28.4.07

Gramsci. Un'opera aperta sul divenire del mondo

(tratto da il manifesto, 27 Aprile 2007)

L'influenza di Antonio Gramsci negli studi postcoloniali nel saggio dello studioso statunitense Timothy Brennan. Da oggi a Roma un convegno internazionale sull'attualità dei «Quaderni dal carcere»
Miguel Mellino

Nel mondo anglosassone, i rapporti tra marxismo e studi postcoloniali non sono mai stati né semplici né distesi. Benché negli ultimi anni sempre più autori abbiano dedicato i loro sforzi alla traduzione, mediazione tra i due campi, alla costruzione di una problematica antagonista comune, le prove di un dialogo non facile e di un confronto talvolta carico di veleni abbondano. Inutile aggiungere poi che i toni tendono a diventare più accesi proprio quando si tratta di affrontare questioni politiche legate ad alcuni degli autori - da Walter Benjamin a Frantz Fanon, da C.L.R James a Antonio Gramsci - considerati ormai a torto o a ragione come costitutivi di entrambe le prospettive. Ne è un esempio l'ultimo lavoro di Timothy Brennan, significativamente intitolato Wars of Position. The Cultural Politics of Left and Right (New York, Columbia University Press). Professore di Letterature Comparate e di Cultural Studies all'Università del Minnesota, Brennan è da tempo impegnato nella critica politica della produzione intellettuale delle Humanities anglo-american.
La chiara allusione a Gramsci nel titolo costituisce un primo indizio sulla collocazione politica (marxista) dell'autore, ma soprattutto del suo obiettivo: un'analisi gramsciana del Kulturkampf attraverso cui prendono forma nelle fabbriche del sapere anglo-americane gli studi letterari ed umanistici. Brennan parte da domande molto semplici, tratte da un vissuto quotidiano. Perché all'interno del mondo universitario statunitense può accadere che programmi d'esame o prestigiosi cataloghi editoriali ci presentino tranquillamente il filosofo marxista Henri Lefebvre come uno dei pionieri della metodologia post-strutturalista nell'analisi della città? Perché può capitare di assistere a seminari in cui Bachtin, noto anti-formalista, viene analizzato come un altro degli esponenti del formalismo russo? Infine, perché può sembrare così naturale a critici e professori parlare di Gramsci come di uno dei massimi nemici storici della filosofia hegeliana e della dialettica, come di un autore più in sintonia con Foucault e con Deleuze che con il marxismo Novecentesco?

