29.7.08
Ricominciamo: una svolta a sinistra
VII CONGRESSO PRC - Quello che segue è il documento politico approvato dalla maggioranza (342 voti a favore su 646) della platea congressuale
Odg conclusivo
1
Il Congresso considera chiusa e superata la fase caratterizzata dalla collaborazione organica con il PD nella fallimentare esperienza di governo dell’Unione, dalla presentazione alle elezioni della lista della Sinistra Arcobaleno e dalla sbagliata gestione maggioritaria della direzione del partito.
Il Congresso prende atto che nessuna delle mozioni poste alla base del VII Congresso nazionale del PRC è stata approvata.
Ritiene necessario e prioritario un forte rilancio culturale, politico e organizzativo del Partito della Rifondazione Comunista.
Respinge la proposta della Costituente di sinistra e qualsiasi ipotesi di superamento o confluenza del PRC in un’altra formazione politica. Il tema dell’unità a sinistra rimane un campo aperto di ricerca e sperimentazione, partendo da questa premessa.
2
Il rilancio del PRC deve essere caratterizzato in primo luogo da una svolta a sinistra. L’esperienza di governo dell’Unione ha mostrato l’impossibilità, data la linea del PD e i rapporti di forza esistenti, di un accordo organico per il governo del paese.
La sconfitta delle destre populiste e della politica antioperaia della Confindustria è il nostro obiettivo di fase. A tale fine, la linea neocentrista che caratterizza oggi il Partito Democratico è del tutto inefficace e sarebbe quindi completamente sbagliata la proposta di ricostruzione del centro sinistra; ci ridurrebbe in una collocazione subalterna all’interno di un contesto bipolare.
Al contrario è necessario costruire l’opposizione al governo Berlusconi, intrecciando la questione sociale con quella democratica e morale, in un quadro di autonomia del PRC e di alternatività al progetto strategico del PD.
E’ importante recuperare l’idea che l’opposizione non è una mera collocazione nel quadro politico ma si configura come una fase di ricostruzione, di radicamento e di relazioni sociali, di battaglia culturale e politica. Nella crisi della globalizzazione capitalistica l’alternativa la si costruisce nella lotta sociale e politica contro il governo Berlusconi, i progetti confindustriali e le visioni fondamentaliste e integraliste. Dentro questa prospettiva è indispensabile rafforzare la sinistra di alternativa, avviando una collaborazione fra le diverse soggettività anticapitaliste, comuniste, di sinistra e aggregando le realtà collettive ed individuali che si muovono al di fuori dei partiti politici sui diversi terreni sociali, sindacali e culturali.
3
Il rilancio del PRC parte dalla ripresa dell’iniziativa sociale e politica. La promozione di lotte, la costruzione di vertenze, la ricostruzione dei legami sociali a partire da forme di mutualità, sono indispensabili al fine di qualificare dal punto di vista dell’utilità sociale il ruolo storico dei comunisti e della sinistra. Così come sono elementi necessari per valutare l’efficacia della nostra presenza nelle istituzioni e per ribadire la nostra alterità e intransigente opposizione rispetto alle degenerazioni della politica. Anche in vista delle prossime elezioni amministrative, ferma restando la piena sovranità dei diversi livelli del partito, anche alla luce dell’importanza assunta dai governi locali nel dispiegarsi di politiche di sussidiarietà, privatizzazione e securitarie, è necessario verificare se gli accordi di governo siano coerenti con gli obiettivi generali che il partito si pone in questa fase.
La lotta contro la manovra economica antipopolare del governo delle destre, l’opposizione alle iniziative razziste e discriminatorie contro i migranti e i rom, il contrasto ai progetti di attacco al pubblico impiego e alla pubblica amministrazione, l’opposizione alla controriforma della giustizia e la questione morale, rappresentano terreni decisivi di iniziativa, di mobilitazione e di allargamento di un movimento di massa contro le politiche del governo.
E’ quindi necessario, fin da subito, che il nuovo gruppo dirigente del partito lavori ad ogni possibile forma di coordinamento della sinistra politica, sociale e culturale al fine di mettere in campo la più ampia e forte mobilitazione contro il governo e la Confindustria. In questo quadro è necessario lavorare per la realizzazione di un nuovo 20 ottobre, una grande manifestazione di massa e una campagna politica di autunno che, partendo da quanti diedero vita all’appuntamento dello scorso anno, raccolga nuove forze, in particolare le espressioni di movimento e di lotta. Rientra in questo percorso l’impegno ad organizzare per il prossimo autunno la Conferenza Nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori.
Non è però sufficiente una manifestazione; la ripresa di una iniziativa di lotta, richiede in primo luogo la messa in campo di una forte iniziativa in difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari; dalla difesa dei Contratti Nazionali di Lavoro alla questione dei salari e delle pensioni, dalla questione dirimente della lotta alla precarietà all’iniziativa contro la disoccupazione nel Mezzogiorno, dalla lotta per la casa alla difesa e sviluppo del welfare.
E’ centrale la questione del reddito, a partire dalla difesa del potere di acquisto di salari e pensioni che va tutelato anche attraverso un meccanismo di difesa automatica del valore reale delle retribuzioni e dal tema ineludibile del salario sociale.
Si tratta di terreni decisivi per ricostruire l’unità del mondo del lavoro, tra nord e sud, tra lavoratori pubblici e privati, tra italiani e migranti, e per ricomporre le attuali cesure tra lavoratori garantiti e atipici. Si tratta di declinare queste lotte intrecciandole al conflitto di genere ed alle relazioni intergenerazionali. Solo la ripresa del conflitto di classe può evitare che la guerra tra i poveri prenda piede nel nostro paese, sedimentando razzismo e xenofobia.
Pur nel rispetto dell’autonomia del sindacato, non possiamo che sottolineare la necessità assoluta che vengano superate le logiche concertative che hanno reso impossibile la difesa dei lavoratori e delle fasce a basso reddito. In questo quadro, riaffermando la necessità di una piena autonomia del sindacato da partiti, governo e padronato, auspichiamo la costruzione di una ampia sinistra sindacale che ponga al centro i nodi della democrazia e della ripresa del conflitto. Così come salutiamo positivamente ogni forma di coordinamento e di cooperazione nell’ambito del sindacalismo di base.
Riteniamo opportuno favorire ogni elemento di conflitto dal basso nei luoghi di lavoro, la rinascita di un protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici, l’emergere di momenti di auto-organizzazione, tutti elementi decisivi affinché la battaglia anticoncertativa assuma una dimensione di massa. In questo quadro è necessario un forte investimento nella costruzione della presenza organizzata del partito nei luoghi di lavoro.
Intrecciati con la questione sociale in senso stretto, sono cresciuti nel paese importanti movimenti di lotta su temi decisivi quali la laicità dello Stato, la difesa della Costituzione repubblicana e antifascista, il rilancio della scuola e dell’università pubblica, il diritto alla libertà di orientamento sessuale e la lotta contro ogni forma di discriminazione, omofobia, violenza alle donne e attacco alle loro libertà, al diritto di scelta e di decisione sul loro corpo com’è il tentativo di attacco alla 194 e la legge sulla procreazione assistita, la difesa dell’ambiente su questioni che interessano contesti locali ma pongono problemi generali relativi al modello di sviluppo. Basti pensare alle lotte contro la Tav, contro le grandi opere, contro la proliferazione di inceneritori e rigassificatori. Si deve dare un sostegno attivo a questi movimenti lavorando per una ricomposizione dei conflitti in una strategia globale di trasformazione.
Diritti sociali, civili, ambientali sono per noi le diverse facce di uno stesso progetto: l’alternativa di società.
In questo quadro il VII Congresso del PRC ritiene necessario il lancio di una stagione referendaria sulle questioni della precarietà, della democrazia sui luoghi di lavoro, dell’antiproibizionismo, da gestire con il più vasto schieramento possibile.
4
Il PRC, riprendendo il percorso cominciato a Genova, ribadisce la propria internità al movimento mondiale contro la globalizzazione capitalistica e, in questo quadro, la volontà di intensificare la collaborazione e le relazioni con i partiti comunisti e progressisti, con tutti i movimenti rivoluzionari e le importantissime esperienze latino-americane che si collocano contro le politiche neoliberiste e di guerra, con i popoli in lotta contro l’occupazione militare e per l’autodeterminazione.
In Europa, in particolare, lavora ad un rafforzamento dell’unità delle forze comuniste e di sinistra alternative al Partito Socialista Europeo, sia nell’ambito del Partito della Sinistra Europea sia in quello del Gruppo Parlamentare Europeo della Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica, al quale aderiranno i futuri eletti.
Per questo motivo il Congresso dà mandato agli organismi dirigenti affinché alle prossime elezioni europee siano presentati il simbolo e la lista di Rifondazione Comunista – SE sulla base del programma che sarà definito nel prossimo autunno. Questa decisione si deve accompagnare alla ricerca di convergenze, in occasione delle elezioni europee, tra forze anticapitaliste, comuniste, di sinistra, sulla base di contenuti contrari al progetto di Trattato di Lisbona e all’impostazione neoliberista e di guerra dell’ Unione Europea. Il Congresso ritiene gravissima qualsiasi manomissione della legge elettorale per le europee e impegna tutto il partito a contrastare questo progetto con il massimo di mobilitazione democratica di massa.
