11.2.06

Questione foibe: dibattito storiografico o propaganda politica?


tratto da: http://wreckage.altervista.org/
venerdì 10 febbraio 2006.

Articolo contenuto nel numero 6 di "Quarantacinque, memoria e attualità dell’antifascismo"
Quando il “revisionismo” storico assurge a religione di stato, le vicende concernenti le cosiddette “foibe” diventano il contenuto principale della sua rivelazione e recepite con la disarmante acriticità riservata ai soli dogmi di fede. Tale culto, che già da tempo riconosceva l’“esodo” degli italiani dai territori istriani, fiumani e dalmati verso la “terra promessa”, l’attuale Venezia-Giulia, come proprio mito fondativo e le “migliaia di nostri concittadini torturati e gettati vivi” nelle cavità carsiche quali suoi martiri, è divenuto presto ufficiale ed oggi celebra il 10 febbraio il rito del ricordo di quelle vittime, erige a titolo di simulacri lapidi commemorative come quelle situate presso le foibe di Monrupino e Bassovizza, dichiarate monumento di interesse nazionale, e consacra sacerdoti le alte cariche dello Stato che periodicamente si recano a visitarle. Le ragioni dei fedeli che a questo credo si sono votati hanno finora goduto delle più brillanti luci della ribalta nazionale, relegando quelle dei loro detrattori nell’angustia di archivi polverosi e remote biblioteche. Di fronte al Golia del circo mediatico lanciamo l’unico sasso a nostra disposizione: l’analisi dei dati pubblici da cui scaturisce il racconto dei fatti, al fine di chiarirne i punti più controversi. Quando si parla genericamente di foibe ci si riferisce a due episodi distinti nel tempo e nello spazio: il primo, successivo all’8 settembre 1943, coinvolge i territori istriani annessi dall’Italia durante il fascismo; il secondo, risalente al maggio 1945, consegue alla liberazione di Trieste dalle truppe naziste da parte dell’esercito popolare jugoslavo che assunse il controllo della città.

Come risulta dall’esito delle riesumazioni effettuate, le vittime degli eventi relativi al primo periodo furono circa 500, le salme recuperate 204, la sola metà delle quali identificate a causa del già avanzato stato di decomposizione. Non è pertanto possibile stabilire univocamente né la causa dei decessi né le circostanze in cui maturarono. Tuttavia, si può ipotizzare che quei corpi appartenessero soprattutto a militari caduti negli intensi combattimenti per il controllo della zona che seguirono la caduta del regime e a civili colpiti dai bombardamenti, che per ragioni logistiche non hanno potuto avere migliore sepoltura, e ad italiani vittime di vendette perpetrate dalla popolazione locale ai danni di quanti di loro furono coinvolti nei crimini commessi durante il periodo di occupazione fascista di quei luoghi (la nuova “provincia di Lubiana” fu annessa dal 3/5/1941), la cui connotazione ferocemente razzista e violenta è riscontrabile nelle condizioni a cui gli abitanti di quei territori erano sottoposti: deportazioni di massa, interdizione dal pubblico impiego ai membri di razza slava, abolizione di ogni forma di bilinguismo, metodi terroristici per dissuadere la popolazione dall’appoggio al “banditismo” (ai quali i nazisti dichiararono di essersi ispirati nella successiva repressione dei partigiani italiani), istituzione di campi di internamento civile “paralleli” a quelli ufficiali, sottratti alla tutela delle leggi statali e delle convenzioni internazionali; la stessa prassi degli “infoibamenti” veniva praticata dai fascisti ben prima di finire essi stessi vittime della propria macabra invenzione.

