17.6.02
Organizzazione produttiva e composizione di classe della Fiat Auto
di Vittorio Rieser
L'ERNESTO 3/2002 del 01/05/2002
Forme del lavoro e comando sul lavoro: un’analisi dagli anni ‘50 ad oggi
1. Premessa
Ci sono molti modi in cui “leggere” lo sviluppo storico della lotta di classe alla Fiat. Io mi concentrerò sulla relazione tra due aspetti:
- le forme di organizzazione del lavoro e di comando sul lavoro;
- la composizione di classe, cioè le caratteristiche sociali e professionali della forza-lavoro Fiat.
La relazione tra i due aspetti non è a senso unico. Certo, in primo luogo, le strategie capitalistiche in tema di organizzazione e comando del lavoro determinano il tipo di domanda di lavoro, e attraverso questa la composizione di classe. Ma, al tempo stesso, il tipo di offerta di lavoro, determinato dalle condizioni socio-economiche più generali, condiziona la domanda di lavoro e le stesse scelte di organizzazione del lavoro e di comando sul lavoro.
In questa relazione entra naturalmente, in modo rilevante, l’azione del sindacato, a cui quindi farò costante riferimento; tuttavia, il filo conduttore resta la relazione tra i due aspetti prima citati, e quindi queste note non forniranno un'analisi sistematica delle varie fasi dell'azione sindacale alla Fiat.
Infine, l’ambito cronologico di queste note riguarda il periodo che va dagli anni ‘50 (escludendo quindi gli anni dell’immediato dopoguerra) fino ad oggi. Non c'è bisogno di aggiungere che i limiti di spazio porteranno a inevitabili schematizzazioni e semplificazioni.
2. Gli anni Cinquanta: la piena affermazione del fordismo-taylorismo
Verso la metà degli anni ‘50, si intrecciano in Fiat tre processi significativi:
- i licenziamenti di massa di operai e tecnici impegnati nel sindacato e nel partito comunista;
- l’avvio della produzione di una vettura “utilitaria” destinata al consumo di massa (la 600);
- il contestuale sviluppo di forme di “meccanizzazione spinta” della produzione (ad es. le linee transfert per la lavorazione del basamento motore) e il pieno dispiegarsi delle linee di montaggio a trazione meccanica.
Senza entrare in un'analisi dei fattori che contribuiscono alla sconfitta del sindacato (mi riferisco ovviamente alla CGIL), si può sottolineare un ritardo di analisi dei cambiamenti in atto dovuto all'egemonia culturale (all'interno della sinistra) di una visione del capitalismo italiano come arretrato (“straccione”). Così, si colgono le caratteristiche di intensificazione del lavoro (il supersfruttamento), ma le si attribuisce alle persistenti arretratezze anziché al nuovo modello di organizzazione del lavoro che sta emergendo. Così, ancora, il sindacato propone l'ipotesi della “vetturetta” destinata al consumo popolare, pensandola come svolta storica su cui imperniare una. strategia di lotta, quando già questa è nei piani della Fiat, e verrà realizzata di lì a poco.
La nuova fase è anche una nuova fase nella composizione di classe. Perde di peso (quantitativo e qualitativo) l’operaio qualificato e specializzato, e si espande la figura tipica dell'organizzazione taylorista, l’operaio parcellizzato e dequalificato (poi definito con l'etichetta, efficace ma, carica di elementi ideologici, di “operaio-massa”)1. In Fiat, l'organizzazione taylorista del lavoro assume caratteristiche particolarmente spinte (se confrontate, ad esempio, con quel che accadeva contemporaneamente nella Repubblica Federale Tedesca) per molteplici ragioni:
- la politica di distruzione del sindacato di classe comportava un'accentuazione del comando gerarchico-militare sul lavoro e, contemporaneamente, depauperava la Fiat di un patrimonio di operai professionali;
- la società italiana forniva un’offerta di lavoro caratterizzata non solo da bassa scolarizzazione ma da una prevalente assenza di “socializzazione industriale”, e ciò spingeva a un’ulteriore accentuazione dei processi di dequalificazione e di comando gerarchico (l’esecuzione sulla base di “prescrizioni precise e dettagliate”). Vale forse la pena di sottolineare che la produzione della 600 avvia l’ipotesi tipicamente fordista di un’auto come consumo di massa, alla portata dei lavoratori; anche se la politica di bassi salari farà sì che la realizzazione di questa ipotesi strategica avvenga con qualche ritardo.
3. Gli anni Sessanta-Settanta: l'espansione dell’”operaio-massa" immigrato
e le contraddizioni del taylorismo
Nel 1962, in occasione della lotta contrattuale dei metalmeccanici, il sistema di organizzazione/comando del lavoro, che da un po’ di anni sembrava inattaccabile in Fiat, subisce un primo, violento scossone, che ne mette in luce le acute contraddizioni interne.
Queste sono di un duplice tipo:
- in fabbrica, l'assenza o debolezza di controllo sindacale faceva sì che “si tirasse troppo la corda”, in particolare nell'intensificazione del lavoro: l’esplosione di lotte del ‘62 è anche, in particolare, una ribellione contro questo aspetto del comando sul lavoro;
- all'esterno, il rapido e massiccio flusso migratorio, causato anche dallo sviluppo Fiat, crea i ben noti problemi di inserimento (a partire dalla casa) e determina un violento contrasto tra aspettative e realtà (di fabbrica come “di città”).
I fattori oggettivi, sociali, sono indubbiamente determinanti nell'esplosione di lotte del ‘62, in cui quindi c’è un forte elemento “spontaneo”. Ma sarebbe sbagliatissimo sottovalutare il ruolo che il sindacato (la FIOM/CGIL, poi nell’ultima fase affiancata dalla FIM/CISL) ha avuto nel preparare e rendere possibile questa svolta. Fin dal 1955, la CGIL ha saputo trarre un bilancio critico dalla sconfitta, ed avviare un'analisi nuova delle trasformazioni in atto nella fabbrica, combinata con una paziente ricostruzione di rapporti con la realtà operaia. Diversamente dal passato, non si è fatta cogliere impreparata da ciò che stava cambiando; e i nuovi elementi di unità tra sindacati hanno contribuito potentemente al dispiegarsi della spinta di lotta già latente da tempo.
