6.12.06

Il socialismo del XXI secolo

di Gennaro Carotenuto
AprileOnLine.info, 04 dicembre 2006

Venezuela      Per la seconda volta nella storia una proposta dichiaratamente socialista vince, anzi stravince, elezioni presidenziali in pace e democrazia. Dopo Salvador Allende nel 1970 tocca a Hugo Chávez, in condizioni politiche, economiche, culturali, storiche diverse e con una correlazione di forze molto più favorevoli. Propone al mondo, e in primo luogo alla sinistra, un problema politologico che ai più sembrava sepolto: è davvero finito il socialismo?


La riconferma a furor di popolo di Hugo Chávez alla presidenza del Venezuela, è avvenuta sulla base di un programma dichiaratamente socialista. In otto anni il Venezuela bolivariano ha operato una massiccia redistribuzione che ha dimezzato la povertà estrema nel paese e la disoccupazione, utilizzando la proprietà pubblica del petrolio. Si può continuare a trattare Chávez e tutta l'America Latina come un fenomeno folkloristico ma è oramai tempo, almeno per chi sia onesto intellettualmente, di cominciare a prendere sul serio il processo venezuelano e latinoamericano. Al fallimento fragoroso e senza ritorno del neoliberismo nei cinque continenti, l´America Latina sta dando delle risposte nuove dove la solidarietà sostituisce e batte l'individalismo di matrice anglosassone.

Nelle amministrative di febbraio 1973 l'Unidad Popular di Salvador Allende raggiunse il suo massimo storico, il 46%, ben oltre il 34% con il quale era stato eletto tre anni prima. Nonostante la vulgata del caos e il vero boicottaggio di oligarchie e interessi stranieri (colpiti dalla nazionalizzazione del rame), le cose andavano sempre meglio, sempre più cileni ne erano felici e l'economia mista, ma in transizione al socialismo, stava cominciando a crescere impetuosamente. Perciò fu necessario il golpe perpetrato da Augusto Pinochet.

Oggi Hugo Chávez, che era stato eletto nel 1998 e nel 2000 con un discorso che non faceva menzione del socialismo, fa del "socialismo del XXI secolo" la base della sua proposta elettorale e passa da 3.7 a 7.5 milioni di voti, arrivando al 62% dei suffragi. Che piaccia o no in Europa, più di tre venezuelani su cinque oggi vogliono il socialismo di Chávez. E' un socialismo delle opportunità e dell'integrazione, un socialismo che si presenta innanzitutto come solidale.

Le imponenti campagne di diffamazione dei media mainstream contro Hugo Chávez fotografano la preoccupazione costante che il migliore dei mondi possibile, quello neoliberale, possa davvero avere un¨alternativa bolivariana. Nessuno piú parla di inesistenti violazioni dei diritti umani o delle libertà individuali ma tendono a presentare una versione grottesca della situazione venezuelana che per chi gira davvero il paese è smentita dai fatti. La Repubblica di sabato, con la consueta sciattezza con la quale copre le cose latinoamericane, si lamentava dell'interruzione nella strada che collega l'Aeroporto di Caracas ai grandi alberghi per ricchi e per inviati della grande stampa. Ovviamente, per l'articolista, quella strada interrotta era tutto quello che lo potesse interessare del Venezuela e lo raccontava fingendo di ignorare che in questi anni il paese sia stato rivoluzionato anche nelle infrastrutture. La ferrovia del Valle del Tuy per esempio accorcia la distanza con Caracas di quella zona abitata abitata da discendenti di schiavi da 3 ore a 37 minuti, cambiando la storia di una valle.

Ma centinaia di grandi opere realizzate, linee della metropolitana, ferrovie, ponti sui grandi fiumi, centrali elettriche, la capillare diffusione del gas nelle case, valgono meno, per la Repubblica, di un cantiere che allunga il cammino verso un Hotel a cinque stelle.

Per giorni la stampa mainstream ha dato spazio a sondaggi taroccati, come quello della PSB (specialista in cambi di regime dall'Ucraina alla Serbia, o di mantenimento degli stessi quando convenienti, dal Messico all'Italia di Berlusconi) ed ha venduto il pericolo di brogli da parte di Chávez come concreto ed imminente. Era solo una diffamazione senza fondamento alcuno. Tutti gli osservatori internazionali, dei quali chi scrive ha fatto parte, hanno accertato e testimoniano della regolarità del processo elettorale, realizzato con le macchine elettorali più avanzate al mondo per efficienza e sicurezza, Washington Post dixit.

Manuel Rosales, il candidato dell'opposizione sconfitto da Chávez, nel suo discorso della notte del 3 ha fatto publicamente un'affermazione politicamente gravissima ma che è stata praticamente ignorata dalla grande stampa: "qualcuno pretendeva che mentissi, ma io non mentirò al popolo venezuelano, e per questo riconosco la sconfitta". Lo ha detto subito appena ha iniziato a parlare, come se dovesse togliersi un peso. Dunque non erano veri i brogli, non era vero che Chávez fosse sul punto di perdere. L'unica cosa che era vera, e che la stampa non ha denunciato, è che in Venezuela era pronto un piano eversivo -sicuramente stimolato da fuori- per non riconoscere in ogni caso, anche in maniera totalmente artificiale, il trionfo del Movimento Bolivariano. Rosales, denunciando le pressioni dei suoi, ha già scelto di essere un capo di un'opposizione civile in un paese ineccepibilmente democratico che domenica ha dato una lezione di civismo al mondo. Parlare di regime Chávez, di autoritarismo, di demagogia è falso e in mala fede come 7.5 milioni di voti hanno smentito. Il popolo bolivariano è davvero un' "alluvione zoologica", come la destra definiva mezzo secolo fa in maniera razzista le masse peroniste in Argentina. Sono neri, poveri, incolti, indigeni. Ma in pace e democrazia hanno scelto per la dodicesima volta Hugo Chávez, che piaccia o no e questi sta realizzando in democrazia quello che la maggioranzadei venezuelani vuole.

Gli eversori venezuelani ed internazionali, contineranno a diffamare quel negraccio scomodo e cercheranno di ridurre nuovamente al silenzio quelle masse volgari. Lo faranno, se necessario fisicamente, come Pinochet fece con il popolo di Allende. Quello che è sicuro è che la grande stampa continuerà a ripeterele loro menzogne ed a far loro da eco.

Nasce l'asse India-Cina per l'egemonia in Asia e nel mondo

Con la firma di un accordo di "amicizia strategica" a Nuova Delhi
Singh: "Assieme stiamo costruendo la storia futura". Wen: "Cina e India sono sorelle, non rivali e ancor meno avversarie"


