27.5.08

Perché se la prendono sempre con Togliatti

di Giuseppe Carroccia

(tratto da www.esserecomunisti.it, 27/05/2008)


Ogni qual volta nella vicenda politica italiana si cerca di eliminare(sciogliere, superare, diluire) una presenza organizzata dei comunisti, il partito comunista, puntuale come la pioggia dopo il tuono arriva l'attacco al dirigente più autorevole del pci, accusato a prescindere delle più inverosimili nefandezze: piove, Togliatti ladro.

Fece così Occhetto durante la svolta della Bolognina, lo ha fatto recentemente Bertinotti prima della disfatta inverosimile di cui è stato protagonista e per cui passerà alla storia.

Non stupisce in questo accanimento la coerenza di quelli che si sono sempre rifatti alla vicenda storica di chi combattè Togliatti e la politica del pci, i trotzchisti per intenderci, quanto la pusillanimità di chi usa quegli argomenti strumentalmente, pur provenendo dalla tradizione dei comunisti italiani.

Come se si dovesse liberare di una colpa o di un senso di colpa, gettando sulle spalle di un solo uomo la responsabilità della propria storia e delle proprie scelte passate, quasi deresponsabilizzandosi.

Fu così importante Il Migliore? Si e per diverse ragioni.

Seppe tradurre in scelte politiche concrete il pensiero di Antonio Gramsci e quindi affrontò i nodi più spinosi della sua epoca storica senza indulgenze e superficialità, andando diritto al cuore delle questioni, anche quando comportavano scelte dolorose.

Altri compagni più preparati di me, su questo sito e su Liberazione sono intervenuti ricordandole ai più giovani.

A me preme ricordarne due che mi sembrano di estrema attualità, sia nella proposta che nel metodo.

L'analisi che egli fece del fascismo contenuta nel famoso rapporto recentemente ripubblicato con sagacia da una casa editrice intelligente come Laterza e la cocciutaggine con la quale al tempo del primo centrosinistra si battè per rimettere al centro del dibattito politico la questione del salario come la più importante riforma di struttura di cui il paese avesse bisogno.

Oggi che siamo governati da questa destra pericolosissima e che si vuole eliminare il contratto collettivo, credo che la migliore risposta ai suoi detrattori sia rileggere quelle pagine e farne tesoro per le difficili battaglie che ci attendono.

Ma il motivo vero, quello più importante, per cui se la prendono sempre con Togliatti è perché, nonostante rifulgesse da qualsiasi atteggiamento populista, anzi forse proprio per questo, è stato molto amato dal popolo lavoratore dei suoi tempi.

Lo spiega bene, come solo i poeti sanno fare, una famosa poesia di Umberto Saba del 1951, dedicata a un giovane comunista, fa così:



Ho in casa -come vedi- un canarino.

Giallo screziato di verde. Sua madre

Certo, o suo padre, nacque lucherino.



E'un ibrido. E mi piace meglio in quanto

Nostrano. Mi diverte la sua grazia,

mi diletta il suo canto.

Torno, in sua cara compagnia, bambino.



Ma tu pensi: I poeti sono matti.

Guardi appena; lo trovi stupidino.

Ti piace più Togliatti.



Durante il concerto del primo maggio di qualche anno fa, nella piazza san giovanni ancora strapiena di giovani, verso mezzanotte, risuonarono le note e le parole di Giovanna Marini e Francesco De gregari che cantavano l'ultima canzone del concerto.

Non credevo alle mie orecchie. Avevano scelto proprio la canzone I Funerali di Togliatti.

Mi guardai intorno per vedere l'effetto che facevano su quei giovani la musica e le parole di quella canzone che a me era sempre apparsa come una delle più brutte e vetero della storia della musica popolare.

Non credevo ai miei occhi, la sapevano e la cantavano con trasporto ed emozione.

Questi so matti, pensai, ma come al solito, mi sbagliavo.

23.5.08

«Woody Guthrie? Il cantore della dignità e della rivolta che "rubava la strada" sui treni»

Franco Minganti docente di letteratura americana all'università di Bologna
co-curatore del convegno sull'autore delle ballate dell'Altra America

Daniele Barbieri

Cantore della rivolta e della dignità, cittadino del mondo eppure americano come pochi, Woody Guthrie nasce nel 1912 in Oklahoma. La sua è una famiglia benestante che in pochi anni si impoverisce: a 25 anni lascia moglie e figli per andare da uno zio in Texas. Poi segue le piste della polvere cercando fortuna in California. La sua autobiografia ( Bound for Glory del ‘43) inizia così:«Vedevo uomini di tutte le razze sballottati nel vagone merci. Stavamo in piedi o sdraiati, buttati qui e là». In fuga dalla miseria, in cammino verso gloria e libertà. Lui gira in autostop oppure "rubando strada" sui treni, come raccontano tante canzoni o il film L'imperatore del nord . In quasi tutte le foto sulla chitarra (una delle centinaia che usa) si legge la scritta This machine kills fascists . Dagli anni '30 alla fine degli anni '50 è protagonista della storia sociale, artistica e politica statunitense. In prima fila nella mobilitazione per Sacco e Vanzetti. Racconta il processo e la condanna a morte in alcune ballate: Quando abbassarono l'interruttore in quella notte d'estate d'agosto / la gente per strada piangeva, marciava e cantava / in tutte le lingue del mondo .
Scrive, marcia, soprattutto canta. «Ci sono due generi di canzoni: quelle che buttano giù e quelle che tirano su […] che cercano di rendere le cose migliori per tutti, che protestano contro le cose che non funzionano e Dio sa quante sono». Il ribelle ottiene anche un successo commerciale con i Weavers (dove si fa notare Pete Seeger) ed è amato in mezzo mondo. Il lungo '68 mondiale lo riscopre. Da Bound for Glory , il regista Hal Ashby trae nel 1976 il film (lento e pieno di melassa però) Questa terra è la mia terra .
Ancora oggi Guthrie è al centro dell'attenzione. Negli ultimi anni sono usciti in Usa libri importanti su di lui: Ramblin' Man. The Life and Times of W. G. di Ed Cray e Prophet Singer. The Voice and Vision of W. G. di Mark Allan Jackson e un terzo di Guy Logsdon è in arrivo. Ma soprattutto molti musicisti hanno ripreso qualcuno dei tremila testi che Guthrie scrisse: da Bruce Springsteen a Billy Bragg al gruppo Klezmatics. Negli Usa un libro-cd ( The Live Wire ) vince il Grammy 2008 come «migliore registrazione storica»: è un lungo dialogo del 1949, in buona misura improvvisato, con la moglie Marjorie durante un concerto in un community center di Newark. L'anno scorso Derive-Approdi ristampa Canzone politica e cultura popolare in America, il mito di W. G. di Sandro Portelli. Feltrinelli pubblica ora il bellissimo Le canzoni di Woody Guthrie curato da Maurizio Battelli. E adesso il convegno "Woody Guthrie e la dignità dell'uomo" dal 21 al 23 maggio in vari luoghi di Bologna (il programma completo è su www.iger.org) rilancia ulteriormente l'attenzione su di lui.
A volere fortemente questo convegno è Franco Minganti che insegna letteratura americana all'università di Bologna. E' lui che ci guida, come suggerisce il sottotitolo, fra "Storia, letteratura, musica, immagini".