Tuttavia, l'esplosione di lotte del '62, pur raggiungendo importanti risultati (salariali, ma non solo) non riesce ad affermare una reale presenza del sindacato in fabbrica. E quindi lascia sostanzialmente inalterato il modello organizzativo e di comando esistente in Fiat, e la corrispondente composizione di classe. Con l'aiuto della “recessione manovrata” a partire dall’autunno ‘63, la Fiat riuscirà a ristabilire un (temporaneo, ma pieno) controllo sulla sua forza-lavoro.
È negli anni ‘68-‘69 che si realizza la “svolta”, poi consolidata in accordi successivi. A partire dalla vertenza aziendale del ‘68, e in una serie di tappe successive, il sindacato conquista una serie di diritti e sviluppa una crescente capacità di controllo sull’organizzazione del lavoro; ma questo è reso possibile dal fatto che il sindacato è ora presente in fabbrica in modo capillare, attraverso una struttura che unifica compiti di rappresentanza dei lavoratori e compiti di contrattazione sindacale, cioè i delegati.
Non mi soffermo qui sui limiti specifici che questa nuova costruzione organizzativa del sindacato in fabbrica ha registrato alla Fiat2; vorrei invece sottolineare le conseguenze (e le contraddizioni) che l’azione sindacale ha determinato nel “modello Fiat” di organizzazione e comando del lavoro.
Da un lato, il sistema di comando gerarchico e unilaterale sul lavoro entra in crisi, scontrandosi con la nuova “rigidità della forza-lavoro”, che poi in realtà consiste in regole e vincoli negoziati a cui il comando sul lavoro deve uniformarsi.
Dall’altro, però, il modello di organizzazione del lavoro resta sostanzialmente lo stesso; malgrado l’impegno sindacale per modificarlo, si realizzano solo esperienze circoscritte e transitorie di nuova organizzazione del lavoro.
Si apre perciò una contraddizione: il modello di organizzazione del lavoro rimane quello di prima, ma non dispone più di una serie di strumenti di comando e controllo necessari per farlo funzionare adeguatamente.
Di fronte a questa contraddizione, la direzione Fiat ha due alternative. La prima è quella di una “modificazione negoziata’ dell'organizzazione del lavoro, che la renda compatibile con le nuove regole e vincoli determinati dall’azione sindacale sul comando sul lavoro. La seconda è quella di ripristinare con la forza le precedenti condizioni di comando.
Nel corso degli anni ‘70, vi sono alcuni deboli tentativi di percorrere la prima via. Poi, prevale nettamente la scelta della seconda, che porterà allo scontro frontale del 1980.
Prima di passare alla “svolta” del 1980 e alle sue conseguenze, è utile però mettere in luce un paio di altri importanti elementi di novità, emersi nel corso degli anni ‘70, dal punto di vista della composizione di classe.
Il primo è dato dall'apertura di nuovi stabilimenti al sud: Termoli e Cassino sono i più importanti. Qui, per certi versi, si riproduce la composizione di classe sviluppatasi negli stabilimenti torinesi a partire dalla seconda metà degli anni ‘50: operai meridionali privi di precedente esperienza industriale.
E nella dirigenza Fiat si riproduce l’illusione che ciò sia “garanzia di integrazione”, tanto più che questa volta non c'è più il processo migratorio con le tensioni sociali che lo caratterizzavano, e il “rimanere sulla propria terra” spesso significa panche mantenere un pezzo di terra da coltivare (i “metalmezzadri”, come furono chiamati allora). È anche questa illusione che spinge la Fiat ad accettare le richieste sindacali di nuovi stabilimenti al sud: ma essa si rivelerà, appunto, un’illusione, e negli anni ‘70 i nuovi stabilimenti meridionali si inseriranno nella stessa “corrente di lotta” degli stabilimenti del nord.
Un secondo elemento di cambiamento è dato dal massiccio ingresso di giovani e donne negli stabilimenti torinesi verso la fine degli anni ‘703: quelli che allora venivano chiamati “nuovi soggetti”, perché più scolarizzati e perché portatori (per ragioni di età e di genere) di un diverso atteggiamento verso il lavoro - che suscitò un qualche allarme nella tradizionale avanguardia sindacale, oltre che nella dirigenza Fiat4. L’operaio dequalificato/parcellizzato continuava a costituire l'elemento caratteristico della forza-lavoro alla Fiat: ma le sue caratteristiche soggettive non erano più quelle di prima.
4. Gli anni Ottanta: il tentativo (fallito) di restaurazione del modello fordista-taylorista “puro”
Non rientra nei temi di queste note un’analisi del perché della sconfitta operaia dell’805. Ci interessa piuttosto vedere le sue conseguenze dal punto di vista dell’organizzazione del comando del lavoro e della composizione di classe. Le strategie Fiat su questi due aspetti si basano infatti su due “pre-condizioni”:
- la prima è, appunto, la sconfitta operaia e l’allentarsi del controllo sindacale sulla prestazione di lavoro;
- la seconda è il crescente sviluppo dell'automazione (già avviato verso la fine del decennio precedente), e in particolare di forme di automazione flessibile, che avrebbero dovuto superare i limiti di “rigidità” delle forme di automazione precedente.
Da queste “pre-condizioni”, la dirigenza Fiat trae la conclusione che è possibile una nuova era del taylorismo: la sconfitta operaia e sindacale riduce i vincoli6, e l'automazione flessibile permette di usare lavoro qualificante anche su produzioni che diventano sempre più variabili (ogni modello di auto ha decine di varianti). Sono gli anni in cui, ai tecnici di Fiat Comau che progettano i nuovi impianti automatizzati, viene chiesto di progettare impianti “a prova di scimmia”. All’operaio parcellizzato della linea di montaggio corrisponderà, progressivamente, l’“operaio-schiacciabottone” degli impianti automatici. E, siccome gli operai saranno sempre di meno, sarà più facile comandarli - fino alla “soluzione finale” della “fabbrica senza uomini”...
