28.4.07

Gramsci. Un'opera aperta sul divenire del mondo

(tratto da il manifesto, 27 Aprile 2007)

L'influenza di Antonio Gramsci negli studi postcoloniali nel saggio dello studioso statunitense Timothy Brennan. Da oggi a Roma un convegno internazionale sull'attualità dei «Quaderni dal carcere»
Miguel Mellino

Nel mondo anglosassone, i rapporti tra marxismo e studi postcoloniali non sono mai stati né semplici né distesi. Benché negli ultimi anni sempre più autori abbiano dedicato i loro sforzi alla traduzione, mediazione tra i due campi, alla costruzione di una problematica antagonista comune, le prove di un dialogo non facile e di un confronto talvolta carico di veleni abbondano. Inutile aggiungere poi che i toni tendono a diventare più accesi proprio quando si tratta di affrontare questioni politiche legate ad alcuni degli autori - da Walter Benjamin a Frantz Fanon, da C.L.R James a Antonio Gramsci - considerati ormai a torto o a ragione come costitutivi di entrambe le prospettive. Ne è un esempio l'ultimo lavoro di Timothy Brennan, significativamente intitolato Wars of Position. The Cultural Politics of Left and Right (New York, Columbia University Press). Professore di Letterature Comparate e di Cultural Studies all'Università del Minnesota, Brennan è da tempo impegnato nella critica politica della produzione intellettuale delle Humanities anglo-american.
La chiara allusione a Gramsci nel titolo costituisce un primo indizio sulla collocazione politica (marxista) dell'autore, ma soprattutto del suo obiettivo: un'analisi gramsciana del Kulturkampf attraverso cui prendono forma nelle fabbriche del sapere anglo-americane gli studi letterari ed umanistici. Brennan parte da domande molto semplici, tratte da un vissuto quotidiano. Perché all'interno del mondo universitario statunitense può accadere che programmi d'esame o prestigiosi cataloghi editoriali ci presentino tranquillamente il filosofo marxista Henri Lefebvre come uno dei pionieri della metodologia post-strutturalista nell'analisi della città? Perché può capitare di assistere a seminari in cui Bachtin, noto anti-formalista, viene analizzato come un altro degli esponenti del formalismo russo? Infine, perché può sembrare così naturale a critici e professori parlare di Gramsci come di uno dei massimi nemici storici della filosofia hegeliana e della dialettica, come di un autore più in sintonia con Foucault e con Deleuze che con il marxismo Novecentesco?

Da teoria a precetto etico
Per Brennan non si tratta di errori individuali o di sciatteria intellettuale. La questione è ben più seria. Dalla fine degli anni Settanta, dopo la sconfitta mondiale dei movimenti e in concomitanza con l'ascesa violenta del neoliberismo, nelle Humanities anglo-americane «teoria» è divenuto per l'intellighentsia di sinistra sinonimo di post-strutturalismo. Ma di un post-strutturalismo, sostiene l'autore, che ha poco a che vedere con il radicalismo espresso, per esempio, dalla schizoanalisi di Deleuze, dalla critica della metafisica di Derrida o dall'attacco frontale di Baudrillard alla cultura di massa. Si tratta invece di una semplice traduzione del radicalismo francese del dopo Sessantotto entro lo schema ideologico della «religione americana del middle-way», ovvero di un movimento che ha ridotto la «teoria» a un elenco banale e ripetitivo non tanto di categorie conoscitive quanto di «precetti ormai puramente etici» (nomadismo, subalternità, differenza, ecc) compatibili con la logica neoliberista del capitalismo contemporaneo.
Brennan conclude polemicamente che siamo di fronte a una sorta di «catechismo post-strutturalista» in cui i significati (davvero soft) attribuiti ai principi della «differenza», del «pluralismo», dell'«ibridazione» e dell'affirmative action hanno finito per confondersi con i valori tradizionali del dogma liberale americano del middle-way (individualismo, anti-statalismo, anti-comunismo, anti-collettivismo, diritto all'auto-imprenditorialità e alla proprietà privata) e perfino con il culturalismo o fondamentalismo identitario promosso dalla Nuova Destra cristiana, in quanto non hanno fatto che legittimare la trasfigurazione di «comunità politiche secolari» in «comunità ontologiche».
In sintesi, per Brennan, poiché da tempo nella vita pubblica degli Stati Uniti non c'è più spazio per un dissenso davvero antagonista (che non riguardi questioni «meramente» religiose, culturali o etniche), l'egemonia di questo tipo di «teoria» nei settori chiave della produzione intellettuale ha sancito non solo una vera e propria sconfitta della sinistra nella «guerra di posizione», ma si è anche configurata come un potente «velo ideologico» capace di distorcere sistematicamente l'approccio agli autori e alle questioni teoriche del passato. In particolare, a tutto quanto abbia a che fare con la tradizione marxista precedente al Sessantotto.
La tesi di Brennan non è certo nuova. Il pregio del suo lavoro sta nella disamina di una serie davvero impressionante di temi (globalizzazione, imperialismo, cosmopolitismo) e di autori (Heidegger, Nietzsche, Agamben, Negri, Hall) centrali nel dibattito tra marxismo e postcolonialismo. Purtroppo il più delle volte Brennan si ferma sull'uscio della porta: le sue critiche non vengono legate all'analisi di oggetti concreti. Le uniche eccezioni riguardano le pagine dedicate a Gramsci e a Said. Ironicamente intitolato The Southern Intellectual (poiché proietta tutta la critica gramsciana dell'intellettuale meridionale su quello postcoloniale), il capitolo sull'uso di Gramsci all'interno della critica postcoloniale presenta diversi punti di interesse.
Innanzitutto offre una ricostruzione piuttosto aggiornata del percorso degli studi gramsciani nel mondo anglosassone e anche in America Latina. In secondo luogo, Brennan si sofferma a lungo su uno dei punti chiave (nel bene e nel male) di tutta la vicenda: il modo in cui l'interpretazione althusseriana di Gramsci ha «surdeterminato» il «gramscismo» oggi più popolare all'interno degli Studi Culturali e Postcoloniali. Riassumendo, la sua tesi è che nel mondo anglosassone vi sono due diversi tipi di gramscismo. Il primo, nato nei primi anni Settanta dal dibattito sull'eurocomunismo, appare fortemente influenzato dalla «lettura sintomale» che di Gramsci fece Althusser e ha in figure come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Stuart Hall e Parta Chatterjee alcuni tra i suoi principali promotori.
Brennan accusa questo filone post-marxista e postcoloniale di aver costruito un'immagine «riformista», «liberale» e «postmoderna» di Gramsci piuttosto fuorviante. Attraverso l'estrapolazione decontestualizzata di quattro soli concetti - egemonia, subalterno, rivoluzione passiva, senso comune - e mediante un'identificazione del tutto «istintiva» non tanto con l'opera gramsciana quanto con la biografia personale dell'intellettuale sardo (ridisegnata a immagine e somiglianza dell'intellettuale postcoloniale, diasporico, periferico e in lotta contro un marxismo troppo eurocentrico ed economicista) questi autori sarebbero stati tra i principali fautori di un gramscismo un po' à la mode, ovvero a uso e consumo di quell'etica post-strutturalista dominante e capace di sussumere qualsiasi cosa entro la propria weltanschauung moderata.
Ad aprire la strada a questo gramscismo post-strutturalista - per Brennan - è stato senza dubbio Althusser, il quale, al di là del suo anti-storicismo, non fece mai mistero di «voler proseguire il progetto incompiuto di Gramsci»: un progetto che egli lesse come rifiuto della dialettica hegeliana, fortemente atipico rispetto al marxismo della Terza Internazionale, promotore della filosofia come praxis e creatore di un linguaggio specifico capace di suggerire la «materialità» e la «relativa autonomia» della sfera sovrastrutturale. Secondo Brennan, dunque, questa «lettura sintomale» di Althusser ha creato una serie di distorsioni del pensiero gramsciano destinate poi a perpetuarsi nel post-marxismo di Laclau e Mouffe, nella critica postfordista di Hall, ma anche all'interno di una parte dei Subaltern Studies indiani.
Il secondo insieme di studi gramsciani identificato da Brennan non è un filone vero e proprio, ma è costituito da una serie di studi e di autori molto diversi tra loro (dall'opera di Said fino ad arrivare alle ricerche di Joseph Buttigieg, Frank Rosengarten, Richard Bellamy, David Forgacs e Anne Showstack Sassoon) che hanno il merito di aver restituito un'interpretazione del pensiero di Gramsci più rigorosa e storicamente fondata. E' da qui che, secondo Brennan, dovrebbero ripartire gli studi postcoloniali: potrebbe essere l'occasione giusta sia per superare l'idea di un'estraneità radicale del pensiero di Gramsci rispetto ai marxisti del suo tempo, sia per riaprire il dialogo tra marxismo e postcolonialismo su basi nuove. Poiché molte delle questioni tipicamente postcoloniali - colonialismo, nazionalismo, storicismo, eurocentrismo - sono davvero costitutive dell'archivio marxista venuto alla luce tra le due guerre mondiali.