In Italia, in vista del prossimo vertice del G8, il PRC si deve impegnare, nelle istanze del movimento contro la globalizzazione, a ricostruire lo schieramento di forze politiche e sociali che condusse la mobilitazione contro il G8 di Genova, senza tacere sulle responsabilità del governo Prodi e sull’accondiscendenza del governo Soru nell’individuazione della sede del vertice in Italia alla Maddalena.
Il PRC deve impegnarsi, nell’ambito del movimento pacifista, in ogni lotta contro le guerre in corso nel mondo, contro la NATO e contro tutte le basi militari straniere, a partire da quella di Vicenza, e deve impegnarsi per il ritiro dei contingenti italiani dai teatri di guerra.
5
Il Congresso ritiene necessario rilanciare il partito e il progetto strategico della rifondazione comunista ed impegna il nuovo gruppo dirigente a promuovere ed incoraggiare un effettivo e pluralistico dibattito politico e teorico che prosegua nel segno dell’innovazione e della ricerca. In questo quadro, la ricerca sul tema della nonviolenza non riguarda per noi un assoluto metafisico ma una pratica di lotta da agire nel conflitto e nella critica del potere.
E’ parimenti necessario rilanciare l’indagine sulla morfologia del capitalismo contemporaneo, allargare il lavoro di inchiesta sulla nuova composizione di classe e sulle forme di organizzazione del conflitto.
Il rilancio del partito è impossibile senza la cura del partito stesso.
Il Congresso impegna il nuovo gruppo dirigente a procedere nella riforma del partito, in particolare mettendo in discussione il carattere monosessuato e separato della politica, muovendo dalle indicazioni emerse dalla Conferenza di Organizzazione di Carrara.
E’ necessario impedire ogni degenerazione del partito in senso leaderistico e plebiscitario ed ogni subordinazione del partito alle rappresentanze istituzionali e ai rapporti verticistici con altre forze politiche.
La gestione unitaria del partito, nel rispetto di eventuali dialettiche interne agli organismi dirigenti a tutti i livelli, deve essere intesa come partecipazione ai processi decisionali e non come mero diritto di critica a decisioni assunte da maggioranze o, peggio ancora, da cerchie ristrette di dirigenti.
La democrazia non è una forma qualsiasi di funzionamento del partito. Non si deve ridurre alla pura dialettica tra diverse posizioni né confondere in alcun modo con forme plebiscitarie di consenso. Il tesseramento deve essere strumento di partecipazione alla vita del partito, al suo progetto politico e alle sue decisioni. Non deve mai ridursi a strumento burocratico di conta interna. La democrazia necessita di partecipazione libera ed informata alla formazione di decisioni circa gli indirizzi politici di fondo e le scelte più importanti. In questo quadro la democrazia di genere è elemento essenziale della trasformazione della società per un mondo in cui eguaglianza e differenza siano elementi fondativi dell’autocostituzione di soggettività critiche, consapevoli, sessuate.
Gli organismi dirigenti a tutti i livelli non devono essere retti da una logica elitaria e devono essere fondati sul principio di responsabilità. La rotazione degli incarichi, la non commistione di incarichi di partito con incarichi istituzionali di governo, il rinnovamento costante degli organismi e il superamento del loro carattere monosessuato, l’introduzione di codici etici relativi ai comportamenti connessi ai privilegi sono obiettivi che il Congresso indica come prioritari al nuovo gruppo dirigente.
Il Congresso impegna infine il nuovo gruppo dirigente a lavorare, con gli strumenti opportuni, al miglioramento della formazione di tutti gli iscritti, dai militanti di base ai dirigenti nazionali”.
Chianciano, 27 Luglio 2008
Odg conclusivo
1
Il Congresso considera chiusa e superata la fase caratterizzata dalla collaborazione organica con il PD nella fallimentare esperienza di governo dell’Unione, dalla presentazione alle elezioni della lista della Sinistra Arcobaleno e dalla sbagliata gestione maggioritaria della direzione del partito.
Il Congresso prende atto che nessuna delle mozioni poste alla base del VII Congresso nazionale del PRC è stata approvata.
Ritiene necessario e prioritario un forte rilancio culturale, politico e organizzativo del Partito della Rifondazione Comunista.
Respinge la proposta della Costituente di sinistra e qualsiasi ipotesi di superamento o confluenza del PRC in un’altra formazione politica. Il tema dell’unità a sinistra rimane un campo aperto di ricerca e sperimentazione, partendo da questa premessa.
2
Il rilancio del PRC deve essere caratterizzato in primo luogo da una svolta a sinistra. L’esperienza di governo dell’Unione ha mostrato l’impossibilità, data la linea del PD e i rapporti di forza esistenti, di un accordo organico per il governo del paese.
La sconfitta delle destre populiste e della politica antioperaia della Confindustria è il nostro obiettivo di fase. A tale fine, la linea neocentrista che caratterizza oggi il Partito Democratico è del tutto inefficace e sarebbe quindi completamente sbagliata la proposta di ricostruzione del centro sinistra; ci ridurrebbe in una collocazione subalterna all’interno di un contesto bipolare.
Al contrario è necessario costruire l’opposizione al governo Berlusconi, intrecciando la questione sociale con quella democratica e morale, in un quadro di autonomia del PRC e di alternatività al progetto strategico del PD.
E’ importante recuperare l’idea che l’opposizione non è una mera collocazione nel quadro politico ma si configura come una fase di ricostruzione, di radicamento e di relazioni sociali, di battaglia culturale e politica. Nella crisi della globalizzazione capitalistica l’alternativa la si costruisce nella lotta sociale e politica contro il governo Berlusconi, i progetti confindustriali e le visioni fondamentaliste e integraliste. Dentro questa prospettiva è indispensabile rafforzare la sinistra di alternativa, avviando una collaborazione fra le diverse soggettività anticapitaliste, comuniste, di sinistra e aggregando le realtà collettive ed individuali che si muovono al di fuori dei partiti politici sui diversi terreni sociali, sindacali e culturali.
3
Il rilancio del PRC parte dalla ripresa dell’iniziativa sociale e politica. La promozione di lotte, la costruzione di vertenze, la ricostruzione dei legami sociali a partire da forme di mutualità, sono indispensabili al fine di qualificare dal punto di vista dell’utilità sociale il ruolo storico dei comunisti e della sinistra. Così come sono elementi necessari per valutare l’efficacia della nostra presenza nelle istituzioni e per ribadire la nostra alterità e intransigente opposizione rispetto alle degenerazioni della politica. Anche in vista delle prossime elezioni amministrative, ferma restando la piena sovranità dei diversi livelli del partito, anche alla luce dell’importanza assunta dai governi locali nel dispiegarsi di politiche di sussidiarietà, privatizzazione e securitarie, è necessario verificare se gli accordi di governo siano coerenti con gli obiettivi generali che il partito si pone in questa fase.
La lotta contro la manovra economica antipopolare del governo delle destre, l’opposizione alle iniziative razziste e discriminatorie contro i migranti e i rom, il contrasto ai progetti di attacco al pubblico impiego e alla pubblica amministrazione, l’opposizione alla controriforma della giustizia e la questione morale, rappresentano terreni decisivi di iniziativa, di mobilitazione e di allargamento di un movimento di massa contro le politiche del governo.
E’ quindi necessario, fin da subito, che il nuovo gruppo dirigente del partito lavori ad ogni possibile forma di coordinamento della sinistra politica, sociale e culturale al fine di mettere in campo la più ampia e forte mobilitazione contro il governo e la Confindustria. In questo quadro è necessario lavorare per la realizzazione di un nuovo 20 ottobre, una grande manifestazione di massa e una campagna politica di autunno che, partendo da quanti diedero vita all’appuntamento dello scorso anno, raccolga nuove forze, in particolare le espressioni di movimento e di lotta. Rientra in questo percorso l’impegno ad organizzare per il prossimo autunno la Conferenza Nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori.
Non è però sufficiente una manifestazione; la ripresa di una iniziativa di lotta, richiede in primo luogo la messa in campo di una forte iniziativa in difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari; dalla difesa dei Contratti Nazionali di Lavoro alla questione dei salari e delle pensioni, dalla questione dirimente della lotta alla precarietà all’iniziativa contro la disoccupazione nel Mezzogiorno, dalla lotta per la casa alla difesa e sviluppo del welfare.
E’ centrale la questione del reddito, a partire dalla difesa del potere di acquisto di salari e pensioni che va tutelato anche attraverso un meccanismo di difesa automatica del valore reale delle retribuzioni e dal tema ineludibile del salario sociale.