Questa ipotesi strategica cade progressivamente, questa volta non sotto i colpi della lotta operaia, ma per opera della tecnologia stessa. L’automazione della produzione si rivela, in certi punti, impraticabile o troppo costosa (si veda l’esperienza dei montaggi a Cassino), in altri praticabile ma non con “operai-scimmia”, bensì con operai qualificati e dotati ai una certa autonomia. Non a caso, la scolarità degli operai cresce, non solo come effetto di un fenomeno sociale più generale, ma come requisito per poter operare sulle nuove tecnologie. La Fiat è quindi costretta a rivedere quel modello di organizzazione del lavoro, che aveva creduto di poter trionfalmente restaurare.
5. Gli anni Novanta: la Fabbrica Integrata e la sua evoluzione/involuzione
Il modello teorico di riorganizzazione è ispirato alle esperienze giapponesi di “produzione snella” e di “qualità totale”, e comporta (teoricamente!) innovazioni piuttosto radicali. Al centro del modello sta un ruolo attivo del lavoro a tutti i livelli (e non solo nelle ristrette élites qualificate), condizione fondamentale per gestire efficacemente le micro-varianze ininterrotte della produzione nelle nuove condizioni di rapporto col mercato e per produrre la qualità “al primo colpo” e non attraverso lunghi processi di controllo e correzione.
Da questo modello (sempre in teoria) deriverebbero mutamenti rilevanti su ambedue gli aspetti di cui ci occupiamo:
- la necessità di una classe operaia “più formata”, sia in termini di requisiti scolastici che di ulteriori, continuativi inputs di formazione;
- la necessità di rivedere il sistema di organizzazione e comando del lavoro, in modo non solo da permettere ma da stimolare i margini di iniziativa autonoma richiesti dal nuovo ruolo assegnato al lavoro, a tutti i livelli.
La realizzazione concreta di questo modello si è rivelata via via ben al di sotto delle caratteristiche innovative inizialmente enunciate. Vale la pena di soffermarci un momento sulle ragioni di questa “involuzione”.7
Alla radice, sta il fatto che una revisione del sistema di controllo/comando sul lavoro è un’operazione troppo rischiosa per la Fiat e che quindi la conservazione/rafforzamento di tale sistema diviene un vincolo che condiziona tutti i processi di trasformazione presupposti dal “modello”. Ma in questo si intrecciano sia elementi specifici, aziendali, che elementi più “universali”.
Quelle aziendali sono più evidenti; non è cosi, semplice riconvertire un sistema organizzativo e una cultura aziendale impregnati di “comando autoritario” - e che non hanno saputo assimilare l'esperienza degli anni ‘70, vedendola come una pura imposizione da parte operaia-sindacale. I capi intermedi sono l'emblema (e spesso, dal vertice Fiat, sono presi come capro espiatorio) di questa difficoltà di riconversione.
Più in generale, coniugare la restaurazione del comando con una revisione del comando stesso non è semplice. Ma, al di là di questo, c’è una contraddizione più universale. Il nuovo modello organizzativo richiederebbe di combinare una maggior autonomia/iniziativa dei lavoratori con un’intensificazione della coercizione su di essi (in particolare in termini di intensificazione del lavoro): un compito che parrebbe quasi una contraddizione in termini, a meno che sia facilitato da grossi incentivi economici e occupazionali (che in Fiat non ci sono), o da una (ipotetica) forte adesione del lavoratore al modello (che non si verifica, e non solo in Fiat...).
Il risultato è un “riaggiustamento al ribasso” del modello innovativo inizialmente adottato: in sostanza, si ritiene che i costi (in termini di minor flessibilità e soprattutto di minor qualità) che ciò comporta siano inferiori ai costi (economici e sociali) che avrebbe comportato una realizzazione più integrale dell’innovazione8. Ciò non significa un ripiegamento puro e semplice sul modello fordista-taylorista tradizionale; ci sono infatti elementi, sia pure parziali, di mutamento. Ad esempio:
- margini di autonomia, forme di lavoro di gruppo, ecc. si realizzano in forme circoscritte, che coinvolgono alcune figure qualificate vecchie e nuove, più numerose di prima, ma senza investire la massa dei lavoratori;
- si estende la fascia di lavoratori per i quali si richiede un più elevato livello di scolarità e che vengono successivamente investiti da processi di formazione consistenti e (spesso) ricorrenti.
Dunque, sia pure senza la “svolta” prevista nel “modello” qualcosa cambia, sia in termini di composizione di classe sia di organizzazione e comando del lavoro.
In tutto questo complesso percorso – dall’emergere del nuovo modello al suo concreto ridimensionamento – il sindacato non esercita nessuna incidenza, né – potremmo dire – prova ad esercitarla. V’è anzi un curioso paradosso. I pochi tentativi di entrare nel merito delle nuove situazioni, magari offrendo uno “scambio” tra collaborazione all'innovazione e determinate controparti (come quelli tentati alla Fiat Rivalta) vengono considerati “di destra”. Contemporaneamente, il sindacato firma (a Melfi, innanzitutto, ma anche a Termoli e a Cassino) una serie di accordi – sui tempi di lavoro, sui turni, sul salario stesso – che danno via libera a quella “gestione al ribasso” del nuovo modello, che è stata progressivamente scelta dalla Fiat.
6. Gli ultimi (o meglio penultimi) sviluppi
Ma il nuovo modello organizzativo (sia pur ridimensionato) non ha il tempo di assestarsi che viene investito da un’ulteriore ondata di trasformazioni, che modificano in modo assai profondo la composizione di classe e lo stesso sistema di comando/controllo sul lavoro.