L'impossibile filologia
Contro Brennan, però, va detto che occorre lavorare anche in senso contrario: molte delle istanze aperte dal postcolonialismo non possono essere declassate come qualcosa di déjà vu. Non basta parlare in modo elitario di distorsioni che si tramandano di autore in autore; non basta (più) ribadire continuamente che il Gramsci degli Studi Postcoloniali è emerso da una conoscenza frammentaria e approssimativa dei Quaderni o degli altri suoi scritti; e non bastano più analisi comparative in astratto dei significati che gli uni e gli altri attribuiscono ad alcune delle nozioni gramsciane più note. Soprattutto perché nessuno all'interno dei Cultural Studies o degli Studi Postcoloniali si è mai proposto come gramsciano tout court o come filologo della sua opera.
Negli esempi migliori (Hall, Chatterjee, Guha, ecc.) la cassetta degli attrezzi gramsciana è stata aperta per cercare di dire qualcosa di più su alcuni dei fenomeni più pregnanti dei nostri tempi: sull'ascesa del Thatcherismo in Gran Bretagna o sul modo in cui capitalismo, razzismo e imperialismo operano, si trasformano e si intersecano nei diversi contesti storici e spaziali (Hall), sulle contraddizioni del nazionalismo e dello stato indiano postcoloniale (Chatterjee) e sull'esperienza delle masse subalterne in India (Guha). Per dirla con Hall: è nel merito della loro applicazione «congiunturale» (in riferimento al (s)oggetto particolare che ne ha sollecitato l'uso) che occorre valutare l'appropriazione (comunque indebita) di categorie e concetti. E' questo forse il modo migliore di mettere a valore quel tradimento che ogni traduzione comporta.

scheda
Tra Cagliari e Ghilarza
I «Quaderni dal carcere» nel mondo Un incontro in Sardegna

L'anno gramsciano appena inaugurato lascerà in eredità una lettura plurale e cosmopolita dell'autore dei «Quaderni del carcere». Basta scorrere il programma del convegno itinerante «Antonio Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile"», organizzato tra Cagliari (T Hotel, Via dei Giudicati), Ghilarza (Torre Aragonese) e Ales dal 3 al 6 maggio dalla International Grmasci Society-Italia, dalla Regione Sardegna, dall'Istituto Gramsci della Sardegna e dalla Casa Museo Gramsci di Ghilarza, per capire come il pianeta Gramsci non si sia fermato all'Italia, ma tende ormai a coincidere con il mondo intero.
Si parlerà di Brasile con Marcos Del Roio e Carlos Nelson Coutinho, di Stati Uniti con Joseph Buttigieg, del Commonwealth britannico con l'australiano Alastair Davidson, di Giappone con Akira Itô e Koichi Ohara, ma anche di problemi importanti nel corpus gramsciano come la soggettività politica (Pasquale Voza) e il linguaggio (con André Tosel e Derek Boothman) e della formazione teorica e politica (Angelo D'Orsi e Renato Zangheri).
Non sarà trascurata nemmeno la declinazione gramsciana del marxismo nei termini di «filosofia della prassi» con Giuseppe Cacciatore e Silvano Tagliagambe (sabato 5 maggio al mattino). Guido Liguori (sempre sabato 5, ma al pomeriggio) e Giorgio Baratta, gli animatori della Igs Italia, tireranno le file sulle molteplici ricezioni gramsciane sospese tra gli studi culturali e quelli postcoloniali.
E' prevista la partecipazione anche di Aldo Tortorella, che ospita abitualmente Gramsci su Critica Marxista, e di Beppe Vacca. Sono inoltre previsti degli approfondimenti sulla ricezione, e l'uso, di Gramsci nella scuola e nella società civile.
Si chiude domenica 6 maggio con «un incontro con artisti e intellettuali» dal titolo Il sole e le rose. Il programma completo del convegno è scaricabile dal sito internet: www.gramscitalia.it/programma.htm.

breve
Dal Mediterraneo agli studi culturali

Il convegno internazionale Gramsci, le culture e il mondo, organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci e dall'International Gramsci Society-Italia nel Palazzo Baldassini di via delle Coppelle 35 a Roma, è il primo appuntamento utile per analizzare la straordinaria diffusione degli studi sull'autore dei Quaderni del carcere nel mondo. A pochi giorni dall'anniversario del settantesimo anno dalla scomparsa di Gramsci, il convegno romano esordirà oggi con una discussione tra una delle esponenti più importanti dei Subaltern Studies, Ranajit Guha, Sandro Mezzadra, uno degli animatori della rivista italiana Studi Culturali, e Marcus Green della International Gramsci Society. Nel pomeriggio sarà il turno di Stuart Hall, il maggiore esponente degli studi culturali il quale spiegherà la nascita della «scuola di Birmingham» che costituì, a partire dagli anni Sessanta, la piattaforma di lancio del gramscismo nel mondo anglosassone.
Sabato 28 aprile sarà Joseph Buttigieg, uno dei traduttori dei Quaderni del Carcere negli Stati Uniti ad intervenire sul rapporto tra Gramsci e Edward Said, l'intellettuale palestinese fondatore degli «studi postcoloniali». Nel pomeriggio di sabato Derek Boothman interverrà sull'Islam nei Quaderni del carcere, mentre Iain Chambers si dedicherà al tema Ripensare il Mediterraneo: da Gramsci a Said.
Momento particolarmente significativo della sessione romana sarà la presentazione venerdì 27 della Bibliografia gramsciana on line, curata da John M. Cammett, Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, consultabile sul sito: www.fondazionegramsci.org/A6Web/bibliografiagramsciana.htm. 14.500 titoli sulla vita e l'opera di Antonio Gramsci in 33 lingue, la prova digitale di come Gramsci sia diventato nell'ultimo ventennio uno dei principali punti di riferimento per il dibattito internazionale.

27.4.07

"Gramsci, attuale e non convertito alle ragioni di un esangue riformismo"

di Simone Oggionni

(tratto da l'ernesto online del 27/04/2007)

Intervista ad Alberto Burgio, docente universitario e parlamentare del PRC

Oggi è il 27 aprile. Settant’anni fa, il 27 aprile 1937, muore, dopo nove anni di reclusione, Antonio Gramsci, a causa di una emoragia celebrale.
Con Alberto Burgio, studioso di Gramsci ed autore nel 2003 per Laterza di Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni dal carcere", cogliamo l’occasione di questo anniversario per riflettere sull’attualità del lascito dell’intellettuale e dirigente comunista sardo.

D. Innanzitutto non possiamo non notare una coincidenza densa di significato: la morte di Antonio Gramsci si colloca tra due date simboliche per il movimento operaio e la storia dei comunisti in Italia: il 25 aprile e il 1 maggio.

R. Sì, la data della morte di Gramsci si colloca tra due delle ricorrenze più significative per la sinistra italiana. Il 25 aprile: data in cui l’Italia riconquista la libertà dopo quasi ventitrè anni di dittatura fascista grazie ad una poderosa resistenza di popolo e grazie – in particolare – all’iniziativa, dentro la lotta partigiana, dei comunisti. Un contributo, quello dei comunisti, che non comincia soltanto negli anni conclusivi del conflitto bellico, quando si apre lo scontro militare con i sostenitori della Repubblica Sociale Italiana e con l’esercito nazista ma, che al contrario, è determinante già nel lungo tunnel della dittatura. Periodo nel quale i comunisti riuscirono, nonostante le grandi difficoltà, a tenere in vita la traccia della coscienza di quanto fosse necessario organizzare il movimento operaio, di quanto fosse necessario costruire le condizioni per la rapida ripresa della lotta di massa nelle fabbriche, nelle campagne, nelle città. E il 1 maggio, ovviamente, è il giorno in cui quel movimento che, con la lotta partigiana, fu in grado di sconfiggere il nazifascismo, celebra la sua funzione costitutiva nel processo di costruzione della democrazia.

D. Chi è stato Antonio Gramsci?

R. Sicuramente la figura più importante nella vicenda dei comunisti in Italia; un intellettuale che – sin da ragazzo, sin dal suo approdo a Torino – ha svolto un ruolo preminente nella organizzazione del movimento operaio; la figura che maggiormente ha avuto influenza per la nascita del Pcd’I, dopo aver avuto incarichi nella lotta di fabbrica nel biennio rosso, segnando una rottura dentro la storia del riformismo italiano e marcando un sovrappiù di classe nei confronti di una borghesia la cui debolezza storica e propensione reazionaria sarebbero stati argomenti di storia critica dei decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale.

D. Si è soliti, sempre più spesso, distinguere il Gramsci dei Quaderni dal Gramsci guida della lotta politica nel periodo precedente. Esiste questa dualità?

R. No, non c’è soluzione di continuità e contraddizione tra il Gramsci dei Quaderni e il Gramsci che costruisce, nella lotta di fabbrica a Torino, l’avanguardia politica comunista. È questa una semplificazione funzionale a rappresentare – in un’ottica di critica alla prospettiva rivoluzionaria - i Quaderni come interni al tatticismo istituzionale; si tratta di una lettura frutto dell’esigenza di presentare Gramsci come l’ideologo della deriva moderata degli ultimi anni del partito comunista e delle sue deformazioni.
Non vi è alcuno iato tra il Gramsci giovane scapigliato, rivoluzionario ed estremista e un Gramsci maturo che, per questo, ha dimesso i panni del rivoluzionario approdando ad un’ottica riformista.
Vi sono, nei Quaderni, elementi di ordine strutturale che hanno favorito questo genere di interpretazioni: i Quaderni sono una massa notevolissima di testi tra loro solo in apparenza disomogenei. Viceversa, infatti, la frammentazione non attiene al contenuto. Vi è una estrema organicità e coerenza del lascito gramsciano ma quella configurazione esteriore, frammentata, molteplice, in apparenza disorganica, ha favorito una lettura errata di Gramsci da parte di chi lo ha interpretato ricostruendolo a propria immagine e somiglianza.
Noi critichiamo questa lettura, priva di fondamento. Nei Quaderni vi è, se mai, una maggiore originalità nell’analisi soprattutto per il grande tema della prospettiva gramsciana: quello della complessità. Non si tratta di una ridefinizione degli obiettivi strategici della lotta di classe e del superamento della società capitalistica ma di una maggiore attenzione alla grande complessità della società borghese moderna, all’interno della quale la lotta di classe si deve dotare della capacità di conquistarne le diverse articolazioni e anche i suoi immaginari, sul terreno della cultura e dell’ideologia.

D. La complessità, dunque. Ma quali sono le categorie gramsciane che rimangono a tuo avviso oggi più in grado di interpretare la realtà?

