16.2.06

Su foibe e revisionismo storico


di Alyosha Matella

da l'ernesto online del 15/02/2006

Da lungo tempo ormai assistiamo ad un’offensiva revisionista senza precedenti, che da qualche anno tocca punte altissime (per intensità ed indecenza) ogni 10 febbraio, data scelta per “onorare il ricordo delle vittime (o dei martiri, come dice qualcuno) delle foibe”.
Un attacco che annovera tra i suoi più entusiasti sostenitori anche personalità di “sinistra”, pensiamo soltanto a Pansa che non ha esitato a prestare la sua penna ad operazioni editoriali di sicuro successo commerciale ma di dubbia validità dal punto di vista scientifico e storiografico.
Oggetto principale di tale offensiva è la Resistenza che il popolo italiano oppose al nazifascismo dopo l’8 settembre 1943, Resistenza da cui poi nacque la democrazia sancita dalla Carta del 1948.
Perché?
Certo, non possiamo non sottolineare l’importanza e la gravità della strumentalizzazione della storia a fini politici immediati: in questo senso, l’attacco alla Resistenza antifascista è la via attraverso cui passa lo sdoganamento anche a livello di senso comune di coloro che quel movimento popolare di liberazione lo hanno contrastato, osteggiato e (dopo la vittoria dello schieramento antifascista) subito.
Mi riferisco qui agli eredi della Repubblica Sociale, a chi, fuori e dentro le istituzioni democratiche, si rese responsabile di innumerevoli tentativi di respingere le conquiste ed i principi sanciti dalla nostra Costituzione e di restringere gli spazi di agibilità politica del movimento operaio e democratico, cercando una soluzione “greca” o “argentina” alle lotte sociali che hanno attraversato e segnato la storia repubblicana del nostro Paese.
Ma mi riferisco anche a quei settori sociali e politici (spesso collusi e complici dei neofascisti e delle formazioni di estrema destra) che malsopportavano gli spazi e diritti conquistati dalle classi subalterne nel ferro e nel fuoco della guerra di liberazione nazionale.
Spazi e diritti, ancora, che trovano una loro consacrazione nella già citata Costituzione del 1948, che fonda la democrazia italiana sui diritti sociali e del lavoro, che stabilisce come improrogabile dovere dello Stato la rimozione di tutti quegli ostacoli che impediscono ai lavoratori ed alle lavoratrici la partecipazione ai processi decisionali ed alla gestione della cosa pubblica.
Non per nulla, l’attuale compagine governativa, diretta espressione di quei settori sociali, vuole letteralmente fare a pezzi la carta costituzionale.
Ma, oltre a tali motivazioni e ad esse intrecciata, c’è un’altra ragione, più profonda, che spiega il particolare accanimento nei confronti della Resistenza da parte dei revisionisti nostrani e che si lega ad una più generale operazione che investe in forme diverse anche altri Paesi.
Una ragione che concerne innanzitutto il concetto stesso di democrazia e di partecipazione popolare.
Cercherò di ripercorrere velocemente le diverse tappe del revisionismo storico: innanzitutto la storicizzazione e la definizione dell’antifascismo in “negativo”, ovvero la sua determinazione in riferimento al regime fascista, considerato anch’esso un fenomeno circoscrivibile nello spazio e nel tempo; questo in opposizione alla concezione, propria delle forze progressiste, dell’antifascismo come “religione civile” del nostro Paese e come fecondo e creativo terreno di confronto e di iniziativa politica unitaria di tutti coloro che decisero di impegnarsi nella costruzione di un’architettura sociale e politica non solo opposta ai regimi di Hitler e Mussolini ma anche altra rispetto alle democrazie liberali di stampo classico che (è un bene non dimenticarlo) si rifiutarono nel periodo tra le due guerre di contrastare l’ondata nazifascista che si stava abbattendo sull’Europa.
Dopodiché il passaggio successivo fu la definizione di un’immensa “zona grigia”, comprendente grosso modo la quasi totalità del popolo italiano, ignara ed inconsapevole vittima di una “guerra civile” combattuta da minoranze armate.
Via via, si è arrivati a definire meglio queste minoranze: da un lato i fedelissimi di Mussolini (che, prima dello scellerato patto con Hitler, sarebbe stato comunque un dittatore “all’italiana”, che mandava gli oppositori in villeggiatura, dava soldi alle famiglie numerose e che si lanciava in imprese coloniali per fare conoscere l’amore latino alle belle abissine) e dall’altra parte i partigiani.
Chi erano questi ultimi?
Sostanzialmente un pugno di uomini e donne assolutamente irrilevante dal punto di vista degli esiti della guerra e, soprattutto, ansioso di sostituire un totalitarismo con un altro, quello già affermatosi in Russia con la rivoluzione del 1917, in relazione alla quale, secondo Nolte e suoi allievi, i fascismi rappresentarono una non giustificabile ma quantomeno comprensibile risposta.
Fortunatamente (sembra dirci la vulgata dominante), arrivarono gli americani a liberarci dai primi ma anche (e forse soprattutto) dai secondi.
