ma non fa altro che contrabbandare, attraverso una serie di operazioni manipolatorie, una merce che, in fin dei conti, si chiama fascismo. Quelle sono le sue origini. E' inutile cercare di abbellire la situazione.

Ma la sinistra che fa?
La sinistra ne ha tante di responsabilità. Ha commesso un grandissimo errore culturale nel giudicare l'antifascismo uno strumento obsoleto e superato.

Le sembra corretto vedere nelle recenti aggressioni semplici atti di violenza generica e non atti politici a sfondo fascista?
Se non si vede la matrice politica non se ne esce più. Speriamo che non continuino a fare discorsi astratti sulla violenza. Bisogna individuare le radici di questa violenza. Queste aggressioni non esisterebbero se non ci fosse alle spalle una matrice politica.

Il neofascismo si presenta come un innocuo discorso da bar…
Si dice che le violenze di Roma appartengono alla matrice della xenofobia. Ma cos'è questa se non un aspetto della cultura dell'estrema destra? Qui c'è un tentativo di manipolare l'opinione pubblica. Non possiamo girare la testa dall'altra parte.

I tempi del bon ton e dell'equilibrio bipartisan sono finiti. Ma cosa significa fare battaglia culturale?
Non vuol dire fare la guerra agli altri. Significa non consentire che gli altri manipolino l'opinione pubblica e che nei loro atti apparentemente innocui nascondano certe radici politiche identificabili nel fascismo e nella sua storia. Altrimenti perdiamo il senso della nostra convivenza e non capiamo neppure perché difendiamo ancora questa Costituzione.

L'antifascismo deve ridiventare una memoria pubblica. Ma come?
Ci sono intere fasce giovanili che di tutta la nostra storia non sanno assolutamente niente. Se noi permettiamo che si perda il filo della memoria saremmo davvero autolesionisti. Non solo, saremmo anche responsabili per un paese che non sa più quali sono la sua identità e le sue radici. E' l'antifascismo che garantisce la convivenza. Con questi signori che hanno stravinto le elezioni altro che pacificazione! Si comportano da vendicatori. Non si può stare a guardare per quieto vivere o per buona educazione tollerare che questi facciano piazza pulita di sessanta anni di lavoro culturale. E' chiaro che abbiamo difeso male la storia dell'Italia repubblicana e antifascista. Come meravigliarsi che Pansa venda un milione di copie dei suoi libri?

Certi libri vanno stroncati sul piano storiografico, certo, ma la loro forza sta nel saldarsi con i luoghi comuni, i clichè e le opinioni alla moda. Come si disarticola questo blocco?
In un paese in cui si dice che si legge poco, bisogna interrogarsi come mai un autore venda un milione di copie. Perché il pubblico italiano legge solo queste cose, posto che le legga davvero dalla prima all'ultima pagina? Perché questo discorso diventa senso comune e altri discorsi più importanti e più fondati no? Queste domande attengono alla media della cultura politica del paese.

La disfatta elettorale della sinistra non è anche figlia di questo sfacelo culturale dell'antifascismo?
L'elettorato non si riconosce più in un patrimonio culturale e ideale. Si è interrotto il filo nato dalla Resistenza e dalla Costituzione. Questo comune patrimonio rappresenta un tessuto connettivo del quale la sinistra non può fare a meno. Se non si tiene presente questo, non si può fare nessuna battaglia culturale. Altrimenti tutto passa, tutto viene accettato. Anche operazioni in apparenza innocue come la dedica di una via a un esponente politico del neofascismo, sono fatti importanti perché creano un legame di identificazione nelle persone che abitano in quel territorio. Che esempio tramandiamo?

3.6.08

La scelta di parte dell'apicultore

Loris Campetti

(tratto da il manifesto, 30 Maggio 2008)

STORIE
A dieci anni dalla morte di Gino Vermicelli, ripubblicato «Viva Babeuf»
Un romanzo sul sentiero della libertà, per una vita straordinaria e «normale». Da operaio a vice-commissario politico in Val d'Ossola. Preso dai fascisti e torturato. Poi nel Pci e dopo il '68 con il Manifesto


