22.2.07

Foibe, perché il caso è tutt'altro che chiuso

di Tommaso Di Francesco

(tratto da il manifesto del 20/02/2007)

All'improvviso, con la stessa apparente nettezza con la quale si era espressa, la protesta del presidente croato Stipe Mesic è rientrata, con la dichiarazione che nelle parole del presidente italiano Giorgio Napolitano «non c'era nessun attacco alla Croazia» né «al Trattato di pace del 1947 e gli accordi di Osimo e di Roma» e che «non conteneva ispirazioni revansciste e storico revisioniste». E' quello per cui la Farnesina per quasi una settimana ha attivamente «lavorato». Dietrofront di Mesic dunque. Soprattutto dopo la retromarcia, vera, del presidente Napolitano che per primo aveva ridimensionato le sue affermazioni unilaterali. Il caso dunque è chiuso?
No. Almeno per due ordini di motivi, internazionale e interno. Dal punto di vista dei nuovi governi balcanici, tutt'altro che eredi della ex Jugoslavia, il caso resta sensibilmente aperto. Mesic fa marcia indietro per obbligo alla diplomazia europea e italiana (e alla questione dei diritti di proprietà rivendicati da Roma), ma non certo per essere stato isolato. La Commissione europea che pure ha criticato Mesic, non ha in realtà mai messo in discussione l'adesione di Zagabria alla Ue. In patria poi il presidente croato ha avuto vasta solidarietà, tra le popolazioni di Istria e Dalmazia dove non c'è famiglia che non abbia una vittima del nazifascismo, e dal governo Sanader di destra pronto a cavalcare ogni «croaticità», perfino la liberazione dal nazifascismo. E' l'ambiguità sostanziale dell'esperienza croata, rappresentata da Franjo Tudjman (uno dei generali di Tito prima di diventare presidente xenofobo, negazionista e ultranazionalista), e poi dallo stesso Stipe Mesic, ex comunista, neonazionalista e sponsor dell'indipendenza croata su base etnica e della «guerra patriottica», vale a dire i massacri nella Krajna serba e nella Mostar musulmana. Che volete che sia la memoria per Mesic, pronto nel giro di pochi mesi a proclamare l'anniversario della «nazione croata» degli ustascia di Ante Pavelic e la guerra di liberazione partigiana?! Ma soprattutto poche ore prima del dietrofront di Mesic c'è stata la lettera di richiesta di chiarimenti, più formale ma destinata a pesare di più, del presidente sloveno Janez Drnovsek, esponente di quella Slovenia assai più integrata in Europa e anche più legata all'Italia. Al quale è stato risposto. Come a dire che le preoccupazioni per le parole di Napolitano, formalmente rientrate, sono più che reali e diffuse.
A questo punto però, se era facile immaginare che, di fronte a pressioni e ricatti, le ribellioni a parole delle piccole patrie etniche sarebbero formalmente rientrare, il nodo da sciogliere resta. E riguarda le responsabilità dell'Italia che non possono essere certo delegate ad altri. Insieme a quello dei contenuti e dei modi con cui l'Italia di Berlusconi - che ha sdoganato l'estrema destra postfascista e quella neo-nazifascista di Forza nuova e Fiamma tricolore - ha prima rappresentato quell'infernale e delicato periodo storico che va dal 1941 al 1945 nel sud-est europeo e in particolare nel «Litorale adriatico», e poi lo ha legittimato con un voto bipartisan in Parlamento nella legge del «Giorno del Ricordo». Un atto di memoria revisionata decretata per legge al quale ha partecipato una sinistra inconsapevole e reticente. Le parole di Napolitano che ha ridotto la tragica vicenda delle foibe a un episodio di «pulizia etnica contro gli italiani» ideologicamente rimosso, restano una pesante testimonianza di reticenza sulle responsabilità primarie del nazifascismo contro le popolazioni balcaniche. L'Italia ha il diritto di denunciare le foibe come sanguinosa pagina di vendette, ma non a prescindere dal contesto storico dei crimini del nazifascimo che occupava militarmente quelle terre balcaniche. Perché il presidente della repubblica, come chiedono molti storici italiani, non va a pregare sui sacrari slavi delle vittime civili e dei partigiani massacrati da fascisti, nazisti e generali pluridecorati e celebrati? Perché la celebrazione non diventa occasione di memoria anche sui crimini di guerra italiani, correggendo l'improbabile numero di vittime come chiede lo storico Jorge Pjerevec e decidendo almeno il senso dello spot televisivo, bugiardo e senza firma nell'ultima edizione.
Il caso è tutt'altro che chiuso. Ce lo ritroveremo tra un anno, alla quarta celebrazione, voluta come le altre non a caso a due settimane di distanza dalla giornata della Memoria della Shoah - ha ricordato lo storico Enzo Collotti. Tanto per permettere, con improponibili paragoni e sulla pelle della verità storica, la riconciliazione nazionale e la cosiddetta «unità politica» degli italiani che sta a cuore al presidente Napolitano. Sì, il caso è tutt'altro che chiuso.

20.2.07

Il Circolo PRC "Sorelle Musci" di Parma sulla questione delle foibe e le parole di Napolitano

(tratto da www.lernesto.it, 18/02/2007)

O.D.G. SULLA “QUESTIONE FOIBE” E IL DISCORSO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO DEL 10 FEBBRAIO APPROVATO DAL CIRCOLO «MUSCI» DEL P.R.C. DI PARMA

DURANTE LA CONFERENZA D’ORGANIZZAZIONE DEL 18 FEBBRAIO

«Vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica».

Il circolo P.R.C. «Sorelle Musci» di Parma considera queste parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Napolitano il 10 febbraio in occasione della celebrazione della «Giornata del ricordo» assolutamente gravi e del tutto inaccettabili.

Esse si inscrivono nel generale quadro di mistificazione e revisione della storia del secolo scorso in atto da anni e intrapreso dalle destre; in particolare fascisti e postfascisti strumentalizzano da sempre il dramma delle foibe e dell’esodo per attaccare l’antifascismo e la Resistenza, il movimento di Liberazione e i partigiani, i comunisti.



Non vi fu disegno annessionistico slavo, semmai vi fu una Conferenza di Pace alla quale l’Italia prese parte, nella persona di De Gasperi, come Paese sconfitto alleato della Germania. Non vi fu pulizia etnica da parte jugoslava, come dimostra il fatto stesso che non più di trenta sono stati i riconoscimenti conferiti a parenti delle vittime delle foibe da parte dello stesso Napolitano nella commemorazione del 10 febbraio. Un tentativo organizzato e programmato di pulizia etnica vi fu piuttosto da parte dell’Italia fascista. A cominciare dal violento discorso razzista di Mussolini del 1920 a Pola e dalle azioni squadriste, poi con l’ “italianizzazione” realizzata durante il ventennio nero, infine con i crimini commessi durante l’occupazione militare di Slovenia e Croazia in seguito all’immotivata aggressione italiana della Jugoslavia del 1941.



I fatti tragici delle foibe del settembre-ottobre ’43 e del maggio ’45 sono storicamente inseriti in questo contesto, non sono assimilabili ai crimini del fascismo e non mettono in discussione il grande valore della Resistenza italiana e della Resistenza jugoslava, con la quale ultima, dopo l’8 settembre ’43, si schierarono e combatterono ben 40.000 soldati italiani abbandonati dai loro comandanti e dallo stato maggiore italiano.



I fatti delle foibe, per quanto tragici, sono di dimensioni molto più contenute (alcune centinaia di vittime, per lo più militari, forze dell’ordine, funzionari dell’Italia fascista occupante la Jugoslavia), sono stati una reazione ai crimini fascisti più di giustizia sommaria da parte di partigiani jugoslavi che non violenza programmata dall’alto del vertice titino.



Il circolo «Sorelle Musci» di Rifondazione chiede:

- ai dirigenti nazionali del P.R.C. di prendere le distanze dalle parole del Presidente Napolitano;

- al quotidiano del partito, «Liberazione», di dare più spazio e risalto alle varie iniziative in corso in Italia dirette a contrastare il disegno revisionistico della storia e a pubblicare interventi critici in relazione alle manifestazioni ufficiali della «Giornata del ricordo», istituita nel 2004 col voto contrario del PRC in Parlamento;

- al compagno Sandro Curzi, membro del Consiglio d’Amministrazione della RAI TV, di adoperarsi affinché la tv di Stato trasmetta il filmato della BBC «Fascist Legacy» che documenta i crimini di guerra commessi dall’Italia fascista in Africa e in Jugoslavia.

19.2.07

Foibe, una revisione dietro l'altra

di Tommaso Di Francesco

(tratto da il manifesto del 16/02/2007)

Non si spegne il fuoco alimentato sulle foibe dal presidente Napolitano. Il presidente croato Stipe Mesic non tace nemmeno di fronte alle proteste - modeste - dell'Unione europea. Ieri, dopo l'insistenza di Napolitano che ha ripetuto il suo «no all'unilateralismo nazionalista», anche Giuliano Amato ha espresso «amarezza».
Il fatto è che le memorie cancellate sono troppe. Napolitano ha parlato come se non sapesse che un vasto dossier sui crimini di guerra commessi dagli italiani resta misconosciuto - con le stragi nazifasciste in patria nascoste «dietro gli armadi». In una Italia dove alligna un revisionismo storico quotidiano. Con un magistrato che in una sentenza di pochi giorni fa a Roma approva e assolve la dichiarazione di un neonazifascista di Forza nuova che dichiara: «Il responsabile delle Fosse Ardeatine è il capo partigiano Bentivegna che ha la colpa di via Rasella» (sic); mentre lo storico delle foibe Giacomo Scotti viene perseguitato a Trieste e a Fiume da An e Forza nuova - una vicenda sulla quale richiamano l'attenzione delle autorità italiane Paolo Rumiz, Claudio Magris e perfino Paolo Pansa; e in un canovaccio tv, tra fulgidi dibattiti sull'autenticità improbabile degli ultimi diari di Mussolini ritrovati, è arrivato lo spot sulla Giornata del Ricordo. In onda per due settimane senza la firma della «Presidenza del Consiglio», accusava i «comunisti» delle stragi delle foibe. Era lo spot voluto dal governo precedente, ma, in continuità, la Rai e l'attuale governo hanno preferito mandarlo in onda lo stesso, anonimo. Come se nell'esercito di liberazione di Tito, multietnico e dove combattevano migliaia di partigiani italiani, ci fosse il disegno della pulizia etnica che, invece, in chiave anti-slava in Istria era stata teorizzata e praticata dal fascismo della prima ora.
Napolitano, nell'empito che lo spinge alla riconciliazione nazionale da giocare sul terreno dell'unità politica, ha messo il dito in un vermaio. E diciamolo, avrebbe fatto bene a riflettere. E' stato invece «reticente» - come ha scritto Rossana Rossanda. Mostrando di non conoscere l'assiduo lavoro su questo della storiografia italiana. Vuol dire semplicemente cancellare la storia, parlare della tragedia delle foibe in chiave «di rimozione di una pulizia etnica contro gli italiani» senza raccontare, o citare, il contesto storico che vide il nazifascismo fare scempio dei diritti e delle vite nel cosiddetto «Litorale Adriatico», non solo durante la Seconda guerra mondiale ma ben prima con operazioni di privazione di identità, cancellazione di toponimi e culti, dopo aggressioni e distruzioni squadriste, e dopo il sostegno attivo dato al regime ustascia di Ante Pavelic. Ha ragione Stipe Mesic: vuol dire essere razzisti, revanscisti e revisionisti. Naturalmente in Croazia e Slovenia sbaglia chi giustifica le foibe con le precedenti stragi fasciste. Non si giustifica mai la vendetta.
Perché però - come chiedono molsti storici italiani - con vero spirito di pacificazione un presidente della repubblica italiana non va a pregare sui sacrari slavi delle vittime civili e dei partigiani massacrati da fascisti, nazisti e generali italiani pluridecorati? Perché non esiste una giornata dei Crimini di guerra italiani? Ce n'è materia, in Libia, Etiopia, Balcani, Grecia ecc. ecc.. Già, perché non trasformare il giorno del ricordo dello sole foibe in un momento di memoria condivisa, il «Giorno del Ricordo delle foibe e dei Crimini di guerra italiani»? Correggendo anche l'impostazione unilaterale della legge e i troppi errori, primo fra tutti il numero delle vittime - come ricorda lo storico Joze Pirjevec.
A dire il vero una cosa poteva e può essere rimproverata a Stipe Mesic. Che solo dopo una feroce guerra interetnica (poco più di 10 anni fa nei Balcani, della quale la Croazia è stata capofila), ha sentito il bisogno di rivendicare la memoria dilaniata della Jugoslavia occupata da fascisti e nazisti. Lui ex comunista, poi subito dopo nazionalista, alleato del leader xenofobo Franjo Tudjman; lui compiaciuto dell'Operazione Tempesta, la più grande pulizia etnica di quella guerra, con 300mila serbi cacciati dalla Krajna e 16mila vittime. Lui che ha promosso quelle stragi a «guerra patriottica» fondativa della nuova Croazia.
Ma può farlo legittimamente un paese europeo, come l'Italia, che con il Vaticano e la Germania, riconobbe subito le indipendenze autoproclamate su base etnica nel 1991-1992, di Slovenia e Croazia, prodromo della tragedia in Bosnia Erzegovina e avvio della distruzione della Federazione jugoslava? No. Così oggi, non innocentemente, Mesic rivendica la memoria jugoslava. Meglio tardi che mai.