Da teoria a precetto etico
Per Brennan non si tratta di errori individuali o di sciatteria intellettuale. La questione è ben più seria. Dalla fine degli anni Settanta, dopo la sconfitta mondiale dei movimenti e in concomitanza con l'ascesa violenta del neoliberismo, nelle Humanities anglo-americane «teoria» è divenuto per l'intellighentsia di sinistra sinonimo di post-strutturalismo. Ma di un post-strutturalismo, sostiene l'autore, che ha poco a che vedere con il radicalismo espresso, per esempio, dalla schizoanalisi di Deleuze, dalla critica della metafisica di Derrida o dall'attacco frontale di Baudrillard alla cultura di massa. Si tratta invece di una semplice traduzione del radicalismo francese del dopo Sessantotto entro lo schema ideologico della «religione americana del middle-way», ovvero di un movimento che ha ridotto la «teoria» a un elenco banale e ripetitivo non tanto di categorie conoscitive quanto di «precetti ormai puramente etici» (nomadismo, subalternità, differenza, ecc) compatibili con la logica neoliberista del capitalismo contemporaneo.
Brennan conclude polemicamente che siamo di fronte a una sorta di «catechismo post-strutturalista» in cui i significati (davvero soft) attribuiti ai principi della «differenza», del «pluralismo», dell'«ibridazione» e dell'affirmative action hanno finito per confondersi con i valori tradizionali del dogma liberale americano del middle-way (individualismo, anti-statalismo, anti-comunismo, anti-collettivismo, diritto all'auto-imprenditorialità e alla proprietà privata) e perfino con il culturalismo o fondamentalismo identitario promosso dalla Nuova Destra cristiana, in quanto non hanno fatto che legittimare la trasfigurazione di «comunità politiche secolari» in «comunità ontologiche».
In sintesi, per Brennan, poiché da tempo nella vita pubblica degli Stati Uniti non c'è più spazio per un dissenso davvero antagonista (che non riguardi questioni «meramente» religiose, culturali o etniche), l'egemonia di questo tipo di «teoria» nei settori chiave della produzione intellettuale ha sancito non solo una vera e propria sconfitta della sinistra nella «guerra di posizione», ma si è anche configurata come un potente «velo ideologico» capace di distorcere sistematicamente l'approccio agli autori e alle questioni teoriche del passato. In particolare, a tutto quanto abbia a che fare con la tradizione marxista precedente al Sessantotto.
La tesi di Brennan non è certo nuova. Il pregio del suo lavoro sta nella disamina di una serie davvero impressionante di temi (globalizzazione, imperialismo, cosmopolitismo) e di autori (Heidegger, Nietzsche, Agamben, Negri, Hall) centrali nel dibattito tra marxismo e postcolonialismo. Purtroppo il più delle volte Brennan si ferma sull'uscio della porta: le sue critiche non vengono legate all'analisi di oggetti concreti. Le uniche eccezioni riguardano le pagine dedicate a Gramsci e a Said. Ironicamente intitolato The Southern Intellectual (poiché proietta tutta la critica gramsciana dell'intellettuale meridionale su quello postcoloniale), il capitolo sull'uso di Gramsci all'interno della critica postcoloniale presenta diversi punti di interesse.
Innanzitutto offre una ricostruzione piuttosto aggiornata del percorso degli studi gramsciani nel mondo anglosassone e anche in America Latina. In secondo luogo, Brennan si sofferma a lungo su uno dei punti chiave (nel bene e nel male) di tutta la vicenda: il modo in cui l'interpretazione althusseriana di Gramsci ha «surdeterminato» il «gramscismo» oggi più popolare all'interno degli Studi Culturali e Postcoloniali. Riassumendo, la sua tesi è che nel mondo anglosassone vi sono due diversi tipi di gramscismo. Il primo, nato nei primi anni Settanta dal dibattito sull'eurocomunismo, appare fortemente influenzato dalla «lettura sintomale» che di Gramsci fece Althusser e ha in figure come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Stuart Hall e Parta Chatterjee alcuni tra i suoi principali promotori.
Brennan accusa questo filone post-marxista e postcoloniale di aver costruito un'immagine «riformista», «liberale» e «postmoderna» di Gramsci piuttosto fuorviante. Attraverso l'estrapolazione decontestualizzata di quattro soli concetti - egemonia, subalterno, rivoluzione passiva, senso comune - e mediante un'identificazione del tutto «istintiva» non tanto con l'opera gramsciana quanto con la biografia personale dell'intellettuale sardo (ridisegnata a immagine e somiglianza dell'intellettuale postcoloniale, diasporico, periferico e in lotta contro un marxismo troppo eurocentrico ed economicista) questi autori sarebbero stati tra i principali fautori di un gramscismo un po' à la mode, ovvero a uso e consumo di quell'etica post-strutturalista dominante e capace di sussumere qualsiasi cosa entro la propria weltanschauung moderata.
Ad aprire la strada a questo gramscismo post-strutturalista - per Brennan - è stato senza dubbio Althusser, il quale, al di là del suo anti-storicismo, non fece mai mistero di «voler proseguire il progetto incompiuto di Gramsci»: un progetto che egli lesse come rifiuto della dialettica hegeliana, fortemente atipico rispetto al marxismo della Terza Internazionale, promotore della filosofia come praxis e creatore di un linguaggio specifico capace di suggerire la «materialità» e la «relativa autonomia» della sfera sovrastrutturale. Secondo Brennan, dunque, questa «lettura sintomale» di Althusser ha creato una serie di distorsioni del pensiero gramsciano destinate poi a perpetuarsi nel post-marxismo di Laclau e Mouffe, nella critica postfordista di Hall, ma anche all'interno di una parte dei Subaltern Studies indiani.
Il secondo insieme di studi gramsciani identificato da Brennan non è un filone vero e proprio, ma è costituito da una serie di studi e di autori molto diversi tra loro (dall'opera di Said fino ad arrivare alle ricerche di Joseph Buttigieg, Frank Rosengarten, Richard Bellamy, David Forgacs e Anne Showstack Sassoon) che hanno il merito di aver restituito un'interpretazione del pensiero di Gramsci più rigorosa e storicamente fondata. E' da qui che, secondo Brennan, dovrebbero ripartire gli studi postcoloniali: potrebbe essere l'occasione giusta sia per superare l'idea di un'estraneità radicale del pensiero di Gramsci rispetto ai marxisti del suo tempo, sia per riaprire il dialogo tra marxismo e postcolonialismo su basi nuove. Poiché molte delle questioni tipicamente postcoloniali - colonialismo, nazionalismo, storicismo, eurocentrismo - sono davvero costitutive dell'archivio marxista venuto alla luce tra le due guerre mondiali.

L'impossibile filologia
Contro Brennan, però, va detto che occorre lavorare anche in senso contrario: molte delle istanze aperte dal postcolonialismo non possono essere declassate come qualcosa di déjà vu. Non basta parlare in modo elitario di distorsioni che si tramandano di autore in autore; non basta (più) ribadire continuamente che il Gramsci degli Studi Postcoloniali è emerso da una conoscenza frammentaria e approssimativa dei Quaderni o degli altri suoi scritti; e non bastano più analisi comparative in astratto dei significati che gli uni e gli altri attribuiscono ad alcune delle nozioni gramsciane più note. Soprattutto perché nessuno all'interno dei Cultural Studies o degli Studi Postcoloniali si è mai proposto come gramsciano tout court o come filologo della sua opera.
Negli esempi migliori (Hall, Chatterjee, Guha, ecc.) la cassetta degli attrezzi gramsciana è stata aperta per cercare di dire qualcosa di più su alcuni dei fenomeni più pregnanti dei nostri tempi: sull'ascesa del Thatcherismo in Gran Bretagna o sul modo in cui capitalismo, razzismo e imperialismo operano, si trasformano e si intersecano nei diversi contesti storici e spaziali (Hall), sulle contraddizioni del nazionalismo e dello stato indiano postcoloniale (Chatterjee) e sull'esperienza delle masse subalterne in India (Guha). Per dirla con Hall: è nel merito della loro applicazione «congiunturale» (in riferimento al (s)oggetto particolare che ne ha sollecitato l'uso) che occorre valutare l'appropriazione (comunque indebita) di categorie e concetti. E' questo forse il modo migliore di mettere a valore quel tradimento che ogni traduzione comporta.