Si tratta di terreni decisivi per ricostruire l’unità del mondo del lavoro, tra nord e sud, tra lavoratori pubblici e privati, tra italiani e migranti, e per ricomporre le attuali cesure tra lavoratori garantiti e atipici. Si tratta di declinare queste lotte intrecciandole al conflitto di genere ed alle relazioni intergenerazionali. Solo la ripresa del conflitto di classe può evitare che la guerra tra i poveri prenda piede nel nostro paese, sedimentando razzismo e xenofobia.
Pur nel rispetto dell’autonomia del sindacato, non possiamo che sottolineare la necessità assoluta che vengano superate le logiche concertative che hanno reso impossibile la difesa dei lavoratori e delle fasce a basso reddito. In questo quadro, riaffermando la necessità di una piena autonomia del sindacato da partiti, governo e padronato, auspichiamo la costruzione di una ampia sinistra sindacale che ponga al centro i nodi della democrazia e della ripresa del conflitto. Così come salutiamo positivamente ogni forma di coordinamento e di cooperazione nell’ambito del sindacalismo di base.
Riteniamo opportuno favorire ogni elemento di conflitto dal basso nei luoghi di lavoro, la rinascita di un protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici, l’emergere di momenti di auto-organizzazione, tutti elementi decisivi affinché la battaglia anticoncertativa assuma una dimensione di massa. In questo quadro è necessario un forte investimento nella costruzione della presenza organizzata del partito nei luoghi di lavoro.
Intrecciati con la questione sociale in senso stretto, sono cresciuti nel paese importanti movimenti di lotta su temi decisivi quali la laicità dello Stato, la difesa della Costituzione repubblicana e antifascista, il rilancio della scuola e dell’università pubblica, il diritto alla libertà di orientamento sessuale e la lotta contro ogni forma di discriminazione, omofobia, violenza alle donne e attacco alle loro libertà, al diritto di scelta e di decisione sul loro corpo com’è il tentativo di attacco alla 194 e la legge sulla procreazione assistita, la difesa dell’ambiente su questioni che interessano contesti locali ma pongono problemi generali relativi al modello di sviluppo. Basti pensare alle lotte contro la Tav, contro le grandi opere, contro la proliferazione di inceneritori e rigassificatori. Si deve dare un sostegno attivo a questi movimenti lavorando per una ricomposizione dei conflitti in una strategia globale di trasformazione.
Diritti sociali, civili, ambientali sono per noi le diverse facce di uno stesso progetto: l’alternativa di società.
In questo quadro il VII Congresso del PRC ritiene necessario il lancio di una stagione referendaria sulle questioni della precarietà, della democrazia sui luoghi di lavoro, dell’antiproibizionismo, da gestire con il più vasto schieramento possibile.
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Il PRC, riprendendo il percorso cominciato a Genova, ribadisce la propria internità al movimento mondiale contro la globalizzazione capitalistica e, in questo quadro, la volontà di intensificare la collaborazione e le relazioni con i partiti comunisti e progressisti, con tutti i movimenti rivoluzionari e le importantissime esperienze latino-americane che si collocano contro le politiche neoliberiste e di guerra, con i popoli in lotta contro l’occupazione militare e per l’autodeterminazione.
In Europa, in particolare, lavora ad un rafforzamento dell’unità delle forze comuniste e di sinistra alternative al Partito Socialista Europeo, sia nell’ambito del Partito della Sinistra Europea sia in quello del Gruppo Parlamentare Europeo della Sinistra Unitaria Europea-Sinistra Verde Nordica, al quale aderiranno i futuri eletti.
Per questo motivo il Congresso dà mandato agli organismi dirigenti affinché alle prossime elezioni europee siano presentati il simbolo e la lista di Rifondazione Comunista – SE sulla base del programma che sarà definito nel prossimo autunno. Questa decisione si deve accompagnare alla ricerca di convergenze, in occasione delle elezioni europee, tra forze anticapitaliste, comuniste, di sinistra, sulla base di contenuti contrari al progetto di Trattato di Lisbona e all’impostazione neoliberista e di guerra dell’ Unione Europea. Il Congresso ritiene gravissima qualsiasi manomissione della legge elettorale per le europee e impegna tutto il partito a contrastare questo progetto con il massimo di mobilitazione democratica di massa.
In Italia, in vista del prossimo vertice del G8, il PRC si deve impegnare, nelle istanze del movimento contro la globalizzazione, a ricostruire lo schieramento di forze politiche e sociali che condusse la mobilitazione contro il G8 di Genova, senza tacere sulle responsabilità del governo Prodi e sull’accondiscendenza del governo Soru nell’individuazione della sede del vertice in Italia alla Maddalena.
Il PRC deve impegnarsi, nell’ambito del movimento pacifista, in ogni lotta contro le guerre in corso nel mondo, contro la NATO e contro tutte le basi militari straniere, a partire da quella di Vicenza, e deve impegnarsi per il ritiro dei contingenti italiani dai teatri di guerra.
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Il Congresso ritiene necessario rilanciare il partito e il progetto strategico della rifondazione comunista ed impegna il nuovo gruppo dirigente a promuovere ed incoraggiare un effettivo e pluralistico dibattito politico e teorico che prosegua nel segno dell’innovazione e della ricerca. In questo quadro, la ricerca sul tema della nonviolenza non riguarda per noi un assoluto metafisico ma una pratica di lotta da agire nel conflitto e nella critica del potere.
E’ parimenti necessario rilanciare l’indagine sulla morfologia del capitalismo contemporaneo, allargare il lavoro di inchiesta sulla nuova composizione di classe e sulle forme di organizzazione del conflitto.
Il rilancio del partito è impossibile senza la cura del partito stesso.
Il Congresso impegna il nuovo gruppo dirigente a procedere nella riforma del partito, in particolare mettendo in discussione il carattere monosessuato e separato della politica, muovendo dalle indicazioni emerse dalla Conferenza di Organizzazione di Carrara.
E’ necessario impedire ogni degenerazione del partito in senso leaderistico e plebiscitario ed ogni subordinazione del partito alle rappresentanze istituzionali e ai rapporti verticistici con altre forze politiche.
La gestione unitaria del partito, nel rispetto di eventuali dialettiche interne agli organismi dirigenti a tutti i livelli, deve essere intesa come partecipazione ai processi decisionali e non come mero diritto di critica a decisioni assunte da maggioranze o, peggio ancora, da cerchie ristrette di dirigenti.
La democrazia non è una forma qualsiasi di funzionamento del partito. Non si deve ridurre alla pura dialettica tra diverse posizioni né confondere in alcun modo con forme plebiscitarie di consenso. Il tesseramento deve essere strumento di partecipazione alla vita del partito, al suo progetto politico e alle sue decisioni. Non deve mai ridursi a strumento burocratico di conta interna. La democrazia necessita di partecipazione libera ed informata alla formazione di decisioni circa gli indirizzi politici di fondo e le scelte più importanti. In questo quadro la democrazia di genere è elemento essenziale della trasformazione della società per un mondo in cui eguaglianza e differenza siano elementi fondativi dell’autocostituzione di soggettività critiche, consapevoli, sessuate.
Gli organismi dirigenti a tutti i livelli non devono essere retti da una logica elitaria e devono essere fondati sul principio di responsabilità. La rotazione degli incarichi, la non commistione di incarichi di partito con incarichi istituzionali di governo, il rinnovamento costante degli organismi e il superamento del loro carattere monosessuato, l’introduzione di codici etici relativi ai comportamenti connessi ai privilegi sono obiettivi che il Congresso indica come prioritari al nuovo gruppo dirigente.
Il Congresso impegna infine il nuovo gruppo dirigente a lavorare, con gli strumenti opportuni, al miglioramento della formazione di tutti gli iscritti, dai militanti di base ai dirigenti nazionali”.
Chianciano, 27 Luglio 2008
23.7.08
Produttività, le imprese si sono prese tutta la torta: 87% ai profitti, 13% ai salari
Il Prc ha presentato un dossier dettagliatissimo alla Camera. E' una fotografia di come dal 23 luglio '93 ad oggi sia cresciuta l'ingiustizia salariale. Lo pubblichiamo integralmente
Stefano Bocconetti
(tratto da Liberazione, 23 luglio 2008)
C'è una data simbolo da cui far cominciare i bui, difficili anni '80. E' la sconfitta alla Fiat. Sconfitta sindacale che è ben presto diventata sconfitta politica, sociale, culturale, che ha segnato un intero decennio. Anche oggi si fanno i conti con un'altra sconfitta. Forse ancora più dura, più lacerante. E pure qui, forse, si può far risalire tutto ad una data: il 23 luglio del '93, quindici anni fa esatti. Quando il sindacato, tutto il sindacato - al più con qualche «mal di pancia» - firmò quell'accordo che introdusse il principio della «concertazione». E che cioè le trattative sindacali si potevano fare, ma solo dentro una cornice prefissata. Quella decisa dalle imprese. E si stabilì che il contratto nazionale doveva essere progressivamente svuotato, a favore dei contratti aziendali. Dove, dissero un po' tutti, si sarebbe redistribuita meglio la produttività. Come sono andate davvero le cose? Rifondazione Comunista nei giorni scorsi ha presentato alla Commissione lavoro della Camera dei deputati un dossier dettagliatissimo che contiene una fotografia oggettiva (sulla base di dati ufficiali, dell'Istat e degli altri principali istituti di studi e di statistica) della situazione economica italiana e di come il prezzo della crisi sia stato tutto pagato dai lavoratori dipendenti, e in particolare da alcuni di loro. Nel dossier, che è stato assunto come materiale di lavoro dalla Commissione, è contenuto un pacchetto di proposte molto articolato.
