27.4.07

Che cos'è Gramsci per noi trentenni

di Eleonora Forenza

(tratto da Liberazione, 27 aprile 2007)

La «comprensione critica di se stessi»: una tensione che Gramsci ci consegna e che diventa strumento potente per interrogare e indagare, oggi, la crisi della politica, ossia la politica come dimensione separata, che si alimenta della rimozione delle vite - delle nostre vite, di quelle di Pietro, Paolo, Giovanni. Reimmaginare una connessione tra politica e liberazione - intesa non solo come progetto ma come processo - significa, cioè, ripensare oggi un soggetto politico della trasformazione che ci "comprenda", ossia che sia indissolubilmente connesso con i processi singolari di soggettivazione (col nodo politico della soggettività).
Il problema della costruzione del soggetto politico rinvia, cioè, alla possibilità di pensare processi di individuazione come liberazione (uscita) dalla dimensione totalitaria del neocapitalismo, dalla colonizzazione molecolare e pervasiva che mette in atto sulle nostre vite.
E allora il problema gramsciano della costruzione della soggettività - ossia «come nasce il movimento storico sulla base della struttura» - assume, nella postmodernità - «quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il "corpo" e comincia ad essere la mente» (Finelli) - una più radicale complessità.
Non credo sia un caso che, tra i primi e più lucidi lettori della connessione tra il problema del soggetto politico e quella che Dario Ragazzini definisce «una teoria della personalità in Gramsci» («l'individuale non è il residuale di un'analisi sociale») vi sia quel Giacomo Debenedetti, che, come Gramsci, aveva assunto il problema gobettiano dell' «autoeducazione» ("l'autobiografia come problema"). A cardine del «metodo umano di Antonio Gramsci», Debenedetti pone il «molecolare» nella sua costante relazione con il «tutto complesso», ossia la costruzione della sintesi-uomo «come coscienza continuamente presente, a cui non è concessa alcuna dispensa, anzi è tenuta a non prescindere da nulla di ciò che costituisce l'uomo» (che deve tenere presenti tutte le «sensazioni molecolari») e come «senso di responsabilità verso tutti i componenti psichici affettivi, morali dell'uomo».
E se molecolari sono i processi di trasformazione del carattere (e qui forse, la metafora "materialistica" allude, in Gramsci, al nesso corpo-mente, all'immanenza dei processi di soggettivazione), molecolari sono anche i processi sociali che, come ha scritto ancora Ragazzini, «possono collocarsi sia dentro una rivoluzione passiva che in una "anti-passiva" (per usare l'espressione di Christine Buci Glucksmann)».
Molecolare, è dunque, quella «lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica», attraverso cui si giunge, appunto «alla comprensione critica di se stessi», all'«elaborazione di una superiore concezione del reale»:
«L'uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica».
E' all'altezza di questo nodo che Gramsci elabora, e, anche qui, ci consegna, in relazione alla questione del soggetto politico, il problema della costruzione di "un nuovo senso comune" e una radicale interrogazione della funzione intellettuale.
Il problema della costruzione di un nuovo senso comune attraversa i Quaderni in strettissima connessione col nesso filosofia/formazione delle volontà collettive permanenti, nesso che appare centrale proprio nella formulazione gramsciana della filosofia della prassi: solo divenendo nuovo senso comune, infatti, ossia «una cultura di massa e che opera unitariamente», la filosofia della prassi sembra poter produrre «una morale conforme, una volontà attualizzatrice». La costruzione del nuovo senso comune, si presenta, si potrebbe dire, come il terreno di saldatura tra la riforma intellettuale e la riforma morale sulla base della ridefinizione della filosofia come religione, in senso crociano: ossia come concezione del mondo che produce un'etica conforme. Una verità filosofica, cioè, storicamente, si afferma (diviene vera) nel momento in cui produce una norma di condotta, una volontà attiva di massa, prassi trasformatrice, storia. La teoria dell'efficacia storica delle ideologie, sembra, cioè, avere in Gramsci, il valore di una correzione antideterministica proprio in connessione all'elemento della volontà collettiva. Per dirla brutalmente: nonostante l'importanza data alla conoscenza tecnica nella formazione di un nuovo senso comune (a quelle che si potrebbero chiamare le facoltà umane del produttore, lo sviluppo del general intellect), Gramsci connette sempre la soggettività alla formazione della volontà collettiva.