R. La categoria più abusata e più nota e che tuttavia riserva ancora - se si leggono i Quaderni in modo avvertito – originalità e sorprese è quella di egemonia. Diversamente da quanto è stato suggerito da parte di lettori superficiali o semplicemente portatori di un’ottica tradizionale - laddove viceversa Gramsci è capace di innovare e scoprire sottotraccia elementi di trasformazione – l’egemonia non concerne soltanto l’ambito delle sovrastrutture, delle istituzioni culturali o il terreno della costruzione e diffusione delle ideologie, della cultura, dei saperi e dei discorsi. Non è soltanto una dinamica relazionale che chiama in causa gli intellettuali in senso proprio; è, al contrario, categoria di una forma del potere che Gramsci definisce “direzione”, per distinguerla dalla forma violenta della subordinazione, che lui riconosce inerente a tutti gli snodi della relazione sociale. In cosa sta l’innovazione, l’originalità? Gramsci capisce che ormai la società contemporanea nella quale si è sviluppata la produzione industriale e quindi il lavoro vivo si organizza secondo lo sviluppo della tecnologia e per mezzo dell’avvento di nuove forme di produzione e di divisione del lavoro; la società contemporanea fornisce ormai al momento della conoscenza e della diffusione dei saperi un ruolo che nelle società precedenti era assente. Gramsci è colui il quale per primo segnala un salto di qualità, una rottura del paradigma pre-moderno, si direbbe oggi, e la assunzione di un ruolo cruciale nella produzione della soggettività da parte dell’elemento intellettuale. È per questo che a sua volta l’idea di intellettuale viene trasfigurata: non più l’intellettuale tradizionale con una collocazione medio-alta nella gerarchia sociale, in corrispondenza delle professioni intellettuali, bensì l’intellettuale come singolo soggetto messo al lavoro dalla società capitalistica. Ormai il lavoro si lega, di fatto o potenzialmente, ad una competenza, alla capacità di elaborare elementi di teoria e di consapevolezza che in precedenza il lavoro non coinvolgeva necessariamente.

D. Quali indicazioni politiche contiene questa riflessione?

R. Indicazioni preziose, perché il riconoscere che i saperi, che sono a loro volta diffusi, sono uno strumento di costruzione delle soggettività dà una formidabile indicazione di lavoro politico; è un’intuizione che conduce all’idea che la diffusione della consapevolezza non trova ostacolo, come accadeva in passato, nel fatto che i nostri interlocutori sono tendenzialmente privi della capacità di recepire consapevolezza. Per Gramsci in questa società anche il soggetto operaio e proletario, anche il lavoro vivo, è prodotto in forme di soggetto consapevole e portatore di una coscienza critica.
I Quaderni sono la chiave per leggere il Manifesto di Marx nel modo più originale e più produttivo ed attuale: nella misura in cui il Manifesto ancora distingue tra proletari e comunisti e cioè concepisce come due momenti distinti il momento della collocazione del soggetto nella dinamica produttiva e il momento dell’acquisizione della consapevolezza di sé e dell’acquisizione di una coscienza antagonista, Gramsci dice che in un certo senso ci pensa lo sviluppo stesso delle forze produttive a unire i due momenti: il soggetto messo al lavoro è, in quanto tale, portatore in senso proprio di criticità e dunque in grado di configgere con il capitale, allo scopo di invertire segno dei rapporti di forza. Certo è che, in mezzo, c’è sempre e ancora il momento dell’organizzazione della soggettività del partito…

D. C’è quindi, seppure in presenza di una presa di coscienza conseguente alla collocazione del proletariato nella dinamica sociale, ancora bisogno dell’organizzazione politica, del partito. Quanto Gramsci c’è, allora, nell’esperienza storica del partito comunista italiano del dopoguerra?

R. Molto. Premesso che le forme della soggettività politica sono sempre mutevoli, e che quindi anche il partito nuovo di Togliatti è diverso da quello che Gramsci immagina, possiamo dire che il Moderno Principe si costruisce dentro la società come partito di massa e non come avanguardia militare. In questo già allude alla concezione togliattiana del partito nuovo, intesa come costruzione capace di aderire alle articolazioni della società e quindi di interloquire con i soggetti alleati o potenzialmente alleati della classe operaia nella lotta rivoluzionaria. Gramsci è, anche al di là di questo, fonte fondamentale nell’elaborazione teorica e nella pratica politica del Pci per quello che connota una capacità che il partito ha rispetto ad altre formazioni politiche nell’ambito del movimento comunista internazionale.
Quale? La capacità “espansiva”, direbbe Gramsci. La capacità di costruire alleanze, di egemonizzare anche altri ambiti e componenti della totalità sociale. Il partito comunista italiano non fu un partito operaio in senso angusto. Fu un partito con vigorose radici di classe ma che nel corso dei decenni della storia repubblicana fu in grado di costruire relazioni, alleanze che aggregarono nell’orbita di una lotta progressiva per la difesa del lavoro e per i diritti delle masse, tutte le componenti del mondo del lavoro (i contadini, gli impiegati, i tecnici, ovviamente anche gli studenti e gli intellettuali) e anche i ceti medi. Il Pci fu l’aggregazione di massa di quei soggetti che condividevano le istanze della partecipazione democratica. Il germe di questa intuizione è il Gramsci dei Quaderni, ed è un germe che noi riteniamo pienamente attuale.

D. Certo è che, rispetto alla situazione in cui si trovava a riflettere Gramsci, sono cambiate le forme del lavoro, l’organizzazione della produzione e anche la struttura di classe della società…

R. Questo è vero. Tuttavia le intuizioni di fondo, la necessità di disporre di una forte organizzazione in grado di condurre la lotta politica anche sul terreno ideale ed ideologico e l’eisgenza che questa forte organizzazione – il partito comunista – sia in grado di costruire alleanze ed intese e sia in grado di guidare i soggetti nella trasformazione complessiva della società, rimane completamente attuale. Rimane l’attualità di un Gramsci che non consideriamo obsoleto né convertito – come qualcuno, non per caso, vorrebbe - alle ragioni di un esangue riformismo.

Che cos'è Gramsci per noi trentenni

di Eleonora Forenza

(tratto da Liberazione, 27 aprile 2007)

La «comprensione critica di se stessi»: una tensione che Gramsci ci consegna e che diventa strumento potente per interrogare e indagare, oggi, la crisi della politica, ossia la politica come dimensione separata, che si alimenta della rimozione delle vite - delle nostre vite, di quelle di Pietro, Paolo, Giovanni. Reimmaginare una connessione tra politica e liberazione - intesa non solo come progetto ma come processo - significa, cioè, ripensare oggi un soggetto politico della trasformazione che ci "comprenda", ossia che sia indissolubilmente connesso con i processi singolari di soggettivazione (col nodo politico della soggettività).
Il problema della costruzione del soggetto politico rinvia, cioè, alla possibilità di pensare processi di individuazione come liberazione (uscita) dalla dimensione totalitaria del neocapitalismo, dalla colonizzazione molecolare e pervasiva che mette in atto sulle nostre vite.
E allora il problema gramsciano della costruzione della soggettività - ossia «come nasce il movimento storico sulla base della struttura» - assume, nella postmodernità - «quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il "corpo" e comincia ad essere la mente» (Finelli) - una più radicale complessità.
Non credo sia un caso che, tra i primi e più lucidi lettori della connessione tra il problema del soggetto politico e quella che Dario Ragazzini definisce «una teoria della personalità in Gramsci» («l'individuale non è il residuale di un'analisi sociale») vi sia quel Giacomo Debenedetti, che, come Gramsci, aveva assunto il problema gobettiano dell' «autoeducazione» ("l'autobiografia come problema"). A cardine del «metodo umano di Antonio Gramsci», Debenedetti pone il «molecolare» nella sua costante relazione con il «tutto complesso», ossia la costruzione della sintesi-uomo «come coscienza continuamente presente, a cui non è concessa alcuna dispensa, anzi è tenuta a non prescindere da nulla di ciò che costituisce l'uomo» (che deve tenere presenti tutte le «sensazioni molecolari») e come «senso di responsabilità verso tutti i componenti psichici affettivi, morali dell'uomo».
E se molecolari sono i processi di trasformazione del carattere (e qui forse, la metafora "materialistica" allude, in Gramsci, al nesso corpo-mente, all'immanenza dei processi di soggettivazione), molecolari sono anche i processi sociali che, come ha scritto ancora Ragazzini, «possono collocarsi sia dentro una rivoluzione passiva che in una "anti-passiva" (per usare l'espressione di Christine Buci Glucksmann)».
Molecolare, è dunque, quella «lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica», attraverso cui si giunge, appunto «alla comprensione critica di se stessi», all'«elaborazione di una superiore concezione del reale»:
«L'uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica».
E' all'altezza di questo nodo che Gramsci elabora, e, anche qui, ci consegna, in relazione alla questione del soggetto politico, il problema della costruzione di "un nuovo senso comune" e una radicale interrogazione della funzione intellettuale.
Il problema della costruzione di un nuovo senso comune attraversa i Quaderni in strettissima connessione col nesso filosofia/formazione delle volontà collettive permanenti, nesso che appare centrale proprio nella formulazione gramsciana della filosofia della prassi: solo divenendo nuovo senso comune, infatti, ossia «una cultura di massa e che opera unitariamente», la filosofia della prassi sembra poter produrre «una morale conforme, una volontà attualizzatrice». La costruzione del nuovo senso comune, si presenta, si potrebbe dire, come il terreno di saldatura tra la riforma intellettuale e la riforma morale sulla base della ridefinizione della filosofia come religione, in senso crociano: ossia come concezione del mondo che produce un'etica conforme. Una verità filosofica, cioè, storicamente, si afferma (diviene vera) nel momento in cui produce una norma di condotta, una volontà attiva di massa, prassi trasformatrice, storia. La teoria dell'efficacia storica delle ideologie, sembra, cioè, avere in Gramsci, il valore di una correzione antideterministica proprio in connessione all'elemento della volontà collettiva. Per dirla brutalmente: nonostante l'importanza data alla conoscenza tecnica nella formazione di un nuovo senso comune (a quelle che si potrebbero chiamare le facoltà umane del produttore, lo sviluppo del general intellect), Gramsci connette sempre la soggettività alla formazione della volontà collettiva.
Di qui, la costante attenzione gramsciana per quei lavorii, per quei processi minutissimi, capillari, appunto "molecolari" (già allora accelerati dalla progressiva standardizazzione industriale e massmediatica) che determinano la nascita di una volontà collettiva omogenea e la disgregazione, attraverso la critica, delle vecchie concezioni del mondo e delle vecchie volontà collettive.
E, per dirla con Badaloni, nella riflessione gramsciana, la riforma intellettuale e morale non è un'aggiunta alle forze produttive, ma è espressa da esse: la radice del processo egemonico è, cioè, «una comprensione critica di se stessi», del proprio ruolo nel processo produttivo e storico da parte dei produttori. La funzione dell'intellettuale organico, sembra essere, dunque, fondamentalmente, la ricomposizione di quella coscienza contraddittoria «adeguando la teoria alla prassi trasformatrice»: «fornire la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica».
Ora, la potenza (e l'utilità), potremmo dire, la traducibilità della domanda gramsciana (come nasce il movimento storico) è indisgiungibile dalla storicità della sua riflessione (collocata all'alba del fordismo), e cioè dalla nostra capacità di riarticolare quella domanda sulla base dei mutamenti strutturali intervenuti nel postfordismo. E, in particolare, dalla necessità di nominare la centralità dell'elemento cognitivo nei nuovi processi di accumulazione: è proprio dalla sussunzione della vita e della mente nel processo produttivo che ha origine una vera e propria mutazione antropologica, una dilatazione dei processi produttivi all'intera esistenza.
Ma come possiamo reimmaginare, oggi, allora, i nuovi termini di una rivoluzione antipassiva, in grado, cioè, di contrastare quello straordinario processo di passivizzazione che è la globalizzazione neoliberista? Come si possono, cioè riconfigurare i processi di formazione della volontà collettiva, del nuovo senso comune all'altezza del postfordismo, e cioè, per dirla con Illuminati, «in presenza di un altro tipo di traducibilità fra ideologia e senso comune, fra lavoro e politica a causa dell'immediata produttività di relazioni e attitudini fondate su una diretta esperienza dell'astratto, della inseparabilità, nella fase postfordista di prestazione corporee e mentali, del tempo di vita e del tempo di lavoro»? Come possiamo, cioè, ripensare a una nuova funzione intellettuale di mediazione - ricomposizione - se è proprio la facoltà di pensare ad essere messa a valore, ad essere sussunta e integrata nella fabbrica postfordista?
Qualche tempo fa forse anche il New York Times si poneva sul terreno dell'efficacia storica delle ideologie, nominando il movimento dei movimenti come seconda potenza mondiale. "Un altro mondo è possibile" si costituiva come antidoto materialissimo al pensiero unico divenuto senso comune, all'idea che la storia fosse finita e con essa la possibilità della trasformazione. La costruzione di quel movimento, della sua lotta per l'egemonia, è passata (passa) attraverso la contaminazione fra soggetti e culture critiche, attraverso l'esposizione all'altro come elemento ineludibile per la «comprensione critica di noi stessi»: articolando, cioè, il problema dell'individuazione non nell'ottica della unificazione, ma della soggettivazione molteplice delle differenze. Il problema politico della (auto)rappresentazione si è articolato cioè attraverso una molteplicità di autonarrazioni: una nuova mitopoiesi, si è detto, come luogo di rifondazione e ricomposizione della soggettività (fuori dal lavoro) capace di rappresentare l'irriducibilità delle contraddizioni, di riproporre il problema dell'autodeterminazione. Ma è dalla capacità di nominare il potere del capitale di disporre sul terreno bioeconomico delle nostre facoltà umane e cognitive, e, sul terreno biopolitico, di governare i corpi e le vite, di mettere a valore l'esistenza stessa, che può nascere una volontà politica di riappropriazione delle nostre facoltà, del carattere immediatamente produttivo delle nostre vite e delle nostre esistenze: di agire la contraddizione vita/capitale. Di ricomporre soggettività.