Un convegno molto ricco a 41 anni dalla morte di Guthrie. Come nasce?
Il convegno ha una genesi lontana e prende una forma più definita quando Maurizio Bettelli incontra Nora, la figlia di Woody, e scopre le mille attività dei Wga, i Woody Guthrie Archives di New York. Bettelli è musicista, americanista, insegna alla scuola Holden di Baricco e ha riproposto (anche con me, Sandro Portelli, Franco Meli e altri) vari spettacoli su Guthrie e la musica popolare degli Usa dai quali emergono molte e assai diverse facce di quella identità profonda dell'America che resta mitizzata più che conosciuta».

Da noi Guthrie è noto più come ribelle o "padre spirituale" di Bob Dylan che come artista poliedrico. E negli Stati Uniti di oggi?
Oggi gli Usa rifanno i conti con un periodo cruciale della loro storia: proibizionismo, depressione, la grande crisi degli anni '30, Roosevelt e il New Deal, guerra al nazifascismo e poi paranoia anticomunista. In tutte queste vicende lui è protagonista. Negli Usa, grazie al lavoro della figlia Nora, si sono ritrovati molti materiali preziosi mentre i libri di Cray (specialista in biografie) e Jackson hanno avuto un successo imprevisto. Guthrie lasciò centinaia di testi senza musicarli e Nora ne ha passati alcuni a musicisti (come Bragg o il tedesco Wenzel) e gruppi (Wilco, Klezmatics) che li incidono; con Wonder Wheel , proprio sui suoi testi, due anni fa i Klezmatics vincono il Grammy per il miglior disco di world music. Al convegno ci sono anche gli Stormy Six, fra i pochissimi, a mia memoria, che in Italia portassero sul palco le sue musiche. Mentre negli Usa Springsteen ha ripreso la vicenda di Tom Joad. Al convegno c'è Dave Marsh, curatore degli scritti di Woody nonchè biografo e consigliere dello Springsteen della prima ora. Parleremo anche del Guthrie meno noto sia come artista che sul piano umano.

Potremmo dire che Guthrie fu il massimo esponente di un modo molto americano di essere "antiamericani"?
Sicuramente. Disegni, scritti e canzoni si inseriscono in un filone che potremmo chiamare la radicalità della libertà: la responsabilità di denunciare quel che contraddice i primi emendamenti della Costituzione, considerati da molti la faccia più importante, autentica della Rivoluzione americana. C'è il Guthrie che collabora con People's World , rivista collegata al Partito comunista (la sua rubrica si intitolava "Woody dice") e che suona ovunque per solidarietà in cambio d'un piatto di fagioli o poco più. Mark Allan Jackson, uno dei relatori, ci parlerà del "vangelo sociale" nelle sue canzoni mentre Sandro Portelli rintraccerà il Guthrie politico persino nelle canzoni dedicate all'infanzia, riscoperte appieno da poco. Ma sul piano storico sarebbe riduttivo vederlo solo come esponente dell'Altra America. C'è l'artista e il comunicatore sempre più raffinato: ancora giovane,nel 1937, inizia a Los Angeles un'esperienza radiofonica mentre gli viene offerta la possibilità di scrivere. Man mano completa il quadro: musica, radio, disegni, articoli. Da qui il sotto-titolo del convegno.

Le altre facce di Guthrie?
Frank London dei Klezmatics a esempio parlerà del suo rapporto con la cultura ebraica e yiddish. Era un curioso, in un certo senso onnivoro o globale, diremmo oggi. Una sua frase famosa ci ricorda: «Tutto ciò che abbiamo non è che la somma di tutto ciò di cui siamo debitori» e può valere anche in questo contesto. Guthrie riconosceva i suoi debiti: un punto di riferimento fu certamente Will Rogers, caustico umorista e affabulatore populista, un figlio dell'Oklahoma che fu anche pioniere dell'aviazione e star della radio, dunque una sorta di icona popolare. Il populismo di Guthrie è più raffinato, con maggiore chiarezza politica, ma in comune c'era il desiderio di un linguaggio comprensibile a tutti. Le esperienze radiofoniche influenzano la sua oralità: «devi parlare come chi ti ascolta». Ma anche i suoi disegni sono semplici, vernacolari.

