25.2.05

Theory Greats

One of the main components of your workbook is to relate your topic to the tradition of sociological theory. 9 times during the course of the semester, you must engage in a mental dialogue with one of the past or present towering figures of the discipline. Take some insight from the theory or work of the figure and apply it to your own topic.

In practice what that means is that you should read over the relevant chapter or chapters of One World and then make an entry of about one page, concerning the application of the theory to your topic. Below, I have written ten thumbnail sketches of those figures, to make it easier, but the sketches are designed to supplement rather than to substitute for the reading. They are also designed to give you some sense of he human face behind the theories.

Any serious engagement or dialogue with the theories is acceptable. There are no right (or wrong) answers to the assignment. You are not responsible for doing library research to find out what the theorist may have said about your topic; you are only being asked to think about what they would say, based on the assigned reading. Not only could you take an idea or argument from the theorist and apply it to your topic, but also you could make an argument that the theorist is irrelevant to your topic. It may be that you think they have nothing useful to contribute, either because their whole approach is essentially wrong, in your view, or because it is true and useful for other topics, but not for yours.

Note, however, that a thoughtless dismissal is not acceptable. It is not OK to dismiss their relevance, either because you have not done the reading, or because they did not address your particular topic and you have not thought about what they would say about it. What makes these theorists important is that most other sociologists have regarded them as having developed really basic insights that are illuminating and applicable to almost every topic within sociology.

The nine entries to your workbook should be made by the Mondays of the dates shown. On 10/7, you may pick either Spencer or Mead. I shall only look your entries when the workbooks are handed in ,but I would strongly advise you not to get behind in the reading and in these assignments. Some of the material from these 9 assignments should find its way into your final paper. One of the essential requirements of the paper is that it relate to the readings from One World in an integral way. Exactly how the theories of these figures will relate to your topic will depend on the kind of paper you are writing.

Ten Great Figures in Sociology

One approach to sociological theory looks at the writings of the great figures of the discipline. There are about two dozen figures with whom any sociologist is familiar -- or at least acquainted. The towering classic figures are Karl Marx, Emile Durkheim, and Max Weber. They established the principal paradigms of the discipline. In the mid-twentieth century, Parsons' development of Durkheimian functionalism and Mill's development of marxian conflict theory established the main lines of theory important today. While there would, no doubt, be more debate about the status of living sociologists, most practicing sociologists are acquainted with the works of Stinchcombe, Wilson and Habermas.

Sociologists Doctrines Due
1. Karl Marx (1818-1883) Socialism 1/29
2. Emile Durkheim (1858-1916) Functionalism 2/5
3. Max Weber (1864-1920) Organization Theory 2/12
4. Hebert Spencer (1820-1903) Social Darwinism 2/26
5. George Herbert Mead (1863-1931) Symbolic Interactionism 2/26
6. Talcott Parsons (1902-1979) Structural Functionalism 3/12
7. C. Wright Mills (1916-1961) Power Elite Conflict Theory 3/19
8. Arthur Stinchcombe (1935- Theory Construction Movement 3/26
9. William Julius Wilson (1940- Contemporary Conflict Theory 4/9
10. Joe Feagin Institutional racism and sexism 4/16

20.2.05

La scommessa della ragione. Manifesto per la storia

di Eric Hobsbawm



Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.

«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.


note:

* Storico inglese. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.

(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.

(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).

(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.

(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.

(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.

(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.

(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».

(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.

(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.

(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.

(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.

(tratto da www.contropiano.org - Traduzione di E.G.)

5.2.05

Le dinamiche del disordine mondiale: Le tentazioni imperiali degli Stati Uniti

tratto da: LE MONDE diplomatique - Settembre 2002


Perché tanto odio nei nostri confronti? Nel commemorare gli attentati dell'11 settembre, gli americani continuano a porsi la domanda. Per rispondere, dovrebbero abbandonare il loro unilateralismo e ascoltare quelle voci che, da varie parti del mondo, criticano le ingiustizie dell'ordine internazionale. Negli Stati uniti, tanto il cinema quanto la televisione mostrano, ciascuno a suo modo, lo smarrimento di una società lacerata tra aspirazioni contraddittorie, tra proclami bellicosi di vendetta e ideali di giustizia (si legga alle pagine 16 e 17). Ma l'amministrazione Bush, come peraltro anche una parte della destra religiosa cristiana schierata dietro il governo israeliano, non ha in questo senso alcuna remora e sta mettendo a punto un nuovo corpus di dottrine diplomatiche e militari, basato sul concetto di intervento preventivo (si legga alle pagine 12 e 13). Un'operazione funzionale alla massima aspirazione dell'attuale leadership: quella di trasformare gli Stati uniti nella Roma del XXI secolo