17.2.07

Giappone-USA: L'alleanza affonda sotto il Sol Levante

di Giancarlo Chetoni

(tratto da AprileOnLine.info, 16 febbraio 2007)

Il Governatore di Tokyo ha denunciato gli Usa per aver introdotto testate nucleari nelle acque territoriali del Giappone e ha invitato la portaerei Kitty Hawh a levare le tende. Il Dipartimento di Stato ha chiesto l'esclusione del Ministro della Difesa Kyuma dalla delegazione del governo giapponese che accoglierà il vicepresidente Cheney a Tokyo il prossimo 18 febbraio



Un comunicato dell' Ansa che non farà notizia, che non arriverà all'opinione pubblica del nostro Paese, che scivolerà nel buco nero della censura del Partito Amerikano. Una ragnatela, è bene ricordarlo, con solidissimi agganci nei Palazzi del Potere e un ordito a maglie strette, vischioso, avvolgente. Ne mettiamo in evidenza il testo, nella sua minacciosa semplicità, per tentare di tappare una delle tante falle che, nell'arco delle 24 ore, giorno dopo giorno, stanno portando a fondo equipaggio, carico, relitto della decenza e della libertà di informazione. "Il Governatore di Tokyo ha denunciato gli Usa per aver introdotto testate nucleari nelle acque territoriali del Giappone".

Una rivoluzione copernicana. Un segno, aspettato. Dall'Agosto del '45 dopo il regalino di Hiroshima e Nagasaki è la prima volta che il Sol Levante punta di far sentire la sua voce, ad amplificare i rumori di fondo che salgono da un popolo di 90 milioni di uomini e di donne con un identità culturale offesa, un modello sociale corroso dalla cialtroneria dell'Occidente e dagli equipaggi di turisti della Us Navy di Okinawa ad alto tasso di alcolizzati e stupratori.
Il Governatore Shintaro Ishihara si è detto certo che la portaerei americana Kitty Hawh di base a Yokosuka abbia a bordo armamento nucleare e pertanto ha invitato gli Stati Uniti a rispettare la Costituzione del Paese che li ospita. Insomma a levare le tende con baracca e burattini.

Dichiarazione che non può non avere avuto il via libera dal Governo Giapponese per essere esplicitata. Una rarità da prima pagina come il padrone che morde il cane.
Il messaggio è arrivato chiaro e forte alla Casa Bianca che si è detta sorpresa delle dichiarazioni rilasciate a giornali e catene televisive dall'esponente " ultraconservatore " come è stato prontamente definito da " US Today".
Lo sgarbo è grave e arriva dopo una lunga serie di malintesi tra Wastington e Tokyo culminati con la dichiarazione del Ministro della Difesa Kyuma di ritirare il contingente delle Forze di Difesa del Giappone dall' Irak.

Qualcosina di meno che un attentato alla sicurezza e agli interessi degli Stati Uniti che arriva dall' Estremo Oriente "pacificato".
Una decisione, anche se più volte rimandata, che il capo della Casa Bianca e il suo vice Cheney non hanno evidentemente gradito. A Baghdad le cose vanno sempre peggio per i "soldati blu" per gli "yankees " di Falluja, di Abù Graib e tutto il resto in errori e in orrore. E' già da qualche tempo infatti che sono cominciati a emergere segnali di forte irritazione da parte Usa per le scelte adottate dal governo giapponese sul piano interno e internazionale.
Il riavvicinamento tra Tokyo e Pechino che si è concretizzato nella visita del Primo Ministro Abe al Presidente Hu Jintao a Ottobre, un poderoso impulso all'interscambio, l'apertura di linee di credito agevolato alla Russia, la volontà espressa da Washington di voler continuare a tenere il Giappone sotto un ombrello militare che intralcia il libero scambio del Paese in molte aree dell' Asia, dell'Africa e dell'America Latina, l'acquisto di sempre più rilevanti partite di euro da parte di Tokyo, le onerose imposizioni fiscali all'ingresso dei prodotti giapponesi negli Stati Uniti hanno finito per produrre un crescente contenzioso nei rapporti bilaterali.

Il Dipartimento di Stato ha chiesto l'esclusione del Ministro della Difesa Kyuma dalla delegazione del governo giapponese che accoglierà il Vicepresidente Cheney a Tokyo il prossimo 18 febbraio, accusato da Wastington di aver ripetutamente criticato la politica militare degli Usa in Medio Oriente e Golfo Persico da dove arriva il 38 % dell'approvvigionamento di petrolio e gas del Sol Levante. Un atto di arroganza e di cervellotica brutalità, da padroni del vapore in casa d'altri. E qui non può che venirci in mente Vicenza, Sigonella, il JSF, l'Afghanistan e chissà cos'altro dopo con ... Arturo, Romano e Piero della Francesca.

Secondo fonti citate dall'Agenzia " Kyodo " Cheney si è detto disposto a incontrare i Generali Comandanti del Giappone ma non il "ribelle" Kyuma con l'evidente intenzione di costringerlo alle dimissioni. Dimissioni che potrebbero disarticolare il Governo di Shinzo Abe sgradito al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca. Il Primo Ministro ha tutto quello che serve per non piacere all'Amministrazione Usa. Le Monde Diplomatique ha scavato nel passato politico della sua famiglia. Ne sono venuti fuori dei vapori sulfurei. Il nonno Nobusuke Kishi fece parte del Gabinetto di Guerra dell' Ammiraglio Tojo che lanciò l'attacco a Pearl Harbour. Nel '45 venne degradato, espulso dall'Esercito dell'Imperatore e condannato con la galera per crimini di guerra.

Il successore di Koizumi e Bush insomma non si prendono né per il passato né per il presente. Normale quindi, ai parametri degli eredi di Truman, l'intervento a gamba tesa e l'indebito tentativo di invasione di campo degli Usa negli affari interni del Giappone. L'impronta scavata per più di 60 anni nella Terra dei Ciliegi e dei Concalvoli dall' Olocausto Nucleare comincia a perdere i suoi contorni. Un comportamento politico che tradisce l'affanno e la perdità di lucidità dell'Ammnistrazione Usa a gestire rapporti corretti e responsabili con gli "alleati" ancor prima che con gli "avversari" da minacciare e i "nemici" da abbattere con qualche appendice di "guerra permanente ". La perdita di prestigio economico, industriale e militare che corrode gli Stati Uniti e ne riduce l'influenza geopolitica a livello planetario, mette allo scoperto oltre la catastrofica fragilità intellettuale dell' Amministrazione Bush tutti i limiti strutturali di una "costruzione del XX° secolo" che non riesce più a reggere il peso emergente di Paesi e Realtà Continentali come quelle dell 'Asia in travolgente trasformazione.
Il tempo come un gigantesco buldozzer della storia.

Caso Abu Omar: Pollari e altri 26 agenti Cia rinviati a giudizio

di Andrea Santini

(tratto da AprileOnLine.info, 16 febbraio 2007)

Lo ha deciso il gup Caterina Interlandi, con l'accusa di sequestro di persona. Il processo sarà a partire dal prossimo 8 giugno dinanzi alla quarta sezione del tribunale penale di Milano



Se la Consulta dovesse dichiarare ammissibile il conflitto tra il Governo e i pm della Procura milanese, chiamati a rispondere di violazione del segreto di Stato, il processo contro l'ex direttore del Sismi Nicolò Pollari, il capo del controspionaggio Marco Mancini, un gruppo di funzionari del Sismi e 26 agenti della Cia, tra cui il responsabile dell'intelligence americana in Italia Jeff Castelli e il capocentro di Milano Robert Seldon Lady, per il sequestro dell'imam di Milano Abu Omar verrà sospeso in attesa della decisione di merito, che potrebbe addirittura ribaltare tutto l'impianto accusatorio. E tuttavia i vertici (ex) del Sismi e gli 007 della Cia chiamati in causa rimarranno ad attendere il risultato del braccio di ferro tra governo e magistratura in qualità di imputati.

Il gup di Milano Caterina Interlandi ha rinviato a giudizio con l'accusa di sequestro di persona tutti e 33 gli imputati, fissando il processo a partire dal prossimo 8 giugno dinanzi alla quarta sezione del tribunale penale di Milano. Restano fuori, già condannati, il vice direttore di Libero Renato Farina (l'agente Betulla) e il maresciallo del Ros Luciano Pironi (nome in codice "Ludwig"), i quali hanno chiesto il patteggiamento: Farina, già sospeso dall'Ordine di Milano dall'attività giornalistica, è stato condannato a 6 mesi per favoreggiamento del Sismi (si sarebbe prestato, secondo i magistrati, ad azioni di copertura e depistaggio), mentre Pironi, che risponde materialmente del sequestro ma che ha spontaneamente collaborato con la giustizia, è stato condannato a un anno, 9 mesi e 10 giorni.

La strada della sospensione prima della decisione del gup è stata tentata dai difensori degli imputati, ma il pasticcio combinato dal governo o, se si preferisce, dall'Avvocatura dello Stato, che è apparso come una vera e propria sfida strumentale alla Procura, non ha lasciato molte possibilità. Prima di tutto il ritardo con cui è stato presentato il ricorso, che ha reso facile al gup affermare, senza neppure ritirarsi in camera di consiglio, che non poteva essere riconosciuto prima ancora di ottenere l'ammissibilità dalla Consulta. Poi l'affermazione, da parte del governo, che il segreto di Stato violato riguardava non il processo, ma intercettazioni di agenti non direttamente coinvolti e sequestro di materiale estraneo al sequestro. Il riferimento, a quanto è dato comprendere, e a quanto gli stessi magistrati hanno capito, è al cumulo di dossier raccolti da Pio Pompa, a disposizione di Pollari, negli uffici distaccati del Sismi in via Nazionale.

Il problema, come ha spiegato lo stesso procuratore aggiunto Armando Spataro, è che "mai il governo o gli imputati i vertici del Sismi hanno opposto il segreto di Stato (come invece ha dichiarato il vice premier Rutelli, n.d..r.) sui documenti sequestrati in via Nazionale", e che non esiste una norma, neppure nella riforma approvata alla Camera, che "proibisce l'intercettazione, da parte della magistratura, di appartenenti ai servizi segreti". Intanto, in attesa di ricevere il testo del ricorso governativo presentato alla Consulta, di cui l'Avvocatura ha chiesto la secretazione, la procura di Milano si sarebbe già messo in contatto con un costituzionalista che rappresenti i pm dinanzi alla Corte Costituzionale. Ed ha sollecitato nuovamente il guardasigilli Mastella a dare una risposta alla richiesta di estradizione degli agenti Cia imputati nel sequestro. "Potete dire di no", sottolinea polemicamente il pm Spataro, "ma non potete non decidere". E ricorda come 15 senatori dell'attuale maggioranza, allora all'opposizione, avessero accusato, per lo stesso silenzio sulla stessa vicenda, il ministro Castelli di ostacolare la giustizia. "Il silenzio dell'attuale governo - aggiunge Spataroo - ha già superato l'estensione temporale di quello precedente".