Questo nuovo processo di cambiamento (che la dirigenza Fiat si affretterà a etichettare come “dalla fabbrica integrata alla fabbrica modulare”) consiste principalmente, com'è noto, nella terziarizzazione di funzioni e segmenti di produzione, che continuano a svolgersi negli stabilimenti Fiat, ma sono affidati ad “aziende terze”. Al di là degli aspetti finanziari e di risparmio di costi, che pure hanno un peso determinante in questa strategia., ci interessa notare qui gli aspetti più direttamente connessi col filo conduttore di queste note.
Le conseguenze sulla composizione di classe sono profonde, e per certi versi paradossali rispetto a quelle del passato. Almeno in una prima fase, i lavoratori sono esattamente gli stessi di prima, ma cambia la loro collocazione sociale: diventano dipendenti di aziende diverse, talvolta si riferiscono a differenti contratti di categoria. Quelli direttamente “ereditati” dalle nuove aziende mantengono il trattamento pregresso, ma i nuovi entrati no; e anche i primi si trovano inseriti in un diverso sistema di organizzazione e comando del lavoro. Avviene in sostanza un percorso progressivo di scomposizione della forza-lavoro.
Ma le terziarizzazioni sono anche il segnale di una crisi, meno appariscente ma non risolta, del sistema di comando e controllo. Significano cioè che la Fiat spera di raggiungere attraverso la pressione esercitata (in posizione dominante) nel rapporto di mercato con le “aziende terze” quegli obiettivi (di riduzione dei costi, di aumento della produttività, della flessibilità, della qualità) che non riusciva a raggiungere attraverso il sistema di controllo gerarchico interno.
Ancora una volta, di fronte a queste trasformazioni il sindacato non si è mosso in modo tempestivo ed adeguato. In generale si è limitato a difendere i trattamenti pregressi e i livelli di occupazione iniziale, sulla base della legislazione italiana che (per ora) offre da questo punto di vista un buon grado di tutela - e per far questo ha avallato spesso come “cessioni di ramo di azienda” operazioni che non erano tali.
Solo a partire dall’“accordo di sito” conquistato (con una forte pressione di lotta) all'Iveco di Brescia il sindacato si è posto nell’ottica più ampia di costruire forme di contrattazione e rappresentanza unitaria dei lavoratori che venivano “composti” dai processi di terziarizzazione.
Su tutto questo è piombata la ben nota (ed esplosiva) crisi aziendale di queste settimane: e il sindacato si trova, ancora una volta, a combattere una difficile battaglia difensiva.
Non è ovviamente compito di queste note analizzare questa crisi, le sue ragioni e i suoi possibili esiti. Si può però osservare che, quando non si riescono a risolvere i nodi e le contraddizioni interne del processo produttivo, non c’è processo di terziarizzazione che tenga, malgrado attraverso tali processi la Fiat abbia cercato di “scaricare all'esterno” parte dei problemi e dei costi derivanti dalle sue contraddizioni.
Note
1 L’“ideologia dell’operaio-massa” aveva molteplici effetti deformanti:
- in primo luogo, tendeva a presentare l'operaio dequalificato (più specificamente, l’operaio di linea) come l’unico protagonista di quella stagione di lotte, mentre così non era;
- in secondo luogo, tendeva ad appiattire differenze ed articolazioni tra i lavoratori, esistenti anche all'interno del cosiddetto “operaio-massa”;
- infine, tendeva a mitizzare il tipo di coscienza di classe espresso dall’“operaio-massa”, senza vederne i limiti.
2 Mi limito ad accennare che, in Fiat, l’adesione alle lotte non si tradusse mai in un’elevata adesione organizzativa al sindacato, determinando una fragilità di rapporto e di “tenuta” che si mostrerà in modo molto evidente nell’80 e dall’80 in poi. Inoltre, il tipo di avanguardie prodotte dalle lotte di quegli anni non avranno, in genere, lo “spessore” politico-culturale dei vecchi operai professionali comunisti, se non per una limitata minoranza, come quella che verrà formata dai seminari universitari delle 150 ore, condotti da Ivar Oddone.
3 Vale la pena di ricordare come e perché avvennero queste nuove assunzioni. A fronte di un aumento della domanda, la Fiat cercò di ricorrere agli straordinari; il sindacato bloccò con la lotta questa via, e impose di ricorrere a nuove assunzioni attraverso le cosiddette “liste numeriche” del collocamento, meccanismo che comportò l’assunzione di un adeguato numero di donne.
4 Questi timori, da ambedue le parti, erano sintetizzati sotto l'etichetta del “rifiuto del lavoro” che sarebbe stato proprio di questi “nuovi soggetti”. In effetti, questi si mostravano insofferenti sia delle regole della disciplina di fabbrica, sia delle regole non scritte di comportamento sul lavoro proprie della cultura sindacale. Tuttavia, si può notare che quella parte di nuovi soggetti che riuscì a sopravvivere alle espulsioni dell’80 mostrerà, negli anni seguenti, una “tenuta di lotta” superiore a quella dei mitici “operai-massa” ormai invecchiati (su questo aspetto fornisce alcuni elementi un'inchiesta dell’IRES/CGIL di Torino svolta a metà degli anni ‘80).
5 Mi limito a sottolineare come siano inadeguate le spiegazioni “complottiste” che la attribuiscono interamente al “tradimento” delle dirigenze sindacali, in particolare confederali. Andrebbero infatti considerati gli elementi di logoramento nel rapporto lavoratori-delegati-sindacato, emersi già da prima, in particolare nella mancate riuscita a Mirafiori dello sciopero contro il licenziamento di 61 operai impegnati nelle lotte.
6 “Riduce” e non elimina, dal momento che gli accordi conclusi nel decennio precedente sulla prestazione di lavoro (in particolare il fondamentale accordo del 5/8/71) rimangono validi, anche se la capacità di farli applicare costantemente e capillarmente risulta ridotta.
7 Per un’analisi più dettagliata di questo processo, si veda l'inchiesta condotta, in due fasi successive, alla FIAT/SATA di Melfi (quello che doveva essere lo “stabilimento-modello” della Fabbrica Integrata), pubblicata a suo tempo sulla rivista Finesecolo.