La stretta di mano immortalata dai fotografi tra il primo ministro indiano Manmohan Singh e il premier cinese Wen Jiabao a Nuova Delhi l'11 aprile ha sancito la nascita dell'asse tra i due paesi per l'egemonia in Asia e nel mondo. Nel primo dei 12 accordi firmati nel corso del vertice si sottolinea la nascita di una amicizia "strategica" tra Cina e India, tra le due grandi potenze emergenti che in un recente rapporto dei servizi americani sono indicate rispettivamente come la seconda e la terza economia mondiale a ridosso degli Usa tra venti anni.
Una candidatura dei due grandi paesi, che insieme hanno il 40% della popolazione mondiale, affermata dagli indicatori economici che assegnano alla Cina una crescita costante negli ultimi anni del prodotto interno lordo (pil) del 9% annuo, distanziata di poco dall'India con l'8%. Risultati ottenuti con il feroce sfruttamento dei lavoratori e sulla pelle delle masse popolari: i due grandi paesi hanno anche la metà dei poveri del pianeta.
L'invasione dei mercati mondiali da parte dei prodotti cinesi è sottolineata dall'aumento delle esportazioni nei primi mesi del 2005 del 37% in America, del 44% in Germania, del 60% in Italia. L'India conquista il predominio nei settori ad alto contenuto intellettuale, nel software, nella biogenetica, è uno dei principali centri mondiali di call center. Le "specializzazioni" dei due paesi sono complementari e il premier cinese può affermare che "insieme possiamo fare del XXI secolo l'era della leadership tecnologica asiatica". Lo ha affermato nel corso della visita nella città di Bangalore alle sedi delle multinazionali indiane Infosys e Tata Service, due colossi mondiali del software, e a quelle delle filiali indiane di Huawei e Haier, due grandi aziende cinesi delle telecomunicazioni e dell'elettronica di consumo.
L'alleanza tra i due paesi è già attiva nel Wto, l'organizzazione mondiale del commercio, dove l'asse Cina-India rafforzato da Brasile e Messico ha più volte bloccato le manovre degli Usa e dell'Unione europea. Un segnale della volontà di Pechino e Nuova Delhi di dare corpo alla loro alleanza strategica sul piano economico e migliorare i collegamenti è la decisione da parte cinese di avviare i lavori per ricostruire la strada che dalla città di Kunming, nello Yunnan, arriva al confine indiano passando per la Birmania. Fra gli accordi firmati a Nuova Delhi vi è un piano quinquennale di cooperazione economica e commerciale; la Cina è il secondo partner per l'India mentre questa è solo la dodicesima per Pechino. L'accordo prevede un raddoppio dell'interscambio commerciale fino a 20 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e l'obiettivo di costituire fra i due paesi una zona di libero scambio.
L'alleanza "strategica" fra i due paesi non ha però soltanto una valenza economica, è importante anche sul piano politico. Il premier cinese Wen ha portato a Nuova Delhi la nuova cartina dell'Asia stampata dall'istituto geografico di Stato cinese dove il Sikkim, piccolo stato nella catena dell'Himalaya è indicato come parte dell'India. L'annessione del Sikkim nel 1975 non era mai stato riconosciuto dalla Cina di Mao che già nel 1962 aveva respinto una aggressione dell'India sobillata dall'imperialismo. La "pace" sottoscritta da Wen risponde all'esigenza dell'imperialismo cinese di mettere una pietra sul passato e annodare con l'India il nuovo rapporto che dovrebbe essere anche una polizza di garanzia per evitare che l'India sia di nuovo utilizzata dall'imperialismo americano per contenere l'espansionismo di Pechino in Asia.
La Casa Bianca ha trovato porte spalancate a Tokyo ma non a Nuova Delhi dove di recente è passata Condoleezza Rice a offrire cooperazione militare e nel nucleare civile. Da ricordare che dopo la tragedia dello tsunami dello scorso dicembre Nuova Delhi ha rifiutato ogni aiuto internazionale affermando che era una grande potenza in grado di affrontare da sola l'emergenza. Un segnale della volontà di Nuova Delhi di "farsi rispettare" anche sul piano politico. Il governo di Nuova Delhi dal premier cinese Wen ha incassato anche l'appoggio della Cina alla candidatura dell'India per un posto tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu. A buon titolo il primo ministro indiano Singh ha affermato che " assieme stiamo costruendo la storia futura", e Wen ha ribadito che "Cina e India sono sorelle, non rivali e ancor meno avversarie".

(tratto da www.pmli.it, 20 aprile 2005)

Come inventammo la guerra

di Giacomo Papi

L'inchiesta vecchio stile
Paul Wolfowitz aveva un’idea: imporre la democrazia in tutto il mondo, partendo da Baghdad. Da dove vengono e dove vanno i neocon?


Due fantasmi si aggirano per l’America. Il primo ha un’aria familiare e la testa fracassata. L’altro ha un aspetto dimesso ed è circondato da conigli. Quello con il cranio insanguinato è Lev Davidovic Trotzkij, ebreo ucraino, bolscevico, fondatore dell’Armata rossa, massacratore di operai a Kronstadt, esiliato da Stalin, inseguito da Stalin e ucciso da un sicario di Stalin a Città del Messico nel 1940. Quello che allevava conigli (di razza Flemish Giants) è Leo Strauss, filosofo politico tedesco, ebreo, fuggito dalla Germania di Hitler nel 1938 (grazie ai buoni uffici del filosofo nazista Carl Schmitt). Insegnò all’Università di Chicago, scrisse su Platone, Aristotele e Machiavelli. Si circondò di allievi ambiziosi e brillanti, la maggior parte dei quali si dedicò poi ad altri mestieri. Alla politica, al giornalismo, alla storia. Il maestro morì nel 1973. Riposa al cimitero della Knesseth Israel Synagogue di Annapolis, Maryland.

I razionalisti non credono ai fantasmi. Ma sanno che quando ai fantasmi si presta fede, le vite dei vivi cambiano. Sanno che il principio di autorità offre ai morti il potere di influenzare il presente. I fantasmi di Lev Trotzkij e Leo Strauss da alcuni mesi compaiono ovunque. Nei seminari delle università americane, in centinaia di siti e weblog, in decine di articoli dei maggiori giornali del pianeta. Sembrerebbe una moda culturale, e forse un po’ lo è. Sicuramente ha a che fare con questioni decisive. Dalla loro influenza (da quella di Strauss soprattutto) dipenderebbero la guerra in Iraq e la politica estera dell’amministrazione Bush, il valore della verità e la necessità della menzogna in democrazia, il ruolo dell’Onu, il modo in cui l’Impero può oggi governare i suoi satelliti, le strategie da mettere in campo per battere il nemico nell’«attuale scontro di civiltà». Strauss e Trotzkij rappresentano, cioè, le radici filosofiche dell’albero genealogico dei neoconservative, i cosiddetti neocon, una famiglia politica che ha diretto la risposta americana all’11 settembre.

Secondo l’accusa, il presidente mai eletto George W. Bush non sarebbe altro che il pupo di una congrega di filosofi re come Paul D. Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, Richard Perle, ex presidente del Defence Policy Board che recentemente si è dovuto dimettere per avere fatto troppi affari con quelli che avrebbe dovuto combattere o Douglas Feith, incaricato del Pentagono per la ricostruzione in Iraq. L’elenco potrebbe continuare: si tratta di circa venti persone che occupano ruoli chiave nell’amministrazione Bush. A cui si devono aggiungere gli amici giornalisti e i giornali amici: William Kristol, direttore del Weekly Standard di Rupert Murdoch, il settimanale che all’indomani dell’elezione di Bush titolò, più o meno: «Ecco come li abbiamo fregati», o John Podhoretz del New York Post (sempre di Murdoch), Washington Post, Newsweek, National Review, Public Interest, Commentary. Poi c’è Fox, la televisione di Murdoch che ha sbaragliato Cnn. E ancora, intellettuali come Francis Fukuyama, profeta della «fine della storia», Robert Kagan e Michael Ledeen che fu coinvolto nello scandalo Iran-Contra e che oggi vorrebbe attaccare Teheran (secondo alcuni studiosi fu tra i teorici della strategia della tensione in Italia). Molti di loro sono ebrei, alcuni (come Perle e Feith) vicini al Likud e all’ex premier israeliano Bibi Nethanyau. La loro attività è intrecciata (nel senso che spesso ricoprono cariche ufficiali) con potenti e danarose associazioni come l’American Enterprise Institute (di cui fa parte Lynn Cheney, moglie di Dick), il Project for a New American Century e la Heritage Foundation. Tutti, o quasi, hanno avuto a che fare con Leo Strauss.