La guerra è il male peggiore. Lo è per chi la sceglie e la impone, che si nasconda dietro la filosofia di Machiavelli (la guerra come continuazione della politica con altri mezzi), o che rinunci a qualsivoglia giusitificazione etico-politica. La guerra è entrata nella normalità delle cose portandovi dentro persino la banalità di quel male che rappresenta. La guerra è il male peggiore anche per chi la subisce, ed è costretto a diventarne attore nelle forme storicamente determinate. Nella Resistenza al nazi-fascismo la forma scelta, perché data, era la guerriglia. Perché sia il male peggiore per colui a cui è imposta è presto detto: ti rende progressivamente sempre più simile a colui che combatti. Nella lotta partigiana si entrava - chi vi entrava - per una scelta paradossalmente costretta, senza enfasi, senza voglie di martirii, con un sogno costante: che finisse, e finisse presto. Una scelta costretta, ne ha parlato a lungo Nuto Revelli, «naturale», salvo l'infamia dell'adesione al fascismo, ai suoi crimini, alla sua ideologia. Dunque, «l'unica possibile», ripeteva ai ragazzi delle scuole il partigiano Gino Vermicelli. La coscienza, le tante domande sul domani da costruire, per la maggior parte dei partigiani e delle partigiane crescevano dentro la lotta, dentro l'organizzazione di relazioni umane nuove basate non sulla gerarchia ma sulla condivisione, sulla redistribuzione delle ricchezze (della miseria), della fatica, del rischio, del cibo, delle responsabilità. La battaglia politico-ideologica forse più pregnante per chi aveva maggiori responsabilità di guida, di formazione, dentro la lotta partigiana, era finalizzata proprio a prevenire e combattere i rischi che le proprie brigate diventassero simili ai battaglioni dei nemici che si combattevano. Nei comportamenti - per esempio nei confronti dei prigionieri - e, alla lunga, persino nei sentimenti: verso il nero, verso il tedesco, o verso la popolazione civile. Perché il fine, in una guerra imposta, non può giustificare qualsiasi mezzo messo in campo per perseguirlo.
E' questa la prima considerazione che viene in mente alla lettura (per qualcuno rilettura) del bellissimo libro di Gino Vermicelli, «Viva Babeuf», ripubblicato in questi giorni (Tararà editore, 18 euro). La prima edizione risale al 1984 a opera della Libreria Margaroli di Verbania, in collaborazione con la cooperativa «Manifesto anni '80». E' un libro fondamentale per gli adulti perché non perdano la memoria, per i giovani perché la ricerchino. E' un romanzo, una microstoria dentro la Grande Storia, la prima quella del partigiano Simon che assomiglia come un fratello gemello al partigiano Gino, la seconda è la guerra contro l'occupazione nazifascista della Val d'Ossola, la costruzione della Repubblica liberata dall'oppressione e la sua tragica fine, nel mezzo il tentativo di edificare nuove relazioni dentro il cantiere della città dell'utopia. Più che una città, montagne e valli, laghi e i ruscelli, contadini e montanari, contrabbandiere, borghi e baite. Partigiani e partigiane, italiani e ucraini, che nel momento più drammatico del rastrellamento tedesco e fascista «possono fare come vogliono, combattere o scappare... liberi di scegliere come mai lo è stato nessun soldato». Nella lettura si incontra il comandante delle truppe ucraine arruolate per forza dai nazisti e passate in blocco alla Resistenza, Conney, il quale «si convinse che se la guerra era la cosa peggiore, farla come la facevano i partigiani era il modo migliore». I protagonisti sono soprattutto ventenni, «convinti che stavamo cambiando il mondo» e questa era la forza di chi non poteva che essere lì, tra quelle montagne, a conquistare le armi in battaglia, a far saltare i caposaldi nemici, a rifocillarsi sugli alpeggi con una tazza di latte e una fetta di polenta dopo giorni passati a correre come lepri rosse, da un passo alpino all'altro, con i cani neri pronti a morderti il sedere. In basso, a fondo valle, tedeschi e nazisti, in alto, di fronte, la montagna, la libertà.
Gino Vermicelli era un uomo straordinario, forse proprio perché rifuggiva dalla straordinarietà, dalla retorica, dal manicheismo come ha scritto Rossana Rossanda, autrice della prefazione giustamente riproposta in questa nuova edizione. Emigrato in Francia nel '30, da bambino, impegnato nella lotta clandestina contro l'occupazione nazista, torna in Italia, a Verbania, nell'estate del '43. L'operaio metalmeccanico da maquis diventa partigiano, Brigate Garibaldi, commissario politico di brigata e vicecommissario delle formazioni «rosse» in Val d'Ossola, arrestato dai neri, torturato, infine liberato nel '44 con uno scambi di prigionieri. Dopo la fine della guerra Gino ha lavorato nel e per il Pci da uomo libero, forte di quei valori e di quell'indipendenza radicatisi in lui durante l'esperienza partigiana. Maestro di tanti giovani raccontava una storia di lotta e di speranza senza mai dimenticare Brecht: «Beati i popoli che non hanno bisogno di santi e di eroi». Fu naturale per lui, nel '68, trovarsi ancora una volta dalla parte giusta, con gli studenti e gli operai in lotta, in cui vedeva la continuazione della lotta condotta da una parte della sua generazione. Si schierò dalla parte del Manifesto che ha contribuito a costruire con un impegno convinto, generoso come sempre. Sono sue le prime cronache sulle lotte operaie alla Montefibre di Verbania, a cui intramezzava lezioni magistrali, una vera scuola quadri per i più giovani. Pacifista convinto: «Sorrido quando qualcuno mi chiede "come fai tu che sei stato partigiano a essere pacifista?". E' sciocco trovare contraddittoria l'adesione di un marxista all'obiezione di coscienza. Non è che avendo fatto una guerra ci abbiamo trovato così gusto da rifiutarci di appendere lo schioppo al chiodo. Un conto è aderire con coerenza nel tempo a una visione etica e politica, un conto sono le forme dell'agire che cambiano con il modificarsi della realtà che ci circonda». Tenendo cara la memoria, soffrendo quando anche dalla tua parte politica si sente dire che «i ragazzi e le ragazze di Salò avevano le loro ragioni e i loro ideali». Gino ci ha insegnato che la memoria è una cosa viva, non un soprammobile da lucidare ogni 25 Aprile.
Dieci anni esatti dopo la morte dell'apicoltore comunista Vermicelli, avvenuta nel maggio '98, viene riedito «Viva Babeuf», un romanzo da non perdersi in questi anni contrassegnati dai vuoti di memoria. La storia del partigiano Simon, i suoi amori, i suoi dubbi pur dentro «l'impegno più totale» della lotta per la libertà dal nazismo e dal fascismo, suggeriscono anche nuovi sentieri, nuove baite, nuove condivisioni, da cercare con modestia e condivisione. Da cercare insieme. Come fece quarant'anni fa questo giornale.

Lettere da una affinità estetica e affettiva

(tratto da il manifesto, 28 Maggio 2008)

Entrambi stranieri all'italiano, la scrittrice austriaca e il musicista tedesco lo scelsero come lingua del cuore nel rapporto che li unì per oltre vent'anni. Una anticipazione dalla loro corrispondenza, in uscita giovedì per la Edt con il titolo «Lettere da un'amicizia»