Vi racconto mio padre, Antonio Gramsci

La pubblicazione arriva a 70 anni dalla morte dell'ideologo comunista

In un libro le lettere del figlio del fondatore del Pci. «Sotto Stalin sarebbe finito in un Gulag, peccato che l'Italia l'abbia dimenticato»

Di Antonio Gramsci è stato scritto molto e l'interesse per la sua vita e le sue opere si è particolarmente intensificato negli ultimi mesi, mentre si stava avvicinando il settantesimo anniversario della morte, avvenuta il 27 aprile del '37. Ma la maggior parte degli scritti si è concentrata sulla figura dell'intellettuale e del politico, anche per stabilire l'attualità e validità del suo pensiero e del suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ciò che mancava in questa fluviale produzione letteraria era l'uomo Gramsci, l'umanità di questo piccolo grande sardo, fondatore del Pci, emersa solo timidamente nelle Lettere dal carcere e quasi schiacciata sotto il peso del controverso personaggio pubblico, che aveva tutto sacrificato al suo impegno di leader comunista, militante usque ad mortem.

Ora, col libro di Anna Maria Sgarbi «Giuliano Gramsci, lettere a mio padre», che uscirà in autunno per le edizioni Laterza, questa lacuna è stata colmata. Per oltre tre anni, a cominciare dal settembre del 2003, l'autrice ha frequentato assiduamente a Mosca, dove vive, il figlio superstite di Antonio — Giuliano, appunto —, che ha ora 81 anni e che, avendo preferito la musica alla politica fin dall'infanzia, è professore di flauto e clarino presso il Conservatorio della capitale. «Ho trascorso con lui intere giornate a passeggiare molto lentamente — scrive Anna Maria nella prefazione —, sia per l'instabilità della sua camminata che per il dialogo tanto affascinante quanto esclusivo». Il progetto di un libro in cui Giuliano rievoca, con rimpianto, nostalgia e non di rado angoscia, la figura paterna, nasce proprio al termine di queste lunghe passeggiate per le strade di Mosca quando la signora Sgarbi (di professione avvocato internazionale) gli propose di scrivere a quatto mani delle lettere al padre, un papà che non aveva «mai visto» e che morì in prigione in Italia, quando lui non aveva ancora undici anni.

Le lettere sono venti. Caro papà — scrive nelle prima — «sono invecchiato, ho ottant'anni... Tu sei sempre quello, giovane, intelligente, acuto e anche bello... Non ti ho mai toccato con le mani, ma ti ho sempre accarezzato sulla carta e ti ho anche abbracciato nei sogni» (ed ecco riemergere, in un flash-back, la Russia degli anni Trenta quando in casa Gramsci, a Mosca, ci sono «preoccupazioni per il pane quotidiano» mentre per le strade corre «l'eco delle purghe di massa e della lotta contro i trotzkisti e altri "nemici del popolo"»).

Qualche anno dopo il quotidiano Pravdaavrebbe annunciato che l'agente dell'imperialismo mondiale, Trotzkij, e nemico acerrimo del potere sovietico era stato assassinato in Messico. Era il 20 agosto 1940. La notizia, annota Giuliano nel suo diario, «ha fatto felice Baffone». Cioè Stalin, suppongo. Avesse ricevuto in carcere una lettera mai spedita, Antonio Gramsci avrebbe aggiunto una nuova sofferenza alle tante che già l'affliggevano apprendendo che l'infanzia, la fanciullezza e anche l'adolescenza di Giuliano e del fratello maggiore Delio erano trascorse «senza libertà, con la paura di tutto». Una delle poche evasioni era andare al cinema dove proiettavano film come La Corazzata Potëmkin che piacevano a Stalin e anche «ai ragazzi della mia età». E nella stessa lettera Giuliano informava con orgoglio il padre di aver ricevuto al termine della prima elementare «un libro molto bello intitolato "Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice"».

Dopo la morte di Stalin, apprendiamo, a casa Gramsci approdavano spesso gli amici comunisti italiani come Pietro Secchia, Scocimarro, Mario Montagnana (cognato di Togliatti) ed altri: tutti curiosi di sapere come fosse realmente la vita nell'Unione Sovietica. Anche per metterla a confronto con quella descritta da Giuseppe Boffa, primo corrispondente dell'Unità da Mosca, o da Maurizio Ferrara. Ma certo non era quella, avverte Giuliano, «romantica e dolce, equilibrata e serena» proposta in un libro di certo Paolo Robotti, che definiva Mosca «grande, austera, infallibile» .

In una delle lettere, c'è un ricordo affettuoso di Palmiro Togliatti e di una sua visita a Mosca, quando salutò «molto dolcemente» i due fratellini, «accarezzandoci il volto e i capelli». Il leader del Pci li avrebbe poi accompagnati sulla collina dei passeri, perché vedessero la capitale «tutta intera, illuminata e festosa». Ma al ritorno tra le pareti domestiche, la mamma sconvolta e in lacrime diede ai ragazzi la terribile notizia: «papà è morto». «Ebbi un colpo alla testa come di un badile che ti stacca il cranio — scrive Giuliano —. Non ti avrei mai visto. A undici anni ti aspettavo, da anni ti aspettavo. Avrei sentito il tuo odore, l'odore del mio papà...». Mussolini che nella sua rozzezza, lo aveva definito «quel sardo gobbo», riconosceva però al professore di economia e filosofia Antonio Gramsci «un cervello indubbiamente potente» e in un passaggio ampolloso ma indubbiamente ispirato da devozione filiale, Giuliano scrive che «per fare un bel ritratto di te bisognerebbe ricorrere alla penna di un Leopardi e di un Manzoni messe insieme. E aggiunge: «Non si cancelleranno mai le pagine dei libri che ti descrivono, non sbiadiranno mai le parole delle tue lettere e dei tuoi pensieri, non sbiancheranno mai le tue fotografie».

Fosse sopravvissuto alle atrocità del carcere e avesse poi trovato rifugio nella Russia sovietica, è l'accorata considerazione che fa ora Giuliano, Antonio Gramsci non avrebbe avuto vita facile sotto il regime di Stalin e quasi certamente sarebbe morto di stenti in qualche Gulag della Siberia o delle Isole Solovskij, insieme a migliaia di altri sventurati risucchiati nel vortice delle grandi purghe. «Per fortuna — confida Giuliano ad Anna Maria Sgarbi durante una delle tante passeggiate — nessuno di noi è finito nel Gulag».
Lui, all'Istituto musicale, aveva cominciato a studiare Johann Sebastian Bach e, avendo appreso che in tedesco Bach vuoi dire ruscello, era giunto alla conclusione che «Bach è la vera Germania», non quella nazista, cupa e minacciosa, che si stava espandendo sotto i suoi occhi di quindicenne. Anche il fratello Delio, che morì nell'82 senza aver conseguito il grado di ammiraglio cui teneva «più di ogni altra cosa al mondo», scampò alle purghe staliniane, grazie anche all'interessamento di Togliatti. Un trapasso sereno, il suo. «Se ne è andato senza lasciare segni di debolezza — racconta Giuliano in una lettera al padre —, poco prima di chiudere gli occhi per sempre ha voluto mettere i tuoi occhiali, perché diceva sempre che i tuoi occhiali erano quelli che avevano portato tutti gli intellettuali. Anche Cechov portava gli occhiali come i tuoi, quelli senza telaio, con le lenti strette sul naso».
Nel commiato di Giuliano Gramsci a quelli che saranno i suoi lettori c'è una nota amara: «studiato in tutto il mondo — scrive nel messaggio finale al padre —, tu sei stato quasi dimenticato in Italia», dove, «con la sola eccezione dei gramscisti dell'International Gramsci Society, appari per lo più consegnato al museo dell'antichità... Ricordo il dibattito che ci fu in Italia nel 1987, a cinquant'anni dalla tua scomparsa. Ma allora c'era ancora il Pci, il partito che avevi fondato. Forse oggi anche la sinistra italiana non ama più il pensiero, forse anch'essa è salita sul carro della cultura intesa come esibizione e spettacolo».