8 La crisi Fiat di oggi mette in luce come questa ipotesi fosse illusoria, o per lo meno ottimistica.
L'ERNESTO 3/2002 del 01/05/2002
Forme del lavoro e comando sul lavoro: un’analisi dagli anni ‘50 ad oggi
1. Premessa
Ci sono molti modi in cui “leggere” lo sviluppo storico della lotta di classe alla Fiat. Io mi concentrerò sulla relazione tra due aspetti:
- le forme di organizzazione del lavoro e di comando sul lavoro;
- la composizione di classe, cioè le caratteristiche sociali e professionali della forza-lavoro Fiat.
La relazione tra i due aspetti non è a senso unico. Certo, in primo luogo, le strategie capitalistiche in tema di organizzazione e comando del lavoro determinano il tipo di domanda di lavoro, e attraverso questa la composizione di classe. Ma, al tempo stesso, il tipo di offerta di lavoro, determinato dalle condizioni socio-economiche più generali, condiziona la domanda di lavoro e le stesse scelte di organizzazione del lavoro e di comando sul lavoro.
In questa relazione entra naturalmente, in modo rilevante, l’azione del sindacato, a cui quindi farò costante riferimento; tuttavia, il filo conduttore resta la relazione tra i due aspetti prima citati, e quindi queste note non forniranno un'analisi sistematica delle varie fasi dell'azione sindacale alla Fiat.
Infine, l’ambito cronologico di queste note riguarda il periodo che va dagli anni ‘50 (escludendo quindi gli anni dell’immediato dopoguerra) fino ad oggi. Non c'è bisogno di aggiungere che i limiti di spazio porteranno a inevitabili schematizzazioni e semplificazioni.
2. Gli anni Cinquanta: la piena affermazione del fordismo-taylorismo
Verso la metà degli anni ‘50, si intrecciano in Fiat tre processi significativi:
- i licenziamenti di massa di operai e tecnici impegnati nel sindacato e nel partito comunista;
- l’avvio della produzione di una vettura “utilitaria” destinata al consumo di massa (la 600);
- il contestuale sviluppo di forme di “meccanizzazione spinta” della produzione (ad es. le linee transfert per la lavorazione del basamento motore) e il pieno dispiegarsi delle linee di montaggio a trazione meccanica.
Senza entrare in un'analisi dei fattori che contribuiscono alla sconfitta del sindacato (mi riferisco ovviamente alla CGIL), si può sottolineare un ritardo di analisi dei cambiamenti in atto dovuto all'egemonia culturale (all'interno della sinistra) di una visione del capitalismo italiano come arretrato (“straccione”). Così, si colgono le caratteristiche di intensificazione del lavoro (il supersfruttamento), ma le si attribuisce alle persistenti arretratezze anziché al nuovo modello di organizzazione del lavoro che sta emergendo. Così, ancora, il sindacato propone l'ipotesi della “vetturetta” destinata al consumo popolare, pensandola come svolta storica su cui imperniare una. strategia di lotta, quando già questa è nei piani della Fiat, e verrà realizzata di lì a poco.
La nuova fase è anche una nuova fase nella composizione di classe. Perde di peso (quantitativo e qualitativo) l’operaio qualificato e specializzato, e si espande la figura tipica dell'organizzazione taylorista, l’operaio parcellizzato e dequalificato (poi definito con l'etichetta, efficace ma, carica di elementi ideologici, di “operaio-massa”)1. In Fiat, l'organizzazione taylorista del lavoro assume caratteristiche particolarmente spinte (se confrontate, ad esempio, con quel che accadeva contemporaneamente nella Repubblica Federale Tedesca) per molteplici ragioni:
- la politica di distruzione del sindacato di classe comportava un'accentuazione del comando gerarchico-militare sul lavoro e, contemporaneamente, depauperava la Fiat di un patrimonio di operai professionali;
- la società italiana forniva un’offerta di lavoro caratterizzata non solo da bassa scolarizzazione ma da una prevalente assenza di “socializzazione industriale”, e ciò spingeva a un’ulteriore accentuazione dei processi di dequalificazione e di comando gerarchico (l’esecuzione sulla base di “prescrizioni precise e dettagliate”). Vale forse la pena di sottolineare che la produzione della 600 avvia l’ipotesi tipicamente fordista di un’auto come consumo di massa, alla portata dei lavoratori; anche se la politica di bassi salari farà sì che la realizzazione di questa ipotesi strategica avvenga con qualche ritardo.
3. Gli anni Sessanta-Settanta: l'espansione dell’”operaio-massa" immigrato
e le contraddizioni del taylorismo
Nel 1962, in occasione della lotta contrattuale dei metalmeccanici, il sistema di organizzazione/comando del lavoro, che da un po’ di anni sembrava inattaccabile in Fiat, subisce un primo, violento scossone, che ne mette in luce le acute contraddizioni interne.
Queste sono di un duplice tipo:
- in fabbrica, l'assenza o debolezza di controllo sindacale faceva sì che “si tirasse troppo la corda”, in particolare nell'intensificazione del lavoro: l’esplosione di lotte del ‘62 è anche, in particolare, una ribellione contro questo aspetto del comando sul lavoro;
- all'esterno, il rapido e massiccio flusso migratorio, causato anche dallo sviluppo Fiat, crea i ben noti problemi di inserimento (a partire dalla casa) e determina un violento contrasto tra aspettative e realtà (di fabbrica come “di città”).
I fattori oggettivi, sociali, sono indubbiamente determinanti nell'esplosione di lotte del ‘62, in cui quindi c’è un forte elemento “spontaneo”. Ma sarebbe sbagliatissimo sottovalutare il ruolo che il sindacato (la FIOM/CGIL, poi nell’ultima fase affiancata dalla FIM/CISL) ha avuto nel preparare e rendere possibile questa svolta. Fin dal 1955, la CGIL ha saputo trarre un bilancio critico dalla sconfitta, ed avviare un'analisi nuova delle trasformazioni in atto nella fabbrica, combinata con una paziente ricostruzione di rapporti con la realtà operaia. Diversamente dal passato, non si è fatta cogliere impreparata da ciò che stava cambiando; e i nuovi elementi di unità tra sindacati hanno contribuito potentemente al dispiegarsi della spinta di lotta già latente da tempo.