A Ingeborg Bachmann
Ischia, 7 luglio 1953
7 GIUGLIO SAN FRANCESCO
CASA CAPUANA
FORIO D'ISCHIA
(NAPOLI)
Cara ingeborg bachmann, certo è pericoloso essere favoriti dalla fortuna e ricevere troppo affetto, ma un po' di fortuna di quella che non gocciola dalle grondaie intellettuali e non va a finire in fauci intellettuali, un po' di gioia delicata e di amore, forse, su una terra molto fredda sconosciuta e incontaminata, piccoli miracoli di bellezza e purezza, non può essere che un bene per chi ha voglia di lavorare: ed è questo che il futuro deve darci, spero che mi capisca. se Lei immaginasse quanto sto bene qui! inoltre è accaduto come un miracolo, apollo calando dal sole si è stabilito in quella parte chiamata san francesco dal santo di assisi, in basso, al di sotto dei vigneti, tutto avvolto da raggi di colore azzurro scuro. antico sguardo ferino. il resto non conta, comincio a lavorare, come se fosse la prima volta. nulla è accaduto finora. perché non viene qui? se mi dice precisamente che idea si è fatta (anche riguardo la spesa) Le cerco qualcosa, così quando viene troverà tutto a posto. ma è meglio se viene prima così poi si mette a cercare da sola, il che è più bello, così,anche in questo caso, non avrà da ringraziare nessuno se non se stessa.
Suo hw. henze
A Hans Werner Henze
(minuta di lettera)
Klagenfurt, I novembre 1955
Klagenfurt
Henselstraße 16
il I novembre 1955
Caro Hans,
Questo pomerigio è arrivata la tua lettera, e mi tocca molto che è venuto ancora una volta un tempo il quale porta fuori la necessità della nostra amicizia o come si vuol chiamare questa stranezza. Penso che sento abbastanza bene il tuo buio - anche senza sapere i ragioni presenti, i detagli - e non sono meno importanti? Non è sempre lo stesso male che fa soffrire, nascosto o aperto?
Ma prima di darti coraggio, lasciami dire un'altra cosa, un po' in relazione col problema. In una tua letteratu scrivi che io non ho detto la piena verità sulla mia situazione; questo è vero, ma non parlo perché so che posso convincere questo stato meglio senza parlare. Non è una mancanza di fiducia. Tu capisci: abbiamo parlato raramente su di me in questi ultimi tempi, e era anche poco utile, poco necessario, perché abbiamo vissuto tu là e io là, era anche bene per trovare una base più libera. Però mi sento su questa base libera nonostante più vicino a te e pronta per che cosa sempre.
A Ingeborg Bachmann
Napoli, 30aprile - 2 maggio 1958
30 aprile 1958
Divina, gemma come dura pietra, proprio adesso è arrivato un cablo dal covent garden, dove dicono che mi vogliono vedere lì soltanto alla fine di giugno. il che mi fa anche piacere a causa del mio hölderlin, ma mi dispiace perché così lo changement d'air va a farsi benedire insieme ai sopramobili inglesi che pensavo di acquistare, i soldatini scozzesi appisolati sui cannoni, le pastorelle e i caprioli dipinti in terracotta, per i quali vado matto. e questo significa che tu ancora una volta dovrai prendere una decisione. sarebbe magnifico se tu salissi su un avion e spuntassi qui, sarebbe divino e fantastico e sarei contento da morire! troverai ad attenderti un delizioso appartement e un hans che verrà a prenderti alla stazione o all'aeroporto con una elegante 1100 dalla linea slanciata e la bella terrazza ecc. ecc. e noi ci divertiremo da morire. se ti sbrighi potresti addirittura beccare la compagnia stoppa-morelli che presenta «uno sguardo dal ponte» nell'adattamento di luchino. splendida ape regina, principessa dei piselli, sanguisuga argentata, strega della poesia, suvvia non dir di no, venire devi. che ne dici alla fine della settimana? oppure?
please make me happy!
at least for a week you must stay!
hans
A Hans Werner Henze
Uetikon am See, 4 gennaio 1963
4 - 1 - 63
Uetikon am See
Seestrasse, Schweiz
Tel: 740213
Caro, caro Hans, non pensare che facevo soltanto chiacchiere quando dicevo che volevo scriverti spesso - perché tante volte ho davvero iniziato, ho cercato di strappare dolorosamente al mio mutismo qualche parola, ma non ci sono riuscita. Oggi sono capace, perché ormai per me è certo che la vita degli ultimi anni è finita. Non so proprio da dove iniziare. Va avanti così già da quattro mesi, da quando mi trovo qui terribilmente sola e isolata da tutto e quelle poche volte che vedevo qualcuno per un'ora dovevo per giunta fare bella figura, ho dovuto fingere che non ci sia niente, soltanto un po di malattia. Ma non era vero, non era un po di malattia, ho dovuto andare alla clinica due mesi fa, perche ho provato di suicidarmi, ma non lo farò mai più, era una pazzia, e ti giuro che non lo faccio mai più. Poi c'è oltre ora questa operazione che anche era molto grave per me, più psichicamente, ma per questo anche più grave fisicamente. Adesso sono uscita dall'ospedale e sto sui miei piedi e comincio di sperare un po, non so esattamente che cosa, ma semplicemente spero che ci sia ancora qualcosa, lavoro, l'aria, mare, di tanto in tanto, più tardi, un po di allegria. (...)
Tutto è stato come una lunga lunga agonia, settimana per settimana, e non lo so proprio perché, non é gelosia, e tutt'un altra cosa; forse perché ho voluto veramente, tanti anni fa, fondare una cosa durabile, «normale», alle volte contro le mie possibilita di vivere, ho insistito sempre di nuovo anche se ho sentito di tanto in tanto che la trasformazione necessaria ferisce la mia legge o mio destino - non so come esprimerlo bene. Forse pure queste spiegazioni sono false - ma il fatto è che sono ferita a morte e che questa separazione è il piu grande fiasco della mia vita. Non posso imaginare una cosa più tremenda di questa che ho vissuta e che mi possessiona ancora oggi, anche se oggi comincio a dirmi che devo continuare, che devo pensare ad un futuro, ad un vita nuova. Ti scrivo tutto questo non solo per parlare con te, ma per farti capire che non è un capriccio se insisto tanto che tu venga per un giorno o due da qualche parte con me, che mi stia vicino - ne ho tanto bisogno. Lo so bene che per te adesso - con tanto lavoro e tante faccende importanti - è difficile fare un viaggio e so anche bene che preferiresti dieci volte di più fare altro e anch'io te lo consiglierei. E poi il tempo, l'inverno, certo non contribuiscono a rendere più allettante il viaggio per te. Ma ti prego, ti prego vieni con me e puoi essere certo che io non me ne starò seduta accanto a te con il broncio e durante il viaggio non sarò per te un peso, una pietra.
Devo fuggire via da qui, anche soltanto per qualche giorno, e vorrei tanto essere felice con te e godere di ogni metro di strada e di ogni luogo e di ogni cibo. E non conosco nessuno con il quale io posso farlo e vorrei poterlo fare, eccetto te. Sì Hans è ingiusto quello che chiedo, ma se esiste un cielo certamente ti ricompenserà. Degli amici nessuno sa ancora che ci lasciamo, attenderò ancora qualche giorno, finché Max a New York non si sarà liberato delle due faticose serate di gala, questa e la prossima settimana. Allora gli scriverò, che nemmeno per salvare le apparenze sono disposta a far durare oltre la cosa e poi non ce la faccio proprio più a continuare, perché tutto ciò mi tiene legata - ed io adesso ho urgente bisogno di muovermi liberamente. Per il momento non dire ancora niente a nessuno; aspetta un po' e sarò io stessa a dirlo, se è necessario, con un «no comment». Adesso io spero, spero, spero che non succede nessun imprevisto e tu venerdì presto potrai darmi una buona notizia. Vorrei tanto rivedere Napoli, è proprio infantile, ma lo vorrei tanto e immagino già tutto il viaggio, le stradine e l'autostrada, può darsi che io poi non resto - sivedrà - ma ritorno con te. Questo sarebbe già, non credi?, abbastanza ragionevole. Adesso faccio solo cose ragionevoli, mi riposo per bene, per essere in piena forma, e presentarmi a te nella condizione migliore, le carte stradali le so ancora leggere molto bene, anche se noi due il «sud» lo conosciamo a memoria.
Hans, ti prego!
Ti abbraccio
Tua Ingeborg
LUI Hans Werner Henze Compositore tedesco, orchestratore raffinato, marxista convinto, Hans Werner Henze - nato nel 1926 - è dotato di una parabola compositiva che dal neo-classicismo va fino al jazz. Allievo di Wolfgang Fortner, cominciò con l'utilizzare la tecnica dodecafonica per poi disertare gli obblighi dello strutturalismo e della atonalità, fino introdurre, per esempio, in «Boulevard Solitude», elementi del jazz e della canzone francese. Nel '76 ha fondato il Cantiere Internazionale d'Arte a Montepulciano, dove venne eseguita la sua opera per bambini «Pollicino». LEI Ingeborg Bachmann Poetessa e romanziera nata a Klagenfurt in Carinzia nel 1926, allieva del filosofo della scienza Victor Kraft, debuttò scrivendo per la radio ma si fece conoscere tramite il Gruppo '47, che la invitò per la prima volta nel 1953 . Fra le sue opere più riuscite e più note il romanzo «Malina» del 1971, prima parte di una trilogia concepita con il titolo «Cause di morte», la cui seconda e terza parte restò in forma di frammenti. Scrisse libretti per opere musicate da Henze, e gli ultimi racconti vennero raccolti sotto il titolo «Simultan». Morì per le conseguenze di un incendio scoppiato nella sua casa romana nel 1973.