Nel cimitero degli inglesi, a Roma, accanto alla sua modestissima tomba (che in una visita di tanti anni fa ricordo assediata da erbacce), riposano i grandi poeti romantici Percy B. Shelley e John Keats, «il cui nome — recita un celebre verso di quest'ultimo — è scritto sull'acqua»: quello di Antonio Gramsci — assicura Giuliano, che a suo modo lo scandisce ogni giorno baloccandosi tra i suoi prediletti Bach e Vivaldi — è inciso in rosso nella coscienza di generazioni di uomini ed è impossibile dimenticarlo.


Ettore Mo
Corriere.it, 27 aprile 2007

26.4.07

Gramsci, ceneri vietate

di Davide Carlucci

(tratto da la Repubblica, 25 aprile 2007)

Ecco le carte dell'Ovra che documentano l'ultima persecuzione del regime

Non il primo maggio. La cremazione di Antonio Gramsci, il nemico pubblico numero uno del regime, non poteva avvenire in quel giorno. La coincidenza con la festa dei lavoratori soppressa da Mussolini avrebbe potuto avere, forse, un valore simbolico esplosivo anche nell´Italia addomesticata di quegli anni. E per impedirlo la polizia fascista arrivò a "sabotare" il forno crematorio del cimitero, in modo che l´incinerazione fosse posticipata di quattro giorni. A rivelarlo sono alcuni documenti ritrovati negli archivi della Direzione centrale polizia prevenzione (il vecchio Ucigos), trasmessi dall´Ufficio affari riservati che a sua volta li ereditò dall´Ovra, la polizia segreta fascista. Li ha ripescati lo storico Aldo Giannuli, per anni collaboratore della commissione stragi e consulente del giudice milanese Guido Salvini nell´inchiesta sulla strage di Brescia. Ed è stato proprio nel corso di questa consulenza che, tra i faldoni dei servizi segreti italiani, è spuntato il fascicolo sul detenuto "Gramsci Antonio di Francesco". L´incartamento mostra come l´agonia e la morte - avvenuta alle 4 del mattino del 27 aprile di settant´anni fa - del fondatore del partito comunista italiano siano state, per il regime, un caso delicato da gestire con la massima cura per evitare anche il più piccolo incidente.
È il 1937, gli echi del biennio rosso sono ormai lontani, di attentati alla vita del Duce non si parla più da almeno cinque anni, gli antifascisti sono quasi tutti al confino o esuli. Sono ancora considerati, però, nemici potenzialmente pericolosi: due di loro, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, saranno uccisi un mese dopo in Francia. L´Opera di vigilanza e di repressione dell´antifascismo non si sentiva così al sicuro, a quei tempi. E quando muore Gramsci, impartisce precise disposizioni per evitare che i funerali e la cremazione del più importante oppositore al fascismo si trasformino in un evento destabilizzante.
Così, una "notizia fiduciaria" datata primo maggio 1937 informa che «l´Autorità di P.S. che fece piantonare le adiacenze della Clinica Quisisana in via Gian Giacomo Porro (...) sa bene che la salma fu portata al forno crematorio al Verano, da dove è stata tolta perché l´Autorità stessa ha voluto evitare l´eventuale cremazione nella giornata del I° maggio». Si accenna a un problema di autorizzazioni all´incinerazione da parte dei fratelli di Gramsci (tre di loro sono all´estero). Un´altra nota, però, mostra come il giorno prima, in realtà, la manomissione del forno sia già avvenuta: «Per notizia - scrive un agente alla Squadra politica della Questura di Roma - si comunica che questa mattina, alle ore 8,30, il Marsico, comandante la stazione agenti del Verano, d´accordo con la direzione, ha provveduto a far smontare l´apparecchio crematorio, rendendolo così provvisoriamente inservibile, in modo che la cremazione della salma dell´ex deputato comunista non abbia luogo domani, I° maggio, rimandandola ad altro giorno, sempre, però, previo relativo avviso a questa Regia Questura». Un inganno confezionato per il fratello di Antonio Gramsci, Carlo: «Informato che l´apparecchio crematorio era guasto e che per ripararlo occorre un congruo periodo di tempo, è partito in aereo vuoto in Sardegna». Per Giannuli non c´è altra spiegazione: «Il Regime voleva evitare la sovrapposizione con una ricorrenza ancora molto sentita dai lavoratori». La cremazione avverrà quattro giorni dopo, il 5 maggio. Solo allora la polizia fascista può tirare un sospiro di sollievo considerando scongiurato il rischio di una sia pur minima manifestazione di dissenso.
Già la malattia di Gramsci era stata una grana: mal volentieri, nel corso dei vari ricoveri, i medici si assumevano la responsabilità di ospitare un paziente così "scomodo". Il direttore sanitario del Policlinico di Roma fa sapere, il 13 dicembre del 1936, che «in via eccezionale acconsente a che sia ivi ricoverato, a pagamento, il noto Gramsci Antonio, purché vigilato con agenti in abito borghese». La retta richiesta è, per l´epoca, onerosa: milleottocento lire al mese, esclusa l´assistenza medica e i medicinali. La polizia teme l´evasione: «La camera, che è situata nel corridoio del II° piano - annota l´ufficio politico della questura - ha una sola porta di accesso, ed una finestra, grande, che dà su via Virgilio. Da questo lato la clinica è recintata da uno stretto cortile con cancellata. La vigilanza potrebbe eseguirsi a mezzo di due agenti posti nel corridoio da cui si accede alla camera e dove vi sono dei tavoli e delle poltrone in vimini, mentre un altro agente potrebbe trattenersi sulla via Virgilio per vigilare il lato dove dà la finestra».
Dalla corrispondenza tra polizia e sanitari si evince che la morte di Gramsci è avvenuta per cause naturali. «Appare infondato - commenta Giannuli, che presto dedicherà al caso un saggio sulla rivista "Libertaria" - l´ipotesi di un avvelenamento. Una tesi che invece Bettino Craxi era interessato a dimostrare». Nel 1989 l´ex Presidente del consiglio aveva chiesto di vedere il fascicolo «per motivi imprecisati», come scrive la direzione centrale della polizia di prevenzione. Secondo Giannuli, il leader del Psi era interessato ad accreditare la storia dell´assassinio di Gramsci da parte di emissari di Mosca che, se riscontrata, avrebbe trasferito il fondatore del Pci nel Pantheon socialista-riformista.
Ma indizi di spy story nelle carte non ce ne sono. La polizia fascista si limita a descrivere Gramsci come un "confidente dell´Ambasciata russa". Gli agenti ne sbagliano spesso il cognome - a volte lo chiamano "Gramisch" - oppure lo indicano come "anarchico". Ma, soprattutto, temono per i possibili echi della sua morte. In un libro pubblicato negli anni Settanta dagli Editori riuniti - Gramsci in carcere e il Partito - Paolo Spriano riporta i ricordi della cognata Tatiana sull´imponente presenza, in quei giorni, di funzionari del ministero dell´Interno e riferisce di un fonogramma del questore di Roma nel quale si richiamano misure per "evitare manifestazioni sovversive".
Le informative contenute nel fascicolo documentano un´attenzione maniacale: «Nella decorsa notte nella clinica Quisisana è deceduto il noto anarchico Gramsci. Ufficio P.S. Flaminio e Ufficio Politico intensificheranno vigilanza interno ed esterno clinica predetta e mi faranno conoscere in tempo debito giorno, ora e modalità funerali». I dettagli arriveranno il giorno dopo. «I dirigenti i commissariati di Flaminio e di San Lorenzo provvederanno nei limiti delle proprie giurisdizioni a riservatissimi servizi di vigilanza e d´ordine». Precise prescrizioni vanno seguite per evitare il "funerale politico": «Il carro dovrà procedere al trotto e non dovrà essere consentita alcuna manifestazione comunque contraria al sentimento della Nazione. Particolare attenzione dovrà essere portata sulle scritte e sui colori dei nastri delle corone e adottare tutte le misure necessarie per prevenire e impedire qualsiasi incidente». Bisognerà inoltre «prendere stretto conto delle persone che eventualmente si recassero alla clinica o dovessero partecipare ai funerali». E mantenere «conveniente vigilanza anche sul loculo». Una preoccupazione che sembra eccessiva, vista la solitudine in cui muore il padre degli intellettuali di sinistra italiani. «Il Cavaliere Amatucci ha telefonato alle ore 19 ed ha detto che: non sono state inviate partecipazioni; la notizia però è stata comunicata a dei parenti fuori Roma; non sa se vi parteciperanno altre persone». Al funerale partecipano il fratello Carlo e la cognata. A funerali svolti, però, un funzionario di polizia fa notare che è stato «notato un mazzo di garofani rossi». Unica concessione a una morte che nell´apice dell´era imperiale fascista poteva sembrare innocua nella sua mestizia. E che invece andava a tutti i costi censurata.

