15.9.05

Melchionda: I costi della politica


Intervento di Enrico Melchionda al Convegno dell�A.R.S. su �Politica e pratica politica� � Roma, 12 settembre 2005

Di tanto in tanto si riapre in Italia � ma non solo in Italia � il problema dei costi della politica, che soprattutto da noi � ma non solo da noi � viene ad essere puntualmente catalogato (e apparentemente archiviato) nel capitolo della "questione morale". Il problema pare ogni volta vitale e impellente, ma da parte della nostra classe dirigente esso non diventa mai oggetto di azione politica ne' motivo di riflessione politica (al massimo di azione giudiziaria e di riflessione filosofica).
A meno che non si verifichi una rivolta dell'opinione pubblica come quella che diede luogo allo scandalo di tangentopoli, alle inchieste di mani pulite e al movimento (referendario) per la riforma del sistema politico, il problema dei costi della politica diventa puntualmente la trama di una sceneggiata in cui gli attori cambiano, ma le parti rimangono sempre le stesse: da una parte vi sono alcuni ferventi moralizzatori (specialmente nella stampa, ma non solo), dall'altra vi sono alcuni coraggiosi difensori della dignita' della politica (i realisti), e in mezzo una massa di politici che sono pronti ad ammettere che il problema esiste (e perfino a presentare un disegno di legge per affrontarlo) ma in realta' fanno di tutto per ignorarlo e accantonarlo al piu' presto.
E in effetti il problema prima o poi viene dimenticato, sopravanzato � com'e' giusto � da altri problemi ben piu' urgenti... ma solo fino alla prossima volta!
Ora, e' molto probabile che anche l�ennesima sceneggiata di quest�estate finisca per ripetere lo stesso copione, pero' spero che non sia nostra intenzione di recitarvi solo una parte, bensi' di discutere del tema con il serio intento di svolgere su di esso una riflessione politica (e non meramente filosofica) e, se possibile, anche di proporre un�azione politica (e non meramente giudiziaria) per affrontarlo. Per quanto mi riguarda, vorrei a questo scopo sottoporvi, nei limiti di spazio e di competenza che mi sono consentiti, alcune tesi maturate nella mia riflessione e nella mia ricerca in materia.
La prima tesi e' che sbaglia la nostra classe dirigente a illudersi che la sua sceneggiata funzioni davvero. O, se lo sa e ritiene che comunque sia preferibile per i suoi interessi immediati (l�unica cosa che conta), non e' molto lungimirante. Ma perche' non funziona? Perche' ogni volta che il problema si pone senza essere risolto, non e' vero che tutto rimanga come prima. Invece ogni volta si riduce il grado di legittimazione del sistema politico, si aggrava il distacco dei cittadini dalla politica e si allenta il rapporto rappresentativo tra societa' e politica. Quindi la scelta di non affrontare (o l�incapacita' di affrontare) il problema dei costi della politica si risolve non in una tenuta ma in un indebolimento della politica.
E come reagisce di solito la politica di fronte al contrarsi del suo grado di legittimazione? Istintivamente, essa reagisce cercando di difendersi in due modi: sostituendo al genuino rapporto rappresentativo con la societa' uno spazio di potere protetto e un�integrazione individualistica dei cittadini. In altre parole, da una parte si abbarbica allo stato e alle sue risorse e dall�altra raccoglie il consenso scambiandolo con la garanzia ai propri clienti di un accesso privilegiato a quelle risorse. Tutto questo, evidentemente, implica una moltiplicazione dei costi della politica (ed e' facile che scada nella corruzione). Ed e' questa, se ci pensate bene, la storia (la vera storia) della nostra famigerata partitocrazia.
Ecco che allora quella che sembrava una sceneggiata si rivela piuttosto un circolo vizioso (o, se volete, un paradosso): i costi della politica aumentano quando questa si indebolisce, ma allora l'unico rimedio che si riesce a escogitare e' quello di indebolire ulteriormente la politica, il che pero' fa aumentare ancora i suoi costi... e cosi' il circolo vizioso ricomincia.
E� in questi termini che va letta anche la vicenda della scorsa estate, quando le ennesime denunce e polemiche sulle spese e sugli sprechi delle istituzioni e del professionismo politico si sono intrecciate con lo scandalo delle scalate bancarie. Fenomeni che sono stati puntualmente iscritti nel grande contenitore della questione morale. Che puo' essere, e spesso e' stato, un modo per non affrontarli in quanto questioni prettamente politiche. Se vogliamo farlo, invece, dobbiamo tornare a fare i conti con la storia del nostro sistema politico, con i passaggi che ne hanno segnato la strutturazione, con i momenti in cui sono venuti al pettine le distribuzioni e gli equilibri dei poteri. A cominciare dagli avvenimenti che dieci anni fa hanno portato il nostro sistema politico�istituzionale al suo punto di massima crisi e a una serie di cambiamenti di ampia portata.