Il libro: Frammenti di una comunione
di Luca Scarlini

La relazione intellettuale, amorosa, amicale tra Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze si svolse principalmente sullo sfondo dell'Italia, dove avevano vissuto dall'inizio degli anni '50, spesso insieme, poi separati, tornando periodicamente nei rispettivi paesi di origine, Austria e Germania, che amavano sempre meno, pur non mancando di impegnarvisi politicamente quando veniva loro richiesto. Numerose sono le lettere che si intrecciano tra varie destinazioni del mondo e che spesso adottano lingue diverse, anche all'interno della stessa lettera, passando dal tedesco nativo, al francese, all'inglese, ma soprattutto usando l'italiano, declinato secondo modi e forme del tutto personali.
Le Lettere da una amicizia vengono ora tradotte in italiano da Francesco Maione per la Edt (a cura di Hans Höller, pp. 312, euro 29.00) e tra queste pagine, oltre alle vicissitudini di una storia d'amore contrastata, tra proposte matrimoniali impossibili, dichiarazioni di amicizia eterna, complicate gestioni di appartamenti a Napoli, si svolge la cronistoria dei lavori che hanno unito Bachmann e Henze in una comunione anche estetica. La loro collaborazione ebbe inizio dopo un incontro, alla fine degli anni '40, a uno dei convegni che andavano segnando la rinascita postnazista del mondo culturale germanico. Henze si andava intanto sempre più affermando, prendeva forma il balletto tratto dall'Idiota di Dostoevskij, che avrebbe avuto la coreografia della russo-berlinese Tatiana Gsovsky, poi la musica per il radiodramma Le cicale e le magnifiche arie per orchestra dal titolo Nachststücken, vera e propria reinterpretazione radicale del genere «notturno».
Dalla scrittura dei libretti di Ingeborg Bachmann e della musica di Hans Werner Henze nacquero, tra l'altro, le due opere liriche ispirate a episodi capitali del Romanticismo tedesco, Il principe di Homburg e Il giovane Lord, tratte rispettivamente dal dramma di Heinrich von Kleist dedicato al dissidio insanabile tra vita e sogno e dalla fiaba sarcastica di Wilhelm Hauff, in cui uno scimmione educato da un misantropo a vivere tra gli uomini seduce e porta alla rovina la high society di un noioso luogo di provincia.
Ancora più emblematico della comune rivisitazione di un immaginario classico è il clamoroso balletto Undine, messo in scena da Frederick Ashton con Margot Fonteyn, in cui compare la protagonista della squisita favola ottocentesca di La Motte-Fouquè, da cui Bachmann trasse ispirazione anche per Ondina se ne va, dove racconta il destino di sconfitta della infelice sirena-bambina, sospesa nei suoi sogni, eppure risoluta a difendere la propria individualità. L'incipit è infatti quello di una invocazione che è anche una invettiva, strutturata in una scrittura da poema in prosa: «sono sott'acqua (...) E lassù passa uno che odia l'acqua e odia il verde e non capisce, non capirà mai. Come io non ho mai capito. Ormai muta, quasi sentendo ancora il richiamo. Vieni, una volta sola. Vieni!». E, ancora, dalla complicità del musicista e della scrittrice vengono fuori epiteti scherzosi, soprannomi, rimandi, come quello a Zerbinetta, il personaggio della Arianna a Nasso di Strauss evocato per la Bachmann, oppure giudizi poetici proiettati sul contesto musicale, come quello che Henze pronunciò riferendosi al romanzo Malina: «è la tua decima sinfonia di Mahler», disse alla sua compagna.

2.6.08

Addio Festa dell'Unità, eri bellissima!

di Maria R. Calderoni

(tratto da Liberazione del 01/06/2008)

Un bambino e una bambina tenendosi per mano camminano ridendo su un prato verde, sullo sfondo il rosso di una immensa bandiera con stella falce e martello; sotto, in bianco, le parole «per l'avvenire d'Italia», Partito Comunista Italiano, e, in nero, «per la Repubblica». E' il primo manifesto della prima Festa dell'Unità, estate 1945: quattro mesi esatti dalla Liberazione, la Repubblica non ancora nata, il paese ancora in macerie, tramortito dalla guerra, tra fame e lutto. Ma la Festa è come un miracolo, esplode lì a Mariano Comense, provincia di Como, un paesotto di ventimila anime, nel cuore della Bassa bianca e "paolotta", devota di Papa Ratti.
Nasce dentro un bosco fitto, l'attuale Parco della Brughiera, accanto alla località di Montestella. Un posto difficile da raggiungere coi mezzi del tempo e nessuno per la verità riesce a capire le ragioni di tale decisione. Forse si voleva scegliere Milano, ma la città era ancora un cumulo di macerie. Forse il posto ideale, per quei pionieri della Festa che doveva sconvolgere l'Italia, avrebbe dovuto essere il regale Parco di Monza, ma al momento esso risultava inagibile, ingombro com'era dei mezzi bellici americani lí parcheggiati. Così fu scelto il bosco incontaminato fra Mariano Comense e Lentate, come un gesto di taglio netto col passato, un segnale insieme di diversità e novità. E anche come un modo per il Pci di contarsi, di capire quanto il "vento del nord" soffiasse dalla sua parte.
Soffiava. Miracolo, arrivarono da tutta Italia, cinquecentomila, forse settecentomila; con bandiere, canzoni, balere, buona roba da mangiare, vino, allegria, ragazzi, famiglie. E tanti bambini, uguali identici a quelli dell'idilliaco manifesto, a giocare sul prato brianzolo. C'era la Festa. Miracolo nel miracolo, non restò sola, ne sortirono subito altre, in giro, al Nord, ma anche al Centro e al Sud. C'era il Pci.
Sessanta anni dopo. Estate 2005, Festa nazionale dell'Unità, Milano, Maizapalace e Montestella: proprio lì, stesso luogo, stesso nome di quella antica prima Festa del 1945. Numeri da sballo: 2 milioni di visitatori, incassi 2milioni 600mila euro, incassi pubblicità 3milioni 500mila euro, costi complessivi 3milioni 400mila, dibattiti 207; la libreria espone 90mila volumi, 180 sono le emittenti tv collegate e 15 milioni i contatti, 200 i giornalisti accreditati, e coinvolti in 26 giorni 20 direttori di testate e 25 conduttori televisivi. Una vera gioiosa "macchina da guerra".
Quella, dunque, destinata ad essere l'ultima Festa nazionale dell'Unità si è svolta a Bologna nell'estate 2007. Il comizio d'addio l'ha tenuto Piero Fassino, «si interrompe qui una lunga storia d'amore». E il segretario Ds (anche lui sarà l'ultimo), fa l'elogio del morituro, che fu così grande e così bello, de profundis. Addio. Un addio dall'ultimo palco dell'ultima Festa, non senza una stretta al cuore, un trasalimento. Non tornerà mai più.
Così grande, così bella, praticamente unica. Praticamente irripetibile. 60 anni in Festa è il titolo di un libro, e anche di una mostra, che appunto per il sessantesimo della Festa, ha visto la luce a Bologna: 250 foto, 100 manifesti, 21 video, il percorso tracciato dalle prime pagine del quotidiano, le sfilate degli "Amici dell'Unità", testi musicali, poesie e canzoni. E tutte le date salienti dei nostri 60 anni.
Un libro "storico", che ha un meritato posto negli scaffali alti della Memoria popolare. Ma ci vorrebbe molto altro per dire di ciò che fu La Festa. Copiata da quella dell' Humanité , portata in Italia per iniziativa di Giancarlo Pajetta, la Festa dell'Unità ha segnato ininterrottamente non solo la vita del Pci, ma anche le date, le tappe, gli eventi più significativi della nostra storia post-Liberazione. Colossale appuntamento di popolo; corale, festosa e insieme disciplinata manifestazione di massa, anno dopo anno rappresentò, in ogni piazza e in ogni città grande e piccola, una straordinaria dimostrazione di fede e attaccamento a un ideale, a una bandiera, a un simbolo.
Nell'anno del Signore 2007, quando dall'ultimo palco l'ultimo segretario Fassino annuncia che la Festa deve morire in nome del freddo e "oscuro" Pd, lei, La Festa, è ancora ben viva, dispiegata in tutta la sua forza e bellezza. Nel momento stesso in cui ne decretano la morte, in giro per l'Italia, dal Nord al Sud, prosperano e scintillano almeno 3mila Feste, «ma quest'anno forse ne abbiamo di più, 4.500 o giù di lì», fanno sapere. Più che morta, del tutto viva, praticamente un delitto...
Ha macinato molto, la "nostra" Festa. Già i meri (meri?) numeri sono sconvolgenti (numeri che nessuno può vantare, nel campo, all'infuori del "vecchio" Pci). Prendete le cifre messe in fila, appunto, alla Festa di Milano 2005, e moltiplicatele per 60 anni, e vedrete cosa salta fuori. Un happening gigantesco, che è riuscito a tramandarsi per quattro generazioni di italiani, insieme lessico, discorso politico, immaginario collettivo.
C'era una volta il Pci , è un libro (autore Edoardo Novelli), uscito per gli Editori Riuniti nel 2000, in pratica l'autobiografia del partito attraverso le immagini della sua propaganda. «La Festa dell'Unità assume negli anni un'importanza politica e sociale, il cui equivalente non si riscontra in nessun altro paese e si rivela un fenomeno in grado di essere organizzato da nessun altro partito italiano, almeno nelle dimensioni e nei numeri messi in atto dal Pci. Al di là delle impressionanti cifre, dei milioni e poi miliardi raccolti, delle migliaia e poi milioni di visitatori, delle centinaia e poi migliaia di metri quadri, delle decine e poi migliaia di stand, sin dai primi anni la Festa è svago, divertimento, politica, autofinanziamento, cultura, sport, militanza, cucina, musica e tante altre cose ancora. La sua unicità sta appunto nel riuscire a mettere insieme, a far convivere e anche a far interagire tutti questi elementi».
Erano quei tempi, quando la mitica "diffusione militante" dell'Unità, buttava un mlione di copie...
Addio, esercito di meravigliosi "volontari", addio Festa (tante altre cose ci hanno strappato a forza dal cuore).