IL CODICE STRAUSS. In Strauss l’ambiguità è un metodo, prima che un limite. Un metodo di filosofia e di insegnamento che veniva dall’ermeneutica di Heidegger, ma anche dalla tradizione ebraica. Il suo percorso filosofico è interno al pensiero ebraico nel suo desiderio di assimilazione e di mantenimento dell’identità. La caduta nell’incubo hitleriano tradì questa speranza. Strauss pensò allora che era stata la debolezza della Repubblica di Weimar a lasciare che Hitler prosperasse. Pensò che se Heidegger, che considerava la più grande mente del suo secolo, aveva aderito al nazismo c’era qualcosa di radicalmente malato nella modernità. Scrisse a Karl Lowith, già nel 1946, che «l’ordinamento politico perfetto, come era stato tracciato da Platone e Aristotele, era davvero l’ordinamento politico perfetto. E so molto bene che non può essere restaurato».

Credeva con Churchill che la «democrazia fosse il peggiore dei sistemi possibili, fatta eccezione per tutti gli altri». Un esempio su cui tornava spesso, per mostrare quanto il potere potesse apparire cattivo anche agendo per il bene comune, era tratto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift: quando Gulliver fa pipì sulle case di Lilliput per spegnere un incendio, i lillipuziani pensano a un atto blasfemo. Strauss pensò che il peccato originale della filosofia ebraica era la perdita di Dio, come principio trascendente e ordinatore, come sovrano, operata dall’immanentismo di Spinoza. Come ogni pensatore di destra, riteneva l’uomo cattivo per natura e che solo un potere forte potesse limitarne gli istinti. Si limitò a insegnare e a coltivare quella che definiva «la crema della gioventù». Non fece mai politica attiva, ma incoraggiò i suoi allievi ad andare e moltiplicarsi.

Insegnò che dopo la morte di Socrate, i filosofi avevano imparato a scrivere nascondendo il proprio pensiero per non essere perseguitati dal potere. E che lo stesso metodo potesse essere adottato per comunicare al popolo «nobili bugie» e nascondere verità dannose. Per questo, i grandi filosofi vanno studiati ponendo attenzione ai loro silenzi e alle loro ambiguità, i loro testi vanno decodificati. Sfortunatamente per Strauss e per i suoi, la teorizzazione di un metodo di questo genere e la sua applicazione alla pratica politica spinge a difendersi applicando lo stesso metodo. Sospettare, intraleggere, cercare nelle dichiarazioni ufficiali intenzioni e significati reconditi.

Naturale che intorno a un piatto così ricco, le teorie del complotto fiorissero. Ma dietro ai deliri antisemiti e a una visione della storia esoterica, rimane una verità semplice. I neocon, che fiorirono alla politica nell’amministrazione Reagan, si rafforzarono con Bush senior e rimasero ai margini negli anni di Clinton, hanno trovato il modo, durante gli anni di George figlio, di dettare l’agenda della politica estera americana grazie a una serie di circostanze storiche favorevoli (11 settembre, inadeguatezza in politica estera del Presidente, presenza di Rumsfeld e Cheney nell’esecutivo). Ma il loro potere non va sopravvalutato. Il loro nemico Colin Powell non ha perso la partita, anzi. Un recente sondaggio Time/Cnn afferma che gode della fiducia del 77 per cento degli americani, il più amato tra i Bush boys. In più c’è questa fastidiosa pressione internazionale che vuole stabilire chi abbia mentito di più.

Il dato interessante è che questo gruppo di persone, diverse tra loro per competenze e temi, ma unite tra loro, ha dato forma, nell’insieme, a una ideologia di destra piuttosto raffinata, gratificante per le élite e comprensibile per le masse, percorsa da stilemi e temi tipici della sinistra radical, una destra aperta al mondo e alla storia come terreno di lotta, di difesa e di conquista. Realista e idealista al contempo. Reazionaria nell’accettazione della legge del più forte come regola della storia. Ma, in fondo, ottimista nell’idea che sia possibile esportare libertà e democrazia. In un certo senso, progressista. «Il punto di partenza» ha dichiarato Kenneth Adelman, già consigliere di Ford e Reagan, «è che i conservatori oggi sono per il cambiamento radicale e i progressisti... per lo status quo». Ma che c’entra Trotzkij?

LA TRAVERSATA DI LEV. Verso la fine degli anni Sessanta, un gruppo di giovani intellettuali di sinistra, spesso comunisti, molto spesso trotzkisti, decide di abbandonare le sponde irrequiete e un po’ conformiste della sinistra libertaria, contraria alla guerra in Vietnam e attratta da modelli di vita alternativi, per riaffermare la propria fede nell’America, nella democrazia e nei valori autenticamente americani. Quindi, poche concessioni a mollezze dei costumi e patriottismo a fiumi, coniugato però nel linguaggio dell’intellighenzia. I più famosi tra loro si chiamano Norman Podhoretz, leggendario direttore di Commentary, e Irving Kristol, direttore di The Public Interest cui si deve la definizione di neoconservatore come «liberal che è stato aggredito dalla realtà». Generarono, rispettivamente, John Podhoretz, oggi ras delle pagine degli editoriali del New York Post, e William Kristol, ras di tante cose, tra cui il Weekly Standard, ma anche ex consulente della Enron e capo dello staff di Dan Quayle.

Nelle ultime generazioni di neocon, la componente trotzkista è costituita essenzialmente dalla «terza internazionale e mezzo», come l’ha definita lo storico Stephen Schwartz (lui è per attaccare subito l’Arabia Saudita). Ne fanno parte lo stesso Schwartz, il giornalista Christopher Hitchens (che ce l’ha tanto con Henry Kissinger), lo scrittore Kanan Makiya, iracheno americano («noto ai veterani del trozkismo», scrive Hitchens, «come leader della Quarta internazionale araba») molto ascoltato da Rumsfeld e Wolfowitz e infine – ecco il «mezzo» – Paul Berman, autore di Terror and Liberalism, che pur essendosi schierato in favore della guerra in Iraq non è ancora considerato un neocon fatto e finito. Nonostante questa esiguità numerica, tracce di trotskismo sono rintracciabili ancora oggi nell’ideologia neocon: il concetto di «rivoluzione permanente» che per i neocon è quella democratica americana (Michael Ledeen ha scritto su National Review: «Distruzione Creativa è il nostro nome di mezzo. Noi lo facciamo automaticamente... È venuto il tempo, ancora una volta, di esportare la rivoluzione democratica»), il respiro internazionalista della politica estera, l’ammirazione per l’esercito e l’organizzazione militare (Trotzkij organizzò e diresse l’Armata rossa). Più in basso nella scala dei valori politici, ma ben presente, è la tattica dell’«entrismo» predicata dalla Quarta internazionale, che prescrive ai militanti, nei periodi di scarsa forza politica, di infiltrarsi in altre organizzazioni aspettando tempi propizi. Un modello in qualche misura adottato dai neocon nella strategia di lenta, capillare diffusione nei vari centri del potere, nelle varie amministrazioni (anche avverse come nell’era Clinton), nelle università, nei giornali anche storicamente liberal come The New Republic o The Atlantic Monthly, nelle fondazioni, tra i repubblicani come tra i democratici.