16.2.07

PROF. GENTILE, DIARI MUSSOLINI? DEI FALSI

ANSA 2007-02-15 16:06

ROMA - Brani copiati dai giornali; nomi sbagliati; discordanze cronologiche: le presunte agende del Duce non sono autentiche. Lo sostiene lo storico Emilio Gentile, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, che per due mesi, per conto dell'Espresso, ha studiato i Diari del Duce, offerti nel 2004 al settimanale stesso. Il giornale rivela anche il nome del partigiano della 52esima Brigata Garibaldina che a Dongo ebbe i Diari il 27 aprile del 1945 dopo l'arresto di Mussolini: Lorenzo Bianchi.

Ed è stato suo figlio Maurizio ad offrirli al giornale. Per Gentile - dice l'Espresso in un lungo servizio pubblicato sul prossimo numero - le agende dal 1935 al 1939 proposte all'attenzione pubblica dal senatore Marcello Dell Utri, non sarebbero state scritte da Mussolini. "Permangono - scrive Gentile in una relazione esclusiva consegnata a 'L'espressò il 30 gennaio 2005 - fondati motivi per dubitare che l autore delle cinque agende sia stato Benito Mussolini".

'L'espressò ha anche reso noto di aver commissionato su Diari una perizia calligrafica e fisico chimica dagli esiti non confortanti. Dopo questa, il settimanale ha affidato tutte e cinque le agende allo storico. Il risultato è stata la scoperta di "strafalcioni tanto clamorosi e diffusi, da dover essere catalogati in quattro categorie: "Nomi errati ed errori grammaticali, discordanze cronologiche, incongruenze e inesattezze". Con l'aggiunta, se non bastasse, di interi brani molto, ma molto simili alle cronache pubblicate sui quotidiani dell epoca.

"Una prima lettura - premette nella perizia Gentile - mi ha dato un'impressione generale di unità e coerenza, sia per lo stile che per il contenuto dei cinque diari, tali da far pensare che siano stati scritti dalla stessa persona, anche se il tono, il contenuto e la lunghezza delle annotazioni variano a seconda degli anni.... Non sono tuttavia emersi, in quel primo approccio motivi sufficienti per formulare subito un giudizio sull'autenticità o meno". Lo studio di Gentile non è stato "per campioni o periodi particolari", ma ha seguito "giorno per giorno le annotazioni".

Dapprima, spiega, ha messo a confronto "le note dei diari con il maggior numero possibile di fonti edite (documenti, diari, memorie) e di opere storiografiche sulla vita di Mussolini e sulle vicende del periodo cui si riferiscono i diari". In un secondo tempo, ha confrontato "quotidianamente, per tutto il periodo compreso fra il 1935 e il 1939, gli avvenimenti pubblici, gli eventi di cronaca, e anche, dove possibile, le condizioni meteorologiche con analoghe notizie della stampa coeva". Un'impresa portata a termine con la "lettura incrociata di vari giornali e riviste come 'Il Popolo d'Italià e il 'Corriere della Sera', il 'Messaggero' e la 'Tribuna', 'La Stampa', e 'Gerarchia', fino a 'La rivista illustrata del Popolo d'Italià e gli 'Annali del fascismo'.

Verificando, nei punti ancora ambigui, con la documentazione dell'Archivio centrale dello Stato. Sul sito de 'L'espressò si potrà trovare on line tutta la documentazione sui falsi diari di Mussolini acquistati dal senatore Marcello Dell'Utri: oltre ad ampi stralci delle presunte agende (con le immagini originali delle pagine), la relazione completa dello storico Emilio Gentile (con l audio dell intervista allo studioso che ha visionato per oltre due mesi le carte) e il rapporto integrale del grafologo Roberto Travaglini (con il confronto tra la scrittura originale del Duce e quella delle presunte agende).

L'Europa sta a guardare

di Antonio Gambino

(tratto da AprileOnLine.info, 13 febbraio 2007)

Questo mese su Aprile, il mensile La politica estera inaugurata da George Bush continua il suo trend negativo. Una irresponsabile escalation che si concentra sul Medioriente e che chiama l'Ue ad un'azione forte e incisiva, senza le esitazioni che l'hanno caratterizzata



Era stato facile prevedere, alla metà di novembre, che la striminzita vittoria dei democratici americani alle elezioni di mezzo termine (e anche se non fosse stata striminzita, la situazione sarebbe stata la stessa, perché il Congresso non ha alcun modo di controllare la politica estera del presidente) non avrebbe indotto o obbligato Bush a cambiare strada. Ora che questa realtà sta, in modo inequivocabile, davanti ai nostri occhi, i compiti che le opinioni pubbliche e i governi europei dovrebbero affrontare sarebbero logicamente due: quello di definire con esattezza in che cosa questa strada consiste e, subito dopo, di individuare quali sono le reazioni più adeguate nei suoi confronti.

Il primo di tale compiti è di una facilità assoluta. George W. Bush - e qui dobbiamo ringraziare la "semplicità" del suo apparato mentale - non ha compiuto, infatti, alcuno sforzo per camuffare come nuovo ciò che nuovo non è. Ha in pratica affermato che in Iraq si tratta solo di portare a termine, anche attraverso un aumento (piccolo ma non irrilevante) del numero di soldati americani, l'azione incominciata da quattro anni, e ha sottolineato di essere pronto ad andare avanti anche se al suo fianco si dovessero al fine trovare solo "sua moglie e il suo cane". Né è lecito sperare che a questa dichiarazione esplicita di un "unilateralismo" trasferito dal piano esterno a quello nazionale, possa, ad un certo punto, fare da contrappeso una effettiva rivolta dei leader del partito democratico. I quali, infatti, pur disapprovando queste parole, si sono affrettati a precisare che non cercheranno di bloccare la linea del presidente, magari negandole, in Congresso, gli stanziamenti economici necessari per attuarla. E questo - hanno confessato candidamente - per il semplice motivo che un simile comportamento sarebbe considerato dalla grande maggioranza degli americani come "unpatrioctic", poco patriottico.

Come sempre accade, una decisione di "continuare" non può significare, per la sua logica interna, un semplice ripetere ciò che finora si è fatto, ma un approfondirlo ed un ampliarlo. Ecco quindi che Bush, nel momento in cui difende le sue scelte passate, comincia anche a parlare, in termini allusivi ma non tanto, della necessità di nuovi interventi preventivi armati, contro tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno impedito e impediscono agli Stati Uniti di vincere la guerra in Iraq, e, più in generale, di "sconfiggere il terrorismo". Leggi, innanzi tutto, l'Iran e la Siria, ma anche una lunga serie di altre organizzazioni che il nuovo rapporto, edito nel settembre scorso dallo State Department e intitolato "The National Security Strategy of the United States of America", enumera accuratamente (sono esattamente 42, e vanno da Hamas alle Tigri del Tamil, dalle Forze rivoluzionarie della Columbia a Hezbollah), e ad ognuna delle quali è inviato, fin da ora, il messaggio di considerarsi come il possibile bersaglio di un attacco Usa.

Come si manifesterà concretamente questo orientamento, è impossibile dirlo: ma è certo che è legittimo aspettarsi il peggio. Per almeno tre motivi.

Il primo è che lo slogan della "guerra al terrorismo" - a dispetto delle bugie e delle falsificazioni che lo hanno accompagnato - seguita ad avere una notevole presa sull'opinione pubblica internazionale. Si ripete, cioè, il fenomeno che avvenne quarant'anni fa, al momento dell'intervento armato americano in Vietnam: sempre giustificato con la "teoria del domino", vale a dire con la tesi che se il "comunismo internazionale" non fosse stato "fermato" nel Sud Est asiatico, presto (come un giorno mi disse un importante uomo politico italiano, non democristiano) "ce lo saremmo trovato sulle coste del Mediterraneo". Queste idiozie hanno uno straordinario potere di convincimento: ed ecco che oggi è la volta della "guerra al terrorismo". Il quale terrorismo, per quel tanto che davvero esiste, nella forma di una sempre più violenta ostilità di una gran parte del mondo islamico (e più in generale, emarginato) nei confronti dell'Occidente è destinato, inevitabilmente, a non diminuire, ma ad aumentare in proporzione diretta al numero e alla intensità dei nostri interventi armati nelle vari parti del mondo (vedi Somalia).

Il secondo è che una parte non indifferente degli americani (e non solo i "neo-cons"), nell'impossibilità di risolvere in maniera stabile (perché giusta) il conflitto israelo-palestinese, vede in un violento rimescolamento di carte in tutto il Medio Oriente il modo di cambiare i dati di fondo di questa situazione. Uno scontro vittorioso con la Siria e specialmente con l'Iran potrebbe - a loro giudizio - creare un quadro in cui i palestinesi (al cui interno gli Stati Uniti stanno da anni creando, in molti modi, una corposa "quinta colonna"), sentendosi del tutto abbandonati, potrebbero accettare una "pace cartaginese". Come quella che, nelle parole di Keynes, la Francia e l'Inghilterra imposero alla Germania alla fine della prima guerra mondiale: nel caso specifico, attraverso la finzione di uno "Stato" costituito da una serie di territori discontinui, posto, inerme, sotto il protettorato israelo-americano.

Il terzo motivo per aspettarsi il peggio è che gli interventi unilaterali, sorretti dalla convinzione di avere non solo la forza ma anche il "diritto" di imporre la loro volontà a tutti, fanno parte, da sempre, del DNA degli Stati Uniti. Fino a quando essi erano isolati dal mondo, questa impostazione si è espressa nella "dottrina Monroe", che ingiungeva agli europei di non intervenire negli affari dell'Emisfero americano; dopo che eventi, con la fine del secondo conflitto mondiale, hanno posto Washington al centro della dialettica internazionale, si è presto giunti ad una sorta di Dottrina Monroe globale. Vale a dire alla tesi, ormai non più negata, anzi codificata, del diritto dei governanti degli Stati Uniti di controllare tutto ciò che si trova su questa terra, e anche al di sopra di essa

E questo ci porta al secondo compito a cui si è prima accennato: quello di individuare una reazione adeguata a tale situazione. Il quale, tuttavia, si scontra subito con un ostacolo praticamente insormontabile: costituito dal fatto che l'idea che le scelte in campo internazionale siano la prima e la più evidente espressione della sovranità nazionale (secondo la frase di De Gaulle: "la politica estera della Francia si fa a Parigi e non a Washington") non sia etica, non sfiora neppure da lontano la mente degli attuali (e precedenti) governanti di questa Europa (a parole) unita, e innanzi tutto di quelli italiani. Il cui costante orientamento appare quello di barcamenarsi, invece di giudicare i singoli problemi sulla base degli interessi e dei criteri etici dei paesi che rappresentano, cercando di non mostrarsi troppo servili, ma con lo scopo fondamentale di evitare ad ogni costo di irritare i dirigenti americani. E la cosa davvero terribile è che neppure il fatto che le azioni degli Stati Uniti in campo internazionale siano diventate col passare degli anni sempre più discutibili, o chiaramente riprovevoli, è riuscito realmente a modificare - al di là di alcuni sporadici sussulti di dignità - questo radicato costume di sudditanza (di cui l'immediata adesione all'ampliamento - che in realtà è molto più di un semplice ampliamento - della base Nato di Vicenza, da parte del governo italiano, sia di centro-destra che di centro-sinistra, costituisce un luminoso esempio)

Stando così le cose, se la politica - vecchia e nuova - di Bush ci trascinerà, tra non molto, al centro di scenari internazionali sempre più pericolosi, la capacità di sottrarci alle sue probabili, catastrofiche, conseguenze non sarà più nelle nostre mani

14.2.07

L'Italia e le foibe. No alla memoria unilaterale

di Giacomo Scotti

(tratto da il manifesto del 13/02/2007)