Neo-fascismo e antifascismo, un'Italia senza memoria

di Raul Mordenti

(tratto da il manifesto, 1 Giugno 2008)

Il manifestarsi aperto e ripetuto del neofascismo a Roma porta alla luce la devastazione politico-culturale che l'ha reso possibile. Non si tratta solo del fatto si sono attesi i pogrom contro gli zingari, i pestaggi contro i gay e i diversi, le spedizioni squadristiche armate contro gli studenti per accorgersi che, forse, nella Roma felix veltroniana qualcosa non andava. Si tratta soprattutto di capire quale fascista immagine del fascismo sia stata lasciata passare in questi anni, fino a che essa è potuta diventare senso comune, egemonia. Ha detto tutto, a questo riguardo, il bellissimo fondo di Sandro Portelli sul Manifesto del 27/5.
Vorrei solo aggiungere qualche considerazione da testimone oculare di un'altra epoca in cui il neofascismo manifestava egemonia (un'egemonia che, anche allora come ora, si trasformava in violenza): mi riferisco all'Università di Roma quale fu fino all'assassinio di uno studente ventenne, Paolo Rossi, il 27 aprile 1966 sulle scale di Lettere. E prima di quell'omicidio a Ferruccio Parri era stato impedito, a sputi, di partecipare a un seminario; i neo-fascisti del Fuan (anche allora!) avevano vinto le elezioni universitarie, con i liberali e i democristiani di destra; e anche allora non si contavano le violenze: studenti colpevoli di avere in tasca Paese Sera (impensabile farsi vedere con l'Unità) picchiati a sangue, studentesse ebree insultate e minacciate; e anche allora Polizia, Magistratura e «libera» stampa minimizzavano e nascondevano, e parlavano di «risse». Per questo mi corrono brividi nella schiena vedendo in questi giorni riproporsi identiche la viltà del nascondimento e l'infamia dell'equiparazione fra aggressori e aggrediti.
Occorre ricordare che maturò proprio intorno agli ambienti romani del Fuan (di cui Gianfranco Fini era dirigente nazionale) la strategia della tensione che avrebbe insanguinato l'Italia: proprio lì il Msi di Rauti, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale di Delle Chiaie, reclutarono i futuri attori della strategia della tensione, delle azioni terroristiche e dei rapporti più sordidi con i servizi segreti. Noi ventenni antifascisti di allora possiamo testimoniare tutto ciò a un Paese privo di memoria (perché è privo di coscienza civile) e potremmo anche testimoniare, nome per nome, che proprio i ventenni squadristi e neofascisti di allora si ritrovano adesso nei posti di responsabilità del Governo e del Comune, nei giornali, nella Rai, nei luoghi di potere dell'Italia berlusconiana.
Per questo è imperdonabile che il dibattito su Almirante cancelli del tutto e rimuova il neo-fascismo degli anni Sessanta e Settanta, di cui Almirante fu guida e protagonista. E prima si era cancellato il fascismo stesso, riducendo le sue colpe alle sole leggi razziali; così che la questione delle colpe dei fascisti sembra appartenere soltanto alla comunità ebraica romana, la quale, francamente, nei suoi attuali dirigenti non si dimostra all'altezza di tanta responsabilità etico-politica (e Dio perdoni l'on. Fiano del Pd per l'equiparazione proposta fra Almirante e Togliatti, entrambi per lui egualmente indegni della titolazione di una via).
Ma il fascismo è stato fascista e infame sia prima del '38 che dopo il 25 aprile del '45: lo è stato prima del potere, quando impediva gli scioperi, devastava e bruciava le sedi e i giornali del movimento operaio, massacrava di botte gli antifascisti o li ammazzava; e lo è stato dopo il '22, quando distruggeva sistematicamente le libertà, esiliava, corrompeva, confinava, uccideva gli oppositori coi suoi sicari o con il carcere. E il fascismo è stato infame e razzista già in Africa (prima di Hitler!) con i gas e le stragi di civili e con leggi razziali che punivano la contaminazione dei dominatori italici con l'impuro sangue africano. Così anche il neo-fascismo è stato fascista e infame negli anni Sessanta e Settanta: io ricordo Giorgio Almirante, con il cappellino piumato - lo ha ricordato in un prezioso commento Tommaso Di Francesco sul Manifesto del 30/5 - guidare nel '68 un sanguinoso assalto squadrista, ma sono centinaia gli attentati e le aggressioni di cui il suo partito si rese responsabile; e (chissà perché?) finivano tutti senatori del Msi i golpisti e i capi dei servizi «deviati», da De Lorenzo a Miceli. Insomma: se anche Almirante non fosse stato il redattore capo della «Difesa della razza» e non avesse mai firmato bandi per fucilare i partigiani, egli sarebbe stato egualmente un nemico giurato della democrazia italiana, da condannare eticamente e politicamente (altro che «padre della Patria» da omaggiare unanimi in Parlamento!).
Ma per osare dire oggi questa semplice e incontestabile verità occorre mettere in discussione oltre che il fascismo anche il neo-fascismo, cioè il Msi, cioè l'intera storia dei suoi ex-giovani che oggi ci governano: c'è qualcuno che ha il coraggio etico-politico di sollevare questo problema, magari fra una cena con Donna Assunta e l'altra?

