1.6.08

Il sogno di una patria infranto sul muro dell'ostilità

di Enzo Traverso

(tratto da il manifesto, 31 maggio 2008)

Un percorso di lettura a partire dai libri di Ilan Pappe e Arno Meyer su come gli ebrei d'Israele e della diaspora leggono l'atto fondativo dello stato d'Israele L'apertura degli archivi di Tel Aviv ripropone la necessità di un bilancio storico svincolato da letture non messianiche del conflitto israelo-palestinese


Il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele e della Nakba, l'espulsione di oltre 700.000 palestinesi dalle loro terre, ha suscitato com'era prevedibile commemorazioni e bilanci. Pochi - anche questo era prevedibile - hanno abbandonato le tradizionali interpretazioni teleologiche. Per i sionisti, Israele incarna la redenzione di un popolo martirizzato da secoli di antisemitismo; per i palestinesi, costituisce invece l'epilogo della lunga storia dell'imperialismo e del colonialismo occidentali. Queste letture contengono entrambe un nocciolo di verità. Difficilmente si potrebbe contestare l'appartenenza di Theodor Herzl e dei fondatori del sionismo alla cultura imperiale e colonialista europea della fine dell'Ottocento. Aldilà della retorica sionista, tuttavia, altrettanto incontestabile è la vitalità dell'attuale nazione israeliana, letteralmente «inventata» da tutti i punti di vista: territoriale, politico, culturale e perfino linguistico, grazie alla metamorfosi di un idioma antico in una lingua nazionale moderna. Ma questa realtà non è il prodotto di una diabolica causalità imperiale né di un messianico disegno provvidenziale. Si tratta piuttosto, come sottolinea Dan Diner, del frutto di una contingenza storica.
Israele nasce tra la fine della seconda guerra mondiale e lo scoppio della guerra fredda, in un momento eccezionale e transitorio di convergenza tra le grandi potenze, in un mondo scosso dall'Olocausto e posto di fronte a centinaia di migliaia di profughi in cerca di un tetto. Prima della guerra, soltanto la leadership sionista pensava di trasformare in uno stato la piccola colonia ebraica della Palestina (salvata nel 1942 dalle truppe alleate che bloccano l'avanzata tedesca ad El Alamein). I britannici vi erano ostili e ben pochi ebrei europei desideravano trasferirsi a Gerusalemme o Tel Aviv. Pochi anni dopo, al tempo della decolonizzazione, i sovietici difendevano la causa del nazionalismo arabo e le grandi potenze non avrebbero più potuto tracciare a loro piacimento le frontiere politiche del Medio Oriente. Insomma, Israele può essere interpretato come un miracolo o una tragedia della storia, secondo i punti di vista, ma non come un suo prodotto ineluttabile. Il fatto che i leader sionisti fossero in molti casi la versione caricaturale del colonialismo europeo (caricaturale perché incarnata da intellettuali paria) e che quelli palestinesi riproducessero tutti i tratti del nazionalismo antimperialista, non modifica il quadro d'insieme.