A giudicare dalla stampa slovena e croata che arriva a Trieste, i discorsi pronunciati in Italia per la «Giornata del ricordo», da quello del Capo dello Stato agli altri in centinaia di località, hanno destato interesse ma anche preoccupazione negli ambienti politici e nella popolazione della Slovenia e della Croazia, soprattutto in Istria. In questa regione, teatro degli eventi ricordati per le foibe e l'esodo, proprio in questi primi giorni di febbraio le associazioni della Resistenza e le famiglie delle vittime delle stragi fasciste e naziste, hanno commemorato le vittime di alcune stragi compiute nel febbraio 1944 dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti repubblichini italiani al loro servizio - militanti nella X Mas, nella Milizia Territoriale, nei reparti armati del Partito Fascista Repubblicano e in altre formazioni.
La «Giornata del Ricordo» del 10 febbraio, coincide dunque con anniversari altrettanto tragici e tristi per le popolazioni italiane, slovene e croate dell'Istria che, dopo una breve parentesi «partigiana» (dal 9 settembre ai primissimi giorni di ottobre 1943) conobbero l'occupazione nazista, l'annessione all'«Adriatische Kunstenland» tedesco e - soprattutto nei mesi di ottobre, novembre e dicembre del 1943 - un'interminabile serie di massacri di civili, di incendi di villaggi e di deportazioni. Con l'aiuto dei fascisti italiani i tedeschi diedero la caccia agli «infoibatori», ai combattenti della Resistenza, ai cosiddetti «badogliani» e a tutti coloro che gli si opponevano, massacrando nel giro di pochi mesi oltre 5.000 civili italiani e slavi e deportandone 12.000 nella sola Istria. Un'altra ondata di stragi e di distruzioni si ebbe nel febbraio-marzo-aprile 1944, sempre con la complicità e il sostegno dei fascisti italiani. Quello che la stampa slovena e croata rimprovera agli uomini politici italiani è il fatto che «la memoria italiana è una memoria selezionata»: è giusto rievocare le tragedie delle foibe e dell'esodo, ma perché - si chiedono il Novi List di Fiume, il Vjesnik di Zagabria, la Slobodna Dalmacija di Spalato, il Delo di Lubiana ed altri - non si ricordano i venti anni di persecuzioni fasciste contro gli slavi in Istria e le stragi in Montenegro, Dalmazia e Slovenia sotto l'occupazione dell'esercito italiano dall'aprile 1941 all'8 settembre 1945? Perché non si ricordano le vendette compiute «dopo le foibe del settembre 1943», nel litorale adriatico?
Il pubblicista e storico zagabrese Darko Dukovski, intervistato dal Novi List ha duramente condannato i «crimini della rivoluzione» riconoscendo che «la storia delle foibe è strettamente collegata alla storia dell'esodo degli italiani dall'Istria e da Fiume», aggiungendo che «una delle conseguenze delle foibe fu l'esodo e, quindi, lo stravolgimento della fisionomia etnica dei territori ceduti dall'Italia alla Jugoslavia col trattato di pace. Il che non significa, però, che fascisti e non fascisti furono gettati nelle foibe per stravolgere la fisionomia etnica della regione». Anche perché, sloveni e croati che pure finirono nelle foibe furono dieci volte più numerosi degli italiani. «Si offende la verità - continua lo storico - quando da parte italiana, oggi, si parla di genocidio e di pulizia etnica. Si tratta del tentativo di falsificare la verità storica, di presentare il movimento resistenziale croato e sloveno come criminale». Dukovski cita - senza però relativa data - un documento fascista: il tenente della Mvsn Domenico Motta che in una relazione segreta alla questura di Pola affermò che gli insorti istriani, nella prima metà di settembre 1943 avevano «liquidato» per lo più segretari del Fascio, podestà ed altri gerarchi insieme a innocenti vittime di vendette personali. E Conclude il suo intervento (due paginoni del quotidiano) difendendo le posizioni del presidente croato Stjepan Mesic. Affermando che «la vendetta delle foibe posta in atto dagli insorti-partigiani istriani» nel settembre 1943 ma anche nell'immediato dopoguerra, «non giustifica i crimini: le foibe restano un crimine ingiustificabile»; infine afferma che, «le ricerche devono continuare e bisognerà continuare a trattare questa tematica ma con obiettività, restituendola agli storici; purtroppo - sono certo che la verità e l'obiettività continueranno ad essere calpestate dai politici fino a quando le foibe e l'esodo serviranno a raccogliere consensi politici e voti. Il crimine non può essere dimenticato, deve essere ammonimento alle future generazioni, ma bisogna ricordare i crimini compiuti da ambo le parti».
Più o meno questa è la posizione degli osservatori croati e sloveni: sarebbe ora che i responsabili politici in Croazia e Slovenia riconoscessero apertamente, pubblicamente, le stragi compiute in Istria nel settembre 1943, a Zara e Fiume, a Trieste e Gorizia e dintorni nell'immediato dopoguerra da parte delle truppe jugoslave; non si deve però parlare di odio anti-italiano, perché migliaia di soldati italiani furono aiutati dai partigiani e civili croati e sloveni a salvarsi dai tedeschi. Gli eccidi che portarono alla morte o alla scomparsa si circa diecimila fascisti e non fascisti furono crimini e basta, non prodotto di odio anti-italiano. Al tempo stesso sloveni e croati chiedono che anche da parte italiana, e al più alto livello, ufficialmente, vengano riconosciute e condannate le stragi compiute dai fascisti e dall'esercito italiano in Montenegro, Dalmazia, Croazia e Slovenia dall'aprile 1941 all'inizio di settembre 1943, e le stragi dei repubblichini al servizio dei nazisti dall'ottobre 1943 a fine aprile 1945 sul «Litorale Adriatico». Solo così si potrà costruire una memoria condivisa.

Giù le mani dalle foibe

di Enzo Collotti

(tratto da il manifesto del 11/02/2007)

I fatti ci hanno dato ragione. I timori che avevamo espresso fin da quando fu istituito il giorno del ricordo si sono puntualmente avverati. Anche dalle più alte cariche dello Stato si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, l'unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale. Per questo vogliamo ribadire quanto scrivevamo già due anni fa con la prima Giornata del Ricordo per onorare le vittime delle foibe.
Non era difficile prevedere che collocare la celebrazione a due settimane dal Giorno della Memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno l'unico denominatore comune di appartenere tutte all'esplosione sino allora inedita di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili la cosa più sorprendente è l'incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l'incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile e ambiguo pentitismo, non contribuisce - come fa il discorso del presidente Napolitano - a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.
La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia, di una regione italiana, senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell'italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell'italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando parliamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l'Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese.
Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d'Aosta) addirittura da prima dell'avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell'identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica?
I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero, che volevano impedire lo sviluppo dei porti jugoslavi per conservare all'Italia il monopolio strategico ed economico dell'Adriatico. Che cosa sanno dell'occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d'Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega?
Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria.
Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. Al singolo, vittima di eventi più grandi di lui, può anche non importare capire l'origine delle sue disgrazie; ma chi fa responsabilmente il mestiere di politico o anche più modestamente quello dell'educatore deve avere la consapevolezza dei messaggi che trasmette, deve sapere che cosa significa trasmettere un messaggio dimezzato, unilaterale. Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale (Msi) un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell'esodo per rinfocolare l'odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l'unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionalistico e della guerra fredda.
I profughi dall'Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell'Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci ha esortato Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa, Donzelli, 2005) bisogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell'Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall'Istria, ma l'Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornavano (i più fortunati) dai campi di concentramento - di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari - centinaia di migliaia - che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione?
La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d'Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

12.2.07

Diari di Mussolini: un'altra patacca della banda Dell'Utri-Berlusconi-Fini

Annuncio di Dell'Utri: ecco i diari di Mussolini
Il senatore di Forza Italia: li ho trovati a Bellinzona. Leggendoli mi sono commosso
La cautela degli storici


MILANO — Nel giorno in cui il comune di Giulino di Mezzegra si divide se intitolare o meno la sua piazza a quel «28 aprile 1945», giorno in cui Benito Mussolini lì fu scoperto e ucciso dai partigiani, viene alla luce parte di quanto il duce portava con sé in quel suo ultimo viaggio verso la Svizzera. In una valigetta, presa da uno dei partigiani che catturarono il duce, non c'era l'«oro di Dongo» bensì cinque diari sui quali il capo del fascismo annotava quotidianamente le sue riflessioni. Hanno visto questi cinque diari il senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri e l'onorevole Alessandra Mussolini. L'uno in veste di bibliofilo, l'altra come nipote del duce.
«Nella scorsa estate sono stato chiamato a Bellinzona da un notaio, e lì ho visto i cinque diari di Mussolini», racconta Dell'Utri. «Si tratta di cinque agende giornaliere, annotate quotidianamente, che vanno dal 1935 al 1939. Sono le agende della Croce Rossa dell'epoca. Le ho sfogliate e lette per qualche ora, e ho provato una grandissima commozione».
Dell'Utri ricostruisce la storia di questi diari. «Erano conservati in casa di una persona da poco deceduta. Era un partigiano che arrestò Mussolini e si impossessò di parte del materiale che il duce portava con sé. È un personaggio conosciuto, e non faccio il nome», continua. «Le agende erano nella valigia. Forse ce n'erano anche altre, che sono sparite. Queste sono in Svizzera da un notaio perché i due figli di chi le possedeva abitano qui, e credo che lo stesso possessore divenne cittadino svizzero alcuni anni dopo il 1945».
Dell'Utri non ha dubbi sull'autenticità. «Sono in ottimo stato di conservazione. C'è una perizia che attesta la loro autenticità. La grafia di Mussolini, inoltre, è chiara e riconoscibile, anche se nei diari è un po' frettolosa. Gli appunti sono quotidiani sino al dicembre del '39, alla vigilia dell'invasione tedesca della Polonia. Ora — prosegue — ci sono alcuni problemi con gli eredi, ma presto questi diari saranno ceduti e pubblicati. Il notaio è in contatto sia con case editrici di lingua tedesca che con una italiana».
Passiamo ai contenuti. Ci sono sorprese? «Sì», risponde.
Sui rapporti con Hitler e Churchill?
«Non so, su questo non ho letto nulla. Ma ho letto e annotato solo qualche pagina in poche ore». Sorprese su cosa, allora? «Di certo i diari chiariscono ulteriormente la volontà del duce di evitare la guerra. Il suo atteggiamento di fronte la guerra, fino al '39, è negativo: scrive chiaramente che non la vuole». Poi? «Racconta di personaggi con tanto di nomi e cognomi e ci sono giudizi sorprendenti sui alcuni gerarchi fascisti. Giudizi negativi». Nel complesso «le riflessioni del duce appaiono di estrema importanza».
Conferma tutto Alessandra Mussolini. «Abbiamo visto le cinque agende insieme e non ho dubbi sull'autenticità. Da questi diari emergono tutti i tentativi fatti dal nonno per evitare la guerra. Inoltre intuiva che intorno a lui il regime stava franando. Sono documenti importanti perché consentiranno di interpretare la figura di Mussolini con maggiore obiettività».
Dell'Utri, a margine di un convegno a Udine organizzato dai Circoli del Buon Governo, ha rivelato anche un appunto del diario. È del 10 febbraio 1939, giorno della morte di Pio XI, e riguarda il possibile successore. «È stato un papa straordinario, devo ammetterlo. Non posso prevedere chi sarà il nuovo papa, ma spero in un Pastor Angelicus». Quel giorno Mussolini, oltre al commento sulla morte di papa Ratti e sui patti Lateranensi, annotò anche qualche riflessione personale. «Il Duce è il Duce e ha imparato ad essere invulnerabile e ineccepibile. Il Duce sta su un alto piedistallo e nessuno lo può criticare. Ma quando scende dal piedistallo è uno come tutti gli altri. Razzola come tutti gli altri, nel modo più semplice e umano».
Non è la prima volta che emergono diari di Mussolini. «Diversi anni fa — racconta lo storico inglese Denis Mac Smith, che non esclude la possibilità che questi siano autentici — un contadino mi contattò per mostrarmi dei diari del duce. Li studiai tutta una notte e devo dire che potevano anche essere autentici, ma non li trovai affatto interessanti». Possibilista sull'autenticità è lo storico della Resistenza Claudio Pavone; più scettico Giovanni Sabbatucci, che con disincanto ricorda: «Ne sono usciti tanti di diari di Mussolini e quasi tutti si sono rivelati falsi».
Pierluigi Panza
Corriere.it, 11 febbraio 2007