Tuttavia, l'esplosione di lotte del '62, pur raggiungendo importanti risultati (salariali, ma non solo) non riesce ad affermare una reale presenza del sindacato in fabbrica. E quindi lascia sostanzialmente inalterato il modello organizzativo e di comando esistente in Fiat, e la corrispondente composizione di classe. Con l'aiuto della “recessione manovrata” a partire dall’autunno ‘63, la Fiat riuscirà a ristabilire un (temporaneo, ma pieno) controllo sulla sua forza-lavoro.
È negli anni ‘68-‘69 che si realizza la “svolta”, poi consolidata in accordi successivi. A partire dalla vertenza aziendale del ‘68, e in una serie di tappe successive, il sindacato conquista una serie di diritti e sviluppa una crescente capacità di controllo sull’organizzazione del lavoro; ma questo è reso possibile dal fatto che il sindacato è ora presente in fabbrica in modo capillare, attraverso una struttura che unifica compiti di rappresentanza dei lavoratori e compiti di contrattazione sindacale, cioè i delegati.
Non mi soffermo qui sui limiti specifici che questa nuova costruzione organizzativa del sindacato in fabbrica ha registrato alla Fiat2; vorrei invece sottolineare le conseguenze (e le contraddizioni) che l’azione sindacale ha determinato nel “modello Fiat” di organizzazione e comando del lavoro.
Da un lato, il sistema di comando gerarchico e unilaterale sul lavoro entra in crisi, scontrandosi con la nuova “rigidità della forza-lavoro”, che poi in realtà consiste in regole e vincoli negoziati a cui il comando sul lavoro deve uniformarsi.
Dall’altro, però, il modello di organizzazione del lavoro resta sostanzialmente lo stesso; malgrado l’impegno sindacale per modificarlo, si realizzano solo esperienze circoscritte e transitorie di nuova organizzazione del lavoro.
Si apre perciò una contraddizione: il modello di organizzazione del lavoro rimane quello di prima, ma non dispone più di una serie di strumenti di comando e controllo necessari per farlo funzionare adeguatamente.
Di fronte a questa contraddizione, la direzione Fiat ha due alternative. La prima è quella di una “modificazione negoziata’ dell'organizzazione del lavoro, che la renda compatibile con le nuove regole e vincoli determinati dall’azione sindacale sul comando sul lavoro. La seconda è quella di ripristinare con la forza le precedenti condizioni di comando.
Nel corso degli anni ‘70, vi sono alcuni deboli tentativi di percorrere la prima via. Poi, prevale nettamente la scelta della seconda, che porterà allo scontro frontale del 1980.
Prima di passare alla “svolta” del 1980 e alle sue conseguenze, è utile però mettere in luce un paio di altri importanti elementi di novità, emersi nel corso degli anni ‘70, dal punto di vista della composizione di classe.
Il primo è dato dall'apertura di nuovi stabilimenti al sud: Termoli e Cassino sono i più importanti. Qui, per certi versi, si riproduce la composizione di classe sviluppatasi negli stabilimenti torinesi a partire dalla seconda metà degli anni ‘50: operai meridionali privi di precedente esperienza industriale.
E nella dirigenza Fiat si riproduce l’illusione che ciò sia “garanzia di integrazione”, tanto più che questa volta non c'è più il processo migratorio con le tensioni sociali che lo caratterizzavano, e il “rimanere sulla propria terra” spesso significa panche mantenere un pezzo di terra da coltivare (i “metalmezzadri”, come furono chiamati allora). È anche questa illusione che spinge la Fiat ad accettare le richieste sindacali di nuovi stabilimenti al sud: ma essa si rivelerà, appunto, un’illusione, e negli anni ‘70 i nuovi stabilimenti meridionali si inseriranno nella stessa “corrente di lotta” degli stabilimenti del nord.
Un secondo elemento di cambiamento è dato dal massiccio ingresso di giovani e donne negli stabilimenti torinesi verso la fine degli anni ‘703: quelli che allora venivano chiamati “nuovi soggetti”, perché più scolarizzati e perché portatori (per ragioni di età e di genere) di un diverso atteggiamento verso il lavoro - che suscitò un qualche allarme nella tradizionale avanguardia sindacale, oltre che nella dirigenza Fiat4. L’operaio dequalificato/parcellizzato continuava a costituire l'elemento caratteristico della forza-lavoro alla Fiat: ma le sue caratteristiche soggettive non erano più quelle di prima.
4. Gli anni Ottanta: il tentativo (fallito) di restaurazione del modello fordista-taylorista “puro”
Non rientra nei temi di queste note un’analisi del perché della sconfitta operaia dell’805. Ci interessa piuttosto vedere le sue conseguenze dal punto di vista dell’organizzazione del comando del lavoro e della composizione di classe. Le strategie Fiat su questi due aspetti si basano infatti su due “pre-condizioni”:
- la prima è, appunto, la sconfitta operaia e l’allentarsi del controllo sindacale sulla prestazione di lavoro;
- la seconda è il crescente sviluppo dell'automazione (già avviato verso la fine del decennio precedente), e in particolare di forme di automazione flessibile, che avrebbero dovuto superare i limiti di “rigidità” delle forme di automazione precedente.
Da queste “pre-condizioni”, la dirigenza Fiat trae la conclusione che è possibile una nuova era del taylorismo: la sconfitta operaia e sindacale riduce i vincoli6, e l'automazione flessibile permette di usare lavoro qualificante anche su produzioni che diventano sempre più variabili (ogni modello di auto ha decine di varianti). Sono gli anni in cui, ai tecnici di Fiat Comau che progettano i nuovi impianti automatizzati, viene chiesto di progettare impianti “a prova di scimmia”. All’operaio parcellizzato della linea di montaggio corrisponderà, progressivamente, l’“operaio-schiacciabottone” degli impianti automatici. E, siccome gli operai saranno sempre di meno, sarà più facile comandarli - fino alla “soluzione finale” della “fabbrica senza uomini”...
