9.9.06

Intervista a Michel Warschawski

di Geraldina Collotti
(tratto da il manifesto, 16 Agosto 2006)


Raggiungiamo a Gerusalemme l’analista politico Michel Warschawski, 57 anni, uno dei maggiori esponenti della sinistra radicale israeliana.

D. Lei è stato fra i primi israeliani a rifiutarsi di prestare servizio militare fuori dai confini e per questo, durante la guerra in Libano dell’82 è stato più volte in carcere. Qual è la sua analisi oggi?

R. Non si può comprendere questa guerra d’aggressione contro il Libano, né l’accanimento contro i palestinesi, in particolare a Gaza, fuori dal contesto della guerra permanente e preventiva intentata dai neoconservatori di Washington a livello mondiale e fatta propria da Tel Aviv. L’obiettivo è quello di imporre l’egemonia nordamericana nella regione a scapito di regimi come Siria e Iran e organizzazioni politiche di massa come Hamas e Hezbollah, identificate come terroristiche. Ma questa guerra è stata anche un laboratorio, in termini di strategia, tattica, e sperimentazioni di armi che Israele ha ricevuto in questi anni da Washington: anche armi sconosciute, come abbiamo appreso dal manifesto.

D. Nell’82, in Israele ci fu un forte movimento di opposizione alla guerra. Qual è invece la situazione oggi?

R. Anche oggi il movimento contro la guerra è attivo, ma purtroppo è minoritario, non riesce a esercitare egemonia. Al massimo mobilita 5-6.000 persone. Al suo interno, ci sono forze di sinistra o di estrema sinistra. La maggioranza ha meno di 25 anni. Sono quelli che si sono mobilitati nel corso di questi ultimi anni contro l’occupazione, che non hanno creduto alla propaganda secondo cui il processo di pace sarebbe fallito per colpa del ‘terrorismo palestinese’, che hanno compreso la strategia di neocolonizzazione messa in atto dal governo. Sono quelli che si sono opposti alla costruzione del muro, alla repressione nei territori occupati, e che oggi costituiscono la colonna vertebrale del movimento antiguerra. Ma fra questi giovani e la mia generazione, quella dei militanti che si sono opposti alla guerra in Libano nell’82, c’è un buco generazionale. Il movimento contro la guerra, che era riuscito a farsi sentire davvero nell’82 e anche nell’88, durante la prima intifada, in gran parte oggi sostiene ufficialmente la politica del governo: sostiene quella che percepisce come una guerra di autodifesa. Il discorso secondo cui c’è una minaccia del terrorismo islamico che incombe sulla democrazia, è ormai maggioritario, ha distrutto quella grande opposizione alla guerra, la sua efficacia e la sua capacità di produrre egemonia in Israele. Oggi la maggioranza della società vede nell’esercito l’ultima difesa contro un nuovo giudeocidio. Alcune delle unità combattenti più prestigiose, assomigliano ormai agli squadroni della morte, specializzati come sono nelle cosiddette uccisioni mirate, ma la domanda per entrare a farne parte è altissima.

D. Perché la società israeliana ha voltato le spalle alla pace? Le rivolgo una domanda che ricorre nei suoi ultimi libri: Sulla frontiera, edito da Città aperta; Israele-palestina, edito da Sapere 2000; A precipizio, Bollati Boringhieri...

R. Da anni è in corso in Israele una massiccia campagna per convincere la società che la pace è un’illusione e che occorre tornare al cosiddetto spirito del ’48. Una vera controriforma su tutti i piani (culturale, ideologica, giuridica e istituzionale), che, dopo l’11 settembre, ha incontrato e inglobato la teoria dello scontro di civiltà e la retorica della guerra al terrorismo. Alle ragioni geostrategiche di controllo del territorio e di annessione continua dell’intera Palestina storica, si è aggiunto un altro elemento: a partire dell’11 settembre, anche la stragrande maggioranza della sinistra moderata, quello che per voi è il centrosinistra, pensa che ci sia una civiltà minacciata dai barbari e che occorra difendersi. Si crede l’avamposto della civilizzazione nel cuore del mondo arabo, l’ultimo baluardo in seno alla barbarie: questo è il discorso che è passato.