22.4.07

Apartheid coloniale in lingua fascista

di Gianluca Gabrielli

il manifesto, 20/04/2007

Il 19 aprile 1937 segna una data importante per la storia del razzismo fascista. In quel giorno infatti fu varato il Regio Decreto n. 880, quella che possiamo definire la prima legge dichiaratamente razzista del regime. Composta da un unico articolo, essa puniva con la reclusione da uno a cinque anni di carcere il bianco sorpreso in «relazione di indole coniugale» con una donna africana. Nei documenti d'accompagnamento e nella pubblicistica che accompagnò questa svolta della politica indigena si legge che la norma intendeva colpire chi si fosse macchiato del delitto biologico di «inquinare la razza» facendo nascere i cosiddetti «meticci» e del delitto morale di «elevare» l'indigena al proprio livello perdendo quindi il prestigio che gli derivava dall'appartenenza alla «razza superiore». Per capire a pieno la portata di questa svolta è però necessario andare indietro di qualche anno.
Nelle colonie che il fascismo ereditò dal periodo liberale, il razzismo era già uno degli strumenti simbolici funzionanti per la gestione del dominio della comunità bianca e per assicurare il riconoscimento di quello che veniva definito «superiore prestigio degli italiani». Si trattava di un razzismo sociale, diffuso, implicito nelle pratiche d'amministrazione della colonia. Nella società coloniale, infatti, erano operanti una serie di dispositivi - i quartieri divisi etnicamente, le scuole per la popolazione indigena separate da quelle per gli italiani e limitate ai livelli più bassi di istruzione, l'autorità limitata dei poliziotti africani verso i bianchi - che ribadivano una «linea del colore» imposta da quarant'anni di occupazione e ormai percepita come naturale dalle stesse popolazioni indigene. In questo contesto si era diffusa la pratica - insieme razzista e sessista - del «madamato»: la consuetudine dei bianchi di affittare ragazze indigene per il periodo di permanenza in colonia come serve domestiche e sessuali. I figli generati da queste unioni, definiti «meticci» e considerati incroci razziali, erano in maggioranza abbandonati alla madre indigena al momento del ritorno del padre bianco in Italia. Solo per una piccola minoranza di essi, riconosciuta dai padri o educata dai missionari alla cultura italiana, rimanevano aperte limitate finestre di concessione della cittadinanza italiana, a tutela di quella parte di «sangue bianco» che in questi casi aveva potuto mettere radici.
Identità di regime
Con l'approssimarsi della guerra di conquista dell'Etiopia questa tipologia di razzismo divenne inadeguata ai propositi del regime. Essa infatti garantiva la gerarchia tra le due comunità ma permetteva anche una contiguità e una serie di contatti tra dominatori e dominati tali da rappresentare un problema nella nuova ottica di presenza massiccia di italiani al seguito della guerra e dei progetti di popolamento. Così Mussolini e i gerarchi, parallelamente alla preparazione dell'invasione dell'Etiopia, misero a punto una politica razzista diversa, rigidamemente separatista oltre che gerarchizzante. Inoltre tale politica fu progressivamente adottata come fattore identitario del regime e venne propagandata con forza quale tratto caratteristico della colonizzazione fascista che quindi si autocelebrava come avanguardia dell'affermazione della «civiltà bianca» in Africa. I primi segnali di questo mutamento di indirizzo risalgono al 1934, quando il sequestro del romanzo Sambadù, un amore negro che narrava un amore interrazziale fu anche l'occasione per l'istituzione della censura preventiva. Da quel momento i passi si succedettero rapidi: nel 1935 Mussolini chiese d'urgenza un piano d'azione per evitare che, per effetto della colonizzazione, si potesse formare una «generazione di mulatti in Africa Orientale». Quindi, subito dopo la presa di Addis Abeba, furono emesse le nuove Direttive per assicurare una «netta separazione tra le due razze bianca e nera». Diventavano così operanti le disposizioni per la divisione delle abitazioni e dei locali pubblici, capisaldi di un apartheid fascista che, nonostante le difficoltà logistiche ed economiche, si sarebbe venuto progressivamente delineando nei cinque anni di dominazione imperiale. Nello stesso testo era affrontato anche l'altro grande nucleo della nuova politica fascista della razza, quello ostile agli incroci, con gli «ordini del Duce» contro il madamato: obbligo per gli ammogliati di portare la famiglia in colonia, provvedimenti di polizia contro i nazionali che convivessero con donne indigene e allestimento di case di tolleranza riservate agli italiani con donne di razza bianca.
Fu nel 1937, in occasione del varo del decreto contro le unioni miste, che questa politica razziale, fino ad allora cresciuta tramite direttive riservate e ordinanze, acquisì forza di legge e divenne propaganda di regime.
La virilità bianca
La repressione del madamato attraverso la legge del 1937 ebbe la massima applicazione nel 1938, proprio in corrispondenza con l'emanazione della normativa antisemita. Un'ondata di denunce e arresti colpì le relazioni che erano continuate in segreto. Si giunse all'estremo: anche la prostituzione, generalmente considerata lecita come canale di sfogo fisiologico della «naturale virilità dell'uomo bianco fascista», diveniva punibile se accompagnata da gesti d'umanità o tenerezza, come procurare medicine, fare doni, mangiare allo stesso tavolo.Negli anni successivi, mentre continuava la riorganizzazione degli spazi sociali secondo il principio della segregazione, altre due leggi concorsero a completare l'architettura legislativa del razzismo coloniale di stato. La legge 1004 riprese le precedenti disposizioni che, insieme ad altri inediti reati, furono sussunte sotto il nuovo e ambiguo concetto giuridico di «prestigio di razza». Nel 1940 la legge 820 decretò il destino dei cosiddetti meticci: furono associati alla comunità indigena. La loro demonizzazione come «dolorosa piaga, sorgente di infelici e di spostati, cause di irrequietudini e di debolezze», «ramo anormale della famiglia umana» era cresciuta riprendendo stereotipi maturati anche nel corso della campagna antiebraica. Con la condanna del «sangue africano» presente nel meticco e fonte di un possibile processo di degenerazione si concludeva l'evoluzione del razzismo fascista in colonia. Dì lì a poco, la perdita delle colonie nel corso del conflitto mondiale pose fine a questa pagina tra le più rimosse e più turpi della storia nazionale.

Italia razzista e non per accidente

di Alberto Burgio

il manifesto, 20/04/2007

Le persecuzioni razziali poste a fondamento dell'organizzazione gerarchica della società. La «razza superiore» sperimentata in colonia

Da dove nacque la legislazione antisemita per mezzo della quale, a partire dal 5 settembre 1938, lo Stato italiano incardinò nel proprio ordinamento misure normative tese alla sistematica discriminazione e persecuzione dei cittadini di «razza» e religione ebraica? Questa è una domanda cruciale - forse la domanda-chiave - nella querelle sui caratteri del fascismo e sul suo ruolo nella storia italiana. Chi vuole ridurlo a parentesi (a incidente della storia) e sotto sotto riabilitarlo, ha la risposta pronta: le nostre leggi «razziali» (che sarebbe buona norma di igiene linguistica chiamare semplicemente razziste) furono un tributo pagato obtorto collo all'alleato tedesco. O un «gesto d'amicizia verso la Germania e Hitler», come volle graziosamente definirle Renzo De Felice. Erano, di per sé, un corpo estraneo all'indole del Paese e dello stesso regime. La loro promulgazione fu un fulmine a ciel sereno che rovinò un idillio. Sicché, cancellata questa patologia, eradicato il corpo estraneo, nulla vieta di immaginarsi un fascismo bonario e mite, che - senza l'improvvida svista dell'alleanza col nazismo - avrebbe potuto traghettarci indenni al di là della catastrofe bellica.
La mitologia dell'estraneità del razzismo è un architrave del revisionismo post e filo-fascista. Non va sottovalutata, andrebbe confutata in radice. Ma è un mito tenace, alimentato da quella tenerezza per noi stessi (noi, per natura «brava gente») che fonda il peculiare eccezionalismo italiano. A differenza degli altri, noi saremmo per grazia di dio refrattari al razzismo. Allora andiamo a vedere come stanno le cose, richiamando telegraficamente il contesto organico in cui il razzismo antiebraico dello Stato fascista prese forma e si sviluppò.
La storia della nazione italiana non è affatto diversa da quella degli altri Paesi europei. Anche da noi la costruzione della nazione (della tradizione, dell'identità, dell'ordine politico) si è compiuta strutturando gerarchie. E anche da noi - come intuì tempo fa Léon Poliakov (per non parlare di Antonio Gramsci) e come una più giovane storiografia (Banti, Bonavita, Gabrielli, Labanca, Nani) viene da anni documentando - il razzismo ha costituito, a tal fine, una risorsa strategica. Tanto sul versante interno (inferiorizzando i soggetti marginali o più deboli: le donne e gli omosessuali, i meridionali, i malati e i «devianti», gli «zingari» e, appunto, gli ebrei), quanto sul versante esterno (teorizzando l'inferiorità fisica e psichica di africani e slavi). Tra tanti padri della patria celebrati dall'oleografia qualche considerazione meriterebbe anche un Cesare Lombroso, vista l'influenza esercitata sul discorso pubblico per tutta la seconda metà dell'Ottocento. E un posticino nel pantheon andrebbe riservato anche al generale Graziani, indomito eroe di tante epopee dalla Libia a Sidi-el-Barrani, passando per la Cirenaica e la Tripolitania.
Insomma, il razzismo è stato un fattore costituente della nostra storia nazionale, e il fascismo (in Italia come, mutatis mutandis, in Germania) si colloca ovviamente in questo solco. Al tempo stesso però il fascismo innova. È coerente con i precedenti, ma determina anche un salto di qualità. Si può dire che, da corollario nella costruzione delle società, la gerarchia diviene, nel fascismo, l'essenza della relazione sociale e della sintassi politica interna e internazionale. Tutto - a cominciare dall'idea del sé individuale e collettivo - ruota intorno a rapporti gerarchici e si definisce per logiche di subordinazione. Per questo, lungi dall'essere un accidente, il razzismo è l'anima stessa della concezione fascista della politica. Per questo il fascismo produce, lungo tutto l'arco della sua esistenza, antropologie razziste. E per questo, finalmente, il fascismo trasforma il razzismo da semplice dato di fatto in cardine giuridico dell'ordine politico-sociale, conferendo forma di legge alle gerarchie antropologiche. Nasce così, per forza di cose, il razzismo di Stato, culmine e sanzione formale di quella «biopolitica» che rappresenta uno dei caratteri salienti della matura modernità occidentale.
Torniamo così alla legislazione razzista promulgata dall'Italia fascista. Posto che essa non fu né frutto di errori né un tenero «gesto d'amicizia» nei confronti di alcuno, c'è un altro mito che va sfatato, non meno pernicioso di questo. Si parla in genere delle sole leggi antiebraiche, ma così si cancella un pezzo di storia e si rischia di portare nuova farina al mulino revisionista.
La verità è che le leggi contro gli ebrei non furono un'infamia isolata né la prima espressione del razzismo ufficiale del regime. Oltre un anno prima del settembre del '38 - precisamente settant'anni fa, il 19 aprile 1937 - l'Italia aveva emanato il primo di tre provvedimenti (gli altri seguirono nel giugno del '39 e nel maggio del '40) che vietarono le mescolanze «razziali» tra italiani e africani e sancirono l'estraneità dei «meticci» alla nostra cittadinanza. Come emerge con sempre maggiore chiarezza dalla ricerca storica (Collotti, Maiocchi, Sarfatti), molte caratteristiche, a cominciare dal connotato biologico del razzismo fascista, accomunano l'insieme di queste leggi, che costituiscono un corpus unitario sia in relazione alla logica dei provvedimenti, sia riguardo alla loro finalità.
Tra le leggi antiebraiche e quelle contro i popoli delle colonie si instaurò un nesso sinergico in forza del quale l'inferiorizzazione dei neri fornì modelli e giustificazioni alla discriminazione degli ebrei e questa a sua volta diede impulso alle pratiche persecutorie del razzismo coloniale. Si parlava contro i neri intendendo parlare degli ebrei e viceversa. E non fu certo un caso che dopo il '38 la pubblicistica del razzismo coloniale conobbe uno straordinario incremento quantitativo e qualitativo. Ma se questo è vero, allora dinanzi a noi si profila un compito, insieme culturale e politico, non più eludibile.
Si tratta, per dirla nel modo più semplice e rapido, di por mano a una ricostruzione unitaria della storia del razzismo italiano. E alla sua collocazione - fuori da e contro ogni eccezionalismo autoassolutorio - nel più vasto mosaico della storia del razzismo europeo (occidentale). Dire che il '38 cominciò nel '37 e che il '37-38 affondava le radici nella costruzione razzista della nostra identità nazionale non è solo un obbligo di verità sul piano storico.
È anche il presupposto necessario del risarcimento morale dovuto indistintamente a tutte le vittime del nostro razzismo nazionale.