Questa ipotesi strategica cade progressivamente, questa volta non sotto i colpi della lotta operaia, ma per opera della tecnologia stessa. L’automazione della produzione si rivela, in certi punti, impraticabile o troppo costosa (si veda l’esperienza dei montaggi a Cassino), in altri praticabile ma non con “operai-scimmia”, bensì con operai qualificati e dotati ai una certa autonomia. Non a caso, la scolarità degli operai cresce, non solo come effetto di un fenomeno sociale più generale, ma come requisito per poter operare sulle nuove tecnologie. La Fiat è quindi costretta a rivedere quel modello di organizzazione del lavoro, che aveva creduto di poter trionfalmente restaurare.
5. Gli anni Novanta: la Fabbrica Integrata e la sua evoluzione/involuzione
Il modello teorico di riorganizzazione è ispirato alle esperienze giapponesi di “produzione snella” e di “qualità totale”, e comporta (teoricamente!) innovazioni piuttosto radicali. Al centro del modello sta un ruolo attivo del lavoro a tutti i livelli (e non solo nelle ristrette élites qualificate), condizione fondamentale per gestire efficacemente le micro-varianze ininterrotte della produzione nelle nuove condizioni di rapporto col mercato e per produrre la qualità “al primo colpo” e non attraverso lunghi processi di controllo e correzione.
Da questo modello (sempre in teoria) deriverebbero mutamenti rilevanti su ambedue gli aspetti di cui ci occupiamo:
- la necessità di una classe operaia “più formata”, sia in termini di requisiti scolastici che di ulteriori, continuativi inputs di formazione;
- la necessità di rivedere il sistema di organizzazione e comando del lavoro, in modo non solo da permettere ma da stimolare i margini di iniziativa autonoma richiesti dal nuovo ruolo assegnato al lavoro, a tutti i livelli.
La realizzazione concreta di questo modello si è rivelata via via ben al di sotto delle caratteristiche innovative inizialmente enunciate. Vale la pena di soffermarci un momento sulle ragioni di questa “involuzione”.7
Alla radice, sta il fatto che una revisione del sistema di controllo/comando sul lavoro è un’operazione troppo rischiosa per la Fiat e che quindi la conservazione/rafforzamento di tale sistema diviene un vincolo che condiziona tutti i processi di trasformazione presupposti dal “modello”. Ma in questo si intrecciano sia elementi specifici, aziendali, che elementi più “universali”.
Quelle aziendali sono più evidenti; non è cosi, semplice riconvertire un sistema organizzativo e una cultura aziendale impregnati di “comando autoritario” - e che non hanno saputo assimilare l'esperienza degli anni ‘70, vedendola come una pura imposizione da parte operaia-sindacale. I capi intermedi sono l'emblema (e spesso, dal vertice Fiat, sono presi come capro espiatorio) di questa difficoltà di riconversione.
Più in generale, coniugare la restaurazione del comando con una revisione del comando stesso non è semplice. Ma, al di là di questo, c’è una contraddizione più universale. Il nuovo modello organizzativo richiederebbe di combinare una maggior autonomia/iniziativa dei lavoratori con un’intensificazione della coercizione su di essi (in particolare in termini di intensificazione del lavoro): un compito che parrebbe quasi una contraddizione in termini, a meno che sia facilitato da grossi incentivi economici e occupazionali (che in Fiat non ci sono), o da una (ipotetica) forte adesione del lavoratore al modello (che non si verifica, e non solo in Fiat...).
Il risultato è un “riaggiustamento al ribasso” del modello innovativo inizialmente adottato: in sostanza, si ritiene che i costi (in termini di minor flessibilità e soprattutto di minor qualità) che ciò comporta siano inferiori ai costi (economici e sociali) che avrebbe comportato una realizzazione più integrale dell’innovazione8. Ciò non significa un ripiegamento puro e semplice sul modello fordista-taylorista tradizionale; ci sono infatti elementi, sia pure parziali, di mutamento. Ad esempio:
- margini di autonomia, forme di lavoro di gruppo, ecc. si realizzano in forme circoscritte, che coinvolgono alcune figure qualificate vecchie e nuove, più numerose di prima, ma senza investire la massa dei lavoratori;
- si estende la fascia di lavoratori per i quali si richiede un più elevato livello di scolarità e che vengono successivamente investiti da processi di formazione consistenti e (spesso) ricorrenti.
Dunque, sia pure senza la “svolta” prevista nel “modello” qualcosa cambia, sia in termini di composizione di classe sia di organizzazione e comando del lavoro.
In tutto questo complesso percorso – dall’emergere del nuovo modello al suo concreto ridimensionamento – il sindacato non esercita nessuna incidenza, né – potremmo dire – prova ad esercitarla. V’è anzi un curioso paradosso. I pochi tentativi di entrare nel merito delle nuove situazioni, magari offrendo uno “scambio” tra collaborazione all'innovazione e determinate controparti (come quelli tentati alla Fiat Rivalta) vengono considerati “di destra”. Contemporaneamente, il sindacato firma (a Melfi, innanzitutto, ma anche a Termoli e a Cassino) una serie di accordi – sui tempi di lavoro, sui turni, sul salario stesso – che danno via libera a quella “gestione al ribasso” del nuovo modello, che è stata progressivamente scelta dalla Fiat.
6. Gli ultimi (o meglio penultimi) sviluppi
Ma il nuovo modello organizzativo (sia pur ridimensionato) non ha il tempo di assestarsi che viene investito da un’ulteriore ondata di trasformazioni, che modificano in modo assai profondo la composizione di classe e lo stesso sistema di comando/controllo sul lavoro.
Questo nuovo processo di cambiamento (che la dirigenza Fiat si affretterà a etichettare come “dalla fabbrica integrata alla fabbrica modulare”) consiste principalmente, com'è noto, nella terziarizzazione di funzioni e segmenti di produzione, che continuano a svolgersi negli stabilimenti Fiat, ma sono affidati ad “aziende terze”. Al di là degli aspetti finanziari e di risparmio di costi, che pure hanno un peso determinante in questa strategia., ci interessa notare qui gli aspetti più direttamente connessi col filo conduttore di queste note.