Opportunismo giordano
Specchio di questa contingenza fu la guerra arabo-israeliana del 1948, scoppiata al momento della proclamazione di Israele da parte di Ben Gurion, ma preceduta da una guerra civile ebraico-palestinese durante gli ultimi mesi del mandato britannico, dopo il voto favorevole delle Nazioni Unite alla divisione della Palestina. Agli occhi del mondo, la causa araba non era quella di un movimento di liberazione nazionale ma di un insieme di principati feudali che, opposti al dominio britannico, si erano compromessi con le forze dell'Asse durante la seconda guerra mondiale (e durante la guerra del 1948, cercheranno di tirare profitto dalla sconfitta araba, come la Giordania, il cui re sarà vittima di un attentato palestinese). Gli ebrei suscitavano invece la compassione dei paesi europei, come riconosceva esplicitamente Gromiko, ministro degli esteri sovietico, evocando nel suo intervento all'Onu lo sterminio nazista. Così si spiega la passività dei britannici durante il conflitto del 1948 quando, dopo quattro anni di mortiferi attentati sionisti contro l'autorità mandataria, si limitarono ad osservare i massacri e le espulsioni dei palestinesi. Così si spiega anche il sostegno sovietico alle forze sioniste, decisivo sul piano strettamente militare. L'esercito ebraico, formato dalla Haganah e dalle milizie del gruppo Stern, era dotato di armi cecoslovacche. Ben pochi, nel 1947, avevano tirato la lezione delle due prime intifada palestinesi (nel 1929 e nel 1936) o espresso dei dubbi sul progetto sionista, chiaramente formulato da Theodor Herzl fin dal 1897, di dar vita in Medio Oriente a uno stato europeo, «avamposto della civiltà» contro la «barbarie» orientale. Non solo i nazionalisti arabi, ma neppure i «sionisti culturali» come Martin Buber o il rettore dell'Università ebraica di Gerusalemme, Jeudah Magnes, furono ascoltati. Nessuno, all'epoca, commentò le analisi premonitrici di Hannah Arendt, che al momento del voto sulla partizione decise di interrompere la sua collaborazione critica con il sionismo (e la sua amicizia con Gershom Scholem).
La guerra del 1948 - la prima di sei guerre arabo-israeliane - è stata oggetto negli ultimi due decenni di ampie revisioni storiografiche che hanno definitivamente rimesso in discussione la vecchia tesi sionista dell'«aggressione» araba e della «fuga volontaria» palestinese. Il racconto della Nakba (catastrofe) da parte dei profughi è stato confermato dalla documentazione conservata negli archivi israeliani. Una divergenza rimane tra gli storici «funzionalisti» come Benny Morris, che vedono nella cacciata di oltre 700.000 palestinesi «il prodotto di un insieme di fattori e di un processo cumulativo», e gli storici «intenzionalisti» che, sulla scia di Ilan Pappe, descrivono invece un'epurazione etnica pianificata e sistematica. Benché non vi attribuiscano lo stesso ruolo, entrambi hanno messo in luce l'esistenza di un progetto di evacuazione forzata - il famigerato «Piano Dalet» - e documentato i massacri contro i palestinesi, da Der Yassin a Tantura, tipici delle guerre civili e dei conflitti senza legge: esecuzioni sommarie di civili, distruzione di case, a volte stupro collettivo delle donne. Le atrocità arabe, nella maggior parte dei casi reattive, furono ben più limitate.
Certo è che la condotta israeliana durante il conflitto si inscriveva nel disegno sionista di uno stato ebraico senza arabi. Potevano i palestinesi approvare un piano di divisione che attribuiva agli ebrei, un quarto della popolazione del paese, il 60% delle terre? Fatto sta che la guerra permise ai sionisti di ottenere molto più di quanto l'Onu volesse concedere. Nel 1947, gli ebrei possedevano circa il 10% delle terre della Palestina mandataria; nel 1949, alla fine del conflitto e in seguito alla promulgazione delle leggi che sancivano le espropriazioni, ne controllavano ormai l'85%. La «legge del ritorno» apriva le porte del nuovo stato agli ebrei del mondo intero, chiudendole invece a chi era stato cacciato dalla sua terra (nonostante una risoluzione dell'Onu che ne prevedeva la restituzione). In virtù di una delle tante ironie della storia, i primi a usufruire di questa legge saranno gli ebrei del mondo arabo, che il sionismo classico di matrice europea aveva sempre ignorato. Incarnazione dell'«arretratezza» orientale, essi furono sottoposti a un'intensa campagna di dearabizzazione e assimilazione ai codici culturali dell'ebraismo askenazita. Quanto ai palestinesi, essi daranno vita a una nuova diaspora e affolleranno i campi profughi di tutti i paesi limitrofi. Traumatizzata e impotente, la minoranza palestinese rimasta entro i confini del nuovo stato acquisirà una cittadinanza di seconda classe. Questi palestinesi continueranno ad abitare la propria terra diventata un paese straniero, nel quale saranno percepiti come una «quinta colonna». Mentre offriva una cittadinanza ai superstiti del genocidio nazista, un terzo della popolazione israeliana negli anni cinquanta, il nuovo stato creava una nuova massa di profughi palestinesi, autentici «paria» nel senso arendtiano del termine: esseri umani senza stato e senza diritti. Oggi, la memoria di queste vittime è sostanzialmente incompatibile con quella dell'Olocausto di cui Israele si vuole guardiano e redentore.