Di qui, la costante attenzione gramsciana per quei lavorii, per quei processi minutissimi, capillari, appunto "molecolari" (già allora accelerati dalla progressiva standardizazzione industriale e massmediatica) che determinano la nascita di una volontà collettiva omogenea e la disgregazione, attraverso la critica, delle vecchie concezioni del mondo e delle vecchie volontà collettive.
E, per dirla con Badaloni, nella riflessione gramsciana, la riforma intellettuale e morale non è un'aggiunta alle forze produttive, ma è espressa da esse: la radice del processo egemonico è, cioè, «una comprensione critica di se stessi», del proprio ruolo nel processo produttivo e storico da parte dei produttori. La funzione dell'intellettuale organico, sembra essere, dunque, fondamentalmente, la ricomposizione di quella coscienza contraddittoria «adeguando la teoria alla prassi trasformatrice»: «fornire la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica».
Ora, la potenza (e l'utilità), potremmo dire, la traducibilità della domanda gramsciana (come nasce il movimento storico) è indisgiungibile dalla storicità della sua riflessione (collocata all'alba del fordismo), e cioè dalla nostra capacità di riarticolare quella domanda sulla base dei mutamenti strutturali intervenuti nel postfordismo. E, in particolare, dalla necessità di nominare la centralità dell'elemento cognitivo nei nuovi processi di accumulazione: è proprio dalla sussunzione della vita e della mente nel processo produttivo che ha origine una vera e propria mutazione antropologica, una dilatazione dei processi produttivi all'intera esistenza.
Ma come possiamo reimmaginare, oggi, allora, i nuovi termini di una rivoluzione antipassiva, in grado, cioè, di contrastare quello straordinario processo di passivizzazione che è la globalizzazione neoliberista? Come si possono, cioè riconfigurare i processi di formazione della volontà collettiva, del nuovo senso comune all'altezza del postfordismo, e cioè, per dirla con Illuminati, «in presenza di un altro tipo di traducibilità fra ideologia e senso comune, fra lavoro e politica a causa dell'immediata produttività di relazioni e attitudini fondate su una diretta esperienza dell'astratto, della inseparabilità, nella fase postfordista di prestazione corporee e mentali, del tempo di vita e del tempo di lavoro»? Come possiamo, cioè, ripensare a una nuova funzione intellettuale di mediazione - ricomposizione - se è proprio la facoltà di pensare ad essere messa a valore, ad essere sussunta e integrata nella fabbrica postfordista?
Qualche tempo fa forse anche il New York Times si poneva sul terreno dell'efficacia storica delle ideologie, nominando il movimento dei movimenti come seconda potenza mondiale. "Un altro mondo è possibile" si costituiva come antidoto materialissimo al pensiero unico divenuto senso comune, all'idea che la storia fosse finita e con essa la possibilità della trasformazione. La costruzione di quel movimento, della sua lotta per l'egemonia, è passata (passa) attraverso la contaminazione fra soggetti e culture critiche, attraverso l'esposizione all'altro come elemento ineludibile per la «comprensione critica di noi stessi»: articolando, cioè, il problema dell'individuazione non nell'ottica della unificazione, ma della soggettivazione molteplice delle differenze. Il problema politico della (auto)rappresentazione si è articolato cioè attraverso una molteplicità di autonarrazioni: una nuova mitopoiesi, si è detto, come luogo di rifondazione e ricomposizione della soggettività (fuori dal lavoro) capace di rappresentare l'irriducibilità delle contraddizioni, di riproporre il problema dell'autodeterminazione. Ma è dalla capacità di nominare il potere del capitale di disporre sul terreno bioeconomico delle nostre facoltà umane e cognitive, e, sul terreno biopolitico, di governare i corpi e le vite, di mettere a valore l'esistenza stessa, che può nascere una volontà politica di riappropriazione delle nostre facoltà, del carattere immediatamente produttivo delle nostre vite e delle nostre esistenze: di agire la contraddizione vita/capitale. Di ricomporre soggettività.

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