5.3.06

De Felice, il rapporto controverso con il revisionismo storico

A quasi dieci anni dalla scomparsa, una riflessione sull'opera di uno degli esponenti più discussi della storiografia italiana, autore della nota e monumentale biografia su Mussolini

De Felice, il rapporto controverso con il revisionismo storico

di Salvatore Lupo

Liberazione, 26 gennaio 2006


Credo di dover ancora una volta - come già in molte occasioni ho fatto - partire da una precisazione sull'uso del termine "revisionismo". Nel dibattito pubblico italiano, il revisionismo è stato alimentato dal ritorno della destra nel ruolo di protagonista sullo scenario politico negli anni novanta, e dal suo tentativo di legittimazione sul passato, con l'occhio a una possibile riscrittura della storia repubblicana imperniata sino ad allora sull'asse epopea resistenziale-patto costituzionale antifascista. Un potente apparato mediatico è stato schierato in campo a questo fine, e non sono mancati illustri uomini politici di sinistra che hanno offerto sponde a queste operazioni in un tentativo di pacificazione bizzarro e fuori tempo massimo - la guerra civile è piuttosto remota e tutti ci siamo già pacificati da tempo. Dall'altro lato, una robusta opinione colta e di sinistra ha opposto il suo alto là, spesso ispirato al motto "la storia non si riscrive", ha considerato particolarmente sgradevole l'obiettivo della cosiddetta riconciliazione post-fascista, ritenendo non a torto che si trattasse in realtà di un tentativo di postuma riabilitazione del fascismo.

Agli storici di professione spetta il compito di mettere tutti in guardia contro gli abusi e i fraintendimenti che derivano dalla frequente trasposizione di questo dibattito politico nel campo storiografico. Non siamo davanti a un qualche "revisionismo storiografico" perché questa discussione non richiede mutamenti di paradigmi interpretativi o nuova ricerca, ma rivela casomai la persistenza e direi l'immutabilità di tradizioni politiche contrapposte che sarebbe vano cercare di conciliare, e che bisogna piuttosto riconoscere. La storiografia invece cambia ed innova, traendo diverse sensibilità e nuovi angoli visuali dai problemi del suo tempo ma senza appiattirsi su di essi in maniera così triviale.

Questa problematica, e l'assenza di adeguate distinzioni tra i vari piani in cui essa può essere trattata, ha reso ardua la presentazione al pubblico, nonché la recezione del lavoro di Renzo De Felice, che viene considerato generalmente, da sostenitori e avversari, il campione del revisionismo. Io credo invece che un'opera importante come la biografia defeliciana di Mussolini vada valutata prima di tutto sul piano strettamente storiografico.

De Felice cominciò inquadrando il fascismo delle origini nell'interventismo di sinistra, mostrando dunque come uomini politici di sinistra, incontrandosi con gente di tutt'altra estrazione in presenza di eventi storici traumatici, avessero dato vita a un regime conservatore e autoritario. La complessità stessa di questi incroci tra esseri umani, idee e fatti suscitò le prime grandi polemiche sul suo lavoro. Io stesso ricordo la diffidenza che da studente universitario provai nei confronti dell'idea di una storia del fascismo (o peggio di una storia d'Italia dal 1922 al 1943) al centro della quale stesse il punto di vista dei fascisti stessi. Diffidavo cioè per la chiave biografica su cui era costruita l'opera, nel senso stretto che di una biografia di Mussolini si trattava, nel senso più lato per cui le cose venivano in essa osservate dal punto di vista dei protagonisti del movimento e del regime: ed avrei sottoscritto la critica formulata nel '76 da Ernesto Ragionieri, autorevole esponente della storiografia comunista, nei confronti dei defeliciani che «ritengono essere ufficio dello storico valutare un fenomeno dal suo interno». Nella seconda metà degli anni '80 cominciai però a pensare che la questione fosse più complessa, nel momento in cui l'attenzione alla soggettività e ai linguaggi diveniva patrimonio della migliore storiografia. Sta di fatto che proprio prestando attenzione alla soggettività De Felice ha sottratto i fascisti alle gabbie di una presunta, plumbea corrispondenza tra azioni dei singoli e interessi dei gruppi sociali, ricollocandoli in un contesto più mosso, politico e ideale, nel periodo del movimento e in quello del regime.

Venne intanto la polemica o meglio lo scandalo sul tema del consenso popolare al regime, da lui sottolineato nel 1974, anche se (come l'autore tenne a sottolineare) esso era pienamente compatibile con l'armamentario concettuale già presente nelle togliattiane Lezioni sul fascismo del 1935. Sempre questo testo De Felice citò contro i suoi critici che gli rimproveravano di aver visto nel fascismo il rappresentante non del grande capitale, ma della piccola borghesia "emergente": ma avrebbe potuto richiamarsi ad altri osservatori coevi (Bonomi a preferenza di Salvatorelli) da cui veniva questa sua tesi.