Partiamo dal contratto di lavoro, e dalla scelta di puntare tutto sui contratti aziendali. A conti fatti, è stata tutta una gigantesca bugia. Un'orrenda bugia. Il 95 per cento dei lavoratori non sa neanche cosa sia la contrattazione di fabbrica. Lavora in imprese troppo piccole, dove è consentito ignorare il sindacato aziendale. Non solo, ma anche il sindacato delle grandi fabbriche non ce la fa più. Visto che l'intensità della contrattazione aziendale s'è ridotta anche lì. E di tanto. Ai lavoratori, allora, restava solo il contratto nazionale per difendersi. Restava, al passato. Perché i numeri ci dicono che in appena cinque anni, gli ultimi cinque anni, la perdita del potere di acquisto è, mediamente, attorno a mille e duecentodieci euro. Ogni dipendente ha perso, insomma, uno stipendio all'anno.
Il risultato della crisi economica? No, anche questa è stata un'altra gigantesca bugia. E' stato solo il risultato delle scelte - politiche, economiche - imposte dalla Confindustria nostrana. A tutti i governi. La controprova è in quel che è avvenuto nel resto d'Europa. Nell'area dell'euro, le retribuzioni sono cresciute, nello stesso periodo, mediamente del dieci per cento, in Francia del 15, in Germania del cinque.
E dove sono finiti allora gli aumenti di produttività? Sono qui forse le cifre più spaventose, la fotografia del disastro. Quel disastro che il voto del 12 aprile si è limitato a fotografare. Dal 2003 al 2006, la produttività è cresciuta del 16,7 per cento. Non sono ritmi da Cina ma siamo da quelle parti. Bene, di questa crescita gigantesca, al lavoro è andato il tredici per cento, nulla. Alle imprese l'87. Ogni cento euro di ricchezza in più, ottantasette se le sono intascate le aziende. La lotta di classe c'è stata insomma. Solo che l'hanno vinta loro, le imprese. Ecco perché in cinque anni, i lavoratori hanno perso uno stipendio. Che diventa di più se ci si mettono anche i seicento euro di mancata restituzione del fiscal drag. Ecco perché un milione e settecentomila giovani - e in questa categoria rientra anche chi ha 34 anni - è «povero». Ufficialmente «povero», visto che questa è la definizione che usa anche l'Istat.
Resta da chiedersi due cose. Oggi in Parlamento c'è un'opposizione ufficiale che ha teorizzato e teorizza la fine dei conflitti nel lavoro. Veltroni quando esordì da segretario del piddì al Lingotto disse che non era più tempo di ideologie novecentesche, disse che gli interessi dell'impresa e dei lavoratori ormai coincidevano. Entrambi uniti dalla richiesta di maggior sviluppo. Loro, però, si sono presi l'87 per cento delle risorse. Ed è facile proporre una «tregua» quando si è preso tutto. L'altra domanda è davvero molto generica. Generica esattamente però come tanti commenti che si leggono qui e là sull'esaurimento del ruolo della sinistra. C'è chi arrivato addirittura a teorizzarne il superamento, l'inutilità. Discorsi da editoriali. Perché c'è una sinistra che, certo, paga il prezzo di non essere stata più capace di parlare alla sua gente. Ma di sinistra c'è bisogno. Lo dicono i numeri. E' poco ma è abbastanza per ricominciare.
Dal 1993 ad oggi a fronte di un'inflazione media annua del 3,2%, le retribuzioni contrattuali sono cresciute in media solo del 2,7%.
C'è uno scarto tra inflazione programmata e reale e, quindi, una perdita secca del potere d'acquisto dei salari.
Calcolo della perdita cumulata del potere d'acquisto tra il 2002 e il 2007
I confronti internazionali
La bassa crescita delle retribuzioni in Italia si rende ancora più evidente se confrontata con quella dei maggiori paesi europei. Come si vede dalla Tabella , dal 1998 al 2006, cioè nel periodo dell'ingresso nell'Area-euro, le retribuzioni di fatto reali nel nostro paese sono rimaste sostanzialmente stabili, mentre negli altri paesi si registravano tassi di crescita nettamente superiori: il 10% in media nell'area dell'euro, oltre il 15% in Francia e nel Regno Unito, il 5% in Germania, nonostante il sostanziale congelamento salariale degli anni 2000.
Retribuzioni Lorde di fatto Reali- Industria manifatturiera - Valuta Nazionale
(deflazionate con il Deflatore dei Consumi Privati)
I giovani
Ad aggravare la questione salariale e ad abbassare il livello delle retribuzioni medie e del loro
tasso di crescita c'è la questione giovanile. Proprio su quest'ultimo tema le nostre rilevazioni ci dicono che:
a) un apprendista, in età compresa tra i 15 e i 24 anni, guadagna mediamente 737 euro netti mensili;
b) un collaboratore occasionale, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 769 euro netti mensili;
c) un co.co.pro. o co.co.co, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 899 euro netti mensili.
Anche secondo le ultime rilevazioni Istat, 1 milione 678mila giovani, in età compresa tra i 18 e i 34 anni (13,7%) sono poveri. Se il giovane è capofamiglia o coniuge, è in condizione di povertà relativa il 12,9%; il 45,8% se vive in coppia con tre o più figli. Le giovani coppie con figli a carico hanno un reddito medio annuo lordo di 26.540 euro, ma nel 32% dei casi si collocano nel primo quinto della distribuzione dei redditi (meno di 10mila euro). Il 41,3% delle coppie giovani senza figli, con un solo reddito, appartiene al primo quinto della distribuzione del reddito (meno di 10mila euro).
Le nuove disuguaglianze
Divisione della produttività tra salari e profitti
Nel periodo 1993-2006, su 16,7 punti percentuali di crescita di produttività in Italia, in termini reali, al lavoro sono andati solo 2,2, cioè secondo dati Istat il 13% della produttività è andato al lavoro e l'87% alle imprese.
Nell'industria in senso stretto, cioè nelle grandi e medie imprese del campione Mediobanca, i profitti netti per dipendente (redditività operativa + redditività finanziaria ordinaria, al netto delle imposte) nel periodo 1995 (indice 100) - 2006 hanno avuto la seguente evoluzione:
variazione media annua dei profitti netti per dipendente = + 8,1%
variazione media annua retribuzioni per dipendente = + 0,4 %
Nelle 1400 grandi imprese dell'industria del campione Mediobanca, dal 1995 al 2006, i profitti hanno registrato un + 89,5%, mentre, sempre nello stesso periodo i salari hanno registrato un + 4,8%.
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SETTORE METALMECCANICO (INDUSTRIA)
IMPIEGATO 5° LIVELLO
14.385,64 : 13 = 1106,58 netto mensile
SETTORE COMMERCIO
OPERAIO 5° LIVELLO
13.584,42 : 13 = 1044,95
SETTORE COMMERCIO
IMPIEGATO 3° LIVELLO
15.470 : 13 = 1.190,00 netto mensile
SETTORE DELLA SCUOLA
ASSISTENTE AMMINISTRATIVO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
13.896,6 : 13 = 1.068,96 netto mensile
SETTORE DELLA SCUOLA
DOCENTE DIPLOMATO ISTITUTO SECONDARIO II GRADO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
16.362,4 : 12 = 1.363,5 netto mensile
SETTORE SANITA' PUBBLICA
OPERATORE TECNICO ASSISTENZIALE
13.482,39 : 13 = 1.037,10 netto mensile
SETTORE SANITA' PUBBLICA
ASSISTENTE TECNICO
15.097,3 : 13 = 1.161,33 netto mensile
SALARI AL NORD E AL SUD DEL PAESE
Nel dibattito odierno è tornata prepotentemente in auge la questione della gabbie salariali.
Le gabbie salariali erano il meccanismo vigente in Italia fino al 1969, che differenziava i livelli salariali, su base regionale, rendendoli minori al Sud rispetto al Nord, sulla base del concetto per cui, con mercati locali dei beni e dei servizi ancora relativamente poco integrati, il costo della vita fosse più basso al Sud, e che a questo dovesse corrispondere un minore livello salariale nominale. Nel 1969 le gabbie salariali vennero abolite. C'è un dato che non si può negare: grazie all'azione della contrattazione di secondo livello - presente al Nord e quasi del tutto assente al Sud - i salari odierni restano sensibilmente differenziati. I dati dell'Istat indicano che il costo del lavoro per dipendente nell'industria in senso stretto nel Mezzogiorno è circa l'81% del valore del Centro-Nord.