Il terreno di questa trasmigrazione di anime progressiste alla causa dell’America conservatrice - ha scritto il quotidiano canadese National Post - era stato preparato da un altro trotzkista, Max Shachtman, nato ebreo in Polonia nel 1904 ed emigrato negli Usa da bambino. Shachtman aderirì al Partito comunista americano per lasciarlo quando Trotzkij fu espulso dall’Unione Sovietica. Nel 1929 fu il primo americano a fargli visita nell’isola di Prinkipo in Turchia dove era stato esiliato, nel 1933 lo accompagnò a Parigi, nel 1937 lo accolse a Tampico in Messico. Nell’agosto 1940, dopo l’assassinio, fu tra i primi a portare conforto alla vedova Natalia Sedova a Città del Messico. Nonostante i sentimenti che lo legavano a Trotzkij, già nel 1939, ai tempi del patto tra Hitler e Stalin, Shachtman aveva elaborato altre posizioni. Se per Trotzkij l’Urss andava comunque sostenuto contro il capitalismo mondiale, Shachtman era dell’idea che Stalin avesse prodotto un nuovo fenomeno sociale che definiva «collettivismo burocratico», altrettanto nefasto per i lavoratori del capitalismo americano. Nei decenni successivi, Shachtman radicalizzò a tal punto la sua opposizione all’Urss da allearsi, di fatto, con la causa della crociata anti comunista, fino a testimoniare di fronte alla Commissione per le attività anti americane, un’ombra pesante sul suo percorso politico. Era un tipo simpatico, amava il jazz, e capì prima degli altri quanto triste, mostruoso e perdente fosse il modello sovietico. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1972, lavorò per la causa, intrecciando contatti con fiumi di comunisti, da Nicola Chiaromonte a Ignazio Silone. Per capire la trasmigrazione di tanti trozkisti alla destra interventista, all’ubriacatura a stelle e strisce di questi anni, all’alleanza con i fondamentalisti cristiani di Bush junior, la figura di Shachtman rimane fondamentale. Ma c’è un altro motivo per cui Shachtman in questa storia è importante. Ci permette di gettare un ponte tra fantasmi del passato e attori del presente. Tra Lev Trotzkij, Leo Strauss e Paul D. Wolfowitz, che l’Economist ha definito il «velociraptor» dell’amministrazione Bush. Questo ponte si chiama Saul Bellow, grande scrittore.

IL VELOCIRAPTOR. Il trotskista Saul Bellow, il shachtmanita Saul Bellow, il premio Nobel Saul Bellow, ha costruito il suo ultimo romanzo, Ravelstein, intorno alla figura di Allan Bloom, collega e alter ego di Leo Strauss a Chicago, autore nel 1987 di The closing of American mind, opera che viene da molti indicata come la prima divulgazione del pensiero di Strauss presso un pubblico di massa. In Ravelstein Bellow descrive una telefonata privata del 1991 tra Wolfowitz e Bloom all’indomani della decisione di Bush padre di ritirare le truppe americane dall’Iraq fermandosi alle porte di Baghdad. Una decisione presa contro i consigli di Dick Cheney, allora segretario alla Difesa e Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla Difesa per la politica. Nel romanzo di Bellow, Wolfowitz è infuriato, accusa il vecchio George Herbert di essere un mollacchione. Nella famosa intervista concessa a Sam Tannehaus di Vanity fair, quella in cui Wolfowitz avrebbe affermato che la guerra era stata fatta per il petrolio e che le armi di distruzione di massa erano solo una scusa burocratica (la trascrizione integrale pubblicata sul sito della Difesa Usa dimostra che le parole effettivamente pronunciate furono molto più caute e molto meno scandalose), Wolfowitz ride dell’onore della citazione e nega che una simile telefonata sia avvenuta, anche se lascia capire che Bellow non è andato troppo lontano dalla realtà, ha soltanto esagerato e romanzato gli eventi. «Quella conversazione non avvenne mai. Quella telefonata in particolare», spiega Wolfie (Bush lo chiama così). «Bloom... aveva la tendenza a vedere ognuno in grande. Quasi tutti quelli con cui aveva a che fare si trasformavano in personaggi di un dialogo platonico. Era un modo, un modo di guardare al mondo che in un certo senso ti apriva gli occhi...». Quello che è certo è che per Wolfowitz, Richard Perle e i neocon in genere, la decisione di Bush padre di «non finire il lavoro» nel 1991 su consiglio di Colin Powell è stata vissuta come una ferita e un errore fatale a cui porre rimedio alla prima occasione.

La carriera di Paul Dean Wolfowitz è quella di un tecnico che in trent’anni ha servito cinque presidenti, democratici e repubblicani, che è stato ambasciatore americano in Indonesia, il più popoloso Paese musulmano della Terra. L’influenza di Leo Strauss, afferma Wolfowitz, è trascurabile. Il suo vero maestro fu Albert Wohlstetter, anche lui professore all’Università di Chicago, allievo del logico Willard Van Orman Quine, quindi della scuola analitica, lontana dai classici e portata alla risoluzione dei problemi. È proprio Wohlstetter, che fu la mente della politica di armamento e disarmo nucleare americano durante la Guerra Fredda, ad aprire a Wolfowitz le porte alla vita politica attiva. Il lavoro di Wohlstetter, dice Wolfowitz a Vanity fair, è stato «assolutamente seminale. E non derivava, mi creda, dalla lettura di Platone. Né da pregiudizi ideologici di qualsiasi genere. Derivava dalla constatazione di un problema, dall’osservarlo secondo i fatti in modo da vedere che cosa emergeva dalla cosa e farla parlare – un modo di procedere induttivo più che deduttivo – e ritengo che sia questa la differenza tra il pensiero ideologico e il pensiero pragmatico». Sulla cosiddetta «Straussian Connection», Wolfowitz è drastico: «È il prodotto di menti febbricitanti che sembrano incapaci di comprendere che l’11 settembre ha cambiato un sacco di cose nel modo in cui affrontiamo il mondo... Dopo la laurea, ho seguito due terrificanti corsi con Leo Strauss. Uno era sullo Spirito delle leggi di Montesquieu e mi ha aiutato a capire meglio la nostra Costituzione. L’altro sulle Leggi di Platone. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la politica estera Usa fa soltanto ridere». «Strauss è davvero una figura importante. Questo non mi rende un suo discepolo, ma è davvero molto importante». Più avanti: «Penso di essere un miscuglio... Penso di essere un idealista pragmatico». Il problema, data l’influenza di Wohlstetter, è stabilire le origini di questo idealismo. Se anche l’ideologia di Wolfowitz non fiorisce da Strauss, certo un pochino gli somiglia.

Paul Wolfowitz nasce a New York nel 1943, figlio di Jacob, professore di Matematica ebreo, di origine polacca. I Wolfowitz che non emigrarono furono sterminati durante la Shoah. Ha raccontato Paul al New York Times: «Penso che il senso di ciò che accadde in Europa durante la Seconda guerra mondiale abbia modellato molte delle mie convinzioni sulla politica e sulla politica estera». Tra gli allievi del padre c’è Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, la Banca centrale Usa. Paul si laurea in matematica e fisica alla Cornell University. Dopo la laurea, contro la volontà di papà, va all’Università di Chicago dove studia con Wohlstetter, Bloom e Leo Strauss e ottiene due dottorati in Scienze politiche ed Economia. Risalgono a questo periodo le discussioni con il padre, l’ossessione per la Shoah e la rabbia per la debolezza e la mollezza ebraica e occidentale, che l’hanno resa possibile. Nei primi anni Settanta lavora con il senatore democratico ferocemente anticomunista Henry «Scoop» Jackson dove incontra transfughi trotzkisti e giovani falchi come Richard Perle.

