16.2.07

L'Europa sta a guardare

di Antonio Gambino

(tratto da AprileOnLine.info, 13 febbraio 2007)

Questo mese su Aprile, il mensile La politica estera inaugurata da George Bush continua il suo trend negativo. Una irresponsabile escalation che si concentra sul Medioriente e che chiama l'Ue ad un'azione forte e incisiva, senza le esitazioni che l'hanno caratterizzata



Era stato facile prevedere, alla metà di novembre, che la striminzita vittoria dei democratici americani alle elezioni di mezzo termine (e anche se non fosse stata striminzita, la situazione sarebbe stata la stessa, perché il Congresso non ha alcun modo di controllare la politica estera del presidente) non avrebbe indotto o obbligato Bush a cambiare strada. Ora che questa realtà sta, in modo inequivocabile, davanti ai nostri occhi, i compiti che le opinioni pubbliche e i governi europei dovrebbero affrontare sarebbero logicamente due: quello di definire con esattezza in che cosa questa strada consiste e, subito dopo, di individuare quali sono le reazioni più adeguate nei suoi confronti.

Il primo di tale compiti è di una facilità assoluta. George W. Bush - e qui dobbiamo ringraziare la "semplicità" del suo apparato mentale - non ha compiuto, infatti, alcuno sforzo per camuffare come nuovo ciò che nuovo non è. Ha in pratica affermato che in Iraq si tratta solo di portare a termine, anche attraverso un aumento (piccolo ma non irrilevante) del numero di soldati americani, l'azione incominciata da quattro anni, e ha sottolineato di essere pronto ad andare avanti anche se al suo fianco si dovessero al fine trovare solo "sua moglie e il suo cane". Né è lecito sperare che a questa dichiarazione esplicita di un "unilateralismo" trasferito dal piano esterno a quello nazionale, possa, ad un certo punto, fare da contrappeso una effettiva rivolta dei leader del partito democratico. I quali, infatti, pur disapprovando queste parole, si sono affrettati a precisare che non cercheranno di bloccare la linea del presidente, magari negandole, in Congresso, gli stanziamenti economici necessari per attuarla. E questo - hanno confessato candidamente - per il semplice motivo che un simile comportamento sarebbe considerato dalla grande maggioranza degli americani come "unpatrioctic", poco patriottico.

Come sempre accade, una decisione di "continuare" non può significare, per la sua logica interna, un semplice ripetere ciò che finora si è fatto, ma un approfondirlo ed un ampliarlo. Ecco quindi che Bush, nel momento in cui difende le sue scelte passate, comincia anche a parlare, in termini allusivi ma non tanto, della necessità di nuovi interventi preventivi armati, contro tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno impedito e impediscono agli Stati Uniti di vincere la guerra in Iraq, e, più in generale, di "sconfiggere il terrorismo". Leggi, innanzi tutto, l'Iran e la Siria, ma anche una lunga serie di altre organizzazioni che il nuovo rapporto, edito nel settembre scorso dallo State Department e intitolato "The National Security Strategy of the United States of America", enumera accuratamente (sono esattamente 42, e vanno da Hamas alle Tigri del Tamil, dalle Forze rivoluzionarie della Columbia a Hezbollah), e ad ognuna delle quali è inviato, fin da ora, il messaggio di considerarsi come il possibile bersaglio di un attacco Usa.

Come si manifesterà concretamente questo orientamento, è impossibile dirlo: ma è certo che è legittimo aspettarsi il peggio. Per almeno tre motivi.