Israeliani nel ghetto
Iniziò dunque allora, dentro un'inespugnabile fortezza dotata di armi sofisticate e ben presto della bomba atomica, la costruzione di una «comunità immaginata» all'insegna della Bibbia, dell'ecologia e dell'Occidente: la Bibbia come fonte legittimante in ultima istanza; l'ecologia delle foreste verdeggianti al posto dei villaggi palestinesi cancellati; l'Occidente di una nazione di pionieri europei alleata degli Stati Uniti, la nuova potenza egemone del blocco atlantico. Tutti, illustra Pappe, hanno dato il loro contributo alla rinascita nazionale: dai militanti dei kibbutz (spesso avamposti militari più che isole di uguaglianza sociale) agli architetti che ridisegnavano le città, fino ai filologi, agli storici e agli archeologi che facevano riaffiorare la Palestina ebraica di duemila anni fa dalle macerie della Palestina araba moderna. Guardando oltre questa facciata, Arno J. Mayer interroga i paradossi di uno stato che sembra incarnare non il trionfo ma il fallimento del sionismo. Questi era nato, a detta dei suoi fondatori, per sottrarre definitivamente gli ebrei ai ghetti in cui l'Europa cristiana li aveva rinchiusi e in cui l'antisemitismo voleva ricacciarli. Lo stato cui ha dato vita vuole oggi costruire le mura di un nuovo ghetto - materiale e metaforico - in cui proteggere gli ebrei, separandoli ermeticamente dal mondo arabo circostante e facendone il bersaglio di un'ostilità radicale storicamente sconosciuta in seno all'islam.
Forse ha ragione Dan Diner quando scrive che Israele è stato, «fin dall'inizio, un progetto teologico-politico della modernità». Prendendo in prestito l'ideologia e il linguaggio dei nazionalismi novecenteschi, il sionismo ha secolarizzato un'aspirazione millenaria il cui postulato risiede nell'identità tra un popolo e una religione. La collisione con il mondo arabo diventa ancora più acuta nel momento in cui, dopo la crisi di tutte le ipotesi laiche, dal panarabismo al socialismo, i palestinesi sono rimasti imprigionati in un vicolo cieco dal quale sembrano voler uscire ridefinendosi come nazionalismo religioso, nella forma dell'islamismo radicale. Potremo allora assistere a guerre di religione in versione postmoderna dalle quali tutto potrà venir fuori tranne la democrazia. Questo è il dilemma di fronte al quale si trova Israele a sessant'anni dalla sua nascita. O diventerà davvero, come dice di essere, una democrazia, ritirandosi dai territori che occupa illegalmente e trasformandosi nello stato di tutti i suoi cittadini, senza distinzioni di appartenenza etnica, linguistica, culturale e religiosa, senza un diritto al «ritorno» riservato agli ebrei del mondo intero e negato ai palestinesi che furono espulsi dalla loro terra; oppure rimarrà uno «stato ebraico», e inevitabilmente la sua democrazia assomiglierà sempre di più a quella del Sudafrica bianco ai tempi dell'Apartheid. Nei tempi lunghi della storia - su questo punto Arno Mayer ha ragione -, non lo salveranno né la Bibbia né la bomba atomica.

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