C'è chi sostiene, però, che anche i prezzi sono decisamente diversi tra il Nord e il Sud del paese. Questa affermazione viene smentita sempre dall'Istat, secondo cui la variazione dei prezzi nelle città mostra che la dinamica inflattiva nell'ultimo decennio (dati febbraio 2008, base 1998=100) è stata molto omogenea nel paese. Questo dice chiaramente che le variazioni sono del tutto simili; anzi, se l'indice Italia è 123,4, a Napoli è 126,2 (seconda dopo Torino) e a Firenze 119,6 (ultima).
Il 28 maggio 2008 è stato presentato il rapporto annuale dell'Istat, da cui emerge che il reddito pro capite dei cittadini italiani è crollato del 13% rispetto ai paesi dell'Unione Europea e la disparità dei redditi tocca picchi che non hanno eguali in Europa.
Sempre secondo l'Istituto di ricerca, il 28% dei nuclei familiari non riesce a far fronte ad una spesa imprevista, il 66,1% non è in grado di risparmiare, il 34,7% ha seri problemi a far quadrare il bilancio domestico. Su questo quadro inquietante intervengono pesantemente le rate dei muti che arrivano ad incidere sul bilancio in media 559 euro (il 19,2% contro il 16% dello scorso anno).
Anche il rapporto annuale dell'Istat segna un paese diviso in due: il reddito medio mensile delle famiglie italiane è di 2.513 euro al Nord, di 2.458 euro al centro, di 1.921 euro al Sud.
Anche per questo assistiamo oggi a una massiccia nuova immigrazione dal Sud al Nord del paese.
Il 10 luglio del 2007, l'Ansa descrive così il Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno: « L'emigrazione dal Sud torna ai livelli degli anni 60. Lo rileva il rapporto annuale Svimez indicando che "nel 2004, in base agli ultimi dati disponibili, sono stati circa 270mila i trasferimenti dal Sud al Nord (stabili 120mila e temporanei 150mila)". "Numeri molto elevati, se si pensa che negli anni di massima intensità migratoria 1961-63 la quota raggiunse i 295mila". Dati che preoccupano anche perché "la prevalente emigrazione di giovani meridionali scolarizzati, inoltre, depaupera ulteriormente le possibilità di sviluppo dell'area". Sono invece "stabili i trasferimenti Nord-Sud, fermi intorno alle 60mila unità e poco sensibili all'evoluzione dell'economia". Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, si legge nel rapporto Svimez, "restano le tre regioni preferite dai nuovi emigranti. L'emigrato tipo ha tra i 25-29 anni , quasi la metà ha un titolo di studio medio-alto (diploma superiore il 36,3% e laurea il 13,1%)". Hanno lasciato la Campania in 38mila, la Sicilia in 28,6mila, la Puglia in 21,5mila, la Calabria in 17,8mila. Tanti, circa 151mila, anche "i pendolari di lungo raggio che nel 2006 si sono spostati dalle aree d'origine. Circa il 60% ha meno di 35 anni. Nel 50% dei casi i pendolari svolgono al Centro-Nord professioni di livello elevato e nel 38% mansioni di livello intermedio, a conferma del fatto che il sistema produttivo meridionale si conferma incapace ad assorbire l'offerta di lavoro più qualificata". »
2008: 8 MILIONI DI LAVORATORI CON IL CONTRATTO SCADUTO
All'inizio del 2008 i lavoratori senza contratto erano circa 10 milioni. Ad oggi, dopo la sigla del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici (1,5 milioni di dipendenti) dei lavoratori del settore gas e luce, degli edili, dei tessili i contratti scaduti interessano circa 8 milioni di dipendenti.
CONTRATTI RINNOVATI 1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008
I CONTRATTI DA RINNOVARE
TRATTAMENTI ECONOMICI PER I PRINCIPALI CONTRATTI RINNOVATI
1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008
Come di evince dai dati, l'aumento medio a regime derivante dai contratti nazionali di lavoro è di circa 100 euro lordi (ad eccezione del credito). Tolte le trattenute fiscali e i contributi previdenziali, gli aumenti netti sono di circa 65 euro mensili, scaglionati in più tranches.
E' evidente che si tratta di incrementi assolutamente inadeguati a recuperare il potere d'acquisto dei salari.
C'è poi un problema che riguarda il ritardo a volte clamoroso con cui spesso si rinnovano i contratti, sia nel pubblico che nel privato (è significativo l'esempio del contratto dei lavoratori del settore tessile artigiano, scaduto nel 2000 e rinnovato otto anni dopo).
Per questo è indispensabile che gli aumenti salariali vengano calcolati a partire dal giorno successivo la data di scadenza del contratto (indipendentemente da quando viene rinnovato) e che vengano stabiliti sulla base di indici che consentano il recupero del potere d'acquisto dei salari e prevedano la redistribuzione di una parte della ricchezza prodotta.
E' il contrario di ciò che propone Confindustria, che mira a ridurre il salario contrattato a livello nazionale generando un gigantesco problema sociale.
LA CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO
CONTRATTAZIONE AZIENDALE
La struttura contrattuale disegnata dall'accordo del 23 luglio 1993 assegna un ruolo potenzialmente rilevante, anche per la determinazione del salario, alla contrattazione di secondo livello.
Purtroppo, però, la stragrande maggioranza dei lavoratori beneficia solo del contratto nazionale.
Questo dipende in parte dalla classe dimensionale della imprese italiane. Il 95% delle aziende, infatti, ha tra 1 e 9 addetti: in queste realtà non esiste contrattazione di secondo livello.
Sulla diffusione della contrattazione aziendale le informazioni sono scarse e frammentate, non esistono rilevazioni ufficiali, salvo quelle condotte a cadenza irregolare dall'Istat e dalla Banca d'Italia su un campione di aziende manifatturiere sopra i 50 addetti e alcune analisi del Cnel.
Il Rapporto del Cnel, che ha preso in esame le principali tendenze della contrattazione tra il 1998 e il 2006, evidenzia una flessione dell'intensità della contrattazione.
La tendenza al declino si manifesta sia nelle imprese di dimensioni maggiori, quelle che hanno più di 1000 dipendenti, che per quelle minori (quelle che hanno tra i 100 e i 999 dipendenti), mentre è praticamente inesistente nelle piccole aziende.
Per i diversi settori presi in esame si evidenziano delle punte massime di intensità di contrattazione in corrispondenza alle stagioni di rinnovo della contrattazione integrativa - nel 2000 e nel 2004 per i metalmeccanici; nel 1998 e nel 2002 per gli alimentaristi; nel 2000 e nel 2003 per la chimica - ma sempre restando all'interno di una tendenza alla flessione dell'intensità della contrattazione.
Mentre attorno al 1998 le aziende dove è stata fatta contrattazione di secondo livello varia tra il 20% e il 30%, nel 2006 la percentuale non supera il 15%.
Su una flessione di queste proporzioni hanno influito sia le difficoltà di ordine economico che le difficoltà delle relazioni industriali che hanno prodotto uno slittamento delle stagioni di contrattazione integrativa dal momento che le parti sociali erano impegnate ad affrontare le pesanti ristrutturazioni e le corpose delocalizzazioni all'estero che hanno caratterizzato il periodo.
Oltre alla diffusione, c'è il merito della contrattazione: secondo l'Istat la grande maggioranza degli accordi sottoscritti riguarda voci retributive: nel settore privato la contrattazione aziendale ha implicato effetti sul salario per quasi l'80% dei dipendenti interessati agli accordi.
Sul salario influiscono i premi di risultato. Dall'indagine emerge che l'incidenza media del premio di risultato (il più delle volte variabile) sul complesso della retribuzione lorda è di circa il 3%.
CONTRATTAZIONE TERRITORIALE
Un rapporto del Cnel ci permette di fare una analisi della contrattazione territoriale.
Tra il 1996 e il 2003 gli accordi territoriali sottoscritti sono stati 571.
Il rapporto evidenzia uno scarto tra Nord, Centro e Sud del Paese: più della metà dei contratti territoriali (il 55%) è concentrata al Nord, mentre al Centro sono stati stipulati il 23% dei contratti e al Sud il 22%.
La contrattazione territoriale è diffusa nei settori dell'edilizia (38%) e nell'agricoltura (31%).
Nel comparto dell'artigianato i contratti siglati corrispondono al 18% e nell'area del commercio e del turismo all'8%.
Nell'industria la contrattazione territoriale è pressoché inesistente.
I dati (571 accordi in 7 anni) ci dicono che quello della contrattazione territoriale è un fenomeno non generalizzato.
LE PROPOSTE DI RIFONDAZIONE
Il 23 luglio del 1993 venne siglato il protocollo sulla politica dei redditi che, dopo la liquidazione della scala mobile, inaugurava una nuova stagione di relazioni tra le parti caratterizzata dalla "concertazione".
Di quell'intesa, tuttora in vigore, - che aveva tra i suoi obiettivi la crescita dei salari legata anche alla produttività e alla ricchezza prodotta - oggi è possibile fare un bilancio. Un bilancio assolutamente negativo: le retribuzioni da lavoro dipendente hanno perso oltre dieci punti percentuali a favore dei profitti e delle rendite, che hanno subito un'impennata senza precedenti.