Dopo anni al fianco di Wohlstetter, la carriera di Wolfowitz fiorisce durante l’amministrazione Reagan. Nel 1983 Assistant Secretary of State for East Asian and Pacific Affairs, dal 1986 al 1989 ambasciatore in Indonesia, dal 1989 al 1993, sotto Bush padre, Under Secretary for Defence Policy. Risale a questi anni, al 1992, la Defence Policy Guidance, la cui bozza diffusa dal New York Times provocò furenti polemiche. Nel documento Wolfowitz sostiene che, dopo il crollo dell’Urss, gli Stati Uniti devono prepararsi a combattere una guerra globale, puntare sulla tecnologia militare, impedire la nascita di ogni altra potenza militare. L’ossessione di Wolfowitz, ribadita da molti altri neoconservatori – questa sì straussiana – nasceva da una delusione storica e psicologica. Uno gioca una partita impegnandosi allo spasimo per decenni, e poi un giorno, quando le cose sembrano mettersi bene, l’avversario implode, muore da solo, crolla come un muro friabile. Gli Stati Uniti, sostengono i neocon, non hanno vinto la Guerra Fredda, l’Urss si è dissolta da sola. Una vittoria avrebbe propagato il modello americano in tutto il mondo, spalancando decenni di democrazie in fiore. Il crollo dell’Urss ha invece creato sacche ingovernabili e mantenuto in vita regimi tirannici. Ne consegue che l’Impero americano va imposto con la forza. Perché è il modello migliore, perché il bene dell’America coincide con il bene dell’umanità: ecco le motivazioni quasi hegeliane che abitano l’ideologia neoconservatrice. C’è poi il problema politico della necessità del nemico.

In una lettera a Carl Schmitt, filosofo che diede una base ideologica al nazismo e che fu molto studiato in Unione Sovietica, Leo Strauss scrive: «Poiché il genere umano è intrisecamente cattivo, deve essere governato. Un simile governo può essere stabilito, tuttavia, solo quando gli uomini sono uniti e possono essere uniti soltanto contro altri uomini». Insomma, il nemico è indispensabile. L’America era rimasta orfana dell’Unione sovietica, i neocon avevano compreso quanto potenzialmente fiaccante questo potesse essere. L’America sarebbe stata all’altezza del compito, sosteneva Wolfowitz nel documento del 1992, poi scartato da Bush padre, solo impedendo ad altre superpotenze di nascere. Il concetto di «guerra preventiva» trova qui la sua prima formulazione. Se avesse seguito Strauss, avrebbe anche pensato che la missione era così vitale, per l’America e per il mondo, che un po’ di «nobili bugie» erano necessarie, che si era giustificati a ingigantire la potenza del nemico.

Esiste un documento molto poco noto che può gettare ulteriore luce sui metodi teorizzati e concepiti da Wolfowitz. Soprattutto, in relazione alle polemiche di questi giorni sull’uso dei servizi segreti durante la crisi irachena. Si tratta di un memorandum del 1996, firmato Jack Davis e intitolato Paul Wolfowitz on Intelligence Policy-Relations (P. W. sulle relazioni tra intelligence e politica). È un documento ufficiale della Cia. L’idea di Wolfowitz è molto semplice: l’intelligence deve fornire alla politica gli strumenti per attuare la propria politica. Un coordinamento è necessario, ma per risolvere possibili disaccordi c’è un solo modo: mettere i servizi segreti alle dirette dipendenze del potere politico («La produzione di materiali di intelligence dovrebbe essere guidata dal processo politico»). Wolfowitz auspica continui incontri informali tra servizi e politica in modo tale che «gli agenti apprendano di prima mano quali temi siano nella mente dei politici e su quali particolari aspetti ci sia più bisogno di aiuto».

L’aspetto più interessante riguarda le istruzioni per maneggiare informazioni che contrastano con la strategia politica in atto. «L’ambasciatore Wolfowitz raccomanda che gli analisti portino le cattive notizie all’ufficio di un membro dello staff del politico. L’enfasi deve essere posta sulle nuove prove e scoperte. Poi si lasci all’assistente la decisione di portare le notizie al suo capo». Interessante anche che per Wolfowitz «gli allarmi sono i cugini primi delle cattive notizie». Siamo di fronte, insomma, alla teorizzazione di un uso spregiudicato dei servizi segreti che ha alcune risonanze nel pensiero di Strauss e molte affinità con le varie, ormai dimostrate, manipolazioni e bugie diffuse per preparare la guerra in Iraq.

L’impressione complessiva è quella di un gruppo di intelligenze raffinate, ma troppo spregiudicate. Variamente messianiche nella loro esaltazione della democrazia americana e nella loro, probabilmente sincera, fede nella minaccia rappresentata dal mondo arabo. Per James Woolsey, ex direttore della Cia, la guerra in Afghanistan è stata la prima campagna della Quarta guerra mondiale, essendo la Guerra Fredda la Terza. Un po’ esaltati, insomma. E molto arroganti.

Decisiva, per capire da dove provenga questo sacro fuoco ordinatore, è l’origine ebraica di molti neocon, ancora di più dell’influenza di Strauss, di Wohlstetter e Trotzkij (tutti ebrei, peraltro). Che il trauma della Shoah, prima, e la questione dello Stato di Israele, poi, abbiano alimentato per decenni, in modo drammatico, ideologico, quasi religioso, l’edificazione di una ideologia politica che presenta tinte religiose e messianiche. Il sogno, forse, è ancora quello della completa assimilazione tra fede ebraica e democrazia liberale, un sogno che paradossalmente Strauss aveva dichiarato fallito per sempre. Non è un caso che Richard Perle e Douglas Feith siano molto vicini al quotidiano della destra israeliana Jerusalem Post, né che i metodi militari di Israele godano dell’ammirazione generale. La storia ha molti conti in sospeso e il Ventesimo secolo fatica a finire.

L’impostazione ideologica e perfino gestuale dei neoconservatori si riverbera in Italia nelle posizioni del Foglio di Giuliano Ferrara che, non a caso, segue le gesta neocon dall’inizio e quotidianamente, con toni invariabilmente apologetici e spesso ammirati. Non a caso Ferrara dedicò a Leo Strauss, già nel 1990, una densa e destrissima prefazione appena ripubblicata dal quotidiano. Basti questa didascalia che recita, dopo aver accusato Spinoza di essere «un genio del male moderno» che ha posto «le premesse del nichilismo»: «Come il Sionismo, anche il liberalismo è una benedizione, ma solo a patto che riconosca le proprie debolezze e sappia medicarle creando élite forti e consapevoli. Perché il pensiero debole è così incapace di capire il mondo e di guidare gli uomini e le donne». Un appello all’uso della forza, al pragmatismo in politica e allo slancio ideale che combina il pensiero di Strauss con pose più autoctone di stampo vagamente dannunziano.