I testi trovati in Svizzera furono scritti su agende della Croce Rossa, come quelli comparsi nel 1994
Veri o falsi? È giallo sui diari del duce
Storici divisi. Sabbatucci: inspiegabile il lungo silenzio. Perfetti: Mussolini li scrisse davvero

Nel secondo dopoguerra, con una cadenza decennale, spunta qualcuno che dice di avere i veri diari di Mussolini. Avvenne nel 1957, con i «falsi» costruiti molto abilmente da Amalia e Rosa Panvini e venduti alla Mondadori; nel 1967, quando i diari annotati su agende della Croce Rossa, proprio come quelle di cui ha parlato l'altro ieri il senatore Marcello Dell'Utri, furono offerti da emissari londinesi ad Angelo Rizzoli; avvenne alla metà degli anni Ottanta quando spuntò anche il falso diario di Hitler; infine nel 1994, quando il «Sunday Telegraph» anticipò alcuni brani di Mussolini, scritti sempre su agende della Croce Rossa, riguardanti gli stessi anni dei diari depositati secondo Dell'Utri dal figlio di un partigiano presso un notaio di Bellinzona, in Svizzera: 1935-1939. Questa ripetitività dovrebbe rafforzare lo scetticismo, invece nella comunità degli storici accanto ai dubbiosi c'è un nutrito gruppo di «speranzosi», di esperti cioè convinti dell'esistenza dei diari di Mussolini e del fatto che prima o poi verranno fuori. La posizione degli scettici è ben rappresentata da Giovanni Sabbatucci, il quale si chiede perché mai «documenti così importanti dovevano restare per più di sessant'anni, dalla fucilazione di Mussolini a Giulino di Mezzegra, nell'aprile 1945, nascosti. Nei passi del diario trapelati si parla di un duce critico verso i tedeschi nel 1939, quasi pacifista, dei suoi giudizi molto positivi su Pio XI, nel giorno della scomparsa del papa, dei suoi attacchi ai gerarchi. Questi ultimi due elementi ci possono stare, quanto al primo mi vien da osservare: ma andiamo, aveva da poco firmato il Patto d'acciaio. Questi diari devono essere stati scritti da qualcuno che ha un chiaro intento apologetico». Lo storico Eugenio Di Rienzo osserva invece che se si tratta di un falso, come tutti i falsi è basato su qualcosa di vero: «la riottosità a entrare in guerra era molto diffusa in tutta la nomenklatura fascista». Altra ipotesi, per Di Rienzo, è l'autenticità: «testi scritti da Mussolini a scopo difensivo, da utilizzare in vista di un eventuale processo». Secondo Francesco Perfetti, direttore della rivista «Nuova Storia Contemporanea», bisogna fare tre considerazioni. «La prima — dice lo studioso — è che siamo certi dell'esistenza dei Diari di Mussolini. Ne esistono prove dirette, come una pagina regalata al caporedattore del Popolo d'Italia, Giorgio Pini, o un'altra al figlio Romano riguardante il giorno della sua nascita, o i cenni contenuti nei colloqui con il giornalista tedesco Emil Ludwig. Ecco la seconda considerazione: il fatto che si parli soltanto di cinque agende rende più plausibile la circostanza. Non ci troviamo, come in casi precedenti, davanti a materiale riguardante tutti gli anni al potere.
La terza osservazione concerne i brani trapelati dai diari: la presa di distanza dai tedeschi nel 1939 non mi meraviglia affatto, tutta l'Italia quell'anno era contraria alla guerra. Così mi appaiono logici il giudizio positivo su Pio XI e la critica dei gerarchi, a cominciare da Achille Starace, vera macchietta del regime». È evidente, conclude Perfetti, che dietro tutta questa vicenda, «c'è il tentativo da parte di qualcuno di monetizzare, di fare l'affare. Ma mi chiedo se i proventi delle vendite di un simile diario, ammesso che sia autentico, possano mai compensare i costi delle perizie. Non soltanto quella calligrafica, che in questi casi è sempre la meno attendibile, ma quelle sui materiali e sui fatti citati nei diari». La vicenda dei diari, secondo un altro storico, Paolo Simoncelli, biografo di De Felice e suo collaboratore, è strettamente intrecciata con quella di un'altra «araba fenice» della storiografia contemporanea: il carteggio Churchill-Mussolini. «Sono convinto — afferma Simoncelli — che a Giulino di Mezzegra Mussolini fu fucilato due volte. Una prima volta dagli inglesi, che gli sottrassero il compromettente carteggio con Churchill, una seconda volta, ormai morto, dai partigiani. Ho motivo di ritenere che Churchill avesse chiesto a Mussolini di entrare nella guerra che nel 1940 sembrava vinta dai nazisti per farlo sedere al tavolo della pace e, in cambio di concessioni coloniali, convincere l'alleato a un comportamento ragionevole. Non so se quelli di cui parla Dell'Utri siano autentici, ma è possibile che copia dei diari di Mussolini così come una copia del carteggio con Churchill sia ancora da qualche parte. Lancio due ipotesi alle quali stavo lavorando con De Felice: Mussolini affidò copia delle sue carte segrete al ministro Carlo Alberto Biggini, il quale poi le consegnò a padre Agostino Gemelli, che le avrebbe messe al sicuro in Vaticano. L'altra pista è che alcune carte di Mussolini consegnate all'ambasciatore del Giappone presso la Rsi, Hidaka, si siano fermate in Svizzera».
Dino Messina
12 febbraio 2007

11.2.07

Putin e gli scricchiolii dell'unipolarismo

La Casa Bianca in un comunicato: sono accuse sbagliate
Putin: attacca l'egemonia Usa. Dure reazioni

Il presidente russo ha accusato l'America di unilateralismo, eccessivo uso della forza, dannoso tentativo di cambiare gli equilibri strategici esistenti. Nasce un caso diplomatico

MONACO (GERMANIA) - E così nell'agenda politica internazionale tornano parole come Guerra Fredda, alleanza transatlantica, egemonia. Sono bastate le parole, durissime, del presidente russo Putin a generare una specie di salto indietro nel tempo di 60 anni e un piccato comunicato ufficiale della Csa Bianca che recita: «Gli Usa non hanno trasformato la vittoria nella Guerra Fredda in una vittoria unipolare. È stata l'alleanza transatlantica a vincere la Guerra Fredda e oggi vi sono centri di potere in ogni continente».
LA PROVOCAZIONE - A provocare queste parole sono le dichiarazioni di Putin durante la Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera. Parole violentissime: «Siamo di fronte a un uso della forza eccessivo e quasi senza freni nelle relazioni internazionali. Uno stato, gli Stati Uniti, ha travalicato i suoi confini nazionali in ogni modo possibile - aggiunge il leader del Cremlino - questo è molto pericoloso, nessuno si sente più sicuro perché nessuno si può più riparare dietro il diritto internazionale». E non è tutto: riferendosi all'installazione di un sistema di difesa antimissilistica nell'est Europa (si parla di Polonia e Repubblica ceca) ha parlato di «piani sono del tutto superflui e inutili»,
DEMOCRAZIA - Ecco un altro passaggio del discorso di Putin, che ha seguito immediatamente quello del padrone di casa Merkel: «Che cos'è un mondo unipolare?», si è chiesto Putin, «a dispetto dei tentativi di abbellirlo, questo termine significa che vi è un solo centro di potere, un solo centro di forza e un solo padrone». Tutto ciò, ha sottolineato, «non ha niente a che vedere con la democrazia, dove l'opinione della maggioranza tiene conto del punto di vista della minoranza. Ci sono persone che ci insegnano in continuazione cos'è la democrazia poi però non vogliono impararlo a loro volta».

COLLABORAZIONE - Il comunicato di Washington ricordato sopra ha però qualche (diplomatico) segnale di apertura: «Vogliamo continuare la cooperazione con la Russia su temi importanti per la comunità internazionale come la lotta al terrorismo e la limitazione nella diffusione di armi di distruzione di massa». Poco per parlare di disgelo. Anzi, sembra proprio che ci sia uno spiffero di guerra fredda.
Corriere.it, 11 febbraio 2007


Robert Gates alla conferenza sulla sicurezza a Monaco
«Una Guerra fredda basta, ora collaboriamo»

Il ministro della difesa Usa dopo gli attacchi di Putin che aveva accusato gli Stati Uniti di «fare i padroni del mondo»

MONACO - «Una Guerra Fredda credo che sia sufficiente». Così il ministro della Difesa americano, Robert Gates, ha replicato agli attacchi di Vladimir Putin che ha ieri a Monaco accusato gli Stati Uniti di «fare i padroni del mondo». Intervenendo nella stessa conferenza per la sicurezza in corso in Germania, Gates non ha mancato di scherzare sui toni usati da Putin, affermando che l'hanno «riempito di nostalgia per i vecchi tempi». Ma - ha concluso - ora Washington e Mosca devono lavorare insieme per affrontare le sfide della sicurezza del dopo Guerra Fredda. Gates ha poi reso noto di aver accettato un invito a Mosca da parte di Putin e del ministro della Difesa, Sergei Ivanov.
Il segretario alla difesa americano Robert Gates vede nella partnership transatlantica una garanzia per la democrazia e lo stato di diritto: solo l'alleanza tra Stati Uniti e Europa può far fronte alla minaccia del terrorismo, ha sottolineato. Gli Usa, ha aggiunto, si attendono che i partner della Nato assolvano ai loro obblighi. Il terrorismo - ha osservato Robert Gates - è una minaccia globale che va affrontata e contrastata in modo globale.
Corriere.it, 11 febbraio 2007

Neo-irredentismo e foibe: quello che i media non dicono

di Claudia Cernigoi

[Claudia Cernigoi, giornalista triestina, è l'autrice dell'importante ricostruzione storica Operazione "foibe" tra storia e mito (KappaVu, Udine 2005). E' tra gli animatori del sito La Nuova Alabarda, da cui sono tratti i due testi che riproponiamo qui. Il primo prende le mosse dal falso e strumentale parallelismo Shoah-Foibe (istituzionalizzato nella "par condicio" commemorativa voluta dal centrodestra e pienamente accettata dal centrosinistra), parallelismo che soprattutto in Venezia Giulia alimenta un'ideologia irredentista, revanscista e antislava, come dimostrano i convegni "storici"che sempre si tengono a Trieste in prossimità della fatidica data; nel secondo Cernigoi si difende dalla banale e sbrigativa accusa di essere una "negazionista delle foibe", accusa che chi conosce le sue ricerche sa benissimo essere infondata. Il titolo complessivo di questo post non è dell'autrice bensì nostro, come anche le sottolineature.]

GIORNATA DELLA MEMORIA E GIORNO DEL RICORDO

Dopo l'istituzione del Giorno della Memoria per il 27 gennaio (anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica), le associazioni irredentistiche degli esuli istriani hanno tanto fatto e brigato da ottenere, nel 2004, che il 10 febbraio, cioè a pochi giorni di distanza da questa ricorrenza, venisse istituito il "Giorno del Ricordo" (si noti qui anche la similitudine linguistica tra "ricordo" e "memoria"), "dell’esodo e delle foibe", ricorrenza istituita anche con il beneplacito di buona parte del centrosinistra, soprattutto i DS. A tre anni di distanza da questa "operazione", possiamo vedere gli effetti che essa ha avuto sulla scena politica e culturale italiana (ma anche internazionale).