Negli ultimi anni, lo spostamento dai salari alle rendite della ricchezza prodotta ha introdotto nel nostro paese una nuova "categoria": la lavoratrice e il lavoratore poveri.
Contemporaneamente, secondo la Banca d'Italia, nel nostro paese, il 10% delle famiglie detiene circa il 50% della ricchezza nazionale e i guadagni dei dirigenti e dei manager sono 120 volte quelli medi.
La questione salariale del lavoro dipendente si fa dirompente perché alla miseria delle retribuzioni va sommata l'impennata vertiginosa dei prezzi e delle tariffe, lo scandaloso aumento degli affitti e dei mutui, la riduzione dello stato sociale che costringe le lavoratrici e i lavoratori ad "acquistare" dal privato beni e servizi (a partire da quelli sanitari).
In questo quadro in Italia si sta discutendo di riforma del modello contrattuale, in un contesto anche "geografico" assai diverso rispetto al luglio del 1993: l'Europa unita che emana leggi e direttive che i governi nazionali hanno l'obbligo di recepire.
Senza nulla togliere alla necessità di mantenere e rafforzare i contratti nazionali di lavoro e la contrattazione di secondo livello, a nostro avviso è indispensabile ragionare su scala europea.
Per questo suggeriamo alle parti sociali di attivare le rispettive organizzazioni a livello europeo (che a nostro avviso vanno fortemente sburocratizzate) per la definizione di un "contratto europeo".
Per noi il contratto europeo:
deve stabilire sul salario soglie minime sotto le quali non è possibile andare e sull'orario tetti massimi, in modo da impedire la concorrenza al ribasso tra lavoratori, aziende, aree geografiche.
Individuiamo nella semplificazione del numero dei contratti un'altra esigenza, quindi, proponiamo di avviare un percorso che porti alla ricomposizione delle centinaia di contratti nazionali oggi esistenti.
Per noi i contratti nazionali:
possono essere tre, uno per ogni grande area: industria, servizi, pubblica amministrazione.
A una rinnovata e più efficace contrattazione va affiancata una politica fiscale più equa.
Per noi il contratto nazionale di lavoro:
può avere durata triennale;
deve rafforzare il suo carattere solidale e universale, definendo minimi salariali e di diritti non derogabili da altri livelli contrattuali e da applicare su tutto il territorio nazionale;
deve avere l'obiettivo di incrementare il valore reale delle retribuzioni e di ridistribuire parte della ricchezza prodotta;
deve contenere un meccanismo automatico annuale per il recupero del potere d'acquisto dei salari in relazione all'inflazione reale (l'indice Istat sui prodotti ad altra frequenza d'acquisto, dagli alimentari agli affitti, segna per il 2008 il 5.4% )
deve essere rinnovato alla scadenza prevista e deve contenere come clausola che gli aumenti definiti devono essere erogati tenendo come data di riferimento quella della scadenza e non del rinnovo.
Per noi la contrattazione di secondo livello:
può essere aziendale, di sito, di filiera o territoriale (fermo restando i due livelli);
deve essere estesa, generalizzata, esigibile;
deve poter intervenire su tutti gli elementi che compongono la prestazione lavorativa (organizzazione del lavoro, ritmi, orari) e sul salario i cui aumenti non devono avere carattere totalmente variabile;
non può in alcuna materia derogare a quanto previsto dal contratto nazionale;
deve avere una validità che copra l'arco di vigenza del contratto nazionale.
Per noi la politica fiscale:
deve prevedere la riduzione della pressione fiscale utilizzando anche le risorse provenienti dalla lotta all'evasione che - secondo dati apparsi sul Sole24Ore, sulla base dei nuovi valori Istat sull'economia sommersa - nel 2007 corrisponde da un minimo di 89 e un massimo di 100 miliardi. Sono dati che ripropongono le dimensioni minime e massime dell'economia sommersa, che stanno secondo l'Istat tra il 15,3% e il 16,9% del Pil. L'imposta più aggirata è l'Irpef che si attesta tra un minimo di 24,5 e un massimo di 27,6 miliardi non versati. Per ridurre di circa 100 euro al mese le tasse sul lavoro per 16 milioni di lavoratori dipendenti servono circa 15-16 miliardi di euro;
deve reintrodurre il fiscal drag;
deve detassare gli aumenti contrattuali;
deve prevedere la riduzione delle aliquote fiscali sul lavoro dipendente e sulle pensioni basse;
deve prevedere l'aumento al 20% (in Europa è al 23%) della tassazione delle grandi rendite finanziare e delle stock option, salvaguardando i piccoli patrimoni familiari;
devono introdurre il controllo dei prezzi, delle tariffe e delle addizionali locali.
Per noi servono nuove relazioni tra le parti
I problemi strutturali che rendono debole il sistema delle imprese sono legati:
alla dimensione delle aziende (il 95% delle quali ha meno di 9 dipendenti);
alla sottocapitolazione delle aziende;
alla pressoché totale assenza di investimenti in ricerca e innovazione sia di prodotto che di processo;
all'assenza di strutture finanziarie e istituzionali in grado di favorire l'esportazione dei prodotti del made in italy;
A questi elementi, sommati a una ripresa dell'inflazione di circa il 4% e ai clamorosi aumenti del prezzo del petrolio (che porteranno a rincari di prezzi e tariffe che decurteranno ulteriormente il potere d'acquisto dei salari), il Ministro del Lavoro risponde con misure che danneggiano sia i lavoratori che il sistema delle imprese.
La scelta di "rilanciare" la precarietà (ad esempio cancellando il tetto massimo di 36 mesi oltre al quale i lavoratori devono essere assunti a tempo indeterminato e reintroducendo il lavoro a chiamata) oltre a vanificare le poche azioni positive del precedente Governo, non risponde al principio secondo il quale una impresa per essere competitiva nei segmenti a medio e altro valore aggiunto ha bisogno di lavoratori stabili, formati, professionalizzati, motivati.
Dal punto di vista delle relazioni sindacali quello che propone il Ministro è il ritorno al passato: la cancellazione dell'autonomia dei lavoratori e delle loro organizzazioni e un modello di impresa sempre più piccola e frammentata, ossia l'esatto opposto di ciò che servirebbe oggi.
Per competere nelle fasce alte del mercato proponiamo:
la sburocratizzazione delle procedure;
un diverso accesso al credito;
incentivi alla crescita dimensionale e qualitativa delle aziende, alla ricerca e all'innovazione;
rapporti a tempo indeterminato e formazione continua per i lavoratori.
Per nuove relazioni tra le parti:
serve una legge sulla rappresentanza e sulla democrazia sindacale che consenta anche ai delegati dei lavoratori di intervenire nei luoghi dove si discutono e decidono i piani industriali e le strategie delle imprese, permettendo un confronto preventivo basato sulla conoscenza dei processi di trasformazione. E' necessario tanto più oggi, di fronte alle grandi ristrutturazioni che si preparano (da Alitalia a Telecom, all'intero settore degli elettrodomestici).
CONCLUSIONI
I dati sull'evoluzione dei salari e dei profitti dal 1993 al 2007, le cifre relative alla paga mensile netta dei lavoratori dipendenti dei quattro grandi comparti che abbiamo utilizzato come esempio, la comparazione dei salari italiani rispetto al resto d'Europa, le grandi differenze tra Nord e Sud del paese, quelle tra uomini e donne e tra giovani e meno giovani, l'analisi sui rinnovi dei contratti nazionali di lavoro e sulla contrattazione di secondo livello, ci portano ad una serie di considerazioni finali.
La prima rende paradossale l'idea proposta da alcuni per cui ad un ridimensionamento del contratto nazionale corrisponderebbe un aumento della contrattazione di secondo livello.
I dati dicono il contrario: ad un contratto nazionale sempre più debole nel recupero del potere d'acquisto ha corrisposto, nei quindici anni trascorsi, una riduzione quantitativa (in relazione sia al numero di aziende che al numero dei lavoratori coinvolti) della contrattazione di secondo livello.
La seconda. Il fallimento dei propositi redistributivi dell'accordo del luglio 1993 attraverso una contrattazione aziendale con salario variabile.
La terza. La debolezza dei contratti nazionali di lavoro, che hanno a riferimento un indice di inflazione diverso da quello reale, a colmare la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni.
La quarta. La contrattazione aziendale di secondo livello, date anche le ridotte dimensioni della stragrande maggioranza delle imprese italiane, deve essere esigibile.
Di fronte a questi dati di realtà appare evidente la necessità di innovare il modello contrattuale scaturito dall'accordo del luglio 1993 rafforzando la funzione del contratto nazionale. L'idea di indebolirlo ulteriormente e di demandare al secondo livello la contrattazione di diritti universali e del salario, proprio per la difficoltà ad esercitare questa pratica appare strumentale all' impostazione che ha già prodotto molti danni: rispondere all'incapacità innovativa delle imprese italiane facendo leva su un unico, ormai incomprimibile elemento, il salario.
Per queste ragioni riteniamo che a una questione dirompente come quella salariale vada data risposta già dai prossimi mesi.