Scompaiono così dalla ricostruzione di quegli anni gli immensi scioperi del marzo 1943 e 1944 nelle città del triangolo industriale e, soprattutto, la categoria d’analisi della zona grigia permette di eludere l’importanza, primaria nelle guerre di popolo, dell’appoggio e della solidarietà di massa la cui esistenza è necessaria alla sopravvivenza di un esercito irregolare di guerriglia, quali erano le brigate partigiane.
Spariscono con un semplice tratto di penna non solo gli scioperanti ma anche le staffette, le famiglie che nascondevano armi e combattenti, i portatori di cibo e messaggi, le donne che formavano cortei davanti alle carceri per la liberazione di figli, mariti, fratelli.
Si dissolve, insomma, nell’oblio imposto dai pasdaran della “riconciliazione nazionale”, l’idea stessa che un popolo possa prendere in mano il proprio destino e lo faccia nel momento in cui pezzi consistenti delle classi dirigenti, molti dei Grandi, dei soli a cui spetta il privilegio di scrivere la Storia, si sono (nella maggior parte dei casi) dati ingloriosamente alla fuga dopo avere sostenuto per venti anni un regime vergognoso di soppressione delle più elementari libertà e di feroce colonialismo in Grecia, Africa e in Jugoslavia.
Ecco il grande incubo di quanti sono impegnati a riscrivere la storia del Novecento: la partecipazione popolare, il protagonismo delle classi subalterne e dei popoli considerati “inferiori”.
Se, per riprendere una famosa battuta, un cuoco non può diventare Presidente, un operaio torinese o un contadino emiliano non possono pretendere di salvare l’onore della propria Nazione.
E, a proposito di Nazione, una breve parentesi: essendo in questi giorni sommersi da una vera e propria ondata di proclamazioni sciovinistiche sulla Patria e la “italianità”; credo che sia un bene sottolineare che, in relazione alle vicende delle “foibe”, i veri patrioti furono quei nostri connazionali che, nelle zone del confine orientale e nei Balcani, si schierarono al fianco dei partigiani jugoslavi contro gli occupanti nazifascisti, non certo chi stuprò, uccise, deportò e sterminò.
Furono i resistenti italiani in quelle regioni i veri patrioti perché con la loro coraggiosa adesione agli ideali di libertà e amicizia tra i popoli riscattarono l’Italia dalla vergogna di venti anni di regime colonialista e liberticida.
Nel marasma delle varie teorie e spiegazioni offerteci dai revisionisti a proposito della storia del Novecento possiamo quindi, aldilà delle già menzionate finalità contingenti, scorgere il vero obiettivo strategico di tale offensiva: la rimozione della irruzione, nel corso del XX secolo, di quante e quanti erano stati fino ad allora privati del diritto di essere considerati dei cittadini (e, nel caso dei popoli coloniali, persino dello statuto di esseri umani).
Un Novecento che ci viene presentato solo e soltanto in quanto secolo di “immani violenze” (dimenticando, tra l’altro, di dirci chi furono i responsabili di tali violenze) e non come periodo storico segnato anche e soprattutto da un processo straordinario di emancipazione/liberazione di masse estese di uomini e donne; processo a cui le democrazie liberali dell’epoca risposero dando luogo a svolte autoritarie (all’interno delle metropoli) e guerre di sterminio (nelle colonie) che ne minarono la stabilità e la credibilità.
Processo di liberazione, movimento di liberazione, ancora, di cui i comunisti e le comuniste furono la spina dorsale, i protagonisti, gli animatori.
Come fare allora per cancellare e rimuovere questo soggetto così ingombrante per coloro che vorrebbero presentarci la Storia come un orribile bagno di sangue scatenato da utopie nefaste e totalitarie, da cui però la democrazia liberale riuscì a riemergere come valore assoluto e punto terminale dello sviluppo e del progresso dell’umanità?
E come fare soprattutto a far dimenticare che la democrazia liberale nella quale, precedentemente alle grandi rivoluzioni, donne, lavoratori e popoli coloniali erano esclusi violentemente dalla comunità politica dei liberi cittadini (bianchi, ricchi, maschi e, ovviamente, liberali)?
I revisionisti aggirano questi ostacoli attraverso un perverso meccanismo di rovesciamento delle parti in conflitto, rovesciamento nelle quali l’utilizzo di stereotipi e meccanismi narrativi propri delle democrazie europee prenovecentesche giocano un ruolo non marginale, in particolare in riferimento alle vicende delle zone del confine orientale.
Vediamo infatti comparire, nello scadente feuilleton che fa iniziare la storia di Trieste il 1 maggio 1945, riemergere la combinazione tra razzismo slavofobo e isteria anticomunista che furono elementi essenziali della nascita e della crescita del fascismo italiano: i barbari slavi, estranei alla civiltà occidentale e soprattutto pericolosi per essa se pensiamo che i loro “cugini” un po’ più a Oriente hanno osato mettere in discussione la proprietà, ovvero l’elemento sacro della nostra società.