19.4.07

La Camera ricorda Gramsci

Al via gli incontri su un «grande italiano»
Primo appuntamento di un calendario di iniziative che prevede già dai prossimi 27 e 28 aprile il convegno «Gramsci, le culture e il mondo» dell'Istituto Fondazione Gramsci e, dal 3 al 6 maggio, «Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile» della International Gramsci Society, Mario Tronti ha inaugurato ieri nella Sala della Lupa di Montecitorio a Roma le celebrazioni del settantesimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci davanti ad una platea composta da segretari di partito (Piero Fassino e Franco Giordano), rappresentanti istituzionali (il vicepresidente del Senato Milziade Caprili e quello della Camera Carlo Leoni), politici come Anna Finocchiaro, Marina Sereni, Gennaro Migliore, Giovanni Russo Spena, Alfredo Reichlin, Aldo Tortorella e Fabrizio Cicchitto. Pierferdinando Casini, in qualità di Presidente della Fondazione della Camera, ha presentato una raccolta di lettere di Gramsci ai figli scritte durante gli anni della prigionia, sottolineandone il grande valore umano. L'antologia, curata dalla Fondazione della Camera insieme all'Istituto Gramsci, è stata descritta dal Presidente della Camera Fausto Bertinotti come «un contributo ad un'educazione sentimentale e alla cittadinanza».

[il manifesto, 18 aprile 2007]




L'uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude
di Mario Tronti

Intervento tenuto da Mario Tronti ieri alla Camera dei Deputati il 17 aprile 2007

Ho riflettuto a lungo sul perché, pensando a Antonio Gramsci, scatti in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall'altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un'espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Intanto: il grande italiano è l'uomo del Rinascimento. Dietro c'era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d'Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un'arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l'intero mondo, l'Oratio de hominis dignitate. Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L'invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico.


Il moderno Principe

Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Come Machiavelli aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe.

Geniale la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. «Il moderno principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali». Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un'orazione apologetica che ci interessa: il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell'aggettivo «totali» fa riflettere. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti. Marx e Machiavelli vuol dire «il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato»: fondare lo Stato, non farsi Stato.

Non è questo però il punto centrale dell'argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere, non solo intellettualmente. Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta, come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto, delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci - vorrei dire, se questo non disturba troppo, l'originale leninismo di Gramsci - è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito - usa lui questa parola e voglio usarla anch'io - del partito-principe è l'organizzazione di una volontà collettiva, «elemento di società complesso», come l'unica forza in grado di contrastare l'avvento della personalità autoritaria. Anche qui de nobis fabula narratur.

Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto, che definirei personalità democratica. Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei. Attenzione: questa invocazione del leader forte non nasconde pericoli autoritari - la liberale bilancia dei poteri funziona ancora - piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente, dai forti umori antipolitici.


Nato per l'azione

Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi - questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l'antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona.

A questo punto vorrei non dare l'impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Non si può parlare di Gramsci restando neutrali. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: «Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica».

Non era un'anima bella. Nato per l'azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l'insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell'interesse di tutti. Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell'etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.

Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C'è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale «nazionale-popolare», la famosa linea De Sanctis- Labriola- Croce- Gramsci, a cui rivolgevamo l'accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica «Sotto la mole» per l'edizione piemontese dell'Avanti! O sulla Città futura numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell'articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: «Odio gli indifferenti»: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo». O gli articoli su Il grido del popolo, quello famoso e scandaloso: «La rivoluzione contro il Capitale». La rivoluzione dei bolscevichi contro Il Capitale di Carlo Marx.

Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti, quelle righe in Individualismo e collettivismo! «All'individuo capitalista si contrappone l'individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività». E soprattutto gli articoli de L'ordine nuovo, settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1° maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano. Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d'Italia, che come si vede non subito ma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti.

Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l'occupazione operaia delle fabbriche, l'esperienza dei consigli operai. La vera università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. L'ordine Nuovo, settembre 1920: «L'operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell'uomo, più grande dello schiavo o dell'artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera». Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte di Gramsci, diceva: «Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme».


Tra direzione e comando

Non ci sono due Gramsci. L'operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistico-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l'equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c'è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società.

Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un'incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c'è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni: «Il grande politico non può che essere 'coltissimo', cioè deve 'conoscere' il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non 'librescamente', come 'erudizione', ma in modo 'vivente', come sostanza concreta di 'intuizione' politica». Tuttavia - aggiungeva - perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente.

Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C'è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. È difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l'essere, il sentirsi radicato in questa parte di mondo. L'unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell'intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo.


Il braccio e la mente

Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.

Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative, non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà: in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari, di matrice cattolica, socialista, comunista, più quelle élites di ispirazione social-liberale, che, tutte insieme, hanno fatto la storia recente di questo paese: perché esse non erano società civile, erano società reale.

Concludo così: abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell'opera di Gramsci. E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all'esistenza, dell'uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell'inattuale. Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale.

Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti editore, n.d.r.). Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l'inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. Scrive Steiner: «Non c'è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale». Poi «ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude». Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo «cercare ancora» Gramsci.

Mario Tronti: Gramsci, l'uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude

(L'intervento di Mario Tronti tenuto alla Camera dei Deputati in occasione del settantesimo anniversario dalla scomparsa di Antonio Gramsci.)

Un vaccino da usare contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l'antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. "Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci - scrive Tronti - Praticare egemonia è essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro".

Ho riflettuto a lungo sul perché, quando il Presidente Bertinotti mi ha proposto il gradito compito di questa commemorazione, sia scattato in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano.

Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari.

Noi abbiamo inventato la politica per la modernità.
Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano.

Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli?
Fermiamoci un momento su questo, perché questo ci permette di entrare da subito nel foro interno di questa personalità.

Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento.
Dietro, c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento,
aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante,
fondativa della nostra successiva natura,
la contraddizione tra una storia d’Italia,
ancora molto lontana dal presentarsi come tale,
e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia,
già italiane, in forme dispiegate e mature,
con, in più, una naturale vocazione universalistica.

Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis dignitate .
Quello che Pico diceva, Piero raffigurava.
Ecco, Machiavelli viene fuori da qui.
L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui:
dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento.
Di qui, la nobiltà del suo codice genetico.

Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura,
che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere
di Gramsci, portava per titolo:
Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno.
Era il 1953.

Sono, come tanti, affezionato a quell’edizione.
Era una raccolta tematica, per argomenti, dovuta all’impulso
pedagogico di Togliatti, che voleva farne lo strumento
di trasmissione di una cultura potenzialmente egemone.

Allora ci si preoccupava di educare politicamente le masse,
non come oggi, quando ci si preoccupa di correrle dietro, adattandosi a qualsiasi tipo di pulsione,
anche se non sempre la migliore.

Eloquenti i titoli di quei volumi:
Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948);
Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949);
Il Risorgimento (1949);
Letteratura e vita nazionale (1950);
Passato e presente (1951).

Poi verrà la più precisa e rigorosa edizione critica dei Quaderni,
correttamente secondo l’ordine cronologico di stesura
a cura di Valentino Gerratana,
uno studioso che ha dedicato una vita a questo compito,
e su iniziativa dell’allora Istituto Gramsci,
oggi meritoria Fondazione Gramsci.

Note su Machiavelli, appunto.
Come questi aveva chiosato la prima decade di Tito Livio,
così Gramsci chiosa Il Principe.
Geniale, a mio parere, la sua interpretazione
del partito politico come moderno principe.

Credo, ancora di una sconvolgente attualità.
Ascoltiamo queste parole:

"Il moderno principe, il mito principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali"(ed.cr. vol III, p.1558).

Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero.

Non è un’orazione apologetica che ci interessa.
Il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori,

è un obbligo intellettuale.

Quell’aggettivo “totali” fa riflettere.

“Germi universali e totali”.
La storia del partito politico nel Novecento
ha messo in campo progetti universalizzanti
ma ha anche raccolto risultati totalizzanti.

Marx e Machiavelli vuol dire “il partito non come
categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”

(ivi, vol.1, p.432).

Fondare lo Stato, non farsi Stato.

Non è questo però il punto centrale
dell’argomentazione gramsciana.
Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni
del partito che si fa Stato,
cioè della parte che si fa tutto.

