11.5.07

Sinistra, perché non capisci più Antonio Gramsci?

di Guido Liguori

L'americanizzazione della politica ha portato alla rinuncia del partito come intellettuale collettivo. I neo-con appaiono i veri eredi del pensatore sardo. Hanno fatto propria la necessità di agire nella società civile per creare consenso

I convegni su Gramsci di queste settimane, in occasione del 70° della morte, come l'inserto di Liberazione del 29 aprile, stanno evidenziando l'ampio spettro di letture gramsciane oggi diffuse nel mondo. Più sullo sfondo resta l'uso di Gramsci da parte di esponenti politici di destra, su cui pure conviene interrogarsi. Dagli Stati Uniti, ad esempio, Joseph Buttigieg ha ripetutamente richiamato l'attenzione su come esista una presenza di Gramsci tra i pensatori conservatori, che hanno fatto propria la convinzione della necessità di agire nella società civile per diffondere determinate idee, e passare poi a mietere i risultati sul piano politico. Come nell'analisi di Gramsci, questi "centri promotori" sono formalmente privati, ma il loro nesso con la politica statunitense è così forte da essere un esempio di quello "Stato integrale" (società politica + società civile) di cui parlano i Quaderni . Così i think tanks conservatori, se da una parte indicano in Gramsci il marxista più pericoloso, sono tra i più solerti applicatori delle sue strategie. Se oggi dovessimo cercare un esempio delle riflessioni gramsciane su come si organizza l'egemonia, su come essa non sia un fenomeno "spontaneo", su come la diffusione di un senso comune, di una visione del mondo abbiano sempre alle spalle un "apparato egemonico" dotato di una precisa materialità, troveremmo tali esempi in queste fondazioni, in questi centri studi del pensiero conservatore statunitense.
La sinistra invece sembra aver abbandonato questo fronte. In Italia, essa non ha più quella fitta serie di centri studi e riviste che furono un momento importante della sua azione. L'americanizzazione della politica si è tradotta in rinuncia a una teoria e una pratica del partito come "intellettuale collettivo". I neocons appaiono così gli eredi politici del gramscismo. Quando di recente si è letto su Le Figaro un'intervista in cui Nicolas Sarkozy ha affermato: «La mia lotta non è politica, ma ideologica... In fondo mi sono appropriato dell'analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee», pur scontando tutta la strumentalità di queste affermazioni si rimane sorpresi dalla consapevolezza che essa fa trasparire. A inizio anni 70 Alain de Benoist aveva ipotizzato un "gramscismo di destra", esaltando la dimensione culturale e metapolitica per creare un nuovo senso comune. A partire dalla convinzione che l'uomo sia un animale simbolico e s'identifichi con la propria cultura. Noi sappiamo ovviamente che incidono - in maniera fondamentale - anche i rapporti sociali di produzione. E non ci dobbiamo stancare di ripetere che questa era anche la convinzione di Gramsci. Ma resta il fatto che la destra sostiene che è necessario seguire la lezione del comunista sardo, mentre spesso tale convinzione a sinistra non c'è più e spesso si sussurra, dietro gli omaggi formali e le commemorazioni da calendario, che la lezione di Gramsci è oggi passata.
Nel mondo anglofono, a parte le letture neoconservatrici, prevale una lettura culturalista del pensiero di Gramsci, mentre il mondo latinoamericano resta uno dei migliori esempi di una lettura politica del pensatore sardo. È chiaro che non vi è in Gramsci - tra questi due diversi approcci - una separazione netta. E sarebbe facile dire che dobbiamo, gramscianamente, fare politica per tramite della cultura e considerare la cultura non come qualcosa di avulso dalla politica. Ma queste sono ovvietà. La verità è che questa divaricazione esiste oggi negli studi su Gramsci. Da una parte l'America latina, in particolare il Brasile, rappresenta un esempio di applicazione delle categorie gramsciane all'ermeneutica storica e politica. Nel mondo di lingua inglese invece l'area di studi in cui Gramsci è più diffuso è l'area dei cultural studies , degli studi post-coloniali, degli studi sui subalterni. Sono o sono stati anche questi momenti di grande importanza nella diffusione del pensiero di Gramsci e anche di un uso politico di Gramsci. Se noi pensiamo alla prima fase dei cultural studies , o alla tensione politica di Edward Said, o all'illuminazione che sul concetto di subalterno è venuta da autori indiani, è chiaro che siamo di fronte a un discorso con ricadute politiche. Si ha però la sensazione che la fase attuale dei cultural studies veda un uso di Gramsci diverso. È ormai prevalsa quella che definirei "una microfisica della differenza", in cui evapora ogni rimando reciproco tra il momento "culturale" e il momento "politico" e in cui la reale posta in gioco non sembra più essere quella di una liberazione reale (politica, sociale, economica, culturale), ma un gioco senza posta, un gioco tout court. Per non dire - come è stato notato - che c'è anche un uso culturalista di Gramsci che ha come esito un rafforzamento dell'egemonia statunitense. Si dovrebbero dunque operare le opportune distinzioni, saper leggere dentro il discorso dei cultural studies , spesso anche dentro l'evoluzione di uno stesso autore (Stuart Hall, ad esempio) e mettere a fuoco dove davvero tale discorso conduca.
Gli studiosi italiani hanno visto a lungo Gramsci solo come teorico della politica, senza dare peso alle contaminazioni che il suo pensiero stava subendo nel mondo. Quanto più un sistema di pensiero si diffonde, tanto più aumentano i rischi di fraintendimenti. Quasi come reazione a ciò, negli ultimi anni in Italia sono cresciuti gli studi filologici e studi sull'effettivo contesto storico-culturale in cui egli operava, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare. È iniziata la pubblicazione di una nuova edizione nazionale critica delle opere; e dal 2001 la Igs Italia (www.gramscitalia.it) organizza un seminario multidisciplinare che analizza filologicamente i suoi termini e concetti: Le parole di Gramsci (Carocci editore) è il titolo del libro che contiene i primi frutti di questo lavoro, che sfocerà presto in un Dizionario gramsciano degli anni del carcere.
Questi due movimenti - la diffusione di Gramsci in culture lontane e l'approfondimento filologico del suo pensiero - io credo si completino l'uno con l'altro. Da una parte, indiani, nord-americani, latinoamericani, australiani stanno applicando le categorie gramsciane nei loro contesti culturali e così gettano nuova luce su aspetti poco esplorati del suo pensiero. D'altra parte, gli studiosi che lavorano sul versante filologico aiutano, o dovrebbero aiutare, i primi a non "tradire" Gramsci, a comprendere il suo pensiero per utilizzarlo meglio. Con quest'azione comune, si può cercare di usare Gramsci in modo innovativo, non sacralizzato, senza dimenticarne alcune coordinate di fondo - in particolare la lotta per l'egemonia come forma della lotta di classe all'altezza delle società contemporanee. Se si perde il legame con questo orizzonte di senso, in cui si situava l'elaborazione del comunista sardo, si crederà forse di parlare di Gramsci, ma in realtà si parlerà di tutt'altro.

(tratto da Liberazione, 11 maggio 2007)

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