Le conseguenze sulla composizione di classe sono profonde, e per certi versi paradossali rispetto a quelle del passato. Almeno in una prima fase, i lavoratori sono esattamente gli stessi di prima, ma cambia la loro collocazione sociale: diventano dipendenti di aziende diverse, talvolta si riferiscono a differenti contratti di categoria. Quelli direttamente “ereditati” dalle nuove aziende mantengono il trattamento pregresso, ma i nuovi entrati no; e anche i primi si trovano inseriti in un diverso sistema di organizzazione e comando del lavoro. Avviene in sostanza un percorso progressivo di scomposizione della forza-lavoro.
Ma le terziarizzazioni sono anche il segnale di una crisi, meno appariscente ma non risolta, del sistema di comando e controllo. Significano cioè che la Fiat spera di raggiungere attraverso la pressione esercitata (in posizione dominante) nel rapporto di mercato con le “aziende terze” quegli obiettivi (di riduzione dei costi, di aumento della produttività, della flessibilità, della qualità) che non riusciva a raggiungere attraverso il sistema di controllo gerarchico interno.
Ancora una volta, di fronte a queste trasformazioni il sindacato non si è mosso in modo tempestivo ed adeguato. In generale si è limitato a difendere i trattamenti pregressi e i livelli di occupazione iniziale, sulla base della legislazione italiana che (per ora) offre da questo punto di vista un buon grado di tutela - e per far questo ha avallato spesso come “cessioni di ramo di azienda” operazioni che non erano tali.
Solo a partire dall’“accordo di sito” conquistato (con una forte pressione di lotta) all'Iveco di Brescia il sindacato si è posto nell’ottica più ampia di costruire forme di contrattazione e rappresentanza unitaria dei lavoratori che venivano “composti” dai processi di terziarizzazione.
Su tutto questo è piombata la ben nota (ed esplosiva) crisi aziendale di queste settimane: e il sindacato si trova, ancora una volta, a combattere una difficile battaglia difensiva.
Non è ovviamente compito di queste note analizzare questa crisi, le sue ragioni e i suoi possibili esiti. Si può però osservare che, quando non si riescono a risolvere i nodi e le contraddizioni interne del processo produttivo, non c’è processo di terziarizzazione che tenga, malgrado attraverso tali processi la Fiat abbia cercato di “scaricare all'esterno” parte dei problemi e dei costi derivanti dalle sue contraddizioni.
Note
1 L’“ideologia dell’operaio-massa” aveva molteplici effetti deformanti:
- in primo luogo, tendeva a presentare l'operaio dequalificato (più specificamente, l’operaio di linea) come l’unico protagonista di quella stagione di lotte, mentre così non era;
- in secondo luogo, tendeva ad appiattire differenze ed articolazioni tra i lavoratori, esistenti anche all'interno del cosiddetto “operaio-massa”;
- infine, tendeva a mitizzare il tipo di coscienza di classe espresso dall’“operaio-massa”, senza vederne i limiti.
2 Mi limito ad accennare che, in Fiat, l’adesione alle lotte non si tradusse mai in un’elevata adesione organizzativa al sindacato, determinando una fragilità di rapporto e di “tenuta” che si mostrerà in modo molto evidente nell’80 e dall’80 in poi. Inoltre, il tipo di avanguardie prodotte dalle lotte di quegli anni non avranno, in genere, lo “spessore” politico-culturale dei vecchi operai professionali comunisti, se non per una limitata minoranza, come quella che verrà formata dai seminari universitari delle 150 ore, condotti da Ivar Oddone.
3 Vale la pena di ricordare come e perché avvennero queste nuove assunzioni. A fronte di un aumento della domanda, la Fiat cercò di ricorrere agli straordinari; il sindacato bloccò con la lotta questa via, e impose di ricorrere a nuove assunzioni attraverso le cosiddette “liste numeriche” del collocamento, meccanismo che comportò l’assunzione di un adeguato numero di donne.
4 Questi timori, da ambedue le parti, erano sintetizzati sotto l'etichetta del “rifiuto del lavoro” che sarebbe stato proprio di questi “nuovi soggetti”. In effetti, questi si mostravano insofferenti sia delle regole della disciplina di fabbrica, sia delle regole non scritte di comportamento sul lavoro proprie della cultura sindacale. Tuttavia, si può notare che quella parte di nuovi soggetti che riuscì a sopravvivere alle espulsioni dell’80 mostrerà, negli anni seguenti, una “tenuta di lotta” superiore a quella dei mitici “operai-massa” ormai invecchiati (su questo aspetto fornisce alcuni elementi un'inchiesta dell’IRES/CGIL di Torino svolta a metà degli anni ‘80).
5 Mi limito a sottolineare come siano inadeguate le spiegazioni “complottiste” che la attribuiscono interamente al “tradimento” delle dirigenze sindacali, in particolare confederali. Andrebbero infatti considerati gli elementi di logoramento nel rapporto lavoratori-delegati-sindacato, emersi già da prima, in particolare nella mancate riuscita a Mirafiori dello sciopero contro il licenziamento di 61 operai impegnati nelle lotte.
6 “Riduce” e non elimina, dal momento che gli accordi conclusi nel decennio precedente sulla prestazione di lavoro (in particolare il fondamentale accordo del 5/8/71) rimangono validi, anche se la capacità di farli applicare costantemente e capillarmente risulta ridotta.
7 Per un’analisi più dettagliata di questo processo, si veda l'inchiesta condotta, in due fasi successive, alla FIAT/SATA di Melfi (quello che doveva essere lo “stabilimento-modello” della Fabbrica Integrata), pubblicata a suo tempo sulla rivista Finesecolo.
8 La crisi Fiat di oggi mette in luce come questa ipotesi fosse illusoria, o per lo meno ottimistica.