D. E non riscontra un atteggiamento speculare anche in certi settori dell’islamismo radicale?

R. Non sono d’accordo. Ascolto con molta attenzione Nasrallah e, come altri commentatori in Israele, constato che i suoi discorsi sono pacati e di grande responsabilità: tutto il contrario dell’occidente che si pretende baluardo di civiltà e che invece trasuda retorica fondamentalista. Sembra di assistere a un capovolgimento di valori: il campo laico che si abbandona al fanatismo, e quello religioso che, anche se parte da una diversa concezione, fa di tutto per non pronunciare discorsi confessionali.

D. Nei suoi libri lei parla di disumanizzazione dei palestinesi e degli arabi da parte di Israele. Cosa intende?

R. Con l’11 settembre c’è stata una svolta. Fino ad allora, i palestinesi venivano percepiti come nemici con cui si aveva una divergenza profonda, soprattutto per via della violenza, ma si dava per possibile che la questione potesse essere affrontata, che si dovesse arrivare a una qualche trattativa concreta. Aver assunto il discorso dei neoconservatori americani, ha spinto Israele a un cambiamento qualitativo: da nemici che erano, i palestinesi si sono trasformati in minaccia. E una minaccia non è più identificabile in un contenzioso concreto e in un nemico concreto, incombe e basta e ci si deve difendere. “Israele è una villa nel cuore della giungla”, ha detto qualche anno fa Ehud Barak. Si può mai intrattenere rapporti con la giungla? Questo discorso domina e guida la politica israeliana e la gran parte dell’opinione pubblica.

D. Scomparsa l’Unione sovietica, si ha bisogno di un altro Impero del male?

R. E’ evidente che con la scomparsa del nemico globale che minacciava il cosiddetto mondo libero, e cioè l’Urss, e con l’azzeramento del processo di pace con i palestinesi, si è dovuto rimpiazzare il vuoto con una minaccia apocalittica. Non a caso, riferendosi ad Al-Qaeda si parla di nebulosa: un mostro immateriale. Una guerra, quindi, che non si può mai vincere perché il nemico è un fantasma che non può essere identificato. Solo che la guerra è reale e fa disastri concreti. Anzi, innesca un meccanismo difficilmente controllabile, capace di creare da sé la minaccia ancora prima che si presenti. In Israele, questo meccanismo si innerva su un inconscio collettivo marcato da un genocidio che è ancora recente, perché sono passati appena 60 anni, e che rapidamente traduce ogni problema politico concreto in minaccia esistenziale. Non è infatti razionale credere che qualche razzo di Hezbollah possa preoccupare davvero una grande potenza militare come Israele, al massimo può portare a un certo livello di destabilizzazione, ma certo non minaccia l’esistenza del popolo ebreo come ha sostenuto il primo ministro israeliano. Però, la propaganda porta a leggere il presente e la storia come un immenso pogrom che continua da millenni e per cui non ci si può mai fermare: una dinamica di guerra infinita. Siamo sull’orlo del baratro e ne stiamo avendo un assaggio.

D. Il suo libro A precipizio, La crisi della società israeliana, è dedicato a due comunisti tedeschi, trasferitisi in Israele per fuggire al nazismo. Due militanti anticolonialisti. Perché ha fallito quella generazione di comunisti in Israele?

R. Micha e Trude hanno trovato rifugio in Palestina un po’ loro malgrado, pensavano di tornare indietro dopo la liberazione dal nazifascismo, ma poi sono rimasti. Da loro, impermeabili a ogni forma di trialismo, ho appreso che l’internazionalismo e l’impegno comunista sono maniere di essere cittadini del mondo. Erano migliaia i comunisti che, prima del ’48, si sono scontrati con una realtà coloniale che gli ha lasciato poco spazio: non erano aggrappati all’identità ebraica, ma non erano arabi. E gli arabi, anzi, li identificavano col campo avverso. E’ la logica perversa dei conflitti nazionali. Ti ritrovi tuo malgrado nei quartieri bombardati dagli arabi, o viceversa: ci vuole una grande convinzione per prendersi le bombe e dire: io sono altro da questo.