Io non dico che non ci fosse nella discussione un potenziale significato politico. De Felice era uscito dal Pci negli anni '50: certamente aveva qualcosa da rivendicare e qualcosa gli era rimproverato. Gli mancava quell'immediata capacità di tenere insieme l'aspetto ideologico e quello storiografico che era di Rosario Romeo, lui sì determinato avversario dell'egemonia culturale comunista. Ma gli mancava anche la capacità di Romeo di incalzare la controparte con idee-forza, innalzando il tono generale del dibattito sull'industrializzazione che agli inizi degli anni '60 aveva visto contrapporsi appunto Romeo, Sereni e Gershenkron. Nel caso del dibattito De Felice, invece, il progressivo inasprirsi dei toni sia sul versante dei favorevoli che su quello dei contrari si accompagnò a una progressiva incomunicabilità tra le parti. Vorrei però che i lettori di Liberazione, abituati a sentir dire oggi tutti i giorni in televisione ed anche a leggere in qualche libro che il fascismo non era affatto male e che comunque i suoi avversari erano peggio, comprendessero che nessuno dei protagonisti di quegli anni - nemmeno De Felice - si sarebbe mai sognato di dire, e credo anche di pensare cose del genere.

Certo, a un certo punto, nel momento politicamente cruciale tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni novanta, De Felice si mise in piena sintonia con le urgenze "revisioniste" dell'attualità, più che altro in interventi giornalistici e nel volumetto-intervista Il rosso e il nero (1995), laddove dichiarò che la vulgata antifascista impediva «un'effettiva partecipazione di larghissimi settori della popolazione» alla vita nazionale, che la sua demolizione era addirittura impellente, visto che «lo spazio per una effettiva chiarificazione storica aperto dalle vicende internazionali e nazionali di questi ultimi anni si sta in Italia richiudendo» (p. 8-9). In quella fase, come bene ha scritto il suo migliore allievo, Emilio Gentile, il personaggio pubblico si affiancò quasi alla pari allo storico.

Come valutare la figura di De Felice e i contributi conoscitivi da lui offerti? I suoi risultati vennero conseguiti raccogliendo e interpretando documenti del tutto originali, nonché raccogliendo il filo delle interpretazioni coeve; su questo secondo versante, egli non fu tanto un innovatore quanto uno studioso in grado di riconsiderare i dibattiti del tempo grazie a una straordinaria conoscenza della pubblicistica. Il suo stile di lavoro non prevedeva grandi incursioni nel campo della teoria, e dunque la sua opera non ha alcuna parentela con quella tutta ideologica di Nolte, cui spesso viene accomunata. Non mancano, tra i vari volumi, contraddizioni "felici" e meno "felici" - dovute cioè alla complessità dell'approccio ma anche a una certa debolezza espositiva e a una difficoltà, crescente nel tempo, di tenere insieme idee, fatti e interpretazioni. La biografia mussoliniana venne d'altronde scritta e pubblicata nel corso di più che un trentennio (1965-1997), lasso di tempo molto lungo, maggiore di quello della vita del regime fascista stesso, tale da attraversare diverse stagioni della storia dell'Italia repubblicana. Escluderei dunque che ci fosse una intenzione politica precisa (tanto meno unica) dietro questo suo lavoro; e, come si potrebbe vedere da un confronto interno all'opera impossibile da realizzarsi qui, l'intento di una revisione della cosiddetta vulgata antifascista e resistenziale si è palesato tardivamente e va considerato marginale rispetto all'opera nel suo complesso.

De Felice fu oggetto di critiche talora condivisibili, talora ingiuste non solo nel merito ma anche perché - il più delle volte - costruite attraverso interventi tutti polemici che non erano atti a confutare il suo ponderoso lavoro. Lui però rispose sullo stesso piano, terminando molto al di sopra delle righe con il citato attacco alla cosiddetta vulgata antifascista - che altro non era se non una degnissima tradizione politica, culturale e storiografica. Resto perciò sconcertato da quella sorta di leggenda, recentemente propalata anche tra gli studiosi, per cui De Felice è stato dipinto senza tema di ridicolo come un perseguitato dalla cultura "ufficiale" e antifascista: lui, l'allievo di Delio Cantimori, l'autore di libri pubblicati dalla massima casa editrice italiana di cultura (la Einaudi altre volte accusata di essere la capofila del complotto egemonico comunista), il grande accademico, l'intellettuale generato dal seno della corrente principale della storiografia italiana.

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