1.6.08

2 Giugno, una triste festa per la Repubblica

di Marco Sferini

Non c'è niente da festeggiare dell'oggi e, se gli episodi di queste settimane, intrisi di razzismo, intolleranza, xenofobia e odio, avranno la meglio sui princìpi democratici della nostra Costituzione, allora non ci sarà da festeggiare nulla neppure dopo e neppure per il ricordo, per una memoria che svanisce come neve al sole.
La desolazione, che si estende sopra i valori e i dettami di un patto sociale che sembrava consolidato, assume connotazioni sempre più vaste e abbraccia anche settori del progressismo, della sinistra. E' di ieri la notizia che ci dice di come il presidente del VII Municipio di Roma, Roberto Mastrantonio, un comunista del PdCI abbia messo mano alla linea della fermezza e fatto sgomberare anche lui alcuni gruppi di rom che vivevano in fatiscenti baracche in mezzo ad una non fitta boscaglia della capitale.
Non è bastato questo gesto, il compagno Mastrantonio si è anche vantato del tutto e ha parlato di "risanamento dell'area". Parole che sarebbero potute tranquillamente essere riversate nella cronaca di uno sgombero anti-rom messo in essere da Alemanno o da Cofferati (ormai la distinzione è pressochè invisibile, almeno in materia securitaria).

Proprio poche sere fa, un gruppo di universitari beveva qualche birra a Bologna, in piazza. L'ordinanza sindacale di cui a suo tempo abbiamo scritto, quella che vieta di consumare birre, alcolici in bottiglia per le vie di Bologna dopo le ore 22.00 è ancora in corso. E per questo i giorni sono stati multati e allontanati come se fossero dei pericolosi sovversivi, dei bivaccatori lì accampati per recare danno alla pubblica comunità. Invece sorseggiavano solo della birra e chiacchieravano.
Sempre alcuni giorni fa, il presidente Penati, sostenuto da una giunta provinciale in cui siedono Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani, ha dichiarato che non vuole più avere niente a che fare con partiti politici che abbiano nel loro simbolo la falce e il martello. Simboli del passato, di un passato brutto e oscuro secondo Penati.
Dimenticare la storia è una grave colpa e genera, molto spesso, solo ignoranza e stupidità. Accade anche a Roma, e in altre città d'Italia, come Imperia, che i sindaci lancino una vera e propria campagna pubblica di sostegno all'intitolazione al fucilatore di partigiani Giorgio Almirante di vie e piazze. Un grande italiano, ha detto Alemanno, interrotto solo dal dovere istituzionale di Fini che ha dovuto replicare ad un parlamentare del Partito democratico dicendo che le parole di Almirante sulle leggi razziali del 1938 erano "parole vergognose". Una dichiarazione di circostanza, che il deputato Fini avrebbe forse fatto con maggiore cautela, ma che il Presidente della Camera non può permettersi di limare fino a far riluciccare il Dna fascista che ancora circola nei pensieri, nelle parole e negli atti di chi ha odiato i comunisti sin da bambino perchè gli avevano impedito di entrare al cinema.
E poi, in mezzo a queste scene di un'Italia autoritaria e violenta, si inseriscono gli episodi del Pigneto, dell'aggressione degli universitari de "La Sapienza", di quella al noto ballerino Kledi Kadiu a cui gli ignoti signori che lo hanno malmenato hanno detto: "Ti rimandiamo in Albania presto", aggiungendo epiteti che si possono tranquillamente immaginare.
Ecco, questo è il clima politico, sociale e in-civile in cui viviamo oggi, apprestandoci a vivere un 2 Giugno che dovrebbe ricordarci quel 1946 quando, sconfitto il fascismo e la sua cultura della sopraffazione violenta verso chi era contrario idealmente, moralmente e praticamente, l'Italia diventava una Repubblica e metteva fuori dal suo territorio nazionale una famiglia dinastica che non aveva avuto nemmeno un centesimo del coraggio dei sovrani inglesi, rimasti nella loro capitale sotto le bombe della Luttwaffe.
Churchill passeggiava per le vie di Londra, dopo i bombardamenti, e la folla, stremata, lo applaudiva perchè sentiva comunque vicino a sè il governo, il primo ministro e i reali che non volevano abbandonare il loro popolo.
I Savoia, invece, come è noto, insiema a Badoglio presero la via del Sud liberato dalle truppe angloamericane e fecero della Puglia quel "governo del Re" che non fu capace di dare alcuna istruzione all'esercito e che causò l'eccidio di Cefalonia e mille altri episodi di vendetta nazista nei confronti degli italiani.
Oggi gli italiani si fregiano di svastiche, di croci celtiche e di altri simboli che si richiamano al nazionalsocialismo per dare un significato alla lotta contro il diverso: che sia migrante, omosessuale, comunista o che altro non importa, l'importante è avere un nemico da battere, da abbattare anzi...
Il razzismo è un fenomeno che si alimenta con il riflusso che promana dalle politiche di paura e di terrore che in questi mesi sono state create ad arte e ben gestite dai mass media e da tutte quelle forze politiche pronte a mettere all'angolo la sinistra comunista per dimostrare che la sola solidarietà possibile è quella che ci si può permettere dopo aver dato fuoco ad un campo rom o dopo aver picchiato gli studenti universitari o i migranti che gestiscono attività commerciali al Pigneto.
E suona ancora più beffarda l'alibi ideologico non richiesto di quel signore che ha guidato la spedizione di violenza al Pigneto: io sono di sinistra, ho il "Che" tatuato su un braccio. Peggio ancora. Vuol dire che siamo davanti ad un caso di sincretismo delle inculture, perchè di cultura qui proprio si fa fatica a parlare.
L'esasperazione sociale che deriverebbe dai borseggiatori si risolve con venti uomini armati di spranghe? Si risolve con la violenza e i pestaggi? Che uomo di sinistra è questo che imbraccia una spranga, sfascia un negozio e urla "bastardi" a persone che sono disagiate tanto quanto lui, perchè sono dei proletari come lui, dei borgatari romani, benchè bengalesi o indiani?
Purtroppo c'è una cesura profonda oggi tra i valori e i bisogni: anche chi si ritiene progressista, comunista, rischia di incappare in un moderno giorne dantesco della vendetta e della giustizia persole che nega in assoluto ogni rapporto di scambio culturale, di natura sociale o singola che sia, che quindi si frappone tra la buona volontà del migrante ad essere accettato e la altrettanto doverosa buona volontà dell'italiano di interagire con chi viene "dal di fuori".
Non c'è proprio niente da festeggiare il prossimo 2 Giugno. Ma se proprio volete festeggiare, andate a rileggere qualche passo del libro di Alcide Cervi "I miei sette figli". Lì c'è un esempio grande dell'umanità di cui è intrisa la nostra Costituzione, la nemica numero uno del trittico del potere: governo, Vaticano e Confindustria. Tutti insieme appassionatamente contro diritti sociali, diritti civili e laicità della Repubblica.

www.lanternerosse.it, 31 Maggio 2008

Sinistra non di frizzi e lazzi

di Ivan Della Mea

(tratto da il manifesto, 31 maggio 2008)