E invece il Guthrie più privato?
Ci sono le canzoni per i bambini che scrisse dopo la seconda guerra: era andato volontario in marina e al ritorno cercò un po' di serenità in famiglia. Si diverte a scrivere: «Mi spalmerò di colla e con i francobolli in testa mi spedirò a te» ma ai bambini canta anche «Com'è che il padrone si prende tanti soldi? Come mai, oh come mai? Non lo so neanche io. Ciao, ciao, ciao, ciao». C'è il Guthrie che conosce Steinbeck sul set di un documentario e resta folgorato dalla lettura di Furore dove Steinbeck cattura perfettamente i migranti delle tempeste di polvere, l'anima della sua gente e delle sue canzoni. Quando John Ford ne gira il film, Woody si ritrova sul set e forse dà anche qualche consiglio musicale. A Los Angeles invece frequenta i "radicali", poi a New York riscopre la cultura nera (in testa Leadbelly) e quella yiddish, dalla quale quasi viene adottato. Per lui si adopera spesso il termine "filosofo casereccio", noi diremmo saggezza popolare. All'inizio c'è una fascinazione reciproca fra lui e il mondo degli intellettuali e degli artisti, ma poi ne critica certi aspetti "industriali" rifiutando censura e auto-censura che gli vengono chieste; non si vuole fare incasellare, ripulire. Infine c'è il Guthrie malato degli ultimi anni.

Come finisce in ospedale psichiatrico?
Inizia a stare male, si fa iracondo e dà segni di squilibrio, spesso se ne va di casa. Nel '54 è arrestato per vagabondaggio, gli viene diagnosticata la Corea di Huntington, una malattia ereditaria. E' ricoverato. Parenti, amici e musicisti della nuova scena folk vanno a trovarlo in una sorta di pellegrinaggio. Alterna momenti di lucidità e di buio ma non si riprenderà. La fondazione diretta dalla figlia Nora è impegnata anche nella lotta a questa terribile malattia della quale si sa ormai tutto ma per la quale non esiste cura. Per vedere alcune delle tante facce di Guthrie consiglio il sito www.woodyguthrie.org, in inglese, lì si trova quasi tutto.


(tratto da Liberazione, 22/05/2008)

21.5.08

Il federalismo dei più ricchi

Francesco Indovina

(tratto da il manifesto, 20 Maggio 2008)


Gli anni del prossimo governo Berlusconi saranno durissimi, infatti mentre nel precedente suo governo ha teso soprattutto a occuparsi dei «suoi affari» (economici e giudiziari) oggi si dedicherà a «noi». Molte sceneggiate, qualche mancia, ma una consistente ulteriore redistribuzione del reddito (sempre di più a chi ha). Il tutto favorito dalla «crisi», non a caso si annunziano decisioni impopolari. Forse riuscirà a dispiacere molti di quelli che l'hanno votato. Il forse è necessario e cautelativo perché la sua capacità comunicativa è tale da far passare come bianco il nero e viceversa (proprio il contrario del Governo Prodi, ma questa è un'altra storia).
Un primo forte annunzio di riforma è il confuso e indeterminato progetto di «federalismo fiscale», che comunque sarà attuato, non a caso la Lega presenzia le competenze di governo sulle riforme (e poi anche l'opposizione è convinta della sua utilità. È vero che Dio acceca chi vuol perdere).
Oscuro in questo progetto è ogni riferimento alla «solidarietà» del paese: ciascuna regione faccia parte per se stessa, anche se qualche «mancia» sarà accordata al mezzogiorno (la considerazione del contributo elettorale dato da molte regioni meridionali non potrà essere dimenticato) e soprattutto si farà molto rumore con qualche investimento eclatante ma non prioritario e forse non utile (il ponte sullo stretto? che fa tanta gola alle imprese del nord e alle mafie del sud). Incerta è la tipologia della tassazione che sarà trasferita, incerto il quantum.
Ma non è soltanto la mancanza di un impianto «solidale» che deve preoccupare e l'incertezza sulla natura di tale federalismo, ma anche le conseguenze. Per esempio un punto di grande interesse è che fine farà il «debito pubblico» (qualcuno, pare, comincia a sollevare il problema). Per ogni quota di «minori» entrate fiscali al centro, una identica quota del debito pubblico dovrà essere trasferito alle regioni. Si tratta di un principio di equità fiscale e sociale dal quale non si potrà deviare. Ma come attribuire alle diverse regioni questo carico di debito? La cosa non sembra particolarmente difficile. Prendiamo le mosse dal fatto che al «debito pubblico» corrisponde un «reddito privato»: chi ha prestato soldi allo stato ne ricava degli «interessi»; un criterio equo è quello di distribuire il «debito pubblico» (pagamento degli interessi e restituzione del capitale) in ragione alla quota di interessi che in ogni regione vengono percepiti, che cioè corrisponde già oggi alla «distribuzione» tra le regioni del debito pubblico (e perché non ci siano travasi improvvisi, si assume la situazione al 31 dicembre 2007). In quest'ottica ogni regione, inoltre, si impegna a realizzare gli obiettivi di risanamento.
Un secondo annunzio, che, non meravigli, trova grande consenso nel precedente e nel nuovo presidente della Confindustria è quello relativo alla detassazione degli straordinari e dei premi. Un provvedimento a favore del «lavoro». Non c'è dubbio che i lavoratori ne ricaveranno dei benefici, ma solo loro? Non sarà che anche le «imprese» (mai usare il termine «padroni») ne ricavano non piccoli benefici? La detassazione riguarderà, infatti, sia la quota a carico dei lavoratori sia quella a carico dell'impresa. E se così fosse, e se questo provvedimento risultasse stabile ci dovremmo meravigliare di vedere aumentare a dismisura il «lavoro straordinario» (in sostituzione di quello «ordinario»)? E ancora non ci potremmo meravigliare se all'improvviso le rilevanti (forse eccessive?) remunerazioni dei manager si riducessero drasticamente mentre crescerebbero oltre ogni misura i «premi»?
Insomma bisogna stare molto attenti perché in ogni provvedimento sta nascosta la coda del serpente, e se non si fosse in grado di contrastare tali decisioni almeno renderli trasparenti può aiutare a capire.

10.5.08

Tel Aviv festeggia i 60 anni, i palestinesi no

di Michele Giorgio

(tratto da il manifesto, 9 maggio 2008)

Cerimonie pubbliche e parate, ma anche un raid su Gaza. E dall'altra parte si ricorda la «Nakba» con una marcia dei profughi

Israele ha festeggiato ieri il suo 60esimo compleanno con cerimonie pubbliche, gite, parate. La giornata è stata dedicata da molti israeliani ai picnic nei boschi, nei parchi pubblici e nei giardini privati e persino dallo spazio sono giunti gli auguri dell'astronauta ebreo Garret Reisman, membro dell'equipaggio della stazione spaziale internazionale. L'aviazione militare ha tenuto esibizioni acrobatiche non mancando però di compiere anche un attacco contro Gaza provocando il ferimento grave di quattro palestinesi - due civili e due attivisti del Jihad - investiti in pieno dall'esplosione di un razzo. Ma verso il cielo ieri non sono saliti soltanto i caccia F-16 israeliani ma anche 21.951 (come i giorni di Israele) palloncini di colore nero lanciati da centinaia di ragazzi palestinesi di Ramallah, Betlemme, Nablus, in segno di lutto per un anniversario che rappresenta anche la Nakba, la «catastrofe» nazionale palestinese.
«Israele festeggia ma per noi, che non abbiamo uno Stato, che viviamo sotto occupazione e nei campi profughi, è una giornata nera - ha detto un giovane palestinese - e abbiamo voluto dipingere il cielo di nero sopra la testa di George Bush che verrà (la prossima settimana) a celebrare la nostra disfatta e il nostro esodo forzato». Nei prossimi giorni sono previste varie iniziative per la Nakba, come la marcia dei profughi verso i punti di confine con in mano le tende piegate dove sono stati costretti a vivere per anni, le chiavi delle loro case originarie in Palestina e con appesa al collo la scritta con il numero 194, la risoluzione dell'Onu che sancisce il diritto dei rifugiati al ritorno. Domenica invece il gruppo «Sopravvissuti alla Nakba» si recherà a Gerusalemme Ovest, la zona ebraica della città, davanti alle case palestinesi confiscate da Israele dopo il 1948.
Le commemorazioni della Nakba coincideranno con la conferenza che si terra la prossima settimana a Gerusalemme con la partecipazione di Bush, dell' ex premier britannico Tony Blair, di Henry Kissinger e numerose altre personalità internazionali. Ieri si è saputo che Bush, non prenderà parte al vertice a tre con il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen. Ciò conferma che israeliani e palestinesi non hanno raggiunto alcun accordo su quella dichiarazione di intenti, richiesta dal Segretario di stato Condoleezza Rice, che si trascina dallo scorso novembre, quando le parti si incontrarono ad Annapolis. Secondo altre versioni la decisione del presidente Usa sarebbe essere collegata all'incerto destino politico di Olmert coinvolto in una indagine su mazzette elargite negli anni Novanta da un palazzinaro di Long Island, Morris Talansky, quando il premier israeliano era sindaco di Gerusalemme.
Ieri sera era attesa la decisione della magistratura se sollevare, pienamente o parzialmente, il silenzio stampa imposto sull'intera vicenda ai media locali. Negli Stati Uniti però il New York Post ha già rivelato tutti i particolari dello scandalo. Le dimissioni di Olmert sono probabili nell'eventualità in cui venisse incriminato.

Cinisi, sfilano in migliaia per Peppino Impastato


Ucciso trent'anni fa dalla mafia di Tano Badalamenti

(tratto da home.rifondazione.it)



Migliaia di persone si sono ritrovate in corso Vittorio Emanuele, a Terrasini, pochi chilometri a est di Palermo, dove si trovava la sede di Radio Aut. La Radio Aut di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia, dalla mafia di don Tano Badalamenti, la notte dell'8 maggio di trent'anni fa. Impastato fu rapito, pestato, legato e poi fatto saltare col tritolo sui binari del treno. Prima parlarono di suicidio; poi, di fronte all'assurdità di quell'ipotesi, di un attentato finito male.

Tutti sapevano la verità: tutti sapevano che la mafia lo voleva morto. Ma la verità giudiziaria è arrivata solo 23 anni dopo: Tano Badalamenti, il mandante fu condannato all'ergastolo e Vito Palazzolo, braccio destro di Badalamenti, a trent'anni.

Ieri, a distanza di tanti anni, migliaia di ragazzi provenienti da tutta Italia, hanno percorso l'ultimo tragitto compiuto da Impastato quella notte. Il tragitto di chi ha scelto di seguire la strada dell'antimafia pagando quella scelta con la morte. Un percorso carico di significati, dunque. Un modo per riprendere quel cammino esattamente dal punto in cui era stato brutalmente interrotto.

Tra i ragazzi arrivati c'era anche Luisa Impastato, nipote di Peppino, che ha passato la giornata a distribuire fiori ai manifestanti. E il fratello Giovanni: «Fra Terrasini e Cinisi - ha dichiarato commosso - non si era mai vista una manifestazione antimafia così grande». «E' un giorno di ricordo e di festa - ha aggiunto Giovanni, con al suo fianco la moglie Felicia - Sto vedendo migliaia di persone». Ed ancora: «Non ho sentito Veltroni, e mi dispiace che oggi non sia qui, credo che abbia ritenuto opportuno non partecipare perchè rispetto all'anno scorso qualcosa è cambiato». Non c'era Veltroni ma c'era tanta altra gente.

E c'era Don Luigi Ciotti: «Anche i bambini - ha detto il prete di Libera - possono fare qualcosa contro la mafia: possono, con l'aiuto dei loro insegnanti, conoscere la storia e le persone che l'hanno combattuta, come Peppino Impastato e Mauro Rostagno. Il suo punto di riferimento - ha sottolineato Don Ciotti - era un torinese trapiantato in Sicilia, Mauro Rostagno, anche lui assassinato da quella mafia che denunciava attraverso un'emittente televisiva». Tra i presenti anche l'ex presidente dell'antimafia Francesco Forgione, il sindaco di Cinisi, Salvatore Palazzolo, che ha annunciato che «l'aula del consiglio comunale sarà intitolata Peppino Impastato. Sono molto contento - ha aggiunto il primo cittadino - della riuscita della manifestazione per il trentennale. Finalmente Cinisi sarà conosciuto come il paese di Peppino Impastato e non quello del boss Badalamenti».

E mentre le migliaia di persone sfilavano verso Cinisi, una radio, Primaradio, mandava in onda la musica e le parole di Impastato: Donovan, Fabrizio De Andrè, Pink Floyd e Guccini, intervallati da frammenti di «Onda Pazza», la trasmissione nella quale Cinisi diventava Mafiopoli, il corso Umberto I era corso Luciano Liggio, il sindaco Gero Di Stefano era Geronimo Stefanini e Gaetano Badalamenti era Tano Seduto. Insomma, il repertorio di denuncia di Peppino Impastato che tanto irritava e preoccupava i mafiosi.

L'ultima parola spetta però a Riccardo Orioles, storico giornalista antimafia: «Nelle carte della repubblica Italiana i posteri troveranno scritto che un antimafioso fu ucciso da Badalamenti, che era amico di Spatola, che era (se non amico) almeno un interlocutore di Andreotti».
Da.Va.


10 Maggio 2008

La Fiera del libro di Torino e la buona vecchia Europa

lettera aperta
di Yitzhak Laor*


(tratto da il manifesto, 9 maggio 2008)

Cara amica, il nostro problema qui, in quanto israeliani contro l'occupazione, è un problema concreto con i nostri vicini concreti, quelli che tornano a casa dopo avere prestato servizio ai blocchi stradali e avere trattato esseri umani come animali: diventano fascisti attraverso la pratica - ossia attraverso il servizio militare - e solo poi fascisti ideologicamente. Questo non preoccupa la sinistra filo-israeliana in Italia. Tu sostieni che la sinistra italiana non avrebbe trattato un boicottaggio del Sudafrica nel modo in cui sta trattando qualunque proposta di boicottaggio di Israele. Ma la cosa è più semplice: pensa alla sinistra italiana durante la prima guerra del Libano e paragonala alla sua posizione attuale. Non è l'occupazione a aver cambiato natura. È l'Europa occidentale che è cambiata, che è tornata al suo vecchio modo di guardare i non-europei con odio e disprezzo. Nell'immaginario della sinistra italiana, i palestinesi hanno perso lo «status» simbolico di cui godevano un tempo (la kefia al collo di decine di migliaia di giovani italiani, ad esempio) e sono passati nell'hinterland dell'Europa: dove gli americani possono fare quello che vogliono, e l'avida Europa, come sempre, si schiera dalla parte dei più forti. I palestinesi sono ancora una volta solo degli arabi che sanguinano, e il sangue arabo - proprio come in passato il sangue ebraico - vale poco. Si potrebbe riassumere il cinismo dell'attuale scena italiana citando Giorgio Napolitano, quando ha fatto riferimento a una vecchia discussione che ebbe nel 1982 a Torino con l'allora comunista Giuliano Ferrara. Riflettendo sulla posizione del Pci sul massacro di Sabra e Shatila, Napolitano, che sarebbe poi diventato Presidente, ha detto: «Per quanto riguarda una determinata persona (Giuliano Ferrara), ricordo solo che egli si faceva promotore di una causa (la causa palestinese nel 1982) che nel Partito godeva di una qualche popolarità ma che non ci avvicinava per nulla alla presa del potere». Machiavelli avrebbe dovuto incontrare sia Ferrara che il Presidente italiano per un drink sui fiumi di sangue palestinese.
Ma il cambiamento di posizione della sinistra italiana ha molto poco a che vedere con la propaganda israeliana, anche se la Fiera del libro di Torino rientra anch'essa nella propaganda israeliana. Concentriamoci per un momento su questa fiera, a titolo di esempio. Abbiamo a che fare con la Cultura, che è sempre la «coesistenza» di affari (delle case editrici, ad esempio) con il razzismo implicito degli «amanti della Cultura», cultura che è sempre puramente occidentale (cristiana o «secolare»). Gli israeliani in questo contesto sono gli «eredi della buona vecchia Europa», mentre gli arabi, naturalmente, non sono ammessi in questa cultura. In breve, la xenofobia italiana ha anche un volto umano: la Fiera del libro di Torino. Il nostro stato, che da 41 anni sta privando un'intera nazione di qualunque diritto se non quello di emigrare, viene celebrato dalla Cultura. Bene, questa è l'Europa - dopo tutto, la stessa Europa che noi e i nostri genitori abbiamo conosciuto: la Cultura è sempre stata la cultura dei Padroni. Il dibattito sulla Fiera del libro può dimostrare come la sinistra, un tempo la più sensibile d'Europa verso la causa palestinese, sia diventata la più cinica sinistra filo-israeliana. Ha perso il suo orizzonte politico, e in questo vuoto ideologico ciò che si è realmente verificato è il ritorno del Coloniale. È questo il contesto storico in cui va letta l'estinzione della nazione palestinese, celebrata attraverso il 60° anniversario di Israele. L'Europa si sta espandendo fino a includere Israele, come «isola di democrazia», di «diritti umani».
Non dobbiamo dimenticare che la sinistra italiana non ha mai attraversato un processo post-coloniale. Ha fatto tutta la strada dalla retorica anticolonialista degli anni '70 all'attuale «ansia» coloniale per «i nostri fratelli ebrei là nella giungla, tra i selvaggi». Mamma li turchi!
Cara amica, non possiamo dipendere dagli europei, nonostante pochi coraggiosi. Guarda, i nostri soldati sono tornati a casa e dai loro scarponi il sangue cola in salotto. Imparano presto nella vita a ignorare le lacrime delle madri. Prima di compiere vent'anni sono già crudeli come cacciatori di teschi. Lo ammetto: dovevo scrivere questo pezzo per il manifesto, ma mi sono rivolto a te, perché non riesco più a rivolgermi agli europei direttamente, chiedendo loro di pensare ai palestinesi rinchiusi come animali nei loro ghetti, al vento e alla pioggia. E gli anni passano.

* scrittore israeliano

(traduzione Marina Impallomeni)

9.5.08

Mille strade per Impastato

di Angelo Mastrandrea

(tratto da il manifesto, 9 maggio 2008)

30 anni fa l'uccisione del militante di Lotta Continua. Oggi un corteo da Terrasini a Cinisi ripercorrerà il suo ultimo tragitto. Il fratello Giovanni: non vogliamo passerelle istituzionali

Oggi, 30 anni fa, alle 20,15 Peppino Impastato usciva da Radio Aut, accompagnava a casa il suo compagno di Onda pazza Salvo Vitale, poi imboccava la litoranea per tornare a Cinisi. Dove non arriverà mai. Oggi pomeriggio, 9 maggio 2008, migliaia di persone si daranno appuntamento al civico 108 di Corso Vittorio Emanuele a Cinisi, sotto il balcone dove sventola una bandiera rossa a memoria di una radio che non c'è più dall'estate dell'81. Insieme, percorreranno a piedi la strada che fece Peppino quella sera con la Fiat 850 che gli aveva prestato sua zia Fara Bartolotta e che sarà ritrovata a pochi metri dal suo corpo dilaniato, vicino ai binari del treno per Palermo.
«Sarà la più grande manifestazione che abbiamo mai fatto per Peppino», dice il fratello Giovanni, immortalato il giorno dei funerali con il pugno levato a testimoniare che, come diceva lo striscione preparato dai compagni, «con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo». E che oggi come allora ne porta avanti la memoria e un impegno per l'«antimafia sociale». E' anche per questo che spiega con chiarezza che l'invito a scendere in piazza oggi è rivolto ai movimenti innanzitutto, e poi alle amministrazioni che hanno intitolato strade e biblioteche a Peppino e ai tanti comitati e associazioni a lui dedicati. Stop invece alle presenze istituzionali, e su questo non appare indifferente l'esito delle recenti elezioni in Sicilia: «Se verrà qualcuno lo farà non da invitato, perché a noi non piacciono le passerelle». Ci saranno invece gli attivisti del circolo Impastato di Sanremo, partiti per una veleggiata antimafia che ha toccato diverse città tirreniche prima di arrivare in Sicilia.
La più grande manifestazione per Impastato, dunque. Più dei funerali del '78, più di quella storica del '79, più del primo Forum sociale antimafia, quello del 2003 con l'apertura al movimento altermondialista. Ma aperta come sempre dai compagni di Peppino e da quello striscione ormai sbiadito. Quest'anno, gli organizzatori hanno fatto le cose in grande stile. In attesa che la casa di don Tano Badalamenti sul corso di Cinisi, confiscata dallo Stato, venga consegnata al centro Impastato per farne una biblioteca, ultimo smacco al boss defunto a segnare la vittoria di Peppino, hanno organizzato quattro giorni di forum e manifestazioni, cominciate ieri pomeriggio. E Giovanni Impastato ne ha organizzato per lanciare un appello a intitolare ancora più strade a Peppino, in ogni città d'Italia.
Oggi, al termine del corteo come di consueto nella piazza principale di Cinisi, dopo esserse passati davanti a casa di Peppino dove non ci sarà più a salutarli mamma Felicia, si esibiranno Carmen Consoli e i Tetes de Bois. E vedremo se finalmente, dopo trent'anni, la musica riuscirà a far aprire le tapparelle delle finestre affacciate sulla piazza. Quelle che Umberto Santino, che della memoria di Peppino ha fatto una ragione di vita, già allora indicò con una frase rimasta celebre: «Finché rimarranno chiuse, vorrà dire che la mafia non è stata ancora sconfitta».

Fiera del Libro di Torino. L'Anp: «Ecco perché non partecipiamo»

di T. D. F.
(tratto da il manifesto, 8 maggio 2008)

Sempre sulla Fiera del Libro di Torino abbiamo parlato con Sabri Ateyeh, ambasciatore dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) in Italia.

Lei ha espresso massimo rispetto per la decisione del presidente Napolitano di inaugurare oggi la Fiera di Torino dove quest'anno Israele, ospite d'onore, celebra il 60mo della sua fondazione, ma anche la preoccupazione critica che la sua presenza possa essere interpretata da Israele come un appoggio italiano alla sua politica di negazione dei diritti del popolo palestinese...
Vorrei precisare un punto essenziale. Massimo e convinto rispetto per Napolitano, noto per il suo interesse per tutte le manifestazioni culturali, soprattutto in Italia. Non siamo preoccupati per questo e non ci permetiamo di criticare il presidente italiano. La nostra preoccupazione è che questa manifestazione non venga accompagnata da una parola critica alla politica del governo israeliano e che quindi Israele possa approfittarne interpretando tutto questo come un appoggio alla sua politica. Era lo stesso concetto che ho espresso al signore dell'agenzia Ansa, il cui testo però ha fatto intendere un legame fra questa preoccupazione e la presenza del capo dello stato italiano a questa manifestazione.

Le vostre perplessità comunque restano sulla coincidenza tra Fiera del Libro e celebrazione del 60mo anniversario d'Israele, per quella data che il popolo palestinese chiama «nakba» (catastrofe), cioè la cacciata dalla propria terra...
Noi instistiamo con questa perplessità e abbiamo riscontrato una comprensione anche da parte dell'organizzione della Fiera del libro. Abbiamo spiegato la nostra posizione, sono venuti da noi e abbiamo discusso a lungo. Non era nel loro intento assolutamente far nascere questo equivoco. Da parte nostra noi non siamo contrari assolutamente né ad invitare Israele, né a celebrare, in qualsiasi altra occasione, Israele. Quello che noi abbiamo obiettato è che questa coincidenza - la celebrazione -, negando la questione palestinese, ignorando completamente la catastrofe che è stata subita dal popolo palestinese, è assolutamente sbagliata. Noi negoziamo con Israele, noi parliamo con Israele, noi stiamo discutendo per arrivare alla pace con Israele. Non siamo contrari alla presenza di Israele in qualsiasi manifestazione. Non siamo contro, siamo per sollevare la questione palestinese, la catastrofe del popolo palestinese, i diritti dei palestinesi che purtroppo sono stati volutamente tenuti fuori da questo evento.

Qual è la posizione ufficiale dell'Anp? Voi avete deciso di non partecipare alla Fiera di Torino...
È la posizione di tutti i paesi arabi, concordi con tutti gli intellettuali arabi. Le dico di più. La posizione politica araba è molto più moderata della reazione, assai risentita, degli intellettuali arabi. Noi politicamente abbiamo cercato di smorzare un po' i toni di questo risentimento. Ma manca nell'iniziativa di Torino la memoria, la presenza e la parola, per riconoscere che, sì, è nato lo stato di Israele dietro la risoluzione dell'Onu, ma la risoluzione dell'Onu è stata applicata a metà. La seconda metà della risoluzione dell'Onu era condizionata, legata, alla nascita dello stato palestinese. Ancora oggi negato. E la stessa risoluzione che ha dato la vita allo stato di Israele implica la nascita dello stato della Palestina. La mancanza di questo riferimento al diritto della nascita dello stato palestinese, la coincidenza della celebrazione ufficiale, ha provocato questa nostra giusta reazione.

L'ambasciatore israeliano Gideon Meir apprezza molto la presenza di Napolitano, la scelta della Fiera del Libro di celebrare la nascita di Israele e dice che chiunque la contesta nega la legittimità allo stato israeliano.
Ripeto, non non ci permettiamo di mettere in discussione la presenza di Napolitano. Ma la Fiera del libro di Torino divide piuttosto che unire. La gioia dell'ambasciatore israeliano è un atteggiamento miope, di chi è incapace di allargare la sua visione, perché è stata ignorata l'altra parte che è egualmente importante, come la celebrazione di Israele, cioè la negazione del diritto dei palestinesi ad avere uno stato. Se Meir si accontenta di cancellare la memoria...Che grande equivoco il suo. Con in più un pizzico di arroganza, proprio di chi non accetta nessuna critica e addirittura la collega al diritto all'esistenza dello stato di Israele che l'Anp non mette in discussione. Noi stiamo negoziando con Israele, l'Anp l'ha riconosciuto. Ma come si fa a continuare a mascherare la questione di fondo dei diritti negati al popolo palestinese, dietro una manifestazione culturale gestita solo come propaganda. Mi dispiace molto per un politico che si abbassa a questo livello.

Peppino Impastato. Cento passi a Cinisi, trenta anni dopo


di Umberto Santino*
(tratto da il manifesto, 09 maggio 2008)

Da quel 9 maggio del 1978, quando furono trovate le briciole del corpo di Peppino Impastato, nelle iniziative che ogni anno abbiamo svolto per ricordarlo abbiamo sempre cercato di evitare le liturgie delle commemorazioni. Nel 1979, nell'anniversario dell'assassinio, abbiamo indetto la prima manifestazione nazionale contro la mafia. Nel corso degli anni '70 la mafia con i traffici illegali si era diffusa a livello nazionale e internazionale, eppure, andando in giro per l'Italia per preparare la manifestazione, ho incontrato volti che esprimevano sorpresa e incredulità: la mafia non era ormai un genere di antiquariato e, in ogni caso, non era un fatto locale, una sorta di tara dei siciliani?

Il traffico e il consumo di droghe erano dilagati sul territorio nazionale, il denaro sporco si riciclava nei circuiti finanziari, ma la percezione si aggrappava a uno stereotipo: la mafia come residuo arcaico, in via di sparizione, se non già estinto, con un mondo da museo etnografico.
Ci sarebbero voluti le mattanze, i grandi delitti e le stragi degli anni '80 e '90 per portare la mafia alla ribalta nazionale. Ma sempre come emergenza delittuosa, a cui rispondere con leggi e provvedimenti che più che fondare un progetto organico si ponevano come legislazione eccezionale, in risposta all'escalation della violenza. La legge antimafia del 13 settembre 1982 veniva dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, con 150 anni di ritardo rispetto alla realtà, le altre leggi dopo le stragi in cui cadevano Falcone, Morvillo, Borsellino e gli uomini di scorta. Se non ci fossero stati quei delitti non ci sarebbe stata la reazione delle istituzioni, non ci sarebbero stati il maxiprocesso e gli arresti e le condanne che interrompevano una lunga tradizione di impunità. Ma anche le condanne si sono fermate agli esecutori e alla cupola mafiosa, disvelata dalle dichiarazioni di Buscetta, lasciando in ombra i «mandanti esterni». Si ripeteva, per le stragi di Capaci, di via D'Amelio, di Firenze e di Milano, il copione di Portella, un canovaccio buono anche per le stragi di Piazza Fontana, di Brescia, della stazione di Bologna.
L'Italia è un Paese in cui la violenza, variamente abbigliata, è stata una risorsa a cui ricorrere quando il conflitto sociale e politico non era governabile per altre vie e gli scheletri negli armadi fanno parte del paesaggio nazionale. Si è strutturato un sistema di potere intriso di illegalità, legittimata dall'impunità. Ma negli ultimi anni si è andati oltre ogni limite di decenza: nel mezzo secolo di dominio democristiano i rapporti con la mafia c'erano ma venivano negati; ora uomini come Dell'Utri li ostentano, consacrando come eroi capimafia ergastolani e come valore l'omertà. Il berlusconismo non ha pudori. E siamo solo all'antipasto del Berlusconi 4.
Quest'anno, nel trentesimo anniversario dell'assassinio di Peppino, di cui sono ormai noti i responsabili (nel 2001 e del 2002 sono stati condannati come mandanti Badalamenti e il suo vice e la relazione della Commissione antimafia ha individuato le responsabilità di uomini della forze dell'ordine e della magistratura nel depistaggio delle indagini) riproponiamo una manifestazione nazionale per fare il punto su mafia e antimafia e rilanciare un progetto.
Cosa nostra ha ricevuto dei colpi durissimi, ma i rapporti tra mondi criminali e contesto sociale, soprattutto con l'economia e la politica, godono di ottima salute. Cuffaro, nonostante la condanna per favoreggiamento, è stato eletto al Senato; Dell'Utri, nonostante la condanna per concorso esterno, è tornato in Parlamento. Gli inviti all'autoregolazione non sono stati presi in considerazione. Se non si stabilisce tassativamente che chi è rinviato a giudizio o condannato per mafia e altri reati non può accedere alle istituzioni, si continueranno a fare buchi nell'acqua.
L'accumulazione illegale ha raggiunto livelli da multinazionale, anche se le stime correnti mi lasciano perplesso, ed è sui terreni del potere e della ricchezza che si costruiscono alleanze e blocchi sociali. Se non si spezzano questi rapporti, che vanno dagli strati popolari alla «borghesia mafiosa», si potranno colpire le organizzazioni criminali ma non la radice della loro persistenza.
Parliamo di questi temi nei forum che si svolgono a Cinisi (da ieri all'11 maggio), confrontando idee ed esperienze, dal lavoro nelle scuole all'antiracket, all'uso dei beni confiscati. Riprendendo il percorso di Peppino Impastato. La sua radicalità è una scelta obbligata, se non vogliamo limitarci alla cattura dei padrini e affrontare un problema che va di pari passo con i processi di finanziarizzazione e con le forme di legalizzazione dell'illegalità che marchiano le dinamiche del consenso e generano la criminalizzazione del potere, che sa soltanto autoassolversi.

* presidente del Centro Siciliano di Documentazione «Giuseppe Impastato»

5.5.08

Tariq Ali: Perché non parteciperò alla Fiera del libro

di Tariq Ali
(tratto da il manifesto, 6 febbraio 2008)

Quando ho accettato di partecipare alla Fiera del libro di Torino, cosa che avevo fatto in precedenza, non avevo idea che l'«ospite d'onore» fosse Israele con il suo 60esimo anniversario. Ma questo è anche il 60esimo anniversario di quella che i palestinesi chiamano la nabka: il disastro che si abbatté su di loro quell'anno, quando furono espulsi dai loro villaggi, in alcuni casi uccisi, le donne stuprate dai coloni. Questi fatti non sono più in discussione.


Perché dunque la Fiera del libro di Torino non ha invitato israeliani e palestinesi in pari numero? La presenza, accanto a trenta autori israeliani, di trenta autori palestinesi (e vi garantisco che ne esistono: sono poeti e romanzieri raffinati) avrebbe potuto essere vista come un gesto positivo e pacifico, e avrebbe consentito un dibattito costruttivo: una versione letteraria della West-Eastern Diwan Orchestra di Daniel Barenboim, metà israeliana, metà palestinese. Una scelta di questo tipo avrebbe unito le persone, ma no. I commissari dela cultura sanno quello che fanno. Ho discusso energicamente con alcuni degli scrittori israeliani presenti alla Fiera del libro in altre occasioni, e sarei stato felice di fare lo stesso anche questa volta, se le condizioni fossero state diverse. Quello che hanno deciso di fare è una brutta provocazione.
Sembrerebbe che la cultura sia sempre più legata alle priorità politiche del duo Stati uniti-Unione europea. L'Occidente è cieco nei confronti delle sofferenze dei palestinesi. La guerra israeliana contro il Libano, le notizie quotidiane dal ghetto di Gaza non commuovono l'Europa ufficiale.
In Francia, lo sappiamo, è praticamente impossibile criticare Israele. In Germania pure, per motivi particolari. Sarebbe triste se l'Italia imboccasse la stessa strada. Quante volte dobbiamo sottolineare il fatto che criticare le politiche colonialiste di Israele non è una forma di antisemitismo?
Accettare quel principio significherebbe diventare vittime volontarie del ricatto cui l'establishment israeliano ricorre per tacitare le voci dissenzienti. Ma ci sono alcune persone coraggiose, come Aharon Shabtai, Amira Hass, Yitzhak Laor e altri, che criticano Israele e non intendono permettere che le loro voci siano imbavagliate in questo modo. Shabtai si è rifiutato di partecipare a questa Fiera. Come avrei potuto fare altrimenti.
Una cosa è difendere il diritto di Israele a esistere, come faccio e ho sempre fatto. Ma da questo a trarre la conclusione che il diritto di Israele a esistere si traduca nella concessione di un assegno in bianco per fare ciò che vuole di quanti ha espulso, e che tratta come untermenschen, è inaccettabile.
Personalmente sono favorevole a un solo stato israeliano-palestinese in cui tutti i cittadini siano pari. Mi si dice che questo è utopistico. Può darsi, ma è l'unica soluzione a lungo termine.
Per via degli argomenti di cui trattano i miei romanzi, mi viene spesso chiesto (l'ultima volta a Madison, nel Wisconsin) se sarebbe possibile ricreare l'epoca migliore della al-Andalus e della Sicilia, quando tre culture coesistettero a lungo. La mia risposta è la stessa: oggi l'unico luogo dove essa potrebbe rivivere è Israele/Palestina.
Viviamo in un mondo di doppi standard, ma non è necessario accettarli. A volte accade che individui e gruppi a cui viene fatto del male, infliggano il male a loro volta. Ma la prima cosa non giustifica la seconda. E' stato l'antisemitismo europeo a tollerare il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, genocidio di cui i palestinesi sono ora diventati indirettamente le vittime.
Molti israeliani sono consapevoli di questo fatto, ma preferiscono non pensarci. E molti europei oggi guardano ai palestinesi e ai musulmani così come un tempo guardavano gli ebrei. Questa è l'assurda ironia cui assistiamo nei commenti sulla stampa e in televisione, virtualmente in ogni paese europeo. E' un peccato che la burocrazia della Fiera del libro di Torino abbia deciso di assecondare i nuovi pregiudizi che spazzano il continente. Auguriamoci che il loro esempio non sia seguito da altri.

(Traduzione Marina Impallomeni)

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