L’altra impressione è che la novità rappresentata da costoro e il loro potere non vadano ingigantiti. Pat Buchanan, il più fascista dei membri del Partito repubblicano americano, e acerrimo nemico dei neocon (li accusa di avere rastrellato fondi per trent’anni sottraendoli alle organizzazioni della sana destra americana) fa una annotazione semplice e vera: la loro forza è la loro debolezza. Sono uniti e intelligenti, ma politicamente parlando si tratta di «parassiti». Nessuno di loro è stato eletto. Rimangono espressione dei ceti intellettuali urbani, tecnici che possono stringere temporanee alleanze, ma che verranno sacrificati e messi in disparte quando le cose si metteranno male. L’Iraq di oggi non sembra – come si aspettava Wolfowitz – la Francia che accoglie i liberatori lanciando rose e offrendo vino. E Charles De Gaulle non è certo Ahmed Chalabi, il bancarottiere iracheno, presidente dell’organizzazione di esuli Iraqi National Congress che per un decennio ha rastrellato fondi e pick up Toyota al Congresso per organizzare un’insurrezione contro Saddam mai avvenuta. Oggi è chiaro che Chalabi, introdotto nell’ambiente da Wohlstetter, era l’unica carta su cui puntavano Wolfowitz, Doug Feith e, soprattutto, Richard Perle. E che si trattava di un due di picche. Mentre la statua di Saddam veniva abbattuta, Wolfowitz, che è di gran lunga il più intelligente della banda, ha evitato di esultare. Ha parlato di un processo di ricostruzione che può durare anche dieci anni. Ha paragonato il gran numero di militari lasciati in eredità da Saddam a quelli del dopo Ceausescu in Romania. Oggi va a raccontarla once again a folle di sciiti iracheni americani plaudenti come è recentemente avvenuto a Washington. Sempre la stessa storia, fondata su schemi argomentativi nuovi, ma di basso sofismo politico. Come Rumsfeld, Wolfowitz insiste principalmente su un concetto: il fatto che le armi di distruzione di massa non siano state trovate, dimostra soltanto che Saddam le ha nascoste, il fatto che i servizi segreti non abbiano diffuso serie informative in proposito è dovuto soltanto alla furbizia del nemico. Un nemico che, come d’abitudine, è scomparso nel nulla. Dice Wolfowitz al Council for Foreign Relations di New York il 23 gennaio 2003: «Pensateci un attimo. Quando un revisore contabile scopre discrepanze in un libro, non è suo compito provare dove il truffatore abbia nascosto i soldi. È obbligo della persona o dell’istituzione essere ascoltata per spiegare la discrepanza». Una strategia di difesa che in Italia è ben nota. Verrebbe da leggere i testi di Wolfowitz come Strauss leggeva quelli degli amati filosofi, come testi cifrati. Parlando allo stesso meeting di Rihab Taha, «tutt’ora la principale e sinistra figura nel programma di armamento biologico iracheno», Paul Wolfowitz spiega: «Mentire era più di una tecnica. Era, e rimane, politica».

(da Diario del 27/06/2003)

The End of Dollar Hegemony

HON. RON PAUL OF TEXAS
Before the U.S. House of Representatives

February 15, 2006


A hundred years ago it was called “dollar diplomacy.” After World War II, and especially after the fall of the Soviet Union in 1989, that policy evolved into “dollar hegemony.” But after all these many years of great success, our dollar dominance is coming to an end.

It has been said, rightly, that he who holds the gold makes the rules. In earlier times it was readily accepted that fair and honest trade required an exchange for something of real value.

First it was simply barter of goods. Then it was discovered that gold held a universal attraction, and was a convenient substitute for more cumbersome barter transactions. Not only did gold facilitate exchange of goods and services, it served as a store of value for those who wanted to save for a rainy day.

Though money developed naturally in the marketplace, as governments grew in power they assumed monopoly control over money. Sometimes governments succeeded in guaranteeing the quality and purity of gold, but in time governments learned to outspend their revenues. New or higher taxes always incurred the disapproval of the people, so it wasn’t long before Kings and Caesars learned how to inflate their currencies by reducing the amount of gold in each coin-- always hoping their subjects wouldn’t discover the fraud. But the people always did, and they strenuously objected.

This helped pressure leaders to seek more gold by conquering other nations. The people became accustomed to living beyond their means, and enjoyed the circuses and bread. Financing extravagances by conquering foreign lands seemed a logical alternative to working harder and producing more. Besides, conquering nations not only brought home gold, they brought home slaves as well. Taxing the people in conquered territories also provided an incentive to build empires. This system of government worked well for a while, but the moral decline of the people led to an unwillingness to produce for themselves. There was a limit to the number of countries that could be sacked for their wealth, and this always brought empires to an end. When gold no longer could be obtained, their military might crumbled. In those days those who held the gold truly wrote the rules and lived well.

That general rule has held fast throughout the ages. When gold was used, and the rules protected honest commerce, productive nations thrived. Whenever wealthy nations-- those with powerful armies and gold-- strived only for empire and easy fortunes to support welfare at home, those nations failed.

Today the principles are the same, but the process is quite different. Gold no longer is the currency of the realm; paper is. The truth now is: “He who prints the money makes the rules”-- at least for the time being. Although gold is not used, the goals are the same: compel foreign countries to produce and subsidize the country with military superiority and control over the monetary printing presses.

Since printing paper money is nothing short of counterfeiting, the issuer of the international currency must always be the country with the military might to guarantee control over the system. This magnificent scheme seems the perfect system for obtaining perpetual wealth for the country that issues the de facto world currency. The one problem, however, is that such a system destroys the character of the counterfeiting nation’s people-- just as was the case when gold was the currency and it was obtained by conquering other nations. And this destroys the incentive to save and produce, while encouraging debt and runaway welfare.

The pressure at home to inflate the currency comes from the corporate welfare recipients, as well as those who demand handouts as compensation for their needs and perceived injuries by others. In both cases personal responsibility for one’s actions is rejected.

When paper money is rejected, or when gold runs out, wealth and political stability are lost. The country then must go from living beyond its means to living beneath its means, until the economic and political systems adjust to the new rules-- rules no longer written by those who ran the now defunct printing press.

“Dollar Diplomacy,” a policy instituted by William Howard Taft and his Secretary of State Philander C. Knox, was designed to enhance U.S. commercial investments in Latin America and the Far East. McKinley concocted a war against Spain in 1898, and (Teddy) Roosevelt’s corollary to the Monroe Doctrine preceded Taft’s aggressive approach to using the U.S. dollar and diplomatic influence to secure U.S. investments abroad. This earned the popular title of “Dollar Diplomacy.” The significance of Roosevelt’s change was that our intervention now could be justified by the mere “appearance” that a country of interest to us was politically or fiscally vulnerable to European control. Not only did we claim a right, but even an official U.S. government “obligation” to protect our commercial interests from Europeans.

This new policy came on the heels of the “gunboat” diplomacy of the late 19th century, and it meant we could buy influence before resorting to the threat of force. By the time the “dollar diplomacy” of William Howard Taft was clearly articulated, the seeds of American empire were planted. And they were destined to grow in the fertile political soil of a country that lost its love and respect for the republic bequeathed to us by the authors of the Constitution. And indeed they did. It wasn’t too long before dollar “diplomacy” became dollar “hegemony” in the second half of the 20th century.

This transition only could have occurred with a dramatic change in monetary policy and the nature of the dollar itself.

Congress created the Federal Reserve System in 1913. Between then and 1971 the principle of sound money was systematically undermined. Between 1913 and 1971, the Federal Reserve found it much easier to expand the money supply at will for financing war or manipulating the economy with little resistance from Congress-- while benefiting the special interests that influence government.

Dollar dominance got a huge boost after World War II. We were spared the destruction that so many other nations suffered, and our coffers were filled with the world’s gold. But the world chose not to return to the discipline of the gold standard, and the politicians applauded. Printing money to pay the bills was a lot more popular than taxing or restraining unnecessary spending. In spite of the short-term benefits, imbalances were institutionalized for decades to come.

The 1944 Bretton Woods agreement solidified the dollar as the preeminent world reserve currency, replacing the British pound. Due to our political and military muscle, and because we had a huge amount of physical gold, the world readily accepted our dollar (defined as 1/35th of an ounce of gold) as the world’s reserve currency. The dollar was said to be “as good as gold,” and convertible to all foreign central banks at that rate. For American citizens, however, it remained illegal to own. This was a gold-exchange standard that from inception was doomed to fail.