scheda
Tra Cagliari e Ghilarza
I «Quaderni dal carcere» nel mondo Un incontro in Sardegna

L'anno gramsciano appena inaugurato lascerà in eredità una lettura plurale e cosmopolita dell'autore dei «Quaderni del carcere». Basta scorrere il programma del convegno itinerante «Antonio Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile"», organizzato tra Cagliari (T Hotel, Via dei Giudicati), Ghilarza (Torre Aragonese) e Ales dal 3 al 6 maggio dalla International Grmasci Society-Italia, dalla Regione Sardegna, dall'Istituto Gramsci della Sardegna e dalla Casa Museo Gramsci di Ghilarza, per capire come il pianeta Gramsci non si sia fermato all'Italia, ma tende ormai a coincidere con il mondo intero.
Si parlerà di Brasile con Marcos Del Roio e Carlos Nelson Coutinho, di Stati Uniti con Joseph Buttigieg, del Commonwealth britannico con l'australiano Alastair Davidson, di Giappone con Akira Itô e Koichi Ohara, ma anche di problemi importanti nel corpus gramsciano come la soggettività politica (Pasquale Voza) e il linguaggio (con André Tosel e Derek Boothman) e della formazione teorica e politica (Angelo D'Orsi e Renato Zangheri).
Non sarà trascurata nemmeno la declinazione gramsciana del marxismo nei termini di «filosofia della prassi» con Giuseppe Cacciatore e Silvano Tagliagambe (sabato 5 maggio al mattino). Guido Liguori (sempre sabato 5, ma al pomeriggio) e Giorgio Baratta, gli animatori della Igs Italia, tireranno le file sulle molteplici ricezioni gramsciane sospese tra gli studi culturali e quelli postcoloniali.
E' prevista la partecipazione anche di Aldo Tortorella, che ospita abitualmente Gramsci su Critica Marxista, e di Beppe Vacca. Sono inoltre previsti degli approfondimenti sulla ricezione, e l'uso, di Gramsci nella scuola e nella società civile.
Si chiude domenica 6 maggio con «un incontro con artisti e intellettuali» dal titolo Il sole e le rose. Il programma completo del convegno è scaricabile dal sito internet: www.gramscitalia.it/programma.htm.

breve
Dal Mediterraneo agli studi culturali

Il convegno internazionale Gramsci, le culture e il mondo, organizzato dalla Fondazione Istituto Gramsci e dall'International Gramsci Society-Italia nel Palazzo Baldassini di via delle Coppelle 35 a Roma, è il primo appuntamento utile per analizzare la straordinaria diffusione degli studi sull'autore dei Quaderni del carcere nel mondo. A pochi giorni dall'anniversario del settantesimo anno dalla scomparsa di Gramsci, il convegno romano esordirà oggi con una discussione tra una delle esponenti più importanti dei Subaltern Studies, Ranajit Guha, Sandro Mezzadra, uno degli animatori della rivista italiana Studi Culturali, e Marcus Green della International Gramsci Society. Nel pomeriggio sarà il turno di Stuart Hall, il maggiore esponente degli studi culturali il quale spiegherà la nascita della «scuola di Birmingham» che costituì, a partire dagli anni Sessanta, la piattaforma di lancio del gramscismo nel mondo anglosassone.
Sabato 28 aprile sarà Joseph Buttigieg, uno dei traduttori dei Quaderni del Carcere negli Stati Uniti ad intervenire sul rapporto tra Gramsci e Edward Said, l'intellettuale palestinese fondatore degli «studi postcoloniali». Nel pomeriggio di sabato Derek Boothman interverrà sull'Islam nei Quaderni del carcere, mentre Iain Chambers si dedicherà al tema Ripensare il Mediterraneo: da Gramsci a Said.
Momento particolarmente significativo della sessione romana sarà la presentazione venerdì 27 della Bibliografia gramsciana on line, curata da John M. Cammett, Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, consultabile sul sito: www.fondazionegramsci.org/A6Web/bibliografiagramsciana.htm. 14.500 titoli sulla vita e l'opera di Antonio Gramsci in 33 lingue, la prova digitale di come Gramsci sia diventato nell'ultimo ventennio uno dei principali punti di riferimento per il dibattito internazionale.

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