Una storia che ci e' stata presentata come un qualcosa che aveva a che vedere con partiti forti, apparati pesanti, funzionari onnipotenti. Mentre invece si trattava di partiti, di uomini politici e di amministratori che avevano reinvestito sullo stato e sulle sue risorse il capitale sociale fatto di identificazione e di partecipazione che in precedenza gli aveva consentito di costruire una democrazia organizzata e di massa. Cosi' lo stesso fenomeno della corruzione e' stato interpretato come una manifestazione del predominio dei partiti sulla societa' e di una invasione pervasiva della politica nel settore dell�economia, mentre invece era il segno di una ritirata dalla societa' e dell�incapacita' di reggere il confronto con le forze economiche. E� a questo errore di valutazione che dobbiamo due conseguenze gravi e controproducenti della rivolta anti�partitocratica scoppiata negli anni novanta.
La prima e' che l�ulteriore smantellamento dei partiti che e' stato indotto dalle riforme e dai referendum degli anni novanta, a cominciare da quello sul finanziamento pubblico, non ha affatto abbattuto i costi della politica, cosi' come si pretendeva, ma al contrario li ha dilatati. La seconda conseguenza di quell�errore di valutazione e' che l�indebolimento della politica e dei partiti li ha esposti piu' di quanto fosse mai avvenuto prima all�influenza e alla superiorita' degli interessi speciali e dei poteri forti. Ecco: vorrei soffermarmi brevemente su questi due punti.
E� vero o no che il sistema politico della seconda repubblica e' piu' costoso del vecchio? E� vero, ormai e' evidente, e non era difficile da prevedere, in base al modello di democrazia che veniva propugnato dai nemici della partitocrazia. Qualche riformatore impenitente obiettera' che invece quest�esito vada addebitato ai tradimenti del progetto originario. Ma l�argomento non regge. Perche' basta guardarsi intorno o leggere un po� di letteratura politologica comparata per rendersi conto che una democrazia maggioritaria, se non puo' fare affidamento su un sistema partitico ben strutturato, tende a far lievitare almeno il costo delle campagne elettorali. Sappiamo, tanto per cominciare, che il sistema maggioritario esaspera la competizione elettorale, che e' la prima ragione delle dinamiche inflazionistiche dei costi della politica, in quanto le spese dei candidati si rincorrono all�infinito, ben oltre i limiti stabiliti dalla legge. Sappiamo inoltre che, con la riduzione dell�elettorato di appartenenza, si allarga la quota di elettorato fluttuante, che per essere conquistato richiede l�impiego di grandi risorse per la propaganda. Sappiamo anche che lo smantellamento dei partiti implica un drastico calo degli attivisti, disposti a pagare le tessere e a lavorare gratuitamente per il partito. Sappiamo che per essere competitivi i candidati, che possono fare sempre meno affidamento sul partito, hanno (ciascuno di loro) bisogno di manovalanza, spesso a pagamento, nonche' di strumenti e professionalita' sempre piu' avanzati da un punto di vista tecnico che � com�e' noto � sono molto costosi. E potrei continuare con l�elenco, ma e' chiaro che a incidere di piu' sui costi e' soprattutto la personalizzazione della politica.
Da questo punto di vista, oggi un ulteriore pericolo viene dalle primarie: non tanto le primarie per il candidato premier, quanto le primarie a cascata che potranno scaturire dalla proliferazione tendenziale del meccanismo. Esse ammazzano i partiti e li espongono all�invasione di chi dispone di risorse ingenti. Si pensi a quel che potrebbe avvenire, quando i partiti abbiano perso il controllo e le primarie siano diventate effettivamente �aperte�, se un Berlusconi di sinistra vi investisse lo stesso denaro, la stessa organizzazione, le stesse professionalita' e la stessa comunicazione di cui quello vero si avvalse al momento della sua discesa in campo. Quindi fa bene Prodi � come ripete spesso � ad essere "preoccupato del denaro di Berlusconi", ma dovrebbe preoccuparsi ancora di piu' dei meccanismi che consentono a quel denaro di pesare nella competizione politica. E maggior ragione dovrebbe preoccuparsi del rapporto intimo che, ben al di la' della figura di Berlusconi e del suo conflitto di interessi, lega la politica e il denaro nel nostro paese.
Il vero errore di valutazione della storia della caduta della prima repubblica sta infatti nello spostamento che essa ha provocato (o solo sancito) nell�equilibrio tra i poteri. Lo dimostra la vicenda recente delle scalate bancarie, dove, a parte gli attacchi ipocriti portati ai Ds sull�Opa di Unipol, sono usciti allo scoperto i ben piu' seri intrecci che si sono creati tra gli attori politici di entrambi gli schieramenti e i centri importanti del capitalismo italiano. Intorno ai processi di riorganizzazione del capitale finanziario e di riassetto del potere politico che sono in atto nel nostro paese per attrezzarsi di fronte al declino economico e al declino del berlusconismo, si e' visto che le cordate imprenditoriali e quelle politiche tendono ad agire in stretto abbinamento. Ma il problema e' che in questa circostanza la politica, in tutte le sue componenti, e' apparsa in bali'a dei poteri �forti�, in quella sorta di �arco costituzionale liberista� basato sulla convinzione deleteria che solo quelli possano garantire l�interesse generale e la salvezza del paese.