The U.S. did exactly what many predicted she would do. She printed more dollars for which there was no gold backing. But the world was content to accept those dollars for more than 25 years with little question-- until the French and others in the late 1960s demanded we fulfill our promise to pay one ounce of gold for each $35 they delivered to the U.S. Treasury. This resulted in a huge gold drain that brought an end to a very poorly devised pseudo-gold standard.

It all ended on August 15, 1971, when Nixon closed the gold window and refused to pay out any of our remaining 280 million ounces of gold. In essence, we declared our insolvency and everyone recognized some other monetary system had to be devised in order to bring stability to the markets.

Amazingly, a new system was devised which allowed the U.S. to operate the printing presses for the world reserve currency with no restraints placed on it-- not even a pretense of gold convertibility, none whatsoever! Though the new policy was even more deeply flawed, it nevertheless opened the door for dollar hegemony to spread.

Realizing the world was embarking on something new and mind boggling, elite money managers, with especially strong support from U.S. authorities, struck an agreement with OPEC to price oil in U.S. dollars exclusively for all worldwide transactions. This gave the dollar a special place among world currencies and in essence “backed” the dollar with oil. In return, the U.S. promised to protect the various oil-rich kingdoms in the Persian Gulf against threat of invasion or domestic coup. This arrangement helped ignite the radical Islamic movement among those who resented our influence in the region. The arrangement gave the dollar artificial strength, with tremendous financial benefits for the United States. It allowed us to export our monetary inflation by buying oil and other goods at a great discount as dollar influence flourished.

This post-Bretton Woods system was much more fragile than the system that existed between 1945 and 1971. Though the dollar/oil arrangement was helpful, it was not nearly as stable as the pseudo gold standard under Bretton Woods. It certainly was less stable than the gold standard of the late 19th century.

During the 1970s the dollar nearly collapsed, as oil prices surged and gold skyrocketed to $800 an ounce. By 1979 interest rates of 21% were required to rescue the system. The pressure on the dollar in the 1970s, in spite of the benefits accrued to it, reflected reckless budget deficits and monetary inflation during the 1960s. The markets were not fooled by LBJ’s claim that we could afford both “guns and butter.”

Once again the dollar was rescued, and this ushered in the age of true dollar hegemony lasting from the early 1980s to the present. With tremendous cooperation coming from the central banks and international commercial banks, the dollar was accepted as if it were gold.

Fed Chair Alan Greenspan, on several occasions before the House Banking Committee, answered my challenges to him about his previously held favorable views on gold by claiming that he and other central bankers had gotten paper money-- i.e. the dollar system-- to respond as if it were gold. Each time I strongly disagreed, and pointed out that if they had achieved such a feat they would have defied centuries of economic history regarding the need for money to be something of real value. He smugly and confidently concurred with this.

In recent years central banks and various financial institutions, all with vested interests in maintaining a workable fiat dollar standard, were not secretive about selling and loaning large amounts of gold to the market even while decreasing gold prices raised serious questions about the wisdom of such a policy. They never admitted to gold price fixing, but the evidence is abundant that they believed if the gold price fell it would convey a sense of confidence to the market, confidence that they indeed had achieved amazing success in turning paper into gold.

Increasing gold prices historically are viewed as an indicator of distrust in paper currency. This recent effort was not a whole lot different than the U.S. Treasury selling gold at $35 an ounce in the 1960s, in an attempt to convince the world the dollar was sound and as good as gold. Even during the Depression, one of Roosevelt’s first acts was to remove free market gold pricing as an indication of a flawed monetary system by making it illegal for American citizens to own gold. Economic law eventually limited that effort, as it did in the early 1970s when our Treasury and the IMF tried to fix the price of gold by dumping tons into the market to dampen the enthusiasm of those seeking a safe haven for a falling dollar after gold ownership was re-legalized.

Once again the effort between 1980 and 2000 to fool the market as to the true value of the dollar proved unsuccessful. In the past 5 years the dollar has been devalued in terms of gold by more than 50%. You just can’t fool all the people all the time, even with the power of the mighty printing press and money creating system of the Federal Reserve.

Even with all the shortcomings of the fiat monetary system, dollar influence thrived. The results seemed beneficial, but gross distortions built into the system remained. And true to form, Washington politicians are only too anxious to solve the problems cropping up with window dressing, while failing to understand and deal with the underlying flawed policy. Protectionism, fixing exchange rates, punitive tariffs, politically motivated sanctions, corporate subsidies, international trade management, price controls, interest rate and wage controls, super-nationalist sentiments, threats of force, and even war are resorted to—all to solve the problems artificially created by deeply flawed monetary and economic systems.

In the short run, the issuer of a fiat reserve currency can accrue great economic benefits. In the long run, it poses a threat to the country issuing the world currency. In this case that’s the United States. As long as foreign countries take our dollars in return for real goods, we come out ahead. This is a benefit many in Congress fail to recognize, as they bash China for maintaining a positive trade balance with us. But this leads to a loss of manufacturing jobs to overseas markets, as we become more dependent on others and less self-sufficient. Foreign countries accumulate our dollars due to their high savings rates, and graciously loan them back to us at low interest rates to finance our excessive consumption.

It sounds like a great deal for everyone, except the time will come when our dollars-- due to their depreciation-- will be received less enthusiastically or even be rejected by foreign countries. That could create a whole new ballgame and force us to pay a price for living beyond our means and our production. The shift in sentiment regarding the dollar has already started, but the worst is yet to come.

The agreement with OPEC in the 1970s to price oil in dollars has provided tremendous artificial strength to the dollar as the preeminent reserve currency. This has created a universal demand for the dollar, and soaks up the huge number of new dollars generated each year. Last year alone M3 increased over $700 billion.

The artificial demand for our dollar, along with our military might, places us in the unique position to “rule” the world without productive work or savings, and without limits on consumer spending or deficits. The problem is, it can’t last.

Price inflation is raising its ugly head, and the NASDAQ bubble-- generated by easy money-- has burst. The housing bubble likewise created is deflating. Gold prices have doubled, and federal spending is out of sight with zero political will to rein it in. The trade deficit last year was over $728 billion. A $2 trillion war is raging, and plans are being laid to expand the war into Iran and possibly Syria. The only restraining force will be the world’s rejection of the dollar. It’s bound to come and create conditions worse than 1979-1980, which required 21% interest rates to correct. But everything possible will be done to protect the dollar in the meantime. We have a shared interest with those who hold our dollars to keep the whole charade going.

Greenspan, in his first speech after leaving the Fed, said that gold prices were up because of concern about terrorism, and not because of monetary concerns or because he created too many dollars during his tenure. Gold has to be discredited and the dollar propped up. Even when the dollar comes under serious attack by market forces, the central banks and the IMF surely will do everything conceivable to soak up the dollars in hope of restoring stability. Eventually they will fail.

Most importantly, the dollar/oil relationship has to be maintained to keep the dollar as a preeminent currency. Any attack on this relationship will be forcefully challenged—as it already has been.

In November 2000 Saddam Hussein demanded Euros for his oil. His arrogance was a threat to the dollar; his lack of any military might was never a threat. At the first cabinet meeting with the new administration in 2001, as reported by Treasury Secretary Paul O’Neill, the major topic was how we would get rid of Saddam Hussein-- though there was no evidence whatsoever he posed a threat to us. This deep concern for Saddam Hussein surprised and shocked O’Neill.