Il primo è che lo slogan della "guerra al terrorismo" - a dispetto delle bugie e delle falsificazioni che lo hanno accompagnato - seguita ad avere una notevole presa sull'opinione pubblica internazionale. Si ripete, cioè, il fenomeno che avvenne quarant'anni fa, al momento dell'intervento armato americano in Vietnam: sempre giustificato con la "teoria del domino", vale a dire con la tesi che se il "comunismo internazionale" non fosse stato "fermato" nel Sud Est asiatico, presto (come un giorno mi disse un importante uomo politico italiano, non democristiano) "ce lo saremmo trovato sulle coste del Mediterraneo". Queste idiozie hanno uno straordinario potere di convincimento: ed ecco che oggi è la volta della "guerra al terrorismo". Il quale terrorismo, per quel tanto che davvero esiste, nella forma di una sempre più violenta ostilità di una gran parte del mondo islamico (e più in generale, emarginato) nei confronti dell'Occidente è destinato, inevitabilmente, a non diminuire, ma ad aumentare in proporzione diretta al numero e alla intensità dei nostri interventi armati nelle vari parti del mondo (vedi Somalia).

Il secondo è che una parte non indifferente degli americani (e non solo i "neo-cons"), nell'impossibilità di risolvere in maniera stabile (perché giusta) il conflitto israelo-palestinese, vede in un violento rimescolamento di carte in tutto il Medio Oriente il modo di cambiare i dati di fondo di questa situazione. Uno scontro vittorioso con la Siria e specialmente con l'Iran potrebbe - a loro giudizio - creare un quadro in cui i palestinesi (al cui interno gli Stati Uniti stanno da anni creando, in molti modi, una corposa "quinta colonna"), sentendosi del tutto abbandonati, potrebbero accettare una "pace cartaginese". Come quella che, nelle parole di Keynes, la Francia e l'Inghilterra imposero alla Germania alla fine della prima guerra mondiale: nel caso specifico, attraverso la finzione di uno "Stato" costituito da una serie di territori discontinui, posto, inerme, sotto il protettorato israelo-americano.

Il terzo motivo per aspettarsi il peggio è che gli interventi unilaterali, sorretti dalla convinzione di avere non solo la forza ma anche il "diritto" di imporre la loro volontà a tutti, fanno parte, da sempre, del DNA degli Stati Uniti. Fino a quando essi erano isolati dal mondo, questa impostazione si è espressa nella "dottrina Monroe", che ingiungeva agli europei di non intervenire negli affari dell'Emisfero americano; dopo che eventi, con la fine del secondo conflitto mondiale, hanno posto Washington al centro della dialettica internazionale, si è presto giunti ad una sorta di Dottrina Monroe globale. Vale a dire alla tesi, ormai non più negata, anzi codificata, del diritto dei governanti degli Stati Uniti di controllare tutto ciò che si trova su questa terra, e anche al di sopra di essa

E questo ci porta al secondo compito a cui si è prima accennato: quello di individuare una reazione adeguata a tale situazione. Il quale, tuttavia, si scontra subito con un ostacolo praticamente insormontabile: costituito dal fatto che l'idea che le scelte in campo internazionale siano la prima e la più evidente espressione della sovranità nazionale (secondo la frase di De Gaulle: "la politica estera della Francia si fa a Parigi e non a Washington") non sia etica, non sfiora neppure da lontano la mente degli attuali (e precedenti) governanti di questa Europa (a parole) unita, e innanzi tutto di quelli italiani. Il cui costante orientamento appare quello di barcamenarsi, invece di giudicare i singoli problemi sulla base degli interessi e dei criteri etici dei paesi che rappresentano, cercando di non mostrarsi troppo servili, ma con lo scopo fondamentale di evitare ad ogni costo di irritare i dirigenti americani. E la cosa davvero terribile è che neppure il fatto che le azioni degli Stati Uniti in campo internazionale siano diventate col passare degli anni sempre più discutibili, o chiaramente riprovevoli, è riuscito realmente a modificare - al di là di alcuni sporadici sussulti di dignità - questo radicato costume di sudditanza (di cui l'immediata adesione all'ampliamento - che in realtà è molto più di un semplice ampliamento - della base Nato di Vicenza, da parte del governo italiano, sia di centro-destra che di centro-sinistra, costituisce un luminoso esempio)

Stando così le cose, se la politica - vecchia e nuova - di Bush ci trascinerà, tra non molto, al centro di scenari internazionali sempre più pericolosi, la capacità di sottrarci alle sue probabili, catastrofiche, conseguenze non sarà più nelle nostre mani

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