D. Lei pensa in questo modo, ma continua a vivere a Gerusalemme. Perché?

R. Ancora di recente, durante una manifestazione contro la guerra, sono stato aggredito dagli estremisti religiosi. Ma ogni cedimento sarebbe una tragedia per i nostri figli. La politica di guerra dei dirigenti israeliani porta alla catastrofe, e chiude le porte alla possibilità di una coesistenza nazionale con i palestinesi. Ci fanno odiare dagli arabi perché, pur vivendo in una regione araba, Israele rigetta il mondo arabo. Bisogna essere pazzi per credere che possiamo imporre la nostra esistenza in questa regione e contro il mondo arabo.

D. In un volume edito da Sapere 2000, Israele-Palestina, la sfida binazionale, lei - riferendosi a lontane esperienze intercomunitarie tra ebrei e musulmani, auspica un nuovo sogno Andaluso per il XXI secolo. Che cosa intende?

R. Una comunità può vivere e pensarsi in relazione con l’ambiente umano che la circonda, oppure in autarchia. Io penso che tutto ciò che è autarchico impedisca ogni sviluppo e marcisca. Accade così a Israele, che ha scelto di vivere in autarchia, in una specie di ghetto armato in pieno Medioriente, cioè in opposizione al contesto. Uno dei compiti degli intellettuali - che oggi, purtroppo, sono completamente preda della sindrome da assedio - è di far capire questo alla gioventù israeliana, insegnare nelle scuole che le più belle pagine degli ebrei nel mondo sono quelle in cui hanno arricchito e si sono arricchiti della cultura del posto. In particolare, in Andalusia, in quella che chiamiamo l’età d’oro degli ebrei, quando la cultura musulmana e quella ebraica, e in misura minore quella cristiana, convivevano in un dialogo proficuo che ha portato al massimo sviluppo il Medioevo. E’ stata poi la Riconquista che, dopo la caduta di Granada nel 1487 ha distrutto tutto. Le pagine di questa storia non si insegnano in Israele, farle conoscere, invece, serve a dimostrare che la convivenza tra giudei e musulmani è stata possibile e reciprocamente feconda.

D. Cosa dovrebbe fare Israele per invertire la rotta?

R. Intanto, applicare le numerose risoluzioni dell’Onu, tutte disattese. Mettere fine all’occupazione. Costruire legami di coesistenza con i palestinesi e con la regione in cui si trova, non fare l’apripista per le politiche nordamericane. Sul piano politico, dovrebbe trasformarsi da stato ebraico a stato di tutti i cittadini, separare religione e Stato, statalizzare la terra e finirla con le discriminazioni etniche. Sostituire la Legge del ritorno con una legislazione che consenta il ricongiungimento familiare e l’immigrazione di tutti, a cominciare dai profughi palestinesi. Prevedere forme di autogestione che garantiscano l’espressione delle diversità, in primo luogo quella dei palestinesi.

D. Nei suoi libri, lei paragona il processo di Oslo a una sorta di compromesso storico che non ha funzionato. Quale via rimane oggi ai palestinesi?

R. Siamo in un complicato periodo di transizione. Se mi avesse posto la domanda qualche anno fa le avrei detto: qualunque sia la soluzione a lungo termine, a breve termine, deve passare per la costruzione di uno stato palestinese e la fine dell’occupazione, la decolonizzazione della Cisgiordania, uno stato palestinese a fianco di quello israeliano, e un lavoro per arrivare a una forma di coabitazione più stretta. Ma ora, dopo la distruzione sistematica nei territori occupati, che da cinque anni Israele persegue, e l’accanimento degli ultimi mesi contro il popolo palestinese, ho molte difficoltà a rispondere. Cosa fa la l’Europa perché i palestinesi abbiano una terra? Cosa fa l’Italia ora che c’è un governo di centrosinistra? Molto meno di quanto facevano i governi democristiani. Per ora, quindi, vedo un unilateralismo totale che mira a chiudere la partita con una seconda nakba. Secondo la politica dello stato israeliano, esiste un solo popolo, quello ebreo, e un problema: quello palestinese.

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