Stefano Bocconetti
(tratto da Liberazione, 23 luglio 2008)
C'è una data simbolo da cui far cominciare i bui, difficili anni '80. E' la sconfitta alla Fiat. Sconfitta sindacale che è ben presto diventata sconfitta politica, sociale, culturale, che ha segnato un intero decennio. Anche oggi si fanno i conti con un'altra sconfitta. Forse ancora più dura, più lacerante. E pure qui, forse, si può far risalire tutto ad una data: il 23 luglio del '93, quindici anni fa esatti. Quando il sindacato, tutto il sindacato - al più con qualche «mal di pancia» - firmò quell'accordo che introdusse il principio della «concertazione». E che cioè le trattative sindacali si potevano fare, ma solo dentro una cornice prefissata. Quella decisa dalle imprese. E si stabilì che il contratto nazionale doveva essere progressivamente svuotato, a favore dei contratti aziendali. Dove, dissero un po' tutti, si sarebbe redistribuita meglio la produttività. Come sono andate davvero le cose? Rifondazione Comunista nei giorni scorsi ha presentato alla Commissione lavoro della Camera dei deputati un dossier dettagliatissimo che contiene una fotografia oggettiva (sulla base di dati ufficiali, dell'Istat e degli altri principali istituti di studi e di statistica) della situazione economica italiana e di come il prezzo della crisi sia stato tutto pagato dai lavoratori dipendenti, e in particolare da alcuni di loro. Nel dossier, che è stato assunto come materiale di lavoro dalla Commissione, è contenuto un pacchetto di proposte molto articolato.
Partiamo dal contratto di lavoro, e dalla scelta di puntare tutto sui contratti aziendali. A conti fatti, è stata tutta una gigantesca bugia. Un'orrenda bugia. Il 95 per cento dei lavoratori non sa neanche cosa sia la contrattazione di fabbrica. Lavora in imprese troppo piccole, dove è consentito ignorare il sindacato aziendale. Non solo, ma anche il sindacato delle grandi fabbriche non ce la fa più. Visto che l'intensità della contrattazione aziendale s'è ridotta anche lì. E di tanto. Ai lavoratori, allora, restava solo il contratto nazionale per difendersi. Restava, al passato. Perché i numeri ci dicono che in appena cinque anni, gli ultimi cinque anni, la perdita del potere di acquisto è, mediamente, attorno a mille e duecentodieci euro. Ogni dipendente ha perso, insomma, uno stipendio all'anno.
Il risultato della crisi economica? No, anche questa è stata un'altra gigantesca bugia. E' stato solo il risultato delle scelte - politiche, economiche - imposte dalla Confindustria nostrana. A tutti i governi. La controprova è in quel che è avvenuto nel resto d'Europa. Nell'area dell'euro, le retribuzioni sono cresciute, nello stesso periodo, mediamente del dieci per cento, in Francia del 15, in Germania del cinque.
E dove sono finiti allora gli aumenti di produttività? Sono qui forse le cifre più spaventose, la fotografia del disastro. Quel disastro che il voto del 12 aprile si è limitato a fotografare. Dal 2003 al 2006, la produttività è cresciuta del 16,7 per cento. Non sono ritmi da Cina ma siamo da quelle parti. Bene, di questa crescita gigantesca, al lavoro è andato il tredici per cento, nulla. Alle imprese l'87. Ogni cento euro di ricchezza in più, ottantasette se le sono intascate le aziende. La lotta di classe c'è stata insomma. Solo che l'hanno vinta loro, le imprese. Ecco perché in cinque anni, i lavoratori hanno perso uno stipendio. Che diventa di più se ci si mettono anche i seicento euro di mancata restituzione del fiscal drag. Ecco perché un milione e settecentomila giovani - e in questa categoria rientra anche chi ha 34 anni - è «povero». Ufficialmente «povero», visto che questa è la definizione che usa anche l'Istat.
Resta da chiedersi due cose. Oggi in Parlamento c'è un'opposizione ufficiale che ha teorizzato e teorizza la fine dei conflitti nel lavoro. Veltroni quando esordì da segretario del piddì al Lingotto disse che non era più tempo di ideologie novecentesche, disse che gli interessi dell'impresa e dei lavoratori ormai coincidevano. Entrambi uniti dalla richiesta di maggior sviluppo. Loro, però, si sono presi l'87 per cento delle risorse. Ed è facile proporre una «tregua» quando si è preso tutto. L'altra domanda è davvero molto generica. Generica esattamente però come tanti commenti che si leggono qui e là sull'esaurimento del ruolo della sinistra. C'è chi arrivato addirittura a teorizzarne il superamento, l'inutilità. Discorsi da editoriali. Perché c'è una sinistra che, certo, paga il prezzo di non essere stata più capace di parlare alla sua gente. Ma di sinistra c'è bisogno. Lo dicono i numeri. E' poco ma è abbastanza per ricominciare.
Dal 1993 ad oggi a fronte di un'inflazione media annua del 3,2%, le retribuzioni contrattuali sono cresciute in media solo del 2,7%.
C'è uno scarto tra inflazione programmata e reale e, quindi, una perdita secca del potere d'acquisto dei salari.
Calcolo della perdita cumulata del potere d'acquisto tra il 2002 e il 2007
I confronti internazionali
La bassa crescita delle retribuzioni in Italia si rende ancora più evidente se confrontata con quella dei maggiori paesi europei. Come si vede dalla Tabella , dal 1998 al 2006, cioè nel periodo dell'ingresso nell'Area-euro, le retribuzioni di fatto reali nel nostro paese sono rimaste sostanzialmente stabili, mentre negli altri paesi si registravano tassi di crescita nettamente superiori: il 10% in media nell'area dell'euro, oltre il 15% in Francia e nel Regno Unito, il 5% in Germania, nonostante il sostanziale congelamento salariale degli anni 2000.
Retribuzioni Lorde di fatto Reali- Industria manifatturiera - Valuta Nazionale
(deflazionate con il Deflatore dei Consumi Privati)
I giovani
Ad aggravare la questione salariale e ad abbassare il livello delle retribuzioni medie e del loro
tasso di crescita c'è la questione giovanile. Proprio su quest'ultimo tema le nostre rilevazioni ci dicono che:
a) un apprendista, in età compresa tra i 15 e i 24 anni, guadagna mediamente 737 euro netti mensili;
b) un collaboratore occasionale, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 769 euro netti mensili;
c) un co.co.pro. o co.co.co, in età compresa tra i 15 e i 34 anni, guadagna mediamente 899 euro netti mensili.
Anche secondo le ultime rilevazioni Istat, 1 milione 678mila giovani, in età compresa tra i 18 e i 34 anni (13,7%) sono poveri. Se il giovane è capofamiglia o coniuge, è in condizione di povertà relativa il 12,9%; il 45,8% se vive in coppia con tre o più figli. Le giovani coppie con figli a carico hanno un reddito medio annuo lordo di 26.540 euro, ma nel 32% dei casi si collocano nel primo quinto della distribuzione dei redditi (meno di 10mila euro). Il 41,3% delle coppie giovani senza figli, con un solo reddito, appartiene al primo quinto della distribuzione del reddito (meno di 10mila euro).
Le nuove disuguaglianze
Divisione della produttività tra salari e profitti
Nel periodo 1993-2006, su 16,7 punti percentuali di crescita di produttività in Italia, in termini reali, al lavoro sono andati solo 2,2, cioè secondo dati Istat il 13% della produttività è andato al lavoro e l'87% alle imprese.
Nell'industria in senso stretto, cioè nelle grandi e medie imprese del campione Mediobanca, i profitti netti per dipendente (redditività operativa + redditività finanziaria ordinaria, al netto delle imposte) nel periodo 1995 (indice 100) - 2006 hanno avuto la seguente evoluzione:
variazione media annua dei profitti netti per dipendente = + 8,1%
variazione media annua retribuzioni per dipendente = + 0,4 %
Nelle 1400 grandi imprese dell'industria del campione Mediobanca, dal 1995 al 2006, i profitti hanno registrato un + 89,5%, mentre, sempre nello stesso periodo i salari hanno registrato un + 4,8%.
Paga mensile netta
SETTORE METALMECCANICO (INDUSTRIA)
OPERAIO 3°LIVELLO
13.204,18 : 13 = 1015,70 netto mensile
SETTORE METALMECCANICO (INDUSTRIA)
IMPIEGATO 5° LIVELLO
14.385,64 : 13 = 1106,58 netto mensile
SETTORE COMMERCIO
OPERAIO 5° LIVELLO
13.584,42 : 13 = 1044,95
SETTORE COMMERCIO
IMPIEGATO 3° LIVELLO
15.470 : 13 = 1.190,00 netto mensile
SETTORE DELLA SCUOLA
ASSISTENTE AMMINISTRATIVO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
13.896,6 : 13 = 1.068,96 netto mensile
SETTORE DELLA SCUOLA
DOCENTE DIPLOMATO ISTITUTO SECONDARIO II GRADO CON ANZIANITÀ DA 9 A 14 ANNI
16.362,4 : 12 = 1.363,5 netto mensile
SETTORE SANITA' PUBBLICA
OPERATORE TECNICO ASSISTENZIALE
13.482,39 : 13 = 1.037,10 netto mensile
SETTORE SANITA' PUBBLICA
ASSISTENTE TECNICO
15.097,3 : 13 = 1.161,33 netto mensile
SALARI AL NORD E AL SUD DEL PAESE
Nel dibattito odierno è tornata prepotentemente in auge la questione della gabbie salariali.