PHILIP S. GOLUB*
Qualche mese prima degli attentati dell'11 settembre, lo storico americano Arthur Schlesinger Jr. aveva avanzato l'ipotesi che «malgrado la tentazione da superpotenza» generata dall'unipolarismo, gli Stati uniti non avrebbero sconfinato nell'imperialismo, visto che nessun paese da solo era in grado «di assumere il ruolo di arbitro o di gendarme mondiale» e di raccogliere le sfide globali demografiche, politiche e ambientali del XXI secolo (1). Come molti intellettuali, Schlesinger era fiducioso rispetto alla «capacità d'autoregolazione della democrazia» americana e alla razionalità di chi effettivamente prende le decisioni.
Charles William Maynes, voce influente nell'ambiente della politica estera americana, affermava con lo stesso spirito che «l'America è un paese dotato di capacità imperiali ma privo di vocazione imperialiste»(2). Oggi bisogna arrendersi all'evidenza: con George W. Bush sta emergendo una nuova grammatica imperiale, che ricorda quella in voga alla fine del XIX secolo, quando gli Stati uniti si lanciarono nella competizione coloniale facendo i loro primi importanti passi verso un'espansione mondiale nei Caraibi, in Asia e nel Pacifico. All'epoca, un prodigioso fervore imperialista si era impadronito del paese di Jefferson e Lincoln. Giornalisti, uomini d'affari, banchieri, e politici gareggiavano in ardore nella promozione di una robusta politica di conquista del mondo. Gli «occhi di chi dirigeva l'economia erano puntati verso la supremazia industriale mondiale» (3), mentre i politici sognavano una «splendida piccola guerra» (secondo la celebre espressione di Theodore Roosevelt) che serviva da giustificazione all'espansione internazionale. «Nel XIX secolo nessun popolo ha eguagliato le nostre conquiste, le nostre colonizzazioni e la nostra espansione (...); ora nulla ci fermerà», affermava nel 1895 il senatore Henry Cabot Lodge, capofila del partito imperialista (4). Per Theodore Roosevelt, a suo tempo ammiratore del poeta imperiale inglese Rudyard Kipling, la questione era evidente: «Voglio - diceva - che gli Stati uniti divengano la potenza dominante nel Pacifico». E aggiungeva: «il popolo americano desidera compiere gesta degne di una grande potenza» (5). Nel riassumere questo spirito imperialista diffuso alla fine del XIX secolo, un certo Marse Henry Watterson, un giornalista, scriveva nel 1896 con orgoglio e in maniera curiosamente premonitrice: «siamo una grande repubblica imperiale destinata a esercitare un'influenza determinante sull'umanità e a plasmare l'avvenire del mondo come nessun altra nazione, compreso l'impero romano, abbia mai fatto» (6).
La storiografia tradizionale americana ha a lungo considerato questo Sturm und Drang imperialista come un'aberrazione in un percorso democratico in realtà piuttosto regolare. Nati e forgiati dalla lotta anti-coloniale contro l'impero britannico e le monarchie assolutiste europee, gli Stati uniti non erano da ritenersi vaccinati per sempre contro il virus imperialista?
Un secolo più tardi, tuttavia, quando ha inizio un nuovo periodo di espansione e di «formalizzazione» dell'impero americano, Roma è tornata a essere lo specchio lontano ma ossessivo delle élites americane. Gli Stati uniti, dall'alto dell'unipolarismo acquisito nel 1991 e rafforzato dopo l'11 settembre da una mobilitazione militare di ampiezza eccezionale, abbagliati dalla loro stessa forza, oggi si considerano apertamente una potenza imperiale. Per la prima volta dalla fine del XIX secolo, lo spiegamento della forza si accompagna a un esplicito discorso di legittimazione dell'impero. «Il fatto è - afferma Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post e ideologo di punta della nuova destra americana - che dai tempi di Roma nessun paese è stato culturalmente, tecnicamente e militarmente tanto dominante» (7). «L'America - scriveva Krauthammer già nel 1999 - sovrasta il mondo come un colosso (...). Dall'epoca in cui Roma distrusse Cartagine, nessun altra grande potenza ha mai toccato le vette che noi abbiamo raggiunto». Per Robert Kaplan, saggista e mentore di George W. Bush in fatto di politica internazionale, «la vittoria della seconda guerra mondiale ha trasformato gli Stati uniti in potenza universale, come successe a Roma all'epoca della seconda guerra punica» (8).
Roma è divenuta il riferimento obbligato anche per autori collocati più al centro nello scacchiere politico. Joseph S. Nye Jr., rettore della Kennedy School of Government all'università di Harvard e a capo del National Intelligence Council con Clinton inizia così il suo ultimo libro: «Dai tempi di Roma, non è mai esistita una nazione che abbia tanto oscurato le altre» (9). Paul Kennedy storico di fama conosciuto per la tesi sviluppata negli anni '80 sulla «sovra-esposizione imperiale» degli Stati uniti, si spinge ancora più lontano: «Né la Pax britannica (...) né la la Francia napoleonica (...) né la Spagna di Filippo II (...) né l'impero di Carlomagno (...) né lo stesso impero romano sono comparabili» all'attuale dominio americano (10).
«Non si è mai manifestata - aggiunge lo studioso con maggiore freddezza - una tale disparità di potere» nel sistema mondiale.
Insomma, gli ambienti oltre Atlantico più o meno legati al potere concordano sul fatto che «gli Stati uniti oggi godono di un primato che non ha paragone con gli imperi del passato, nemmeno i più grandi» (11). Al di là della sua funzione descrittiva, la frequenza dell'analogia romana così come l'ubiquità della parola «impero» nella stampa e nelle riviste specializzate americane illustrano la costruzione di una nuova ideologia imperiale.
«Ragioni in favore di un impero americano»: questo l'inequivocabile titolo di un articolo di Max Boot, editorialista del Wall Street Journal, in cui si può leggere: «Non è un caso che l'America [abbia oggi intrapreso] azioni militari in molti paesi dove generazioni di soldati coloniali britannici hanno condotto le loro campagne (...), in zone dove è stato necessario l'intervento degli eserciti occidentali per soffocare il disordine». Secondo Boot, «l'Afghanistan e altre terre difficili implorano oggi [l'Occidente] affinché crei un'amministrazione straniera illuminata come quella un tempo offerta da quegli inglesi fiduciosi, con i loro pantaloni da cavallerizzo e i caschi coloniali» (12).
Un altro ideologo di destra, Dinesh D'Souza, ricercatore alla Hoover Institution che si era fatto notare qualche anno fa difendendo le teorie sull'inferiorità «naturale» degli afro-americani, afferma in un articolo intitolato «Encomio dell'impero americano» che gli americani devono finalmente riconoscere che il loro paese «è divenuto un impero (...), il più magnanimo degli imperi che il mondo abbia mai conosciuto» (13). A queste voci estreme della nuova destra si aggiungono quelle di accademici quali Stephen Peter Rosen, direttore dell'Istituto Olin per gli studi strategici dell'università di Harvard. Quest'ultimo afferma con superbo distacco scientifico che una «entità politica che dispone di una potenza militare schiacciante e che utilizza questo potere per influire sul comportamento degli altri stati non può che definirsi impero (...). Il nostro scopo - prosegue Rosen - non è combattere un rivale, poiché non ve ne sono, ma conservare la nostra posizione imperiale e mantenere l'ordine imperiale»(14). Un ordine, come sottolinea un altro professore di Harvard, del tutto «plasmato a vantaggio [esclusivo] degli obiettivi imperiali americani», nel quale «l'impero sottoscrive gli elementi dell'ordine giuridico internazionale che gli convengono (l'Organizzazione mondiale del commercio, Wto, per esempio), ignorando completamente o sabotando quelli che non gli convengono (il protocollo di Kyoto, la Corte penale internazionale, il trattato Abm)» (15).
Il fatto che l'idea stessa di impero sia in opposizione radicale con la concezione derivata da Tocqueville che gli americani tradizionalmente hanno di se stessi - come eccezione democratica tra le nazioni moderne - non sembra essere un problema insormontabile. Coloro che ancora hanno degli scrupoli - e ce ne sono sempre meno - aggiungono gli aggettivi «benevolente» e «soft» alle parole «impero» ed «egemonia».
Ad esempio, Robert Kagan del Carnegie Endowment scrive: «la verità è che l'egemonia benevolente [benevolent hegemony] esercitata dagli Stati uniti è positiva per una vasta porzione della popolazione mondiale.
Senza alcun dubbio è la migliore soluzione tra tutte le alternative possibili»(16).
Cento anni prima, Theodore Roosvelt usava quasi le stesse parole.
Rifiutando ogni comparazione tra gli Stati uniti e i predatori coloniali europei di quell'epoca, affermava: «La semplice verità è che la nostra politica di espansione, inscritta in tutta la storia americana (...), non assomiglia in nulla all'imperialismo. (...) Fino a oggi non ho incontrato un solo imperialista in tutto il paese» (17). Più diretto, Sebastian Mallaby si proclama un «imperialista riluttante».
Editorialista del Washington Post (giornale reso celebre per gli articoli sullo scandalo Watergate e per la sua opposizione, tardiva, alla guerra del Vietnam, ma divenuto dopo l'11 settembre un organo militante dell'impero), Sebastian Mallaby suggeriva, nell'aprile scorso, nella rivista decisamente seria Foreign Affairs, che l'attuale disordine mondiale esige dagli Stati uniti una politica imperiale.
Nel delineare un quadro apocalittico del terzo mondo, dove si combinerebbero fallimento degli stati, crescita demografica incontrollata, violenza endemica e disgregazione sociale, Mallaby sostiene che l'unica scelta razionale sarebbe tornare all'imperialismo, vale a dire alla messa sotto diretta tutela degli stati del terzo mondo che minacciano la sicurezza dell'Occidente. Secondo Mallaby, «poiché le opzioni non imperialiste hanno dimostrato la loro inefficacia (...), la logica del neo-imperialismo è troppo forte perchè l'amministrazione Bush vi possa resistere» (18). In realtà, Bush non sembra resistere molto alla «logica» neo-imperiale.
Certo, è riluttante a investire dollari per ricostruire stati «in bancarotta» o a impegnare il suo paese in interventi umanitari. Ma non esita un istante a dispiegare le forze armate americane ai quattro angoli del mondo per schiacciare «i nemici della civiltà» e «le forze del male». Del resto, la sua semantica - i riferimenti costanti alla lotta tra la «civiltà» e la «barbarie» e la «pacificazione» dei barbari - tradisce un pensiero imperiale assolutamente classico.
Non sappiamo fino a che punto Bush abbia fatto suo l'insegnamento prodigato da quelle prestigiose istituzioni che sono Yale e Harvard, ma dopo l'11 settembre è effettivamente diventato il Cesare del nuovo partito imperiale americano. Alla pari di Cesare che, secondo Cicerone, «ha riportato successi definitivi in scontri importantissimi con le popolazioni più bellicose (...), ed è riuscito a spaventarli, respingerli, domarli, abituarli a obbedire all'autorità del popolo romano» (19), Bush e la nuova destra americana intendono ormai assicurare la sicurezza e la prosperità dell'impero attraverso la guerra, sottomettendo i popoli recalcitranti del terzo mondo, rovesciando gli «Stati canaglia», e forse ponendo sotto tutela gli «stati falliti» post-coloniali.
Alla ricerca di una sicurezza che sperano di ottenere grazie alla sola forza delle armi piuttosto che attraverso la cooperazione, gli Stati uniti agiscono soli o con coalizioni occasionali, in modo unilaterale e in funzione di interessi nazionali definiti assai rigidamente.
Piuttosto che affrontare le cause economiche e sociali che favoriscono la riproduzione permanente della violenza nei paesi del Sud, li stanno destabilizzando ancor di più dispiegandovi le loro forze armate.
Che l'obiettivo degli Stati uniti non sia l'acquisizione territoriale diretta ma il controllo non cambia granché la questione: gli imperialisti «benevolenti» o «riluttanti» sono comunque degli imperialisti.
Se i paesi del terzo mondo devono sottomettersi e conoscere una nuova era di colonizzazione o di semi-sovranità, l'Europa dovrà accontentarsi di uno status subordinato nel sistema imperiale. L'Europa, nella visione americana nata dall'unipolarismo acquisita nel 1991 e rafforzata dopo l'11 settembre, lungi dall'essere una potenza autonoma strategicamente, resterebbe una zona dipendente, non avendo «né la volontà né la capacità di difendere il suo paradiso (...); [la sua protezione] dipende dalla volontà americana» di fare la guerra (20). Si ritroverebbe inserita in una nuova divisione del lavoro imperiale nella quale «gli americani fanno la guerra, mentre i francesi, gli inglesi e i tedeschi bonificano le zone di frontiera, gli olandesi, gli svizzeri e gli scandinavi fungono da ausiliari umanitari». Attualmente, gli «americani ripongono scarsa fiducia nei loro alleati (...), ad eccezione degli inglesi, escludendoli da ogni attività che non sia il lavoro poliziesco più subordinato» (21). Zbigniew Brzezinski, ideatore del jihad anti-sovietico in Afghanistan, aveva già articolato un concetto analogo qualche anno fa. Secondo lui e molti altri strateghi americani, l'obiettivo dell'America «deve essere mantenere i nostri vassalli in uno stato di dipendenza, assicurare l'obbidienza e la protezione e prevenire l'unificazione dei barbari» (22). Come sua abitudine, Charles Krauthammer si esprime con ancor più crudezza: «L'America ha vinto la guerra fredda, si è infilata in tasca la Polonia e la Repubblica ceca, e dopo ha polverizzato la Serbia e l'Afghanistan. En passant, ha dimostrato l'inesistenza dell'Europa» (23). Questo disprezzo ha molto a che fare con le forti tensioni che scuotono le relazioni trans-atlantiche dopo l'11 settembre.
La scelta imperiale condannerà gli Stati uniti a dedicare il periodo di egemonia che gli resta - quale esso sia - a costruire muri intorno alla cittadella occidentale. Come tutti gli imperi che l'hanno preceduta, l'America, vero «estremo occidente», sarà assorbita, secondo l'espressione dello scrittore sudafricano John Michael Coetzee, «da un unico pensiero: come non finire, come non morire, come prolungare la propria era» (24).


note:

*Docente all'università di Parigi VIII e giornalista.

(1) Arthur Schlesinger Jr., « Unilateralism in historic perspective «, in Understanding Unilateralism in US foreign Policy, Riia, Londra, 2000, pp. 18-28.

(2) Charles William Maynes, «Two blasts against unilateralism», in Understanding Unilateralism..., pp. 30-48.

(3) Citato da William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy, Dell, New York, 1962, P. 26
(4) Citato da Howard K. Beale, Theodore Roosevelt and the Rise of American to World Power, Johns Hopkins University Press, Baltimora et Londra, 1989, capitolo 1.

(5) Howard K. Bearle, op.cit., pp 38 e 39 e 70-78.

(6) Citato da David Healy in US Expansionism, the Imperialist Urge in the 1980's, The University of Wisconsin Press, Madison Wisconsin, 1970, p. 46
(7) Citato in «It takes an empire say several US thinker», The New York Times, 1¼ aprile 2002. Per la citazione del 1999, vedi «The Second American Century», Time Magazine, 27 dicembre 1999. Vedi anche C. Krauthammer, «The Unipolar Moment», Foreign Affairs, New York, 1990.

(8) Citato in «It takes an empire», op. cit.

(9) Joseph S. Nye jr., The Paradox of American Power, Oxford University Press, New York, 2002, p. 1. Ed. it. Il paradosso del potere americano, Einaudi, 2002.

(10) Paul Kennedy, «The Greatest Superpower Ever», New Perspectives Quarterly, Washington, inverno 2002.

(11) Henry Kissinger, Does America Need a Foreign Policy, Simon & Schuster, New York, 2001, p. 19.

(12) Max Boot, «The Case for American Empire», Weekly Standard, Washington D.C., 15 ottobre 2001, vol. 7, n° 5.

(13) Si legga Christian Science Monitor, Boston, 26 aprile 2002.
Nel suo libro The End of Racism, pubblicato nel 1995, D'Souza afferma «che esiste una gerarchia sociale della capacità razziali», questa gerarchia spiega ad esempio gli alti tassi di criminalità all'interno della comunità afro-americana degli Stati uniti.
(14) «The Future of War and the American Military», Harvard Review, maggio-giugno 2002, volume 104, n° 5, pagina 29.

(15) Michael Ignatieff, «Barbarians at the gate?», New York Review of Books, 28 febbraio 2002, p. 4. Si legga Pierre Conesa e Olivier Lepick «Washington smantella l'architettura internazionale di sicurezza» Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2002.
(16) Robert Kagan, «The Benevolent Empire», Foreign Policy, Washington D.C., estate 1998.

(17) Howard K. Bearle, op.cit., p. 68.

(18) Sebastian Mallaby, «The Reluctant Imperialist, Terrorism, Failed States, and the Case for American Empire», Foreign Affairs, New York, marzo-aprile 2002, pp. 2 - 7.

(19) Cicerone, Sulle province consolari, XIII, 32-35 e passim.

(20) Robert Kagan, «Power and Weakness, Why Europe and the US see the world differently», Policy Review, Washington, giugno-luglio 2002, n° 113.

(21) Michael Ignatieff, op.cit., p.4.
(22) Citato in Charles William Maynes, op. cit., p. 46.

(23) Washington Post del 20 febbraio 2002.

(24) Estratto dal suo grande romanzo Aspettando i barbari, Einaudi, 2000.
(Traduzione di M. D.)

Stati Uniti: Il controllo militare del pianeta

tratto da: La Jornada – Perfil (supplemento settimanale) – 5 marzo 2003

di SAMIR AMIN*

1. Dagli anni '80, quando si annunciava il crollo del sistema sovietico, si disegna una scelta egemonica che si guadagna l'insieme della classe dirigente statunitense (con i loro establishment democratico e repubblicano). Grazie al successo della sua potenza armata, che non ha più nessun rivale in grado di moderare i loro fantasmi, gli Stati Uniti decidono di affermare il loro dominio, in primo luogo, per mezzo del dispiegamento di una strategia strettamente militare di "controllo del pianeta". Una prima serie di interventi - Golfo, Yugoslavia, Asia Centrale, Palestina, Iraq - inaugura a partire dagli anni '90 la messa in marcia di questo piano di guerre made in USA: guerre senza fine, pianificate e decise unilateralmente.

La strategia politica che accompagna il progetto prepara i suoi pretesti: terrorismo, lotta contro il narcotraffico o accusa di produzione di armi di distruzione di massa. Pretesti evidenti quando si è a conoscenza delle complicità che hanno permesso alla CIA di fabbricare un avversario "terrorista" su misura (i talebani, Bin Laden, benché i fatti dell'11 settembre non siano mai stati chiarificati) e di sviluppare il Piano Colombia diretto contro il Brasile. Rispetto alle accuse di possibile produzione di armi pericolose - lanciate contro Iraq, Corea del Nord e nel futuro contro qualsiasi paese -, queste accuse non sono niente se comparate con l'uso effettivo di queste armi da parte degli Stati Uniti (le bombe di Hiroshima e Nagasaky, l'impiego di armi chimiche in Vietnam, la minaccia esplicita di utilizzo di armi nucleari nei futuri conflitti). In fondo, si tratta solo di mezzi di propaganda nel senso che Goebbels dava a questo termine, efficaci forse solo per convincere l'ingenua opinione pubblica statunitense, però di volta in volta meno credibili da altre parti.

La guerra preventiva formulata da oggi come un "diritto" che Washington si riserva d'invocare, presuppone fin dall'inizio l'abolizione completa del diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite proibisce il ricorso alla guerra, tranne in caso di legittima difesa, e sottomette un possibile intervento militare a condizioni molto serie, oltre a stabilire che la risposta deve essere misurata e provvisoria. Tutti i giuristi sanno che le guerre intraprese dal 1990 sono assolutamente illegittime e che, pertanto, i loro responsabili sono, per principio, criminali di guerra. Le Nazioni Unite sono state manipolate dagli Stati Uniti, anche con la complicità di terzi, come una volta lo è stata la Società delle Nazioni dagli stati fascisti.

2.L'abolizione del diritto dei popoli, già consumata, sostituisce il principio della uguaglianza con quello della distinzione tra un Herrenvolk (il popolo degli Stati Uniti, insieme a quello di Israele) che ha il diritto di conquistare lo "spazio vitale" che consideri necessario e gli altri, la cui esistenza stessa è tollerabile solo se non costituisce una "minaccia" per il dispiegamento dei progetti di quelli che hanno detto d'essere i "padroni del mondo".

Quali sono, pertanto, questi interessi "nazionali" che la classe dirigente degli Stati Uniti si riserva il diritto di invocare quando le viene voglia?

A dir la verità, questa classe si riconosce solo in un obiettivo - "far denaro" - e lo stato statunitense si è posto apertamente al servizio prioritario della soddisfazione delle esigenze del segmento dominante del capitale costituito dalle multinazionali degli Stati Uniti.

Così, agli occhi dell'establishment di Washington tutti ci siamo trasformati in pellerossa, vale a dire, in popoli che hanno diritto d'esistere solo nella misura in cui non interferiscono con l'espansione del capitale multinazionale degli Stati Uniti. Qualsiasi resistenza sarà ridotta con tutti i mezzi, fino allo sterminio se necessario, come affermano gli Stati Uniti. Quindici milioni di dollari di benefici supplementari per le multinazionali statunitensi e, in contropartita, 300 milioni di vittime, su questo non ci sono dubbi. Gli Stati Uniti sono lo stato canaglia per eccellenza, per riprendere la terminologia dei presidenti Bush padre, Clinton e Bush figlio.

Questo progetto è chiaramente imperialista nel senso più brutale del termine, però non è "imperiale" nel senso che Negri dà a questo termine, perché non si tratta di controllare l'insieme delle società del pianeta per integrarle in un sistema capitalista coerente, ma solo d'impadronirsi delle loro risorse. La riduzione del pensiero sociale agli assiomi di base dell'economia volgare, l'attenzione unilaterale data alla massimizzazione della redditività finanziaria a corto periodo di tempo del capitale dominante, rafforzata dalla messa a disposizione di questo di mezzi militari noti a tutti, sono i responsabili di questa barbara deriva che il capitalismo porta con sé, visto che si è disfatto di qualsiasi sistema di valori umani, sostituiti dalle esigenze esclusive della sottomissione alle presunte leggi del mercato. Per la storia della sua formazione, il capitalismo statunitense si prestava a questa riduzione meglio ancora che il capitalismo delle società europee, perché lo stato statunitense e la sua visione politica si sono formati per servire esclusivamente all'economia, abolendo con ciò la relazione contraddittoria e dialettica economia-politica. Il genocidio degli indios, la schiavitù dei neri, le successive ondate di emigrazioni che sostituivano la maturazione della coscienza di classe con lo scontro fra gruppi che condividevano presunte identità comunitarie (manipolate dalla classe dirigente), hanno prodotto una gestione politica della società da parte di un partito unico del capitale, i cui due segmenti condividono le stesse visioni strategiche globali, dato che si suddividono il compito grazie alle loro retoriche atte a controllare ognuna delle costituencies (circoscrizioni elettorali), della metà scarsa della società che crede ancora abbastanza nel sistema da prendersi il disturbo di andare a votare. Privata della tradizione grazie alla quale i partiti operai socialdemocratici e comunisti impressero il loro segno nella formazione della cultura politica europea moderna, la società statunitense non dispone di strumenti ideologici che le potrebbero permettere di resistere alla dittatura senza contrappesi del capitale. Al contrario, è questo ciò che modella unilateralmente il modo di pensare della società in tutte le sue espressioni e, soprattutto, produce, rafforzandolo, il suo fondamentale razzismo che le permette di vedersi come Herrenfolk. Lo slogan Playboy Clinton, cowboy Bush same policy (playboy Clinton, cowboy Bush: stessa politica), espresso in "linguaggio indio", pone giustamente l'enfasi sulla natura del partito unico che governa la presunta democrazia statunitense.

Per tutto questo il progetto statunitense non è un progetto egemonico banale che condividerebbe, con altri che si sono succeduti lungo la storia moderna e antica, le virtù di una visione d'insieme dei problemi che permetterebbe di dare risposte coerenti e stabilizzatrici, benché siano fondate sullo sfruttamento economico e nella disuguaglianza politica. È infinitamente più brutale per la sua concezione unilaterale, estremamente semplice, e da questo punto di vista si avvicina più al progetto nazi, fondato anche sul principio esclusivo del Herrenfolk. Questo progetto non ha niente a che vedere con ciò che affermano gli universitari liberali statunitensi, che qualificano questa egemonia come "benigna" ("indolore").

Se questo progetto continua a svilupparsi per un certo periodo di tempo, porterà solo un caos sempre maggiore che porterà ad una gestione sempre più brutale per mezzo di azioni precise, senza una visione strategica di lungo periodo. In ultima istanza, Washington non cercherà più di rafforzare autentiche alleanze, il che sempre impone saper fare concessioni. Alcuni governi burattini, come quello di Karzai in Afganistan, sono più utili mentre il delirio del dominio militare permette di credere nella "invincibilità" degli Stati Uniti. Lo stesso lo pensava Hitler.

3. L'esame delle relazioni di questo progetto criminale con le realtà del capitalismo dominante costituito dall'insieme dei paesi della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) permetterà di misurare/valutare le loro forze e debolezze.

L'opinione generale più estesa, diretta da quei media che non invitano alla riflessione, è che il dominio militare statunitense non costituisce altro che la punta dell'iceberg, che prolunga la superiorità di questo paese su tutti i domini, specialmente economici, però anche politici e culturali. Tutto ciò dovuto alla sottomissione all'egemonia che pretende di essere inevitabile.

L'esame delle realtà economiche invalida questa opinione. Il sistema produttivo degli Stati Uniti è lontano dall'essere il "più efficace del mondo". Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti potrebbe essere sicuro di superare i suoi competitori in un mercato davvero aperto come immaginano gli economisti liberali. Prova di ciò è il suo deficit commerciale che si aggrava di anno in anno: da 100 mila milioni di dollari nel 1989 è passato a 450 mila milioni nel 2000. Inoltre, questo deficit riguarda praticamente tutti i segmenti del sistema produttivo. Addirittura l'eccedente di cui si beneficiava sul terreno dei beni dell'alta tecnologia, che era di 35 mila milioni di dollari nel 1990, si è convertito attualmente in deficit. La competenza tra Ariane ed i razzi della NASA, tra Airbus e Boeing, sono la testimonianza della vulnerabilità del vantaggio statunitense. Di fronte ad Europa e Giappone per i prodotti d'alta tecnologia a Cina, Corea e altri paesi industrializzati dell'Asia e dell'America del Sud per i prodotti manifatturieri correnti, all'Europa e al Cono Sud per l'agricoltura, gli Stati Uniti probabilmente non li supererebbero senza ricorrere ai mezzi "extra economici" che violano i principi del liberalismo imposti ai loro competitori.

Di fatto gli Stati Uniti beneficiano solo dei vantaggi comparativi stabiliti nel settore dell'armamento, proprio perché questo settore sfugge ampiamente alle regole del mercato e beneficia dell'appoggio dello stato. Senza dubbio questo vantaggio implica alcune conseguenze per la vita civile (l'esempio più noto è Internet), però è anche all'origine delle importanti distorsioni che costituiscono svantaggi per molti dei settori produttivi.

L'economia statunitense è parassita a detrimento dei suoi soci nel sistema mondiale. "Gli Stati Uniti dipendono per il 10 per cento del loro consumo industriale da beni, la cui importazione non è coperta dalle esportazioni dei prodotti nazionali" (E. Todd, Après l'empire, p. 80).

La crescita negli anni di Clinton, lodata per essere un prodotto del "liberalismo" a cui l'Europa, però aveva resistito troppo, è di fatto molto fittizio e, in ogni caso, non generalizzabile, perché riposa su trasferimenti di capitale che implicano il prosciugamento dei soci. Per tutti i segmenti del sistema produttivo reale, la crescita degli Stati Uniti non è stata migliore di quella dell'Europa. Il "miracolo statunitense" si è alimentato esclusivamente con la crescita delle spese prodotte dall'aggravamento delle disuguaglianze sociali (servizi finanziari e personali, legioni di avvocati e di polizie private, eccetera). In questo senso, il liberalismo di Clinton preparò chiaramente le condizioni che permisero lo sviluppo reazionario e l'ulteriore vittoria di Bush figlio. Inoltre, come scrive Todd (p. 84), "gonfiato dalla frode elettorale, il PIL statunitense inizia ad assomigliare, per la affidabilità statistica, a quello dell'Unione Sovietica".

Il mondo produce, gli Stati Uniti (il cui risparmio nazionale è praticamente nullo) consumano. Il loro "vantaggio" è quello di un predatore il cui deficit è coperto grazie all'apporto, consentito o forzato, di terzi. I mezzi messi in moto da Washington per compensare le sue deficienze sono di diverso tipo: ripetute violazioni unilaterali dei principi del liberalismo, esportazioni di armi (60 per cento del mercato mondiale) ampiamente imposte ad alleati subalterni (che, inoltre, come succede nei paesi del Golfo, non utilizzeranno mai questi armamenti!), ricerca di rendite petrolifere (che vuole porre i produttori sotto la sua autorità in modo regolare, motivo reale delle guerre in Asia Centrale ed in Iraq). In ogni caso, il grosso del deficit statunitense viene coperto grazie agli apporti di capitale provenienti dall'Europa e dal Giappone, dal sud (paesi petroliferi ricchi e classi compradoras (1) di tutti i paesi del terzo mondo, inclusi i più poveri), al che si aggiungerà il salasso dovuto al debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale.

Le ragioni che danno conto della persistenza dei flussi di capitale che alimenta il parassitismo dell'economia e della società statunitense, e permettono a questa superpotenza di sopravvivere, sono indubbiamente complesse. Però in assoluto sono il risultato delle presunte "leggi del mercato", che sono a volte razionali e ineludibili.

La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale multinazionalizzato di tutti i soci della triade è reale e si afferma mediante la sua adesione al neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti come il difensore (militare, se è necessario) di questi "interessi comuni". In ogni caso, Washington non pretende di "distribuire equamente" i benefici della sua egemonia. Al contrario, si sforza per dominare i suoi alleati e con questo spirito è solo disposto a fare delle concessioni minori ai suoi alleati subalterni della triade. Forse questo conflitto d'interessi del capitale dominante è destinato ad accentuarsi fino al punto di portare ad una rottura nella Alleanza Atlantica? Non è impossibile, anche se è poco probabile.

Il conflitto pieno di promesse si situa su un altro terreno: le culture politiche. In Europa continua ed essere possibile un'alternativa di sinistra che imporrebbe simultaneamente una rottura tanto con il neoliberismo (e l'abbandono della vana speranza di sottomettere gli Stati Uniti alle proprie esigenze, permettendo così al capitale europeo di sviluppare una battaglia sul terreno non minato della competizione economica), quanto con l'allineamento alle strategie politiche statunitensi. L'eccedenza di capitali, che per il momento l'Europa si contenta di "situare" negli Stati Uniti, potrebbe allora destinarsi ad un recupero economico e sociale, senza questa eccedenza un recupero continuerebbe ad essere impossibile. Però quando l'Europa scegliesse di dare priorità al suo sviluppo economico e sociale, l'artificiale salute dell'economia statunitense si smonterebbe e la sua classe dirigente si dovrebbe confrontare con i propri problemi economici e sociali. Questo è il senso che do alla mia conclusione: "L'Europa sarà di sinistra o non sarà".

Per raggiungere questo c'è da liberarsi dell'illusione che la lettera del neoliberismo dovrebbe - e potrebbe - giocarsi "onestamente" da parte di tutti e che, in questo caso, tutto andrebbe per il meglio. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro scelta a favore di una pratica asimmetrica del liberalismo, perché è l'unico mezzo che hanno per compensare alle proprie deficienze. Il prezzo della "prosperità" statunitense è il prosciugamento degli altri. Perché, allora, nonostante queste evidenze, continua il flusso di capitali a suo beneficio? Senza dubbio per molti il motivo radica nel fatto che gli Stati Uniti sono "uno Stato per i ricchi", il rifugio più sicuro. Questo è il caso degli investimenti delle borghesie compradoras del terzo mondo. Però, per gli europei? Il virus liberale - e la credenza ingenua che gli Stati Uniti finiranno con l'accettare il "gioco dei mercati" - opera qui con una forza evidente tra le grandi opinioni pubbliche. In questo spirito il FMI ha consacrato il principio della "libera circolazione dei capitali", di fatto semplicemente per permettere loro di coprire il loro deficit con l'assorbimento delle eccedenze finanziarie generate in altri luoghi con le politiche neoliberali, quelle a cui gli Stati Uniti si sottomettono solo selettivamente. Senza dubbio, per il gran capitale dominante il vantaggio del sistema prevale sugli inconvenienti: il tributo che c'è da pagare a Washington per assicurare la sua permanenza.

Esistono paesi chiamati "paesi poveri indebitati" che sono costretti a pagare. Però esiste pure un "paese potente indebitato", di cui si dovrebbe sapere che non restituirà mai i suoi debiti. Per questo fatto, l'autentico tributo imposto dal ricatto politico degli Stati Uniti continua ed essere fragile.

4. La scelta militarista dell'establishment degli Stati Uniti si situa in questa prospettiva. Non è altra cosa che il riconoscimento che non dispone di altri mezzi per imporre la sua egemonia economica.

Le cause che sono all'origine dell'indebolimento del suo sistema produttivo sono complesse. Non sono, quindi, congiunturali, e che perciò si potrebbero correggere, per esempio, per mezzo della adozione di un tasso di cambio corretto, o mediante la costruzione di relazioni più favorevoli salario-produttività. Sono strutturali. La mediocrità dei sistemi di insegnamento generale e di formazione, prodotto di un pregiudizio tenace che favorisce sistematicamente il "privato" a detrimento del servizio pubblico, è una delle principali ragioni della profonda crisi che attraversa la società degli Stati Uniti.