E ne aveva sofferto, in carcere,
non solo intellettualmente.

Il suo problema politico era già allora,
nella temperie terribile di quegli anni Trenta,
come sfuggire alla trasformazione,
non più incombente ma in atto,
delle masse in folle manovrate
e delle élites in oligarchie ristrette.

Il problema originalmente comunista di Gramsci,
vorrei dire, se questo non disturba troppo,
l’originale leninismo di Gramsci,

è la costruzione di un rapporto virtuoso
tra classe dirigente e classe sociale.

Il mito – usa lui questa parola e voglio usarla anch’io –
il mito del partito-principe

è l’organizzazione di una volontà collettiva,

“elemento di società complesso”,
come l’unica forza in grado di contrastare
l’avvento della personalità autoritaria.

Anche qui de nobis fabula narratur.
Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare
le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria
sulla misura di un nuovo soggetto:

che definirei, la personalità democratica.

Si sta intrecciando qui un nodo di problemi
strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei,
occidentali e ormai non solo.

Attenzione: questa invocazione del leader forte,
a suo modo legibus solutus,
se intendiamo le leggi al modo di Montesquieu, o di Tocqueville,
come un corpo di costumi, abitudini, comportamenti, tradizioni,
bene, questa figura non nasconde pericoli autoritari,
non credo che sia questo il problema,

la liberale bilancia dei poteri funziona ancora

piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico,
questa volta un individuo e non un organismo,
in senso gramsciano,
da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente,
dai forti umori antipolitici.

Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria
di grandi italiani del Novecento politico,
di tradizione cattolica e liberale,
da Sturzo a Dossetti a Einaudi -
bè, questi uomini postumi per le loro virtù,
servono, vanno fatti servire, come vaccino
contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee:
l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo.
La personalità democratica come personalità
non carismatica e tuttavia demagogica,
eterodiretta dalla sua immagine,
in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione,
onnipresente come figura,
inconsistente come persona.

Gramsci, con la sua vita e la sua opera,
ci aiuta a richiamare la politica,
tanto più dopo il Novecento,
alla sua vocazione originaria che,
da Aristotele a Weber,

è stata collocata tra questi due splendidi estremi,
la passione e la sobrietà

Ecco, a questo punto vorrei non dare l’impressione di
edulcorare il personaggio Gramsci,
iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria.

Tra l’altro si tratta di un uomo oggi sconosciuto ai più.
Straordinaria la fortuna mondiale dell’opera di Gramsci.
Tra qualche giorno, un convegno organizzato
dalla Fondazione-Istituto Gramsci
e dalla International Gramsci Society,
farà il punto proprio su questo tema:

“Gramsci, le culture e il mondo”.

Ma, credetemi, non si può parlare di Gramsci, restando neutrali.
O se ne può parlare, ma facendogli un grande torto.
Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista:

“Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica”.
Non era un’anima bella.

Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a
diventare uomo di studio.

Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento
che Gramsci ci lascia, direi così:
come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione,
senza dismettere la propria appartenenza,
ma agendola nell’interesse di tutti;

Gramsci ci dice che, machiavellianamente,
la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi.
Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.

Gramsci non è solo i Quaderni del carcere.
C’è un Gramsci giovane che si fa amare,
se possibile, ancora di più.

Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta,
quando fummo forse ingenerosamente ostili
alla sua linea culturale “nazionale-popolare”,
la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci,
a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato
la grande cultura novecentesca europea,
soprattutto mitteleuropea,
che fummo costretti a scoprire per altre vie.

Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica “Sotto la mole” per l’edizione piemontese dell’Avanti!
O sulla “Città futura” numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese.
Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole:

“Odio gli indifferenti”.

"Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo".

O gli articoli su “Il grido del popolo”:

quello famoso e scandaloso: La rivoluzione contro il Capitale.
la rivoluzione dei bolscevichi ” contro il Capitale di Carlo Marx.

Se si potessero rileggere, oggi,
senza il velo delle ideologie dominanti,
quelle righe in “Individualismo e collettivismo”!.
E’ l’individualismo borghese che produce
il collettivismo proletario.

"All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività".

E soprattutto gli articoli de “L’ordine nuovo”,
settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano.
Lì si organizza il gruppo che darà vita al
Partito comunista d’Italia, che come si vede non subito
ma fin dalle tesi di Lione del 1926,
nascerà non solo contro i riformisti ma
anche contro i massimalisti.

Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino.
Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei Consigli operai.

La vera Università: la grande scuola della classe operaia.
Del resto, ormai lo sappiamo:
o si parte da lì,
o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi.

Gramsci, L’ordine Nuovo, settembre 1920:

"L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera".

E ancora: "Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo?".

Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte, intitolato “Il capo della classe operaia italiana”, scriveva:

"Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme".

Non ci sono due Gramsci.
L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso.

Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva.
Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui
alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” , (specialista + politico).
Su questa base – scriveva nei Quaderni (4, ed.cr., vol.III, p.1551)
ha lavorato L’Ordine Nuovo, settimanale.
Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore,
persuasore, non puro oratore.

Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente,
armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica.
Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana
tra direzione e comando, tra guidare e imporre.
Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito,
vale per il partito nei confronti dello Stato,
vale per lo Stato nei confronti della società.

Egemonia non è solo cosa diversa,

è cosa opposta a dittatura.

Sul concetto di egemonia pesa ancora
un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto.

Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura.

Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata:
vuol dire guidare seguendo,

essere alla testa di un corso storico già in movimento,
e che fa movimento anche in virtù delle idee,
idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro.

Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci.

Scriveva nei Quaderni (ed. cr., vol. 1, p.311):

"Il grande politico non può che essere “coltissimo”, cioè deve “conoscere” il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non “librescamente”, come “erudizione”, ma in modo “vivente”, come sostanza concreta di “intuizione” politica".
Tuttavia – aggiungeva – perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente.

Abbiamo tutti negli occhi, in questi giorni, i libri inchiodati
del film di Olmi, che mi pare dicano la stessa cosa.

C’è una frase gramsciana per me, per così dire, archetipica,
nel senso di simbolicamente originaria,
per un processo di formazione.

Diceva: “Istruitevi, istruitevi e poi ancora istruitevi,
perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Permettete un breve ricordo personale.
Che rimane in tema.
Nel dopoguerra, nelle sezioni, anche le più popolari, del Pci,
c’era sempre un piccola biblioteca, con i classici dell’ideologia
ma anche con testi di letteratura di battaglia.
Quando andai a iscrivermi alla Fgci, i compagni della sezione Ostiense, qui a Roma, mi misero in mano tre libri: “Il Manifesto del partito comunista”,di Marx ed Engels, “Il tallone di ferro” di Jack London e le“Lettere dal carcere” di Gramsci.

Le “Lettere dal carcere”.
Quando lessi quell’ultima, al figlio Delio,
non c’era più dubbio su dove schierarsi:

"Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa".

Quello, insieme agli altri due,
erano i primi libri che entravano in quella casa,
di persone non analfabete e non incolte,
anzi colte, cioè coltivate interiormente
in una maniera particolare.
Una cultura che non veniva, appunto, dai libri,
ma direttamente dalla vita
e non una vita generica, ma una vita di lavoro.

Ho sempre pensato che le due culture non sono,
come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica.
Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali.
Due cose diverse: non si identificano,
non si sommano, non si confondono.
Eppure un ponte di dialogo e di scambio
tra queste due esperienze culturali,
deve esserci e devi trovarlo.

C’è una cultura materializzata nel lavoro,
interiorizzata nel lavoratore:
un orizzonte che, per un intellettuale di parte,

è come la bussola per il marinaio,
ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire.

E’ difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero
che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato
in questa parte di mondo.
L’unico luogo sicuro e libero
da quella nevrosi narcisistica
che è la maledizione del lavoro intellettuale.

La figura gramsciana dell’intellettuale organico,
al partito e alla classe,
può essere oggi demonizzata e derisa
solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo.

Ebbene, quel ponte tra le due culture
lo ha costruito quella figura storica,
quel soggetto politico della modernità
che si chiama movimento operaio.

E lo ha fatto, generando
coscienza e organizzazione delle masse
e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta.
Analisi scientifica delle leggi di movimento
dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale
e insieme progetti di liberazione politica.

Mi sento di esprimere una convinzione profonda:
più andremo avanti, più il tempo

"grande scultore", come ha detto qualcuno/a
più il tempo si frapporrà tra noi e il passato,
più ci accorgeremo che tutte le derive negative,
anche tragicamente negative,
non bastano per cancellare la grandezza del tentativo.

Penso che, come soggetti politici di consistenza storica,
dovremmo affrettare il momento
di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà.

Se dovessimo dirci tutta intera la verità,
dovremmo parlare così:
in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa
sostituire quelle componenti popolari,
di matrice cattolica, socialista, comunista
più quelle élites di ispirazione social-liberale,
che, tutte insieme,
componenti popolari ed élites non oligarchiche,
hanno fatto la storia recente di questo paese:
perché, esse, non erano società civile,
erano società reale:
cioè ordinamento storico concreto di una società.

Dunque,
sono ben consapevole di aver sconfinato dalle
buone maniere di una commemorazione ufficiale.

Ma i due Presidenti, che mi hanno affidato questo compito,
ben conoscevano la mia ormai antica appartenenza
a quella che Bloch ha chiamato

“la corrente calda del marxismo”.

I freddi piccoli passi non mi hanno mai entusiasmato,
ammesso che abbiano mai entusiasmato qualcuno.

Concludo così:
abbiamo individuato alcuni punti di attualità
dell’opera di Gramsci.
E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri.

Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza,
dell’uomo, proprio in quanto uomo politico,
allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano
dell’inattuale
Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre
e proprio per questo, in sé, vale.

Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner,

“Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero”.
Una delle ragioni, fonte di melanconia,

è l’inadattabilità oggi del grande pensiero
agli ideali di giustizia sociale.

E scrive Steiner: "Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale".
Poi "ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin,
che sono costretti
ad afferrare il fulmine a mani nude".

Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo

“cercare ancora” Gramsci.

Quel gracile corpo fisico e quella forte statura umana,
mi pare di vederli riassunti in quel gesto:
afferrare il fulmine a mani nude.

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