Innanzitutto vediamo che già da metà gennaio, cioè in prossimità del Giorno della Memoria, le associazioni degli esuli riempiono il calendario di proprie iniziative che, stante la vicinanza delle date e stante il fatto che, vuoi per capacità organizzativa, per spirito combattivo, per disponibilità di fondi, o chissà per quali altri motivi, sono molto più numerose e visibili di quelle indette per il 27 gennaio, mettendo di fatto in secondo piano quelle relative a questa ricorrenza.
C'è però una differenza di fondo nell'atteggiamento di chi si occupa delle due "giornate". Mentre nelle intenzioni di chi ha ideato la Giornata della Memoria e di chi per celebrare questa giornata organizza convegni, dibattiti, iniziative culturali lo scopo era quello di ricordare ciò che è stato (la follia guerrafondaia e criminale del nazifascismo) affinché la storia non si ripeta e non vi siano più genocidi e violenze, la stessa cosa non la rileviamo nelle iniziative indette dalle varie associazioni di "esuli istriani" per il 10 febbraio (e parliamo qui della Lega Nazionale ed anche delle Comunità istriane).
Chi ha avuto modo di sentire o di leggere le testimonianze dei sopravvissuti dai lager nazifascisti (e diciamo nazifascisti perché anche il fascismo ha avuto i propri lager, pensiamo solo a quello di Gonars che si trovava a pochi chilometri da Trieste, circostanza spesso ignorata dagli stessi antifascisti), sa perfettamente che nella memoria di essi non c’è posto, di norma, per l'odio, per il rancore, per il desiderio di vendetta. Nella maggior parte dei casi, chi ha vissuto sofferenze indicibili, preferisce dimenticare, cerca l'oblio e per questo lascia da parte i sentimenti di odio che invece tengono vivo il dolore del ricordo.
Se andiamo invece a seguire le iniziative per il Giorno del Ricordo (10 febbraio), vediamo che la maggior parte di esse non sono finalizzate al superamento della fase storica che ha portato al Trattato di pace (perché il 10 febbraio è quello del 1947, quando l'Italia finalmente siglò il trattato di pace con il quale venivano sanciti i nuovi confini sorti dopo la seconda guerra mondiale), ma al reiteramento di una propaganda irredentistica, che partendo da dati storici falsi (come l'ingigantimento delle cifre degli "infoibati", cioè di coloro che, nell'allora Venezia Giulia furono uccisi, per vari motivi, tra i quali anche fatti di guerra, dai partigiani jugoslavi o condannati a morte come criminali di guerra dai tribunali jugoslavi), e dalla ripetizione della vecchia teoria (un tempo solo fascista) che il trattato di pace fu in realtà un diktat per l’Italia, ribadisce la teoria degli "ingiusti confini", delle "terre rubate" e conclude con lo slogan "volemo tornar".
Ora non ci dilungheremo sulla questione delle "foibe", perché fin troppo spesso ne abbiamo parlato su queste pagine; diciamo solo che quelli che vengono fatti passare per "infoibati sol perché italiani" nella maggior parte dei casi si possono inserire nella categoria dei "morti per cause di guerra", ricordando che nel corso della seconda guerra mondiale sono morte milioni di persone, a causa di una guerra che è stata voluta ed iniziata (cosa che pochi ormai ricordano) dalla volontà imperialistica dei regimi nazifascisti. È stata l'Italia fascista ad invadere, senza dichiarazione di guerra, ed a spartirsi, assieme ai propri alleati, la Jugoslavia, devastandola e provocando orrende stragi di civili; sono stati i regimi nazifascisti che hanno dichiarato guerra al mondo intero, perché volevano prendere il controllo di esso, e, dato che fortunatamente per i destini del mondo, la cosa non gli è riuscita e sono stati sconfitti (anche grazie al contributo di sacrifici delle varie resistenze europee, tra le prime quella jugoslava), alla fine del conflitto hanno dovuto pagare, in termine di perdita di territorio, questa sconfitta.
Così entriamo nel merito della questione che più è dibattuta in questi giorni nei convegni organizzati per il 10 febbraio: la questione degli "ingiusti confini".
Se, come abbiamo sentito dire spesso in vari convegni cui abbiamo assistito, il diritto italiano sull'Istria e su Fiume era dato dal fatto che questi territori erano stati annessi in seguito alla prima guerra mondiale (dove Fiume, ci si lasci dire, è stata annessa all’Italia con un colpo di mano in barba al trattato di pace ed al diritto internazionale), volendo seguire questa logica (che non è quella di "sangue e di suolo" che altri proclamano), dobbiamo accettare anche il fatto che in seguito ad un altro conflitto altri confini sono stati tracciati e territori che erano stati conquistati grazie ad una guerra vinta, sono poi stati tolti per una guerra (d'aggressione, ricordiamolo) perduta.
Così abbiamo sentito il professor Raoul Pupo, che sicuramente non è uno storico "neofascista", sostenere che in realtà il trattato di pace del 1947 non è stato firmato con l'Italia, ma sopra l'Italia, perché alla fine della guerra l'Italia non esisteva come soggetto politico internazionale e quindi non aveva alcuna possibilità di negoziare, con i vincitori della guerra, i propri confini. Questa interpretazione, che è un po' una variante del concetto di diktat, però non tiene conto di una cosa fondamentale: che l'Italia non era stata aggredita da nessuno degli Stati che vinsero la guerra, e che il fatto che l'Italia aveva perso la guerra era la mera conseguenza del fatto che l'aveva iniziata. L'attribuzione dell'Istria alla Jugoslavia, sostiene Pupo, rientra nella logica geopolitica di "accontentare" Tito, all'inizio concedendogli i territori che aveva militarmente conquistato, e successivamente per "tenerselo buono" in funzione antisovietica.
Ma al di là del diritto di "conquista" (che, come abbiamo visto prima, viene di solito fatto valere per i territori annessi dopo la prima guerra mondiale dall'Italia), queste interpretazioni di Pupo non tengono conto di altre cose. Che i territori istriani, ad esempio, non sono "italiani" per diritto di "sangue e di suolo", dato che la popolazione è mistilingue, con predominanza di sloveni e croati all’interno e di istro-veneti sul litorale. Perché quindi dovrebbe essere "naturale" che questi territori dovessero rimanere all'Italia piuttosto che alla Jugoslavia, tenendo anche conto che l'Italia doveva risarcire danni di guerra di non poca entità al Paese che aveva invaso?
Una volta sancito, in queste conferenze "storiche", che i confini sono, tutto sommato, ingiusti, i vari relatori vanno ad analizzare la questione dell' "esodo" degli istriani. Diciamo subito che, a parer nostro, un "esodo" che si prolunga per vent'anni non può essere un "esodo" causato da "pulizia etnica". Citiamo a questo proposito la testimonianza del giornalista Fausto Biloslavo, di passata militanza nel Fronte della gioventù, che si è più volte autopresentato come "nipote di infoibato e figlio di esule", che nel corso di un intervento ha spiegato che il nonno paterno, di Momiano, dovette fuggire a Trieste "rocambolescamente" all'arrivo dei partigiani, "perdendo tutto", e la moglie poté raggiungerlo assieme ai figli appena nel 1954. Dunque la famiglia rimase per nove anni a Momiano, sotto il "regime titino", che evidentemente non li “infoibò", né li espulse, nonostante con tutta probabilità il nonno fosse stato coinvolto con il regime fascista, se aveva dovuto filare via in fretta e furia abbandonando moglie e figli.
Ma queste contraddizioni stranamente non vengono rilevate da chi ascolta. Del resto, il racconto di Biloslavo non si discosta molto, per coerenza, da altre interpretazioni "storiche". Il professor Pupo, ad esempio, sostiene che all'inizio il "regime jugoslavo" aveva fatto una distinzione tra italiani assimilabili al "regime" (operai, contadini, proletariato in genere) ed altri non assimilabili (i ceti più elevati), che furono cacciati fin dall'inizio. Ammesso e non concesso che questa interpretazione sia attendibile, non passa per la mente dello studioso che si fosse trattato di una "epurazione" politica e di classe e non etnica? Che furono indotti ad andarsene i possidenti, che avrebbero perduto, con il socialismo, i loro possedimenti, nonché i fascisti, esattamente come accadde per sloveni e croati che non si identificavano nel nuovo sistema di governo? Pupo sostiene poi che successivamente, dopo la svolta del Kominform, anche gli italiani che erano rimasti furono cacciati via, perché tutti simpatizzanti per l’URSS, in questo modo sarebbe stata completata la "pulizia etnica": questa ci sembra ancora più fuorviante come interpretazione. Se ciò che sostengono questi studiosi, cioè che la comunità italiana fu interamente espulsa, con le buone o con le cattive, dalla Jugoslavia, fosse vero, oggi non avremmo in Istria una comunità italiana forte, compatta, ricca di istituzioni culturali, cosa che pure viene invece rivendicata da quegli stessi rappresentanti degli esuli che prima parlano di pulizia etnica e poi del fatto che gli italiani in Istria sono tuttora numerosi e presenti, senza rendersi conto che la seconda cosa escluderebbe la prima.
La comunità italiana in Jugoslavia ha sempre goduto di diritti specifici, a cominciare dalle scuole, per proseguire con il bilinguismo e con i seggi garantiti nei vari parlamenti. Se questo significa pulizia etnica, cosa dovrebbero dire gli sloveni d'Italia, che se oggi hanno le scuole con lingua d'insegnamento slovena è solo grazie al fatto che sono state istituite dagli angloamericani e poi conservate in base ad una precisa clausola contenuta nel Memorandum del 1954, mentre tutti gli altri diritti sono ben al di là di venire?
Ma è proprio grazie alle mistificazioni degli argomenti storici che alla fine emergono i contenuti che sono, a parer nostro, più preoccupanti, e che possono essere sintetizzati nello slogan "volemo tornar" che tanto spesso viene citato in queste rassegne, e sui quali contenuti ritorneremo, per un approfondimento, in un prossimo articolo.


***
NEGAZIONISTA!

Negazionista, ecco la parola chiave. Il nuovo diavolo, il nuovo fantasma che corre l'Europa, il mondo; altro che nichilista, bolscevico, anarco-insurrezionalista: ora la reazione ha trovato un nuovo termine per criminalizzare chi non si omologa alla "vulgata di regime".
Negazionista delle foibe, mi hanno definita (non solo me, peraltro, sono in poca, ma buona compagnia). Ma io, cosa avrei negato, alla fine dei conti?
Non ho negato che vi siano stati "infoibamenti" in Istria nel settembre 1943. No, ho semplicemente citato i documenti che dimostrano che gli "infoibati" non sono stati "migliaia" ma circa trecento e non più di cinquecento. Le fonti? Il rapporto del maresciallo Harzarich, che operò i recuperi, una lettera del federale fascista dell'Istria Bilucaglia dell'aprile 1945.
Ho "negato", questo sì, che vi siano le prove delle efferate torture e violenze carnali che vengono attribuite ai partigiani nei confronti degli "infoibati". Ho negato che il capo di don Tarticchio sia stato circondato da una corona di spine e che i suoi genitali gli siano stati messi in bocca, perché il rapporto del recupero della sua salma non fa parola di tutto ciò: ma non ho mai "negato" che don Tarticchio sia stato gettato in una foiba.
Non ho neppure negato che Norma Cossetto sia stata gettata in una foiba, ho solo detto che il rapporto del recupero della sua salma non parla di alcuna traccia di violenza, come quelle che vengono descritte dai libri (non ultimo quello di Frediano Sessi).
Ho negato, questo sì, che i racconti di Udovisi e Radeticchio, che sostengono di essere sopravvissuti alla foiba, siano attendibili: anche perché ambedue descrivono la stessa vicenda, praticamente con le stesse parole, però Udovisi racconta di avere salvato Radeticchio, mentre Radeticchio dichiara che Udovisi è morto nella foiba. Ho negato che siano attendibili: mi si dimostri il contrario e tornerò sulle mie opinioni.
Ho negato che a Basovizza siano state "infoibate" centinaia o migliaia di persone: l'ho negato perché dai documenti (fonte militare angloamericana e archivio del Comune di Trieste) risulta che la foiba è stata più volte svuotata, però negli archivi dei cimiteri cittadini non c'è traccia di questi recuperi e delle relative inumazioni. Ho posto dei dubbi, ho chiesto che si esplorasse il pozzo: nessuno lo vuole fare perché le cose devono restare così come sono, non c’è posto per le obiezioni.
Allora si dice che io non rispetto i morti, solo perché sostengo (prove alla mano) che non sono morte tante persone come si dice. Perché ho trovato che negli elenchi degli "infoibati" sono stati inseriti anche caduti partigiani o persone che proprio non erano morte, indipendentemente dal ruolo che avevano ricoperto sotto il nazifascismo. Marco Pirina, che ha inserito tra gli "infoibati" tanti vivi e tanti martiri della Resistenza, o il compianto Gaetano La Perna, che ha indicato come "ucciso dagli jugoslavi" anche il questore di Fiume Palatucci, morto in un lager nazista, loro li rispettano i morti, invece?
Ma io sono "negazionista" perché mi permetto di dire che sulla questione delle foibe sono state dette tante falsità e che queste falsità sono diventate una "leggenda metropolitana", un "mito", che viene usato a scopo anticomunista, antipartigiano e soprattutto in funzione razzista contro i popoli della ex Jugoslavia, soprattutto Sloveni e Croati.
E dato che dico questo, mi si vuole impedire di parlare, attribuendomi affermazioni che non ho fatto e stravolgendo le cose che ho detto.
"Calunniare, insudiciare, ammazzare sono i metodi del fascismo", ha scritto il cattolico Robert Merle. Spero caldamente che non siamo ancora arrivati al fascismo completo, perché i primi due metodi li stiamo vivendo del tutto, in questi giorni del "ricordo" di febbraio 20076.
Ma, come diceva a suo tempo un alto funzionario dello Stato, c'è un'unica cosa da fare: Resistere, Resistere, Resistere.