Le gabbie salariali erano il meccanismo vigente in Italia fino al 1969, che differenziava i livelli salariali, su base regionale, rendendoli minori al Sud rispetto al Nord, sulla base del concetto per cui, con mercati locali dei beni e dei servizi ancora relativamente poco integrati, il costo della vita fosse più basso al Sud, e che a questo dovesse corrispondere un minore livello salariale nominale. Nel 1969 le gabbie salariali vennero abolite. C'è un dato che non si può negare: grazie all'azione della contrattazione di secondo livello - presente al Nord e quasi del tutto assente al Sud - i salari odierni restano sensibilmente differenziati. I dati dell'Istat indicano che il costo del lavoro per dipendente nell'industria in senso stretto nel Mezzogiorno è circa l'81% del valore del Centro-Nord.
C'è chi sostiene, però, che anche i prezzi sono decisamente diversi tra il Nord e il Sud del paese. Questa affermazione viene smentita sempre dall'Istat, secondo cui la variazione dei prezzi nelle città mostra che la dinamica inflattiva nell'ultimo decennio (dati febbraio 2008, base 1998=100) è stata molto omogenea nel paese. Questo dice chiaramente che le variazioni sono del tutto simili; anzi, se l'indice Italia è 123,4, a Napoli è 126,2 (seconda dopo Torino) e a Firenze 119,6 (ultima).
Il 28 maggio 2008 è stato presentato il rapporto annuale dell'Istat, da cui emerge che il reddito pro capite dei cittadini italiani è crollato del 13% rispetto ai paesi dell'Unione Europea e la disparità dei redditi tocca picchi che non hanno eguali in Europa.
Sempre secondo l'Istituto di ricerca, il 28% dei nuclei familiari non riesce a far fronte ad una spesa imprevista, il 66,1% non è in grado di risparmiare, il 34,7% ha seri problemi a far quadrare il bilancio domestico. Su questo quadro inquietante intervengono pesantemente le rate dei muti che arrivano ad incidere sul bilancio in media 559 euro (il 19,2% contro il 16% dello scorso anno).
Anche il rapporto annuale dell'Istat segna un paese diviso in due: il reddito medio mensile delle famiglie italiane è di 2.513 euro al Nord, di 2.458 euro al centro, di 1.921 euro al Sud.
Anche per questo assistiamo oggi a una massiccia nuova immigrazione dal Sud al Nord del paese.
Il 10 luglio del 2007, l'Ansa descrive così il Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno: « L'emigrazione dal Sud torna ai livelli degli anni 60. Lo rileva il rapporto annuale Svimez indicando che "nel 2004, in base agli ultimi dati disponibili, sono stati circa 270mila i trasferimenti dal Sud al Nord (stabili 120mila e temporanei 150mila)". "Numeri molto elevati, se si pensa che negli anni di massima intensità migratoria 1961-63 la quota raggiunse i 295mila". Dati che preoccupano anche perché "la prevalente emigrazione di giovani meridionali scolarizzati, inoltre, depaupera ulteriormente le possibilità di sviluppo dell'area". Sono invece "stabili i trasferimenti Nord-Sud, fermi intorno alle 60mila unità e poco sensibili all'evoluzione dell'economia". Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, si legge nel rapporto Svimez, "restano le tre regioni preferite dai nuovi emigranti. L'emigrato tipo ha tra i 25-29 anni , quasi la metà ha un titolo di studio medio-alto (diploma superiore il 36,3% e laurea il 13,1%)". Hanno lasciato la Campania in 38mila, la Sicilia in 28,6mila, la Puglia in 21,5mila, la Calabria in 17,8mila. Tanti, circa 151mila, anche "i pendolari di lungo raggio che nel 2006 si sono spostati dalle aree d'origine. Circa il 60% ha meno di 35 anni. Nel 50% dei casi i pendolari svolgono al Centro-Nord professioni di livello elevato e nel 38% mansioni di livello intermedio, a conferma del fatto che il sistema produttivo meridionale si conferma incapace ad assorbire l'offerta di lavoro più qualificata". »
2008: 8 MILIONI DI LAVORATORI CON IL CONTRATTO SCADUTO
All'inizio del 2008 i lavoratori senza contratto erano circa 10 milioni. Ad oggi, dopo la sigla del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici (1,5 milioni di dipendenti) dei lavoratori del settore gas e luce, degli edili, dei tessili i contratti scaduti interessano circa 8 milioni di dipendenti.
CONTRATTI RINNOVATI 1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008
I CONTRATTI DA RINNOVARE
TRATTAMENTI ECONOMICI PER I PRINCIPALI CONTRATTI RINNOVATI
1 GENNAIO 2007 - 30 GIUGNO 2008
Come di evince dai dati, l'aumento medio a regime derivante dai contratti nazionali di lavoro è di circa 100 euro lordi (ad eccezione del credito). Tolte le trattenute fiscali e i contributi previdenziali, gli aumenti netti sono di circa 65 euro mensili, scaglionati in più tranches.
E' evidente che si tratta di incrementi assolutamente inadeguati a recuperare il potere d'acquisto dei salari.
C'è poi un problema che riguarda il ritardo a volte clamoroso con cui spesso si rinnovano i contratti, sia nel pubblico che nel privato (è significativo l'esempio del contratto dei lavoratori del settore tessile artigiano, scaduto nel 2000 e rinnovato otto anni dopo).
Per questo è indispensabile che gli aumenti salariali vengano calcolati a partire dal giorno successivo la data di scadenza del contratto (indipendentemente da quando viene rinnovato) e che vengano stabiliti sulla base di indici che consentano il recupero del potere d'acquisto dei salari e prevedano la redistribuzione di una parte della ricchezza prodotta.
E' il contrario di ciò che propone Confindustria, che mira a ridurre il salario contrattato a livello nazionale generando un gigantesco problema sociale.
LA CONTRATTAZIONE DI SECONDO LIVELLO
CONTRATTAZIONE AZIENDALE
La struttura contrattuale disegnata dall'accordo del 23 luglio 1993 assegna un ruolo potenzialmente rilevante, anche per la determinazione del salario, alla contrattazione di secondo livello.
Purtroppo, però, la stragrande maggioranza dei lavoratori beneficia solo del contratto nazionale.
Questo dipende in parte dalla classe dimensionale della imprese italiane. Il 95% delle aziende, infatti, ha tra 1 e 9 addetti: in queste realtà non esiste contrattazione di secondo livello.
Sulla diffusione della contrattazione aziendale le informazioni sono scarse e frammentate, non esistono rilevazioni ufficiali, salvo quelle condotte a cadenza irregolare dall'Istat e dalla Banca d'Italia su un campione di aziende manifatturiere sopra i 50 addetti e alcune analisi del Cnel.
Il Rapporto del Cnel, che ha preso in esame le principali tendenze della contrattazione tra il 1998 e il 2006, evidenzia una flessione dell'intensità della contrattazione.
La tendenza al declino si manifesta sia nelle imprese di dimensioni maggiori, quelle che hanno più di 1000 dipendenti, che per quelle minori (quelle che hanno tra i 100 e i 999 dipendenti), mentre è praticamente inesistente nelle piccole aziende.
Per i diversi settori presi in esame si evidenziano delle punte massime di intensità di contrattazione in corrispondenza alle stagioni di rinnovo della contrattazione integrativa - nel 2000 e nel 2004 per i metalmeccanici; nel 1998 e nel 2002 per gli alimentaristi; nel 2000 e nel 2003 per la chimica - ma sempre restando all'interno di una tendenza alla flessione dell'intensità della contrattazione.
Mentre attorno al 1998 le aziende dove è stata fatta contrattazione di secondo livello varia tra il 20% e il 30%, nel 2006 la percentuale non supera il 15%.
Su una flessione di queste proporzioni hanno influito sia le difficoltà di ordine economico che le difficoltà delle relazioni industriali che hanno prodotto uno slittamento delle stagioni di contrattazione integrativa dal momento che le parti sociali erano impegnate ad affrontare le pesanti ristrutturazioni e le corpose delocalizzazioni all'estero che hanno caratterizzato il periodo.
Oltre alla diffusione, c'è il merito della contrattazione: secondo l'Istat la grande maggioranza degli accordi sottoscritti riguarda voci retributive: nel settore privato la contrattazione aziendale ha implicato effetti sul salario per quasi l'80% dei dipendenti interessati agli accordi.
Sul salario influiscono i premi di risultato. Dall'indagine emerge che l'incidenza media del premio di risultato (il più delle volte variabile) sul complesso della retribuzione lorda è di circa il 3%.
CONTRATTAZIONE TERRITORIALE
Un rapporto del Cnