11.5.07

Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?

di Guido Liguori

L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso

I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia (www.gramscitalia.it) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.

(tratto da Liberazione, 11 maggio 2007)

3.5.07

Per una dialettica gramsciana del subalterno

di Raul Mordenti (articolo censurato da Liberazione)

L’articolo che segue era stato commissionato all’Autore per il Supplemento di “Liberazione”/”Quer” dedicato a Gramsci e intitolato “Può il subalterno parlare?”, a cura di Giorgio Baratta (29/04/07). Essendosi l’Autore rifiutato di tagliare, cioè autocensurare, una frase di critica a Bertinotti (come gli era stato chiesto) il curatore Giorgio Baratta e “Liberazione” hanno deciso di censurare l’intero articolo, che infatti non è stato pubblicato. Facciamo pervenire il testo (con la frase proibita in carattere grassetto). Invitiamo a diffonderlo e, soprattutto, a meditare insieme su come è ridotta la sinistra (che pure si dice comunista, libertaria, antiautoritaria e quant’altro). (Raul Mordenti).



1. La domanda se il subalterno possa parlare costituisce (a rigori) una tautologia, che nasconde però un problema (e forse il problema). Il subalterno, finché rimane subalterno e in quanto subalterno, non può evidentemente parlare, perché l’essere subalterno si definisce appunto come una radicale mancanza di autonomia, che significa mancanza di un proprio punto di vista, mancanza di un discorso auto-centrato e posizionato a partire da sé, dunque mancanza anzitutto di parola. Dove “parola” significa evidentemente sia lessico che linguaggio i quali (il pensiero femminista ce l’ha insegnato) sono intrisi di dominio: usare la parola di chi ci usa non è parlare. Credo anzi che potrebbe essere questa la vera definizione di “subalterno”: è subalterno chi non possiede una propria capacità di parola (qui Spivak è ìmpari a se stessa, quando definisce “subalterno” come “essere rimosso/a/i da ogni linea di mobilità sociale”: il contrario è vero, anche la “mobilità sociale”, perseguìta individualmente o corporativamente dentro la gerarchia delle classi assunta come immodificabile, è fattore e segno di subalternità).
2. Se “subalterno” è mancanza di parola, allora “potere” è anche potere di parola, il potere egemonico di articolare un discorso auto-legittimante, di istituire un senso, di dare senso alle cose (o meglio: di imporglielo), rendendo il proprio punto di vista “senso comune”. E Gramsci ci insegna che appunto attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi incontra, controlla, gestisce il senso comune.
Da questo punto di vista non solo le nazioni ma anche i poteri sono racconto o, per meglio dire, le “grandi narrazioni” condivise dai subalterni sono necessarie ai poteri non meno di quanto gli siano le polizie e gli eserciti (non foss’altro perché - come già Gramsci vide lucidamente - anche nella più esclusiva, costrittiva e “dominante” delle dittature almeno le polizie, gli eserciti e i membri degli apparati repressivi debbono, in qualche modo, essere “egemonicamente” persuasi dal potere che servono, cioè debbono condividere il racconto del mondo proposto/imposto da quel potere). Per questo le dittature hanno bisogno di eroi.
3. È giunto il momento che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l’autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto (se ci riflettiamo: meraviglioso) da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del capitale (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell’uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell’uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc.
Quando i rapporti di forza sono particolarmente sfavorevoli o addirittura disperati (come nei tempi nostri) forse potrebbe bastare il gesto degli ebrei costretti ad assistere alle prediche della Controriforma: turarsi le orecchie con invisibili tappi di cera. Forse è proprio questo che fanno i ventenni di oggi, forse è una forma di primitivo, ma sensato e radicale, rifiuto il loro malinconico e anoressico silenzio, forse è l’unica forma di opposizione che sia oggi loro possibile.
4. Chi rifiutasse ancora l’urgenza del problema che qui poniamo (magari perché lo ritiene, con formuletta lorianesca, “sovrastrutturale”) dovrebbe riflettere sull’accanimento e la cura che il potere capitalistico impiega nella distruzione sistematica dei racconti di liberazione che minacciano di mettere in questione la passività dei subalterni. Cos’altro sono la campagna sistematica della pagina culturale del “Corriere della sera” contro la Resistenza o di “Repubblica” contro Cuba se non lo sforzo di persuadere che nulla di diverso dal potere dai suoi orrori è stato mai possibile (e, dunque, oggi neppure pensabile)? Anche molta parte della gestione neo-brescianesca di Gramsci (Gramsci liberale, Gramsci trotzkista, Gramsci socialdemocratico, Gramsci tradìto da Togliatti, etc.) ci parla di questa esigenza del potere di rendere impensabile ogni alternativa.
Questa è la secolare lotta culturale (e politica) fra le classi: da una parte i subalterni tentano sempre in ogni modo (compreso il sogno e la religione) di affermare che un altro mondo sarebbe nonostante tutto possibile; dall’altra parte il potere ribadisce invece che non c’è nulla da fare, che un altro mondo è assolutamente impossibile, che “tanto, signora mia, una volta al potere sono tutti uguali”. Da questo punto di vista l’esito dell’esperienza di Rifondazione (simboleggiato dalle reazioni di Bertinotti agli studenti che lo avevano contestato alla “Sapienza”) rappresenta una grande vittoria culturale, cioè politica, del potere capitalistico italiano, e costituisce un formidabile fattore di disillusione e rassegnazione dei subalterni (che si tramuta in passività politica).
5. Qui il pensiero di Gramsci ci aiuta. In Gramsci il soggetto (il soggetto della storia, e della rivoluzione) non è affatto dato, esso si deve continuamente costruire, dunque auto-costruire.
A ben vedere deriva proprio da qui una insopprimibile istanza democratica presente in Gramsci: la necessità di costruire il soggetto rivoluzionario (costruire, non solo dirigere) attraverso un processo reale storicamente determinato, cioè politico e conflittuale, che presenta contraddizioni anche al suo interno (fra dirigenti e masse, fra partito e movimento, fra “direzione consapevole” e “spontaneità” etc.). E il fondamento teorico della democrazia comunista è l’inaudita risposta che Gramsci fornisce alla più inaudita delle domande che un dirigente comunista si sia mai posto, una domanda ai limiti dell’assurdo nella concezione leninista del Partito e che Gramsci definisce invece “quistione teorica fondamentale”: “Si presenta una quistione teorica fondamentale (…): la teoria moderna [il marxismo, n.d.r.] può essere in opposizione con i movimenti ‘spontanei’ delle masse?” (Q 3, pp. 330-331). La risposta che Gramsci si dà (e nessun altro comunista dopo di lui si darà) è tanto risoluta quanto gravida di conseguenze fondamentali per la teoria del Partito e per la stessa idea di rivoluzione: “Non può essere in opposizione: tra di essi c’è una differenza ‘quantitativa’, di grado, non di qualità; deve essere sempre possibile una ‘riduzione’, per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni agli altri e viceversa”(Ibidem).
6. “Siamo indios, ma non solo…” dicono gli zapatisti. I subalterni gramsciani, gli operai che egli ha ascoltato negli anni dell’”Ordine Nuovo”, i quadri popolari con cui ha cercato di costruire il suo Partito, perfino i delinquenti meridionali che ha incontrato in carcere non sono mai tabula rasa, non sono mai mera passività e assenza di soggettività, non sono mai solo il “concio” della storia: sono sempre anche qualcos’altro. È questo il motivo per cui: “il punto di partenza deve sempre essere il senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee filosoficamente.” (Q 11, pp. 1397-1398). Esiste infatti “lo spirito popolare creativo”, che Gramsci afferma essere la vera base della sua ricerca, la comune origine dei quattro strani temi che egli si assegna nella lettera a Tania del 19 marzo 1929 in cui annuncia per la prima volta il progetto dei Quaderni. Per questo: “Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe (…) essere di valore inestimabile per lo storico integrale” (Q 25, pp.2283-2284).
R.M. 19/4/2007
(tratto da: www.erre.info/)

2.5.07

Gramsci

di Rossana Rossanda

(tratto da il manifesto, 1 maggio 2007)

Settanta anni fa moriva in una clinica Antonio Gramsci. Al funerale non andò nessuno, fuorché la cognata Tatiana e la polizia. Era stato arrestato nel 1926 ed era libero da poche settimane, sfinito dalla malattia e non solo da essa. Se morire comporta un qualche assenso, deve averlo propiziato il rendersi conto che non era desiderato da nessuna parte - non a Mosca, dove erano la moglie e i figli e i compagni, non a Ghilarza, dove era la sua famiglia d'origine. Di questo nulla ha detto all'amorevole non amata Tatiana, e se lo ha confidato a Piero Sraffa, Piero Sraffa non ce ne ha lasciato testimonianza.


Eppure, di quel che era successo al mondo dal '26 al '37 i due, in una clinica finalmente senza polizia, devono avere parlato a lungo, e Gramsci molto deve avere saputo di quel che aveva potuto intravvedere o adombrare. Nell'Urss la collettivizzazione delle terre, poi l'assassinio di Kirov e l'inizio della liquidazione del comitato centrale eletto nel 1934, e nel 1936, giusto un anno prima, il primo dei grandi processi. Fuori dell'Urss la crisi del 1929, l'ascesa del nazismo in Germania nel 1932, l'aggressione italiana all'Abissinia nel 1935 e nel 1936, il Fronte popolare in Francia ma l'attacco di Franco alla repubblica spagnola. Che ne ha pensato? Che poteva attendersi dal ritorno alla libertà? Difficile immaginare un'esistenza più sofferente per le miserie del corpo, per la sconfitta, per la solitudine, per la lucidità.
Non mi pare che in Italia sia ricordato con qualche calore. Forse solo da Mario Tronti alla Camera. Noi stessi ce la siamo cavata discutendo di un confronto con Edward Said - due teste, due culture, due epoche, due terreni - tutto diverso. Meno che mai poteva essere rievocato dal partito di cui Togliatti aveva detto che lui, Gramsci, era il fondatore, e che è stato interrato a Firenze la settimana scorsa. Per il defunto Pci era stato - alquanto depurato e deproblematizzato - la carta vincente nell'orizzonte dell'Italia del dopoguerra, prova di un'autonomia dall'ortodossia sovietica. Era un martire del fascismo, dunque da onorare e, spento, non avrebbe più perturbato la quiete dell'esecutivo della Internazionale comunista e del suo proprio partito. Dopo il 1956, il suo ritratto sostituì quello di Stalin sulle pareti di via Botteghe Oscure.
Ma era stato a lungo passato sotto silenzio che nel 1926, poco prima dell'arresto, aveva scritto all'esecutivo dell'Ic contro la decisione staliniana di tagliar fuori Trotzki, non perché fosse d'accordo con Trotzki ma perché trovava irresponsabile spaccare, nel fallimento delle rivoluzioni in Europa, l'unità del gruppo dirigente del 1917 o di quel che ne restava. E che tre anni dopo i compagni in carcere avevano condannato le sue tesi opposte alla linea del 1929, e lo avevano isolato. Ne aveva tratto l'amarissmo dubbio che Togliatti non solo nulla facesse per tirarlo fuori, ma lo desiderasse dentro. E se aveva conservato la speranza che la Ic fosse meno meschina del Pcdi, il sapere nel 1937 che Mosca gli era preclusa, gliela aveva tolta tutta. Anche di questo non può non avere parlato con Sraffa, ma Sraffa rifiutò di discuterne con Tatiana e nulla ci ha lasciato detto.
Negli anni Sessanta Rinascita avrebbe pubblicato tutto, la lettera all'esecutivo dell'Ic di cui era stata negata l'autenticità, lo scontro con Togliatti, il rapporto di Athos Lisa sulla rottura in carcere. E sarebbe uscita l'edizione completa delle Lettere. E Paolo Spriano cercava di andare più a fondo, nell'ostilità di Amendola. Ma era tardi. Nessuno se ne infiammò nel partito, né fuori.
Pochi anni dopo, ogni passione spenta, il Pci pareva vincente sulla scena elettorale e la generazione del 1968 non lo avrebbe neppure sfogliato, Gramsci. Aveva fretta, pensava a scadenze veloci e vittoriose e Gramsci era il pensatore della sconfitta delle rivoluzioni in Europa. In quegli anni lo si studiò più all'estero, nell'indifferenza degli ortodossi e delle nuove sinistre. In Italia è diventato oggetto di studiosi valenti più o meno separati dalla politica. Anche le sue ceneri restano deposte a parte, nel piccolo cimitero degli acattolici che i romani chiamano degli inglesi, vicino alla Piramide Cestia.
L'uso che di Gramsci aveva fatto il Pci contribuì alla diffidenza del 1968 e seguaci. Dico uso e non abuso, perché non c'è stata in senso proprio una falsificazione - tanto che l'interpretazione corrente è rimasta quel che era anche dopo la pubblicazione rigorosa dei Quaderni fatta da Valentino Gerratana. C'è stata un'accentuazione degli elementi che andavano in direzione della linea del Pci dopo la guerra. Il cardine ne furono soprattutto i frammenti su guerra di posizione e guerra di movimento.
Su questo punto le note hanno nei Quaderni uno sviluppo disuguale e vengono datate attorno al 1930. Il nocciolo è in sostanza questo: dove il potere della classe dominante poggia non solo sullo stato ma su una società civile avanzata e complessa, il movimento rivoluzionario non può vincere con un attacco al vertice dell'apparato statale (guerra di movimento) ma in quanto abbia conquistato le «casematte» della società civile (guerra di posizione). Soltanto dove è lo stato a detenere tutto il potere rispetto a una società civile debole e poco strutturata, può avvenire il contrario. Sotto l'occhio della censura Gramsci usa un linguaggio mascherato e «militare» - ne nota egli stesso il limite - ma la trasposizione non è difficile. Guerra di movimento è una rivoluzione che, anche se si impadronisse con una rapida mossa del vertice statuale, non reggerebbe alla resistenza d'una forte società civile, che occorre perciò penetrare, postazione per postazione, con una tenace guerra di posizione. Esempi: l'occidente presenta società civili robuste, l'Est società fragili. Gramsci non lo può scrivere in termini espliciti, ma è una ragione per cui le rivoluzioni del primo dopoguerra in Euopa sono fallite, nell'Urss invece l'Ottobre ha vinto.
Qui si aprono una serie di problemi. Parrebbe preliminare la definizione, l'uno rispetto all'altra, di stato e società civile. Nei Quaderni i confini variano e a volte si intersecano e confondono, come nel caso del regime fascista. Tuttavia la tesi è chiara: il potere del capitale non sta tutto e solo negli apparati repressivi dello stato, e non solo perché - tema anche in Marx parzialmente equivoco - la «struttura» determinante è quella del modo di produzione che l'ideologia borghese vorrebbe distinta dalle istituzioni dello stato, ma perché anche come «comitato d'affari della borghesia» lo stato ha una sua sfera di autonomia, che peraltro è andata precisandosi e ridefinendosi nei decenni successivi. Soprattutto nei regimi che Arendt chiama «totalitari», sia quelli fascisti sia quelli detti comunisti (che non hanno estinto lo stato affatto). Non so se nei primissimi '30 Gramsci fosse in grado di pensarlo; certo non di scriverlo. Tuttavia la distinzione fa problema tuttora, né si può cavarsela con un ricorso alla dialettica fra i due momenti, che è (anche in Grasmci) più un sofisma che una spiegazione.
Sta di fatto che all'epoca nessun comunista pensava che si potesse fare a meno di una rottura dell'apparato dello stato e nulla permette di credere che per Gramsci la guerra di posizione fosse altro che preliminare alla rivoluzione politica. Insomma, condizione necessaria ma non sufficiente. Era il distinguo dei comunisti rispetto alla socialdemocrazia e al parlamentarismo. E lo resta a lungo. Nel 1956, con il VIII congresso, il Pci accenna al salto teorico: forse della rottura rivoluzionaria dello stato si può fare a meno - ma non lo esplicita apertis verbis, e non è questa la sede per dirimere se, per via dei rapporti di forza, o per prudenza su una radicale svolta nei principi.
Certo la pratica politica sulla quale il Pci è cresciuto è stata un perpetuo richiamo al Gramsci della guerra di posizione, unito all'inclinazione a accusare di avventurismo chi avrebbe voluto andar oltre, in Italia e nel mondo. Il caso del 1968 è solo il più indicativo: dopo una certa esitazione, il Pci non ha neppure compreso che se a quella spinta non si dava uno sbocco, essa sarebbe degenerata in forme estreme e perdenti, come in Italia e in Germania è avvenuto negli anni successivi.
Ma in linea teorica il discorso si limitava alla tattica - non era mai il momento, non ci si trovava mai di fronte a una «crisi generale»; nessun do*****ento del Pci è giunto a negare l'esistenza di un conflitto di fondo fra le classi. A cancellarne il concetto non sono bastati neppure la svolta del 1989 e il sempre più frequente uso negativo, sulla base del Gramsci giovanile, della categoria di «giacobinismo». E' perfino divertente - ammesso che ci sia una qualche ironia nella storia - che si debba approdare allo scioglimento dei Ds nel 2007 perché Walter Veltroni dichiari priva di ragione, e quindi da cancellare (o reprimere), la guerra di classe, anzi - il termine guerra essendo lasciato agli stati e alle loro imprese «umanitarie» - il conflitto.
Nel suo saggio del 1976 nella New Left Review, Perry Anderson esclude che di questa deriva del Pci vada imputato Gramsci, che ritiene essere rimasto alla tesi marxiana della necessità d'una rottura della legalità statale; da parte sua, insiste ancora nel difenderne il carattere «militare» (Trotzki) perché nessuna conquista della società civile (della quale non nega la necessità) può incidere sul monopolio statale della violenza e sull'essere il solo a detenerne i mezzi con la polizia, l'esercito, e la tecnologia avanzata delle armi.
In verità con gli occhi del 2007 la questione si ricolloca in tutti i suoi termini: nessuna rivoluzione socialista è avvenuta senza una rottura politica e, sia pur in diversa misura, violenta; ma tutte le rivoluzioni dette socialiste o comuniste sono fallite o degenerate o implose, il caso dell'Urss essendo soltanto il più imponente. Se ne può se mai dedurre, contrariamente da Anderson, che i frammenti di Gramsci non si riferirebbero soltanto all'occidente, ma tradirebbero una preoccupazione sull'evolversi della rivoluzione russa, dove una preliminare egemonia sulla società civile non aveva avuto luogo. Certo questo avrebbe comportato delle conseguenze sul grado di maturità o immaturità di una rivoluzione, cui nessuno in quel tempo, e poi di nuovo negli anni '70, sarebbe arrivato, pena trovarsi collocato molti passi indietro perfino rispetto a Bernstein.
Resta il fatto che il lavoro di Gramsci rappresenta la prima sortita dalle categorie sommarie in cui sono stati pensati nel Novecento non solo la rivoluzione ma la natura della società e il rapporto fra istituzioni dello stato e società civile. Oggi, quando con la cosiddetta globalizzazione il potere su scala mondiale sembra poggiare assai più sulla rete dei capitali che sugli stati nazionali, pur restando nel monopolio di questi l'uso della violenza, l'elaborazione gramsciana dei primi anni '30 sarebbe più che mai da riprendere e aggiornare. Sempre che, naturalmente, non siano gettati alle ortiche sia il concetto di modo capitalistico di produzione, sia quello di libertà - abitudine peraltro diffusa nelle ex vecchia e nuova sinistra.

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