3.6.08

La scelta di parte dell'apicultore

Loris Campetti

(tratto da il manifesto, 30 Maggio 2008)

STORIE
A dieci anni dalla morte di Gino Vermicelli, ripubblicato «Viva Babeuf»
Un romanzo sul sentiero della libertà, per una vita straordinaria e «normale». Da operaio a vice-commissario politico in Val d'Ossola. Preso dai fascisti e torturato. Poi nel Pci e dopo il '68 con il Manifesto


La guerra è il male peggiore. Lo è per chi la sceglie e la impone, che si nasconda dietro la filosofia di Machiavelli (la guerra come continuazione della politica con altri mezzi), o che rinunci a qualsivoglia giusitificazione etico-politica. La guerra è entrata nella normalità delle cose portandovi dentro persino la banalità di quel male che rappresenta. La guerra è il male peggiore anche per chi la subisce, ed è costretto a diventarne attore nelle forme storicamente determinate. Nella Resistenza al nazi-fascismo la forma scelta, perché data, era la guerriglia. Perché sia il male peggiore per colui a cui è imposta è presto detto: ti rende progressivamente sempre più simile a colui che combatti. Nella lotta partigiana si entrava - chi vi entrava - per una scelta paradossalmente costretta, senza enfasi, senza voglie di martirii, con un sogno costante: che finisse, e finisse presto. Una scelta costretta, ne ha parlato a lungo Nuto Revelli, «naturale», salvo l'infamia dell'adesione al fascismo, ai suoi crimini, alla sua ideologia. Dunque, «l'unica possibile», ripeteva ai ragazzi delle scuole il partigiano Gino Vermicelli. La coscienza, le tante domande sul domani da costruire, per la maggior parte dei partigiani e delle partigiane crescevano dentro la lotta, dentro l'organizzazione di relazioni umane nuove basate non sulla gerarchia ma sulla condivisione, sulla redistribuzione delle ricchezze (della miseria), della fatica, del rischio, del cibo, delle responsabilità. La battaglia politico-ideologica forse più pregnante per chi aveva maggiori responsabilità di guida, di formazione, dentro la lotta partigiana, era finalizzata proprio a prevenire e combattere i rischi che le proprie brigate diventassero simili ai battaglioni dei nemici che si combattevano. Nei comportamenti - per esempio nei confronti dei prigionieri - e, alla lunga, persino nei sentimenti: verso il nero, verso il tedesco, o verso la popolazione civile. Perché il fine, in una guerra imposta, non può giustificare qualsiasi mezzo messo in campo per perseguirlo.
E' questa la prima considerazione che viene in mente alla lettura (per qualcuno rilettura) del bellissimo libro di Gino Vermicelli, «Viva Babeuf», ripubblicato in questi giorni (Tararà editore, 18 euro). La prima edizione risale al 1984 a opera della Libreria Margaroli di Verbania, in collaborazione con la cooperativa «Manifesto anni '80». E' un libro fondamentale per gli adulti perché non perdano la memoria, per i giovani perché la ricerchino. E' un romanzo, una microstoria dentro la Grande Storia, la prima quella del partigiano Simon che assomiglia come un fratello gemello al partigiano Gino, la seconda è la guerra contro l'occupazione nazifascista della Val d'Ossola, la costruzione della Repubblica liberata dall'oppressione e la sua tragica fine, nel mezzo il tentativo di edificare nuove relazioni dentro il cantiere della città dell'utopia. Più che una città, montagne e valli, laghi e i ruscelli, contadini e montanari, contrabbandiere, borghi e baite. Partigiani e partigiane, italiani e ucraini, che nel momento più drammatico del rastrellamento tedesco e fascista «possono fare come vogliono, combattere o scappare... liberi di scegliere come mai lo è stato nessun soldato». Nella lettura si incontra il comandante delle truppe ucraine arruolate per forza dai nazisti e passate in blocco alla Resistenza, Conney, il quale «si convinse che se la guerra era la cosa peggiore, farla come la facevano i partigiani era il modo migliore». I protagonisti sono soprattutto ventenni, «convinti che stavamo cambiando il mondo» e questa era la forza di chi non poteva che essere lì, tra quelle montagne, a conquistare le armi in battaglia, a far saltare i caposaldi nemici, a rifocillarsi sugli alpeggi con una tazza di latte e una fetta di polenta dopo giorni passati a correre come lepri rosse, da un passo alpino all'altro, con i cani neri pronti a morderti il sedere. In basso, a fondo valle, tedeschi e nazisti, in alto, di fronte, la montagna, la libertà.
Gino Vermicelli era un uomo straordinario, forse proprio perché rifuggiva dalla straordinarietà, dalla retorica, dal manicheismo come ha scritto Rossana Rossanda, autrice della prefazione giustamente riproposta in questa nuova edizione. Emigrato in Francia nel '30, da bambino, impegnato nella lotta clandestina contro l'occupazione nazista, torna in Italia, a Verbania, nell'estate del '43. L'operaio metalmeccanico da maquis diventa partigiano, Brigate Garibaldi, commissario politico di brigata e vicecommissario delle formazioni «rosse» in Val d'Ossola, arrestato dai neri, torturato, infine liberato nel '44 con uno scambi di prigionieri. Dopo la fine della guerra Gino ha lavorato nel e per il Pci da uomo libero, forte di quei valori e di quell'indipendenza radicatisi in lui durante l'esperienza partigiana. Maestro di tanti giovani raccontava una storia di lotta e di speranza senza mai dimenticare Brecht: «Beati i popoli che non hanno bisogno di santi e di eroi». Fu naturale per lui, nel '68, trovarsi ancora una volta dalla parte giusta, con gli studenti e gli operai in lotta, in cui vedeva la continuazione della lotta condotta da una parte della sua generazione. Si schierò dalla parte del Manifesto che ha contribuito a costruire con un impegno convinto, generoso come sempre. Sono sue le prime cronache sulle lotte operaie alla Montefibre di Verbania, a cui intramezzava lezioni magistrali, una vera scuola quadri per i più giovani. Pacifista convinto: «Sorrido quando qualcuno mi chiede "come fai tu che sei stato partigiano a essere pacifista?". E' sciocco trovare contraddittoria l'adesione di un marxista all'obiezione di coscienza. Non è che avendo fatto una guerra ci abbiamo trovato così gusto da rifiutarci di appendere lo schioppo al chiodo. Un conto è aderire con coerenza nel tempo a una visione etica e politica, un conto sono le forme dell'agire che cambiano con il modificarsi della realtà che ci circonda». Tenendo cara la memoria, soffrendo quando anche dalla tua parte politica si sente dire che «i ragazzi e le ragazze di Salò avevano le loro ragioni e i loro ideali». Gino ci ha insegnato che la memoria è una cosa viva, non un soprammobile da lucidare ogni 25 Aprile.
Dieci anni esatti dopo la morte dell'apicoltore comunista Vermicelli, avvenuta nel maggio '98, viene riedito «Viva Babeuf», un romanzo da non perdersi in questi anni contrassegnati dai vuoti di memoria. La storia del partigiano Simon, i suoi amori, i suoi dubbi pur dentro «l'impegno più totale» della lotta per la libertà dal nazismo e dal fascismo, suggeriscono anche nuovi sentieri, nuove baite, nuove condivisioni, da cercare con modestia e condivisione. Da cercare insieme. Come fece quarant'anni fa questo giornale.

Comments: Posta un commento

<< Home

This page is powered by Blogger. Isn't yours?

Locations of visitors to this page