Anni settanta. Prima metà direi. Il Palazzo dello sport di Roma è gremito fino all'inverosimile. Roba picista della specie comunista: bandiere rosse + falci e martelli + qualche stellina carina il giusto. Concerto. Del Nuovo Canzoniere Italiano s'è in tanti: Giovanna Marini e il figlio Francesco, Paolo Pietrangeli, io con l'Alberto e il Paolo Ciarchi e altri musicisti e cantori. E Luigi Nono. C'è di che godere e si gode. Va Pietrangeli con la Contessa va la Marini coi Treni per Reggio Calabria vado io con la Cara moglie. Pugni alzati cori alla grande. Applausi a scroscio. Poi, Nono. Una cosa sua registrata con lui che armeggia a vista intorno a magnetofoni: suoni strani, altri, difficili da capire. Silenzio del pubblico. Poi, un fischio. Due fischi. Una selva di fischi. Nono imperterrito prosegue. Il Palazzo è tutto un fischio. Nono blocca i registratori. Silenzio. In quel silenzio Nono avanza e, solo, raggiunge il proscenio. Prende il microfono. «Compagni» - dice - «il Partito comunista italiano, il nostro partito, ha bisogno vitale di tutta la nostra cultura, di tutta la nostra intelligenza, di tutta la nostra arte e di tutto il nostro impegno». Si alzano in piedi alcuni ex zufolanti, in piedi commossi cominciano ad applaudire e io ora non posso proprio dire come proseguì l'intervento pieno di cuore e di mente di Luigi Nono e non posso dirlo perché tutti si alzarono in piedi e applaudirono e levarono i pugni e sventolarono le bandiere: non so se per la musica, certo per la forza morale di Luigi Nono che a muso duro e con la voce forte eppur trepida per l'emozione ci disse di che cosa abbisognava il comune partito.
Propongo questo ricordo a chi s'industria oggi per una nuova e altra sinistra di cui c'è grande bisogno: nuova e altra. E un secondo ricordo propongo: ebbe a scrivere Gianni Bosio, quarant'anni e più or sono «essere la politica il livello più alto della cultura». Il livello attuale della politica non gli dà ragione, anzi. Ma da Bosio ho imparato che ogni tanto l'intellettuale deve provare ad arrovesciarsi e allora io, che grossissimo intellettuale sono: 120 chili ca., dico essere la cultura il più alto livello della politica, laonde ragion per cui impegno primo è la difesa a oltranza di quello che abbiamo: dei nostri giornali, dei nostri istituti, dei nostri archivi, della nostra editoria, dei nostri valori: dal liberté egalité fraternité per intenderci al «proletari di tutto il mondo unitevi», e assumere come militanza il compito della diffusione della nostra stampa e riscoprire la propaganda elementare socialista ed entrare nell'associazionismo come propositori di iniziative fuori dalla logica dei grandi eventi spettacolari in favore di un fare minuto ma costante; e, questa, non è «la mini-cultura caricaturale della vecchia Internazionale comunista» come dice Nichi Vendola (il manifesto 20/5) e certo «c'è bisogno di un campo vasto come il mappamondo» come no? Ma dobbiamo essere capaci sempre di fare quei sette otto passi solitari che fece Luigi Nono in quel Palazzo dello sport per dire e dirci ciò che lui disse; e dobbiamo liberarci di tutte le presunzioni dirigenziali e dei presenzialismi multimediatici per imparare ad ascoltare e tornare davanti alle fabbriche e ai luoghi di lavoro per riscoprire il noi del fare comune contro l'io del dirigente e dare aria e fiato alla fantasia e inventarsi una piazza un'agorà e lì sollecitare tutti a dare il meglio di se stessi e a mettere a disposizione la propria intelligenza e la propria cultura perché di questo ha bisogno, più che dei frizzi e lazzi di candidati segretari o già segretari in pectore, una sinistra che davvero voglia essere nuova e altra: ma non è detto che lo voglia.

Il sogno di una patria infranto sul muro dell'ostilità

di Enzo Traverso

(tratto da il manifesto, 31 maggio 2008)

Un percorso di lettura a partire dai libri di Ilan Pappe e Arno Meyer su come gli ebrei d'Israele e della diaspora leggono l'atto fondativo dello stato d'Israele L'apertura degli archivi di Tel Aviv ripropone la necessità di un bilancio storico svincolato da letture non messianiche del conflitto israelo-palestinese


Il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele e della Nakba, l'espulsione di oltre 700.000 palestinesi dalle loro terre, ha suscitato com'era prevedibile commemorazioni e bilanci. Pochi - anche questo era prevedibile - hanno abbandonato le tradizionali interpretazioni teleologiche. Per i sionisti, Israele incarna la redenzione di un popolo martirizzato da secoli di antisemitismo; per i palestinesi, costituisce invece l'epilogo della lunga storia dell'imperialismo e del colonialismo occidentali. Queste letture contengono entrambe un nocciolo di verità. Difficilmente si potrebbe contestare l'appartenenza di Theodor Herzl e dei fondatori del sionismo alla cultura imperiale e colonialista europea della fine dell'Ottocento. Aldilà della retorica sionista, tuttavia, altrettanto incontestabile è la vitalità dell'attuale nazione israeliana, letteralmente «inventata» da tutti i punti di vista: territoriale, politico, culturale e perfino linguistico, grazie alla metamorfosi di un idioma antico in una lingua nazionale moderna. Ma questa realtà non è il prodotto di una diabolica causalità imperiale né di un messianico disegno provvidenziale. Si tratta piuttosto, come sottolinea Dan Diner, del frutto di una contingenza storica.
Israele nasce tra la fine della seconda guerra mondiale e lo scoppio della guerra fredda, in un momento eccezionale e transitorio di convergenza tra le grandi potenze, in un mondo scosso dall'Olocausto e posto di fronte a centinaia di migliaia di profughi in cerca di un tetto. Prima della guerra, soltanto la leadership sionista pensava di trasformare in uno stato la piccola colonia ebraica della Palestina (salvata nel 1942 dalle truppe alleate che bloccano l'avanzata tedesca ad El Alamein). I britannici vi erano ostili e ben pochi ebrei europei desideravano trasferirsi a Gerusalemme o Tel Aviv. Pochi anni dopo, al tempo della decolonizzazione, i sovietici difendevano la causa del nazionalismo arabo e le grandi potenze non avrebbero più potuto tracciare a loro piacimento le frontiere politiche del Medio Oriente. Insomma, Israele può essere interpretato come un miracolo o una tragedia della storia, secondo i punti di vista, ma non come un suo prodotto ineluttabile. Il fatto che i leader sionisti fossero in molti casi la versione caricaturale del colonialismo europeo (caricaturale perché incarnata da intellettuali paria) e che quelli palestinesi riproducessero tutti i tratti del nazionalismo antimperialista, non modifica il quadro d'insieme.