Per quanto concerne invece i fatti del ’45 occorre, innanzitutto, ridimensionare attraverso la comparazione dei vari elenchi ritenuti attendibili dagli storici la stima degli scomparsi dalla zona di Trieste durante i “quaranta giorni” (1/5-12/6/1945) di governo jugoslavo, eliminandone i nominativi duplicati e quelli di quanti risultano successivamente rimpatriati o la cui sparizione esula dai limiti spazio-temporali fissati; compiuta questa verifica, il numero dei morti si riduce a 498 [1], tra i quali sono annoverati non solo coloro che risultano essere stati effettivamente infoibati (non vi sono inclusi i presunti precipitati nella voragine di Bassovizza, il cui fondo non è stato mai esplorato), ma anche i processati e fucilati a Lubiana nel dopoguerra e gli internati e deceduti nel campo di prigionia di Borovnica. Se ne deduce che il nascente stato jugoslavo non ha mai pensato né attuato alcun progetto di eliminazione sistematica nei confronti degli italiani sulla base delle divergenze ideologiche sull’opportunità dell’instaurazione di una società socialista, né, tantomeno, su quella della propria presunta superiorità razziale; come dimostrano, infatti, le ridotte proporzioni quantitative del fenomeno e le biografie dei dispersi, la causa delle persecuzioni va piuttosto individuata nell’appartenenza a vario titolo degli individui giustiziati a formazioni militari e politiche fasciste e nel ruolo svolto da collaborazionisti e informatori o, come nel caso dei sedici membri del CLN, nelle loro precise responsabilità nell’attività eversiva condotta contro l’amministrazione allora vigente legittimamente riconosciuta dagli alleati. La stessa conclusione vale per l’esilio dei coloni che non riconobbero le nuove regole istituzionali e rimasero illesi nella fuga nonostante la loro “italianità”. Alla luce di quanto affermato chiediamo: a quale criterio di obiettività risponde la destra nazionalista che denuncia il prolungato silenzio sulle foibe dopo aver costantemente esasperato il confronto politico (come dimostrano le pagine della cronaca locale giuliana degli ultimi sessant’anni) con lo scopo di mantenere alta la tensione sul confine orientale in modo da giustificare trame eversive basate su logiche e strutture paramilitari come difesa legittima contro un’invasione straniera e fa emergere ciclicamente la questione a livello nazionale solo in occasione di snodi fondamentali del dibattito politico (caduta del muro di Berlino, processo a Priebke e agli aguzzini della Risiera di San Sabba, discussione della legge di tutela per la comunità slovena in Italia e dell’ingresso nell’Unione Europea di Slovenia e Croazia)? Quale credibilità pretende di avere chi agisce sotto il ricatto del partito di governo erede del fascismo, i cui membri celano dietro all’alleanza col nazismo le proprie gravi responsabilità nei crimini commessi nei confronti di ebrei, abitanti dei paesi occupati e persino propri connazionali, ammettono esplicitamente di preferire alle pubbliche celebrazioni dell’anniversario della liberazione dal nazi-fascismo rimanere in casa ad ascoltare nostalgiche marcette o recarsi a Predappio per pregare sulla soglia del funesto tumulo e rovesciano la realtà dei fatti imputando ai comunisti jugoslavi di aver perpetrato contro gli italiani un vero e proprio genocidio, lo stesso crimine ampiamente teorizzato e programmaticamente realizzato dalla propria parte ai danni di ebrei, rom e slavi? Quale ideale di giustizia universale può invocare chi definisce “patrioti” esclusivamente coloro che hanno difeso il paese dall’invasione dei partigiani di Tito consegnandolo all’invasore tedesco, precludono alle minoranze etniche l’adozione delle avanzate forme di autonomia istituzionale garantite tanto dall’Italia repubblicana quanto dalla Jugoslavia comunista nate dalla negazione del fascismo e rivendicano l’esclusiva legittimità dell’uso della violenza nel complesso intreccio diplomatico in cui la città di Trieste si trovò nell’immediato dopoguerra, nella soluzione del quale vennero fatti valere i rapporti di forza precedentemente messi in campo da ciascun paese? Data l’impossibilità di valutare la questione secondo un metro unanimemente condiviso, da una parte, invitiamo i fascisti a calare definitivamente la maschera e a sciogliere la propria contraddizione: non possono rivendicare la giustizia del proprio ideale nazionalista, corporativo, bellicista, gerarchico, razzista e autoritario e, nel contempo, servirsi delle tutele dello stato liberale che non hanno contribuito a costruire per riabilitare tale ideologia, gli orrori che ha generato e gli uomini che ne sono stati artefici; dall’altra, condividiamo il riconoscimento dell’abbattimento del fascismo e della liberazione dal nazismo come necessità assoluta da perseguire con ogni mezzo e ribadiamo il primato dei valori politici e morali per i quali una parte significativa della Resistenza si è battuta: l’uguaglianza, la democrazia, la solidarietà, il ribaltamento dei rapporti sociali e di potere tra le classi, non solo contro i nazi-fascisti, ma anche contro quanti, come da loro stessi esplicitamente ammesso, vi hanno militato anche per impedire, se necessario persino con le armi e l’aiuto dei repubblichini, che tali valori venissero affermati.

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[1] *E’ il dato cui perviene C. Cernigoi nel suo recente studio Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu, Udine 2005, pp. 93-99, 270-285.

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