Così, dovremmo sorprenderci che gli europei, lontano dal cogliere le conclusioni che impone la constatazione delle insufficienze dell'economia statunitense, si affrettino, al contrario, a imitarle. A questo rispetto neanche il virus neoliberale spiega tutto, benché soddisfi alcune funzioni utili per il sistema, paralizzando la sinistra. La privatizzazione ad oltranza, lo smantellamento dei servizi pubblici potranno solo ridurre i vantaggi comparativi di cui ancora beneficia la "vecchia Europa" (come la chiama Bush). Però siano quelli che siano i danni che provocano a lungo periodo, queste misure offrono al capitale dominante, che vive sul corto periodo di tempo, l'occasione di benefici supplementari.

La scelta militarista degli Stati Uniti minaccia tutti i popoli. Procede dalla stessa logica che un tempo fu quella di Adolfo Hitler: modificare per mezzo della violenza militare le relazioni economiche e sociali a favore del Herrenfolk del momento. Se questa scelta si imporrà sullo scenario mondiale, determinerà tutte le congiunture politiche, perché la prosecuzione del dispiegamento di questo progetto indebolirebbe estremamente tutti i progressi ottenuti o ottenibili dai popoli per mezzo delle loro lotte sociali e democratiche. Conseguentemente, far fallire il progetto militarista statunitense si trasforma allora per tutti nel compito primordiale, nella nostra principale responsabilità.

La lotta per far fallire il progetto degli Stati Uniti è certamente multiforme. Comporta aspetti diplomatici (difesa del diritto internazionale), militari (si impone il riarmo di tutti i paesi del mondo per far fronte alle aggressioni progettate da Washington - non bisogna dimenticare mai che gli Stati Uniti hanno utilizzato armi nucleari quando ne avevano il monopolio e che hanno rinunciato a utilizzarle quando non lo avevano più) e politiche (specialmente per ciò che concerne la costruzione europea e la ricostruzione del blocco dei paesi non allineati).

Il successo di questa lotta dipenderà dalla capacità degli spiriti di liberarsi delle illusioni liberali. Perché non esisterà mai un'economia globalizzata "autenticamente liberale". E, senza dubbio, si tenta e si continuerà a tentare con tutti i mezzi di farlo credere. I discorsi della Banca Mondiale, che opera come una specie di ministero di propaganda di Washington, riguardo alla "democrazia" e al "buon governo" o alla "riduzione della povertà", hanno questa unica funzione, come il rumore mediatico organizzato intorno a Joseph Stiglitz, allo scoprire alcune verità elementari, affermate con autorità arrogante, senza far emergere mai una minima conclusione che metta in discussione i tenaci pregiudizi dell'economia volgare.

La ricostruzione di un fronte del sud, capace di dare alla solidarietà dei popoli di Asia e Africa, e alla tricontinentale, una capacità di agire sul piano mondiale passa anche attraverso la liberazione delle illusioni di un sistema liberal globalizzato "non asimmetrico" che permetterebbe alle nazioni del terzo mondo di superare i loro "ritardi". Non è forse ridicolo vedere i paesi del terzo mondo reclamare la "messa in moto dei principi del neoliberismo, senza nessuna discriminazione", e beneficiare così dei nutriti applausi della Banca Mondiale? Da quando la Banca Mondiale ha difeso il terzo mondo di fronte agli Stati Uniti?

La lotta contro l'imperialismo statunitense e la sua scelta militarista è la lotta di tutti i popoli, delle loro vittime principali in Asia, Africa e America del Sud, dei popoli europei e giapponesi condannati alla subordinazione, però anche del popolo statunitense. Applaudiamo il coraggio di tutti quelli che nel "cuore della bestia" si rifiutano di sottomettersi così come i loro predecessori si rifiutarono di cedere al maccartismo negli anni '50. Così come quelli che osarono resistere a Hitler hanno conquistato un nome nella storia. Sarà capace la classe dominante degli Stati Uniti di tornare indietro sul progetto criminale che ha dispiegato? Questa è una domanda difficile. Poco, se non niente, nella formazione storica della società statunitense va prevedere questo. Il partito unico del capitale, il cui potere non si discute negli Stati Uniti, non ha rinunciato fino ad oggi all'avventura militare. In questo senso non si può attenuare la responsabilità che questa classe ha preso nel suo insieme. Il potere di Bush figlio non è quello di una "camarilla" - i petrolieri e le industrie dell'armamento. Come in tutta la storia moderna degli Stati Uniti, il potere dominante non è mai stato altro che quello di una coalizione di interessi segmentati del capitale (mal indicati come lobbies). Però questa coalizione può solo governare se lo accettano gli altri segmenti del capitale. In mancanza di ciò, tutto succede in questo paese così poco rispettoso di fatto del diritto rispetto a quello che sembrerebbe esserlo nei principi. Da qui, alcuni fallimenti politici, diplomatici e magari perfino militari potrebbero animare le minoranze nel seno dell'establishment che accetterebbero di rinunciare alle avventure militari nelle quali il loro paese si sta imbarcando. Aspettare di più mi pare tanto ingenuo come poteva esserlo la speranza che Adolfo Hitler ritornasse alla ragione!

Se gli europei avessero reagito nel 1935 o nel 1937, sarebbero riusciti a fermare il delirio hitleriano. Reagendo soltanto nel 1939, ci sono state decine di milioni di vittime. Attuiamo perché ci sia una risposta sia più pronta (di allora) alla sfida dei neonazisti di Washington.

[Traduzione in spagnolo: Beatriz Morali, CSCAweb per il Comitato di Solidarietà con la Causa Araba]

Nota (1): Classi d'élite non produttive che hanno legami d'interesse con il capitalismo estero

*ECONOMISTA EGIZIANO, DIRETTORE DEL FORUM DEL TERZO MONDO IN DAKAR, SENEGAL



(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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