Barbari, irrazionali, sanguinari, eterodiretti dai nemici dell’Occidente: se ieri questa era la giustificazione per le imprese coloniali da operetta (ma non per questo meno feroci) dell’Italia sabauda e fascista, oggi è attraverso la loro riformulazione, in salsa soft e politically correct, che vengono narrate le tragiche vicende del confine orientale.
Di fronte a questo scenario, il compito non solo dei comunisti, ma di tutti i democratici è quello di scrollarsi di dosso la reticenza e il sentimento di sconfitta e di impotenza che la rivoluzione passiva degli ultimi decenni ci ha imposto.
Sul piano immediatamente politico i compiti sono tanti e urgenti: dalla campagna per la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza all’impegno che dobbiamo tutte e tutti profondere per la cacciata tra due mesi dell’attuale compagine governativa, la peggiore della storia nell’Italia repubblicana.
Ma dobbiamo anche tentare qualcosa di più, se vogliamo respingere davvero la Vandea politica, culturale e, oserei dire, antropologica che dobbiamo affrontare.
Dobbiamo provare a riaffermare alcuni principi fondamentali che dovrebbero risultare ovvii, a partire per esempio (anche per le sue implicazioni politiche immediate, legate all’attuale congiuntura internazionale) dalle categorie d’analisi di civiltà e di barbarie, oggetto oggi di un uso particolarmente spregiudicato e pericoloso da parte dei nostri avversari.
Bene, dobbiamo avere il coraggio di dire (anzi di tornare a dire) che la civiltà non è stata quella rappresentata da chi trascinò l’Europa e l’umanità in due carneficine mondiali e che imposero ai popoli dei “paesi terzi” un regime plurisecolare di violenza e sopraffazione.
Affermare che la civiltà è costituita dai principi alti di uguaglianza sostanziale, autodeterminazione dei popoli e partecipazione popolare che si sono imposti nella Storia dell’umanità attraverso lotte secolari ed asprissime.
E quindi che la civiltà, quella vera, è rappresentata dai partigiani europei contro il nazifascismo, dai repubblicani spagnoli e dai militanti delle Brigate Internazionali contro i legionari di Franco, dai fellaghà algerini, dai vietcong del generale Giap, dai Mau Mau di Lumumba contro gli “esportatori di civiltà” di ieri (di cui quelli odierni, Abu Ghraib docet, sono zelanti allievi), dalle classi lavoratrici e dalle loro organizzazioni politiche e sindacali contro lo strapotere dei padroni che ieri chiamavano le maestranze operaie “strumenti parlanti” (oggi le definiscono invece “risorse umane”, a riprova che a volte la Storia si ripete).
Qualche messaggio incoraggiante ci arriva da Oltralpe: poco meno di un anno fa l’Assemblea Nazionale francese approvò una legge che, sostanzialmente, impone ai docenti di storia di tutte le scuole della Repubblica il compito di dare una visione non demonizzante e comprensiva degli aspetti positivi dell’esperienza coloniale francese.
Una legge vergognosa che paga pegno al revisionismo storico di quel Paese che trova nel processo di decolonizzazione il proprio bersaglio principale; una legge che ha trovato una giusta e ferma risposta nella nascita di un movimento di professori “indigeni”, ovvero di insegnanti democratici che non solo si sono rifiutati di spiegare ai loro studenti (magari di nome Fatima, Mustafa o Mohammed) gli aspetti positivi dei massacri di Setif o della strage di algerini avvenuta nelle strade di Parigi il 17 ottobre 1961, ma hanno rilanciato con forza la questione della necessità di una storiografia che veda nei popoli e nelle classi subalterne non dei soggetti senza Storia,ma dei protagonisti attivi di questa e, attraverso le loro lotte per l’emancipazione,degli artefici del progresso sociale e dell’estensione della democrazia e dei diritti sociali, umani e politici.
Di fronte all’offensiva revisionista di casa nostra non possiamo che augurarci che un movimento analogo si sviluppi anche in Italia e che coinvolga tutti quegli elementi progressisti che nel mondo della scuola e dell’università ci studiano e ci lavorano.
Rifiutare la retorica antipartigiana e slavofoba di questi giorni non è solo un gesto motivato dalla volontà di ristabilire la verità dei numeri contro la macabra fantacontabilità di chi straparla di decine di migliaia di infoibati, ma anche e soprattutto un tentativo di ridare slancio e contribuire alla ripresa di una vera e propria politica culturale, quella battaglia delle idee che le forze progressiste, tramortite dalla sconfitta epocale di fine secolo, hanno abbandonato.
Perché crediamo che di fronte agli improvvisati tribunali della Storia (presieduti dai crociati del “pentitevi” che ci vorrebbero costringere a giurare sui libri neri della moderna Inquisizione) riaffermare i valori della Resistenza e dei grandi movimenti popolari di liberazione ed emancipazione è non solo un doveroso riconoscimento nei confronti del passato ma sia anche, per chi si ostina a volere costruire un mondo di pace, democrazia e giustizia sociale, una necessità del presente e del futuro.

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