Quoque tu... Guccini

IL NUOVO LIBRO DI GUCCINI
«Vendette, sangue, esecuzioni. Il lato oscuro dei partigiani»

DAL NOSTRO INVIATO
BOLOGNA — «La trama è questa: c'è un partigiano comunista, delle Brigate Garibaldi, che viene giustiziato da altri partigiani comunisti, accusato di un delitto — un efferato omicidio: una questione privata, ma anche politica — che forse non ha commesso. Santovito, il personaggio che ho inventato con Loriano Macchiavelli, alla sua ultima avventura deve scoprire se il giustiziato era o no innocente. Trova una lettera, che lo riporta agli ultimi mesi di guerra…».
Il prossimo giallo di Francesco Guccini, Tango e gli altri, esce mercoledì prossimo da Mondadori. Una discesa agli inferi dell'inverno tra il 1944 e il '45 sull'Appennino. «Ci siamo documentati in modo scrupoloso. Abbiamo ascoltati i superstiti della Resistenza. Ci siamo imbattuti in storie molto aspre. Un vecchio partigiano mi ha raccontato di due compagni fatti ammazzare per aver rubato un prosciutto e qualche bottiglia d'olio. E anche "Lupo" Musolesi, l'eroe di Marzabotto cui è dedicata la strada qui dietro che fa angolo con via Paolo Fabbri, tenne appeso un compagno a un palo perché aveva portato via una bottiglia di liquore. È che in quel periodo c'era di tutto. Efferatezze da entrambe le parti. A volte dettate dalla fame; il che spiega l'atteggiamento dei contadini, la rabbia e la paura per "'sti ladri", indispettiti com'erano dalle requisizioni, magari in cambio di un buono che chissà se sarebbe stato mai onorato. Testimonianze che incrociano i miei ricordi personali. Anni fa, sull'Appennino, una mia amica mi mostrò il tavolo di casa ancora bucato dai proiettili: suo padre, partigiano, era stato ucciso da altri partigiani sbandati dopo la guerra. Sono calati in branco, hanno immobilizzato tre o quattro carabinieri, hanno fatto razzia, sparso il panico in tutto il paese e sono fuggiti. Ma li hanno presi».

Ovviamente, Guccini non ha scritto un libro contro la Resistenza. «Io combatto il revisionismo. Leggo Bocca, non Pansa. Non penso affatto sia in malafede, ma considero i suoi libri inopportuni, in un momento in cui un tribunale dà torto a Rosario Bentivegna e dà ragione all'esponente di An che lo addita come il vero colpevole delle Fosse Ardeatine. Ma i libri scritti da chi stava dall'altra parte li ho letti, eccome. Conosco i testi di Pisanò: l'elenco delle vittime che ne viene dato è impressionante. Ho letto Tiro al piccione e A cercar la bella morte. Ma anche Guareschi parlava sempre delle vendette partigiane. Non ignoro che ci sono state davvero. In quella guerra c'era di tutto. Cani e porci, come si dice. I partigiani non erano mica tutti paladini di Francia; e, come oggi in Libano, non bastò dire di deporre le armi per farle tacere. A chi piange su piazzale Loreto ricordo che il corpo del Duce fu portato là non per caso, ma perché là erano stati appesi i corpi dei partigiani. Alcune vendette furono conseguenza della guerra civile. Poi c'erano le bande che si comportavano come criminali comuni. E c'erano partigiani che avevano masticato rivoluzione fine al giorno prima e volevano cominciarla davvero, eliminando i nemici di classe, nonostante le indicazioni della segreteria del Pci: perché Togliatti sapeva bene che la rivoluzione in Italia non si poteva fare».

Il racconto di Guccini non sposta di una virgola il giudizio morale su chi avesse torto e chi avesse ragione; però non concede nulla all'ipocrisia, alla retorica, all'occultamento della realtà. «Certo, finita la guerra c'è stata un'esaltazione troppo forte della Resistenza. Che però è stata un fenomeno importantissimo, nel bene e anche nel male. È stato creato un mito, ad opera del partito comunista. Ma per diverse buone ragioni». Una minoranza di resistenti salvò l'anima della nazione e consentì alla maggioranza di non fare i conti sino in fondo con il passato fascista. «Da ragazzo rimasi molto colpito sfogliando un numero di Life. C'era la foto di maquisard francesi con una pistola con cui eliminavano un collaborazionista. Però nessuno in Francia si pone oggi la questione se il maquis avesse ragione o torto: anche perché dall'altra parte c'era Hitler. I partigiani del nostro libro assomigliano a quelli dello scrittore che secondo me ha raccontato in modo più fedele la Resistenza, Beppe Fenoglio». Hanno nomi immaginifici ma non lontani da quelli reali: Tango, appunto; e poi Lepre, Autiere, Calabrese, Ballerina. Il presunto omicida che viene giustiziato si chiama invece Bob. «Nella zona combattevano le brigate Matteotti di montagna, comandate dal capitano Antonio Giuriolo, nome di battaglia Toni, un veneto amico di Meneghello, lo scrittore. Morì nel tentativo di soccorrere un ferito. Da Montefiorino scesero gli uomini di Armando, della Garibaldi. Poi c'erano quelli di Giustizia e Libertà, tra cui Enzo Biagi. I lanci per i garibaldini non arrivavano mai. Così a volte si arrangiavano da sé: arrivavano a mitra spianati e portavano via la loro parte. Ho chiesto come avvenissero le esecuzioni, se fosse un plotone a sparare. Mi hanno risposto che non avevano certo munizioni da gettar via. Bastava un solo partigiano, con una sola raffica, cui seguiva il colpo di grazia».

«Sul confine orientale accadde di peggio. Conosco bene, e non da oggi, la tragedia di Porzus, dove partigiani comunisti uccisero altri partigiani tra cui il fratello di Pasolini e lo zio di Francesco De Gregori, che ne porta il nome. È una vicenda che incrocia quella delle foibe: crimini del nazionalismo slavo su cui a lungo è calato il silenzio per ragioni politiche e diplomatiche. Da ragazzo ho fatto il militare a Trieste, ricordo l'odio per gli "sciavi", gli sloveni che di notte tracciavano scritte minacciose nella loro lingua sulla nostra caserma. E ricordo che i comunisti bolognesi diffidavano dei profughi istriani come di gente che aveva rifiutato Tito; una volta un loro treno fu bloccato in stazione, non volevano lasciarli proseguire».
Non ci sono pentimenti o ripensamenti nell'ultimo libro di Guccini, tanto meno nelle sue riflessioni. Ma se il cantautore forse più coerente nel rivendicare da sempre l'appartenenza alla sinistra ambienta il suo ultimo giallo nei giorni ora gloriosi ora oscuri della guerra partigiana è segno che per gli intelletti liberi nessun argomento oggi è tabù, neppure quelli destinati ad aprire discussioni. Di tanto in tanto, Guccini si riserva alcuni interventi nella vita politica, come quando nel 2004 ha portato il futuro sindaco Cofferati in giro per il suo quartiere, la Cirenaica, o all'ultima lezione del Mulino ha incoraggiato Prodi con il triplice «resistere» coniato da Borrelli. Ma ha sempre tenuto separata la politica dalle canzoni, e dai romanzi. La «fiaccola dell'anarchia» della Locomotiva, spiega, è una suggestione sentimentale e letteraria, non un'adesione politica. «Prodi un vecchio democristiano? Sarà, ma non mi dispiace affatto. Deve avere una pazienza infinita, visti gli alleati con cui ha a che fare... dall'altra parte però c'è Berlusconi». Le rimprovereranno che questo libro è pubblicato da lui. «Una volta il mio editore era Feltrinelli. Ma mi dissero che i gialli non interessavano. La Mondadori mi ha sempre trattato benissimo. E poi a dirigere gli editor non c'è di sicuro Berlusconi».
Aldo Cazzullo
Corriere.it, 11 febbraio 2007

10.2.07

Un COLPO DI STATO culturale

Alcuni materiali già pubblicati in questo blog:

- Operazione foibe: tra storia, mito e mistificazione.

- «Foibe, memoria dimezzata».

- QUANDO SI COMINCIÒ A PARLARE DI FOIBE? RISTABILIAMO LA VERITÀ STORICA.

- Questione foibe: dibattito storiografico o propaganda politica?.

- Foibe e Ds, una revisione storica «di governo».

- La tragedia delle foibe e i crimini fascisti.

- Su foibe e revisionismo storico.

8.2.07

The Rise of Christian Fascism and Its Threat to American Democracy


By Chris Hedges,Truthdig.

Alternet. Posted February 8, 2007.


We must attend to growing social and economic inequities in order to stop the most dangerous mass movement in American history -- or face a future of fascism under the guise of Christian values.

Dr. James Luther Adams, my ethics professor at Harvard Divinity School, told his students that when we were his age -- he was then close to 80 -- we would all be fighting the "Christian fascists."

The warning, given 25 years ago, came at the moment Pat Robertson and other radio and television evangelists began speaking about a new political religion that would direct its efforts toward taking control of all institutions, including mainstream denominations and the government. Its stated goal was to use the United States to create a global Christian empire. This call for fundamentalists and evangelicals to take political power was a radical and ominous mutation of traditional Christianity. It was hard, at the time, to take such fantastic rhetoric seriously, especially given the buffoonish quality of those who expounded it. But Adams warned us against the blindness caused by intellectual snobbery. The Nazis, he said, were not going to return with swastikas and brown shirts. Their ideological inheritors had found a mask for fascism in the pages of the Bible.

He was not a man to use the word fascist lightly. He had been in Germany in 1935 and 1936 and worked with the underground anti-Nazi church, known as the Confessing Church, led by Dietrich Bonhoeffer. Adams was eventually detained and interrogated by the Gestapo, who suggested he might want to consider returning to the United States. It was a suggestion he followed. He left on a night train with framed portraits of Adolf Hitler placed over the contents of his suitcases to hide the rolls of home-movie film he had taken of the so-called German Christian Church, which was pro-Nazi, and the few individuals who defied the Nazis, including the theologians Karl Barth and Albert Schweitzer. The ruse worked when the border police lifted the tops of the suitcases, saw the portraits of the Führer and closed them up again. I watched hours of the grainy black-and-white films as he narrated in his apartment in Cambridge.