It now is common knowledge that the immediate reaction of the administration after 9/11 revolved around how they could connect Saddam Hussein to the attacks, to justify an invasion and overthrow of his government. Even with no evidence of any connection to 9/11, or evidence of weapons of mass destruction, public and congressional support was generated through distortions and flat out misrepresentation of the facts to justify overthrowing Saddam Hussein.

There was no public talk of removing Saddam Hussein because of his attack on the integrity of the dollar as a reserve currency by selling oil in Euros. Many believe this was the real reason for our obsession with Iraq. I doubt it was the only reason, but it may well have played a significant role in our motivation to wage war. Within a very short period after the military victory, all Iraqi oil sales were carried out in dollars. The Euro was abandoned.

In 2001, Venezuela’s ambassador to Russia spoke of Venezuela switching to the Euro for all their oil sales. Within a year there was a coup attempt against Chavez, reportedly with assistance from our CIA.

After these attempts to nudge the Euro toward replacing the dollar as the world’s reserve currency were met with resistance, the sharp fall of the dollar against the Euro was reversed. These events may well have played a significant role in maintaining dollar dominance.

It’s become clear the U.S. administration was sympathetic to those who plotted the overthrow of Chavez, and was embarrassed by its failure. The fact that Chavez was democratically elected had little influence on which side we supported.

Now, a new attempt is being made against the petrodollar system. Iran, another member of the “axis of evil,” has announced her plans to initiate an oil bourse in March of this year. Guess what, the oil sales will be priced Euros, not dollars.

Most Americans forget how our policies have systematically and needlessly antagonized the Iranians over the years. In 1953 the CIA helped overthrow a democratically elected president, Mohammed Mossadeqh, and install the authoritarian Shah, who was friendly to the U.S. The Iranians were still fuming over this when the hostages were seized in 1979. Our alliance with Saddam Hussein in his invasion of Iran in the early 1980s did not help matters, and obviously did not do much for our relationship with Saddam Hussein. The administration announcement in 2001 that Iran was part of the axis of evil didn’t do much to improve the diplomatic relationship between our two countries. Recent threats over nuclear power, while ignoring the fact that they are surrounded by countries with nuclear weapons, doesn’t seem to register with those who continue to provoke Iran. With what most Muslims perceive as our war against Islam, and this recent history, there’s little wonder why Iran might choose to harm America by undermining the dollar. Iran, like Iraq, has zero capability to attack us. But that didn’t stop us from turning Saddam Hussein into a modern day Hitler ready to take over the world. Now Iran, especially since she’s made plans for pricing oil in Euros, has been on the receiving end of a propaganda war not unlike that waged against Iraq before our invasion.

It’s not likely that maintaining dollar supremacy was the only motivating factor for the war against Iraq, nor for agitating against Iran. Though the real reasons for going to war are complex, we now know the reasons given before the war started, like the presence of weapons of mass destruction and Saddam Hussein’s connection to 9/11, were false. The dollar’s importance is obvious, but this does not diminish the influence of the distinct plans laid out years ago by the neo-conservatives to remake the Middle East. Israel’s influence, as well as that of the Christian Zionists, likewise played a role in prosecuting this war. Protecting “our” oil supplies has influenced our Middle East policy for decades.

But the truth is that paying the bills for this aggressive intervention is impossible the old fashioned way, with more taxes, more savings, and more production by the American people. Much of the expense of the Persian Gulf War in 1991 was shouldered by many of our willing allies. That’s not so today. Now, more than ever, the dollar hegemony-- it’s dominance as the world reserve currency-- is required to finance our huge war expenditures. This $2 trillion never-ending war must be paid for, one way or another. Dollar hegemony provides the vehicle to do just that.

For the most part the true victims aren’t aware of how they pay the bills. The license to create money out of thin air allows the bills to be paid through price inflation. American citizens, as well as average citizens of Japan, China, and other countries suffer from price inflation, which represents the “tax” that pays the bills for our military adventures. That is until the fraud is discovered, and the foreign producers decide not to take dollars nor hold them very long in payment for their goods. Everything possible is done to prevent the fraud of the monetary system from being exposed to the masses who suffer from it. If oil markets replace dollars with Euros, it would in time curtail our ability to continue to print, without restraint, the world’s reserve currency.

It is an unbelievable benefit to us to import valuable goods and export depreciating dollars. The exporting countries have become addicted to our purchases for their economic growth. This dependency makes them allies in continuing the fraud, and their participation keeps the dollar’s value artificially high. If this system were workable long term, American citizens would never have to work again. We too could enjoy “bread and circuses” just as the Romans did, but their gold finally ran out and the inability of Rome to continue to plunder conquered nations brought an end to her empire.

The same thing will happen to us if we don’t change our ways. Though we don’t occupy foreign countries to directly plunder, we nevertheless have spread our troops across 130 nations of the world. Our intense effort to spread our power in the oil-rich Middle East is not a coincidence. But unlike the old days, we don’t declare direct ownership of the natural resources-- we just insist that we can buy what we want and pay for it with our paper money. Any country that challenges our authority does so at great risk.

Once again Congress has bought into the war propaganda against Iran, just as it did against Iraq. Arguments are now made for attacking Iran economically, and militarily if necessary. These arguments are all based on the same false reasons given for the ill-fated and costly occupation of Iraq.

Our whole economic system depends on continuing the current monetary arrangement, which means recycling the dollar is crucial. Currently, we borrow over $700 billion every year from our gracious benefactors, who work hard and take our paper for their goods. Then we borrow all the money we need to secure the empire (DOD budget $450 billion) plus more. The military might we enjoy becomes the “backing” of our currency. There are no other countries that can challenge our military superiority, and therefore they have little choice but to accept the dollars we declare are today’s “gold.” This is why countries that challenge the system-- like Iraq, Iran and Venezuela-- become targets of our plans for regime change.

Ironically, dollar superiority depends on our strong military, and our strong military depends on the dollar. As long as foreign recipients take our dollars for real goods and are willing to finance our extravagant consumption and militarism, the status quo will continue regardless of how huge our foreign debt and current account deficit become.

But real threats come from our political adversaries who are incapable of confronting us militarily, yet are not bashful about confronting us economically. That’s why we see the new challenge from Iran being taken so seriously. The urgent arguments about Iran posing a military threat to the security of the United States are no more plausible than the false charges levied against Iraq. Yet there is no effort to resist this march to confrontation by those who grandstand for political reasons against the Iraq war.

It seems that the people and Congress are easily persuaded by the jingoism of the preemptive war promoters. It’s only after the cost in human life and dollars are tallied up that the people object to unwise militarism.

The strange thing is that the failure in Iraq is now apparent to a large majority of American people, yet they and Congress are acquiescing to the call for a needless and dangerous confrontation with Iran.

But then again, our failure to find Osama bin Laden and destroy his network did not dissuade us from taking on the Iraqis in a war totally unrelated to 9/11.

Concern for pricing oil only in dollars helps explain our willingness to drop everything and teach Saddam Hussein a lesson for his defiance in demanding Euros for oil.

And once again there’s this urgent call for sanctions and threats of force against Iran at the precise time Iran is opening a new oil exchange with all transactions in Euros.

Using force to compel people to accept money without real value can only work in the short run. It ultimately leads to economic dislocation, both domestic and international, and always ends with a price to be paid.

The economic law that honest exchange demands only things of real value as currency cannot be repealed. The chaos that one day will ensue from our 35-year experiment with worldwide fiat money will require a return to money of real value. We will know that day is approaching when oil-producing countries demand gold, or its equivalent, for their oil rather than dollars or Euros. The sooner the better.

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