Opportunismo giordano
Specchio di questa contingenza fu la guerra arabo-israeliana del 1948, scoppiata al momento della proclamazione di Israele da parte di Ben Gurion, ma preceduta da una guerra civile ebraico-palestinese durante gli ultimi mesi del mandato britannico, dopo il voto favorevole delle Nazioni Unite alla divisione della Palestina. Agli occhi del mondo, la causa araba non era quella di un movimento di liberazione nazionale ma di un insieme di principati feudali che, opposti al dominio britannico, si erano compromessi con le forze dell'Asse durante la seconda guerra mondiale (e durante la guerra del 1948, cercheranno di tirare profitto dalla sconfitta araba, come la Giordania, il cui re sarà vittima di un attentato palestinese). Gli ebrei suscitavano invece la compassione dei paesi europei, come riconosceva esplicitamente Gromiko, ministro degli esteri sovietico, evocando nel suo intervento all'Onu lo sterminio nazista. Così si spiega la passività dei britannici durante il conflitto del 1948 quando, dopo quattro anni di mortiferi attentati sionisti contro l'autorità mandataria, si limitarono ad osservare i massacri e le espulsioni dei palestinesi. Così si spiega anche il sostegno sovietico alle forze sioniste, decisivo sul piano strettamente militare. L'esercito ebraico, formato dalla Haganah e dalle milizie del gruppo Stern, era dotato di armi cecoslovacche. Ben pochi, nel 1947, avevano tirato la lezione delle due prime intifada palestinesi (nel 1929 e nel 1936) o espresso dei dubbi sul progetto sionista, chiaramente formulato da Theodor Herzl fin dal 1897, di dar vita in Medio Oriente a uno stato europeo, «avamposto della civiltà» contro la «barbarie» orientale. Non solo i nazionalisti arabi, ma neppure i «sionisti culturali» come Martin Buber o il rettore dell'Università ebraica di Gerusalemme, Jeudah Magnes, furono ascoltati. Nessuno, all'epoca, commentò le analisi premonitrici di Hannah Arendt, che al momento del voto sulla partizione decise di interrompere la sua collaborazione critica con il sionismo (e la sua amicizia con Gershom Scholem).
La guerra del 1948 - la prima di sei guerre arabo-israeliane - è stata oggetto negli ultimi due decenni di ampie revisioni storiografiche che hanno definitivamente rimesso in discussione la vecchia tesi sionista dell'«aggressione» araba e della «fuga volontaria» palestinese. Il racconto della Nakba (catastrofe) da parte dei profughi è stato confermato dalla documentazione conservata negli archivi israeliani. Una divergenza rimane tra gli storici «funzionalisti» come Benny Morris, che vedono nella cacciata di oltre 700.000 palestinesi «il prodotto di un insieme di fattori e di un processo cumulativo», e gli storici «intenzionalisti» che, sulla scia di Ilan Pappe, descrivono invece un'epurazione etnica pianificata e sistematica. Benché non vi attribuiscano lo stesso ruolo, entrambi hanno messo in luce l'esistenza di un progetto di evacuazione forzata - il famigerato «Piano Dalet» - e documentato i massacri contro i palestinesi, da Der Yassin a Tantura, tipici delle guerre civili e dei conflitti senza legge: esecuzioni sommarie di civili, distruzione di case, a volte stupro collettivo delle donne. Le atrocità arabe, nella maggior parte dei casi reattive, furono ben più limitate.
Certo è che la condotta israeliana durante il conflitto si inscriveva nel disegno sionista di uno stato ebraico senza arabi. Potevano i palestinesi approvare un piano di divisione che attribuiva agli ebrei, un quarto della popolazione del paese, il 60% delle terre? Fatto sta che la guerra permise ai sionisti di ottenere molto più di quanto l'Onu volesse concedere. Nel 1947, gli ebrei possedevano circa il 10% delle terre della Palestina mandataria; nel 1949, alla fine del conflitto e in seguito alla promulgazione delle leggi che sancivano le espropriazioni, ne controllavano ormai l'85%. La «legge del ritorno» apriva le porte del nuovo stato agli ebrei del mondo intero, chiudendole invece a chi era stato cacciato dalla sua terra (nonostante una risoluzione dell'Onu che ne prevedeva la restituzione). In virtù di una delle tante ironie della storia, i primi a usufruire di questa legge saranno gli ebrei del mondo arabo, che il sionismo classico di matrice europea aveva sempre ignorato. Incarnazione dell'«arretratezza» orientale, essi furono sottoposti a un'intensa campagna di dearabizzazione e assimilazione ai codici culturali dell'ebraismo askenazita. Quanto ai palestinesi, essi daranno vita a una nuova diaspora e affolleranno i campi profughi di tutti i paesi limitrofi. Traumatizzata e impotente, la minoranza palestinese rimasta entro i confini del nuovo stato acquisirà una cittadinanza di seconda classe. Questi palestinesi continueranno ad abitare la propria terra diventata un paese straniero, nel quale saranno percepiti come una «quinta colonna». Mentre offriva una cittadinanza ai superstiti del genocidio nazista, un terzo della popolazione israeliana negli anni cinquanta, il nuovo stato creava una nuova massa di profughi palestinesi, autentici «paria» nel senso arendtiano del termine: esseri umani senza stato e senza diritti. Oggi, la memoria di queste vittime è sostanzialmente incompatibile con quella dell'Olocausto di cui Israele si vuole guardiano e redentore.

Israeliani nel ghetto
Iniziò dunque allora, dentro un'inespugnabile fortezza dotata di armi sofisticate e ben presto della bomba atomica, la costruzione di una «comunità immaginata» all'insegna della Bibbia, dell'ecologia e dell'Occidente: la Bibbia come fonte legittimante in ultima istanza; l'ecologia delle foreste verdeggianti al posto dei villaggi palestinesi cancellati; l'Occidente di una nazione di pionieri europei alleata degli Stati Uniti, la nuova potenza egemone del blocco atlantico. Tutti, illustra Pappe, hanno dato il loro contributo alla rinascita nazionale: dai militanti dei kibbutz (spesso avamposti militari più che isole di uguaglianza sociale) agli architetti che ridisegnavano le città, fino ai filologi, agli storici e agli archeologi che facevano riaffiorare la Palestina ebraica di duemila anni fa dalle macerie della Palestina araba moderna. Guardando oltre questa facciata, Arno J. Mayer interroga i paradossi di uno stato che sembra incarnare non il trionfo ma il fallimento del sionismo. Questi era nato, a detta dei suoi fondatori, per sottrarre definitivamente gli ebrei ai ghetti in cui l'Europa cristiana li aveva rinchiusi e in cui l'antisemitismo voleva ricacciarli. Lo stato cui ha dato vita vuole oggi costruire le mura di un nuovo ghetto - materiale e metaforico - in cui proteggere gli ebrei, separandoli ermeticamente dal mondo arabo circostante e facendone il bersaglio di un'ostilità radicale storicamente sconosciuta in seno all'islam.
Forse ha ragione Dan Diner quando scrive che Israele è stato, «fin dall'inizio, un progetto teologico-politico della modernità». Prendendo in prestito l'ideologia e il linguaggio dei nazionalismi novecenteschi, il sionismo ha secolarizzato un'aspirazione millenaria il cui postulato risiede nell'identità tra un popolo e una religione. La collisione con il mondo arabo diventa ancora più acuta nel momento in cui, dopo la crisi di tutte le ipotesi laiche, dal panarabismo al socialismo, i palestinesi sono rimasti imprigionati in un vicolo cieco dal quale sembrano voler uscire ridefinendosi come nazionalismo religioso, nella forma dell'islamismo radicale. Potremo allora assistere a guerre di religione in versione postmoderna dalle quali tutto potrà venir fuori tranne la democrazia. Questo è il dilemma di fronte al quale si trova Israele a sessant'anni dalla sua nascita. O diventerà davvero, come dice di essere, una democrazia, ritirandosi dai territori che occupa illegalmente e trasformandosi nello stato di tutti i suoi cittadini, senza distinzioni di appartenenza etnica, linguistica, culturale e religiosa, senza un diritto al «ritorno» riservato agli ebrei del mondo intero e negato ai palestinesi che furono espulsi dalla loro terra; oppure rimarrà uno «stato ebraico», e inevitabilmente la sua democrazia assomiglierà sempre di più a quella del Sudafrica bianco ai tempi dell'Apartheid. Nei tempi lunghi della storia - su questo punto Arno Mayer ha ragione -, non lo salveranno né la Bibbia né la bomba atomica.

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