Adams understood that totalitarian movements are built out of deep personal and economic despair. He warned that the flight of manufacturing jobs, the impoverishment of the American working class, the physical obliteration of communities in the vast, soulless exurbs and decaying Rust Belt, were swiftly deforming our society. The current assault on the middle class, which now lives in a world in which anything that can be put on software can be outsourced, would have terrified him. The stories that many in this movement told me over the past two years as I worked on "American Fascists: The Christian Right and the War on America" were stories of this failure -- personal, communal and often economic. This despair, Adams said, would empower dangerous dreamers -- those who today bombard the airwaves with an idealistic and religious utopianism that promises, through violent apocalyptic purification, to eradicate the old, sinful world that has failed many Americans.

These Christian utopians promise to replace this internal and external emptiness with a mythical world where time stops and all problems are solved. The mounting despair rippling across the United States, one I witnessed repeatedly as I traveled the country, remains unaddressed by the Democratic Party, which has abandoned the working class, like its Republican counterpart, for massive corporate funding.

The Christian right has lured tens of millions of Americans, who rightly feel abandoned and betrayed by the political system, from the reality-based world to one of magic -- to fantastic visions of angels and miracles, to a childlike belief that God has a plan for them and Jesus will guide and protect them. This mythological worldview, one that has no use for science or dispassionate, honest intellectual inquiry, one that promises that the loss of jobs and health insurance does not matter, as long as you are right with Jesus, offers a lying world of consistency that addresses the emotional yearnings of desperate followers at the expense of reality. It creates a world where facts become interchangeable with opinions, where lies become true -- the very essence of the totalitarian state. It includes a dark license to kill, to obliterate all those who do not conform to this vision, from Muslims in the Middle East to those at home who refuse to submit to the movement. And it conveniently empowers a rapacious oligarchy whose god is maximum profit at the expense of citizens.

We now live in a nation where the top 1 percent control more wealth than the bottom 90 percent combined, where we have legalized torture and can lock up citizens without trial. Arthur Schlesinger, in "The Cycles of American History," wrote that "the great religious ages were notable for their indifference to human rights in the contemporary sense -- not only for their acquiescence in poverty, inequality and oppression, but for their enthusiastic justification of slavery, persecution, torture and genocide."

Adams saw in the Christian right, long before we did, disturbing similarities with the German Christian Church and the Nazi Party, similarities that he said would, in the event of prolonged social instability or a national crisis, see American fascists rise under the guise of religion to dismantle the open society. He despaired of U.S. liberals, who, he said, as in Nazi Germany, mouthed silly platitudes about dialogue and inclusiveness that made them ineffectual and impotent. Liberals, he said, did not understand the power and allure of evil or the cold reality of how the world worked. The current hand-wringing by Democrats, with many asking how they can reach out to a movement whose leaders brand them "demonic" and "satanic," would not have surprised Adams. Like Bonhoeffer, he did not believe that those who would fight effectively in coming times of turmoil, a fight that for him was an integral part of the biblical message, would come from the church or the liberal, secular elite.

His critique of the prominent research universities, along with the media, was no less withering. These institutions, self-absorbed, compromised by their close relationship with government and corporations, given enough of the pie to be complacent, were unwilling to deal with the fundamental moral questions and inequities of the age. They had no stomach for a battle that might cost them their prestige and comfort. He told me, I suspect half in jest, that if the Nazis took over America "60 percent of the Harvard faculty would begin their lectures with the Nazi salute." But this too was not an abstraction. He had watched academics at the University of Heidelberg, including the philosopher Martin Heidegger, raise their arms stiffly to students before class.

Two decades later, even in the face of the growing reach of the Christian right, his prediction seems apocalyptic. And yet the powerbrokers in the Christian right have moved from the fringes of society to the floor of the House of Representatives and the Senate. Forty-five senators and 186 members of the House before the last elections earned approval ratings of 80 to100 percent from the three most influential Christian right advocacy groups -- the Christian Coalition, Eagle Forum, and Family Resource Council. President Bush has handed hundreds of millions of dollars in federal aid to these groups and dismantled federal programs in science, reproductive rights and AIDS research to pay homage to the pseudo-science and quackery of the Christian right.

Bush will, I suspect, turn out to be no more than a weak transition figure, our version of Otto von Bismarck -- who also used "values" to energize his base at the end of the 19th century and launched "Kulturkampf," the word from which we get culture wars, against Catholics and Jews. Bismarck's attacks, which split Germany and made the discrediting of whole segments of the society an acceptable part of the civil discourse, paved the way for the Nazis' more virulent racism and repression.

The radical Christian right, calling for a "Christian state" -- where whole segments of American society, from gays and lesbians to liberals to immigrants to artists to intellectuals, will have no legitimacy and be reduced, at best, to second-class citizens -- awaits a crisis, an economic meltdown, another catastrophic terrorist strike or a series of environmental disasters. A period of instability will permit them to push through their radical agenda, one that will be sold to a frightened American public as a return to security and law and order, as well as moral purity and prosperity. This movement -- the most dangerous mass movement in American history -- will not be blunted until the growing social and economic inequities that blight this nation are addressed, until tens of millions of Americans, now locked in hermetic systems of indoctrination through Christian television and radio, as well as Christian schools, are reincorporated into American society and given a future, one with hope, adequate wages, job security and generous federal and state assistance.

The unchecked rape of America, which continues with the blessing of both political parties, heralds not only the empowerment of this American oligarchy but the eventual death of the democratic state and birth of American fascism.

Chris Hedges is the former Middle East bureau chief for The New York Times and the author of "War Is a Force That Gives Us Meaning."

6.2.07

Stefano Chiarini, giornalista generoso e militante


di Aldo Garzia

(AprileOnLine.info, 05 febbraio 2007)


Ciao Stefano Esperto come pochi di Medio Oriente, sempre in prima fila sulla questione palestinese, sotto le bombe della prima guerra del Golfo. Un uomo appassionato e gioviale che ha trascorso venticinque anni nella redazione de "il manifesto"





La notizia come uno sparo: Stefano Chiarini è morto d'improvviso, colpito da infarto. Sabato sera c'è stato l'incredulo e terribile passaparola tra amici e compagni che si frequentano ormai poco ma sono legati da un filo invisibile che è generazionale, politico, affettivo.
Stefano era a casa, con la moglie Elena e i suoi due figli. Stava lavorando a un articolo per "il manifesto", il giornale dove ha passato oltre venticinque anni. Nell'ultimo periodo aveva dei problemi di circolazione alle gambe. Pochi anni fa aveva sconfitto una fastidiosa malattia agli occhi che lo costrinse a indossare degli antiestetici occhiali anti-luce. Quei disturbi sono stati i segnali premonitori che qualcosa non funzionava nella pressione e nel suo cuore generoso, sempre disposto - come ha scritto bene Maurizio Matteuzzi sul "manifesto" di domenica - a buttarsi con ostinazione nelle "cause perse", che poi sono quelle dei popoli dimenticati del Terzo mondo.
Con Stefano va via un pezzo di seconda generazione del giornale e dell'impresa politica che abita ancora in via Tomacelli 146. Molte individualità, accanto alla speranza comune di cambiare l'Italia e pure il mondo, si sono incrociate per anni prima al quinto e poi al terzo piano di quello stabile dall'architettura mussoliniana nel centro di Roma. Qualcuno, come Stefano, vi ha trascorso metà della sua esistenza, consumando prima la giovinezza e subito dopo la maturità di marito, padre e inviato nei punti caldi delle guerre e dei conflitti mediorientali.

Ricordo quella sera di gennaio 1991, quando al telefono dei capiredattori arrivò la sua chiamata da Baghdad. Aveva voluto restare sotto le bombe della prima guerra del Golfo, unico giornalista insieme a Peter Arnett della Cnn. L'attacco dell'aviazione statunitense era imminente, lui stava per recarsi nel rifugio antiaereo dopo aver dettato l'articolo di giornata. Nei giorni precedenti non si era lasciato convincere ad abbandonare l'Iraq che prendeva fuoco. Stefano era così: inutile cercare di fargli cambiare idea, se era convinto della sua.
L'ho conosciuto nei primi anni Settanta all'università, dove si era iscritto alla facoltà di medicina dopo aver frequentato il Liceo Giulio Cesare di Corso Trieste dove aveva imparato a difendersi dagli attacchi dei fascisti pur non avendo il fisico del culturista. Quell'apprendistato gli permetteva di essere sempre nelle prime file dei cortei e del servizio d'ordine del "manifesto". Una volta le ha prese così tante dalla polizia che fu ricoverato al Policlinico, diventando per i più fifoni di noi un piccolo eroe da guardare con rispetto. La sua zona di impegno politico era la Tiburtina, Ponte Mammolo, dove militava nei collettivi operai-studenti che si occupavano di salute in fabbrica.

Stefano è sempre stato radicale e inflessibile nelle sue convinzioni. Era un lato del suo carattere, che forse trovava radici nella formazione cattolica giovanile: se si crede in Dio e poi in qualcos'altro, bisogna farlo davvero e fino in fondo. Amava la polemica e la provocazione. In uno dei primi cortei femministi e separatisti non aveva scelto, come la maggioranza di noi, di restare ai margini. Alzando la voce, aveva detto chiaro e tondo ad alcune compagne che sfilavano a Largo Argentina che la loro scelta era sbagliata perché il movimento in cui eravamo tutti impegnati doveva restare uno e indivisibile.
Il caso ha poi voluto che andassi a vivere per qualche tempo in un appartamento dove c'era una sua ex fidanzata, con la quale aveva mantenuto un rapporto di amicizia e di scambio. La frequentazione era perciò diventata meno casuale delle riunioni che "il manifesto", gruppo politico romano, teneva nella sede di via Monterone. Ho iniziato allora a cogliere i lati più nascosti del suo carattere: la generosità, l'abnegazione, la disponibilità all'amicizia e finanche la timidezza.
Gli anni del primo riflusso della marea sessantottina lo hanno condotto a Londra con la voglia d'imparare perfettamente l'inglese. Lì ha iniziato a occuparsi del conflitto che dilaniava l'Irlanda del nord. Le sue cronache per "il manifesto" erano intrise di passione e di dovizia di particolari storici, non solo di attualità. E' nato in quel periodo, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, il cronista Chiarini: un giornalista schierato, dotto nelle materie che seguiva, convinto che il giornalismo era una delle modalità con le quali continuare a fare politica raccontando episodi, storie e lotte che si svolgevano in terre distanti dalla nostra. In Italia erano in pochi a conoscere al pari di Stefano la storia e la contemporaneità dei paesi del Medio Oriente, oltre alle radici e all'attualità della "questione palestinese".

Quando ci siamo ritrovati a via Tomacelli, la comunicazione - assieme alle polemiche - sono riprese dal punto dove le avevamo lasciate (lui sempre troppo di sinistra ai miei occhi, io sempre troppo moderato ai suoi). Ci univa, al di là delle differenze, ciò che insieme avevamo vissuto a metà degli anni Settanta e che poi ci avrebbe portato a collaborare più strettamente sia nel giornale sia nell'ideare un volume dedicato a Cuba della sua casa editrice, raffinata nella grafica e nella scelta dei titoli, Gamberetti .
Negli ultimi anni leggevo da lontano le sue cronache e seguivo con distacco i suoi percorsi politici in cui però, perfino nella scelta di candidarsi nelle liste dei Comunisti italiani alle ultime elezioni del 2006, scorgevo la stessa coerenza e generosità di gioventù. Quando capitava di incontrarci, il parlottare riprendeva fitto come se non avesse subito interruzioni. Proprio come accade a quanti sono uniti dal filo invisibile degli anni Settanta, che è insieme generazionale, politico e affettivo.
In questo momento in cui qualcosa della passata gioventù si spezza irrimediabilmente, mi piace ricordare l'ironia e il sorriso sornione di Stefano insieme a quella borsa - un archivio ambulante - da cui non si separava mai e che conteneva fotocopie, ritagli e materiali che lui solo sapeva decifrare e ordinare.
Chiarini ha vissuto intensamente i suoi appena 55 anni. Era amato per la sua umanità e molto apprezzato per il suo lavoro giornalistico. Questa consapevolezza non addolcisce il dolore di quanti lo hanno conosciuto e ora devono arrendersi all'idea di non rivederlo più.

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