Ora, la mia opinione e' che questa situazione affondi le sue radici nel cambiamento di regime di dieci anni fa, nei nodi che allora non furono sciolti e nei nuovi equilibri che ne scaturirono. La vicenda ricorda molto quel che avvenne negli anni settanta negli Stati Uniti, quando lo scandalo del Watergate fu scambiato per una perversione politico-istituzionale e gli intrecci tra politica e affari che emersero furono affrontati con dei semplici correttivi moralizzatori, prevalentemente con una nuova legislazione sui finanziamenti elettorali. Il risultato fu che i costi della politica si dilatarono piu' che mai e che gli interessi organizzati espansero la loro influenza sul processo di governo e perfino sul processo elettorale. Quanto fossero degenerati i rapporti tra politica e affari e' diventato chiaro pochi anni fa, con lo scandalo Enron, il massimo crack aziendale della storia americana, da cui e' emersa la compromissione di tutto il mondo politico, e non solo della cricca di Bush, con il �nuovo� capitalismo speculativo dell�epoca liberista.
Anche il nostro scandalo di Tangentopoli e' stato affrontato come se si trattasse di un semplice problema di moralizzazione e non di un intreccio patologico tra politica e affari. Con l�ovvia conseguenza che la �pulizia etica� che fu messa in atto impedi' di �seguire il denaro� (per riprendere la famosa espressione usata da Deep Throat nel Watergate), e quindi nemmeno da noi il vero pericolo per la democrazia potette essere sventato. Cosi' ci siamo ritrovati, come gli americani con Enron, alle prese con un crack della stessa portata � quello di Parmalat � e non vediamo o fingiamo di non vedere, quasi si trattasse di un dettaglio casuale, gli intrecci con la politica che anche qui stavano dietro la gestione di un Tanzi. Si capisce, allora, perche' su questi intrecci, allorquando emergono in vicende come quella delle cordate bancarie, ci si illuda di poter intervenire (nella migliore delle ipotesi) con �codici di comportamento� o altri pannicelli caldi o si preferisca ripiegare sul tema dei costi della politica.
E� chiaro che di fronte a simili intrecci politica-affari � che a volte emergono, a volte si intuiscono soltanto � sono dirette verso un bersaglio sbagliato le reazioni moralistiche, anti-politiche, che il semplice cittadino manifesta volentieri nei confronti dei costi e dei privilegi politici. Ma sorge talora il dubbio che quel bersaglio venga agitato proprio per fuorviare. Pensiamoci bene. In un paese precipitato nel baratro del declino economico e produttivo, con le sue istituzioni bancarie e finanziarie che versano in una crisi senza precedenti... noi ci preoccupiamo del costo della politica. Noi ci preoccupiamo dei 200 milioni che lo stato sborsa (in media) ogni anno per il rimborso delle spese elettorali, o dei 2 miliardi che servono a far funzionare le camere elettive... in un paese che sopporta il costo della mafia (85 miliardi di fatturato all�anno e 1000 miliardi di patrimonio), quello dell�evasione fiscale (200 miliardi) o quello dell�esportazione illecita di capitali (360 miliardi). Ci scandalizziamo di un professionismo o di un semi�professionismo politico che coinvolge a vario titolo 4�500 mila persone� in un paese in cui gli affiliati alle mafie sono stimati (secondo dati della Dia e della commissione antimafia) in 1,8 milioni di persone.
Che ragioni cosi' il semplice cittadino e' comprensibile, perche' non si sente rappresentato dalla politica che c�e'. Ed e' normale che il sentimento si manifesti in maniera piu' acuta e insopportabile, fino ad esplodere, quando si inceppa anche la macchina che garantisce l'acquisizione del consenso: la spesa pubblica. Cioe' quando, in cambio dei suoi costi, la politica non fornisce un �servizio� adeguato, quando non produce prosperita', quando i redditi calano, il lavoro scarseggia e i servizi si riducono. Ma se tutto questo e' comprensibile dal punto di vista del cittadino, non lo e' altrettanto quando viene dagli stessi politici. Invece della furbizia e della demagogia, degli ammiccamenti e delle strumentalizzazioni, da una classe politica responsabile ci si aspetterebbero azioni e riflessioni volte ad affrontare i problemi reali da cui nascono le �questioni morali�. Come tagliare i legami con i poteri forti e sottrarre la politica alla sudditanza nei loro confronti, come ricostruire un legame rappresentativo o semplicemente ridare una voce alle classi subalterne, come formare, selezionare e controllare e'lite dirigenti democratiche e qualificate: ecco i problemi che una classe politica dovrebbe mettere urgentemente all�ordine del giorno. Allora avrebbe la legittimita' politica, e anche morale, per giustificare costi e privilegi che qualsiasi democrazia normale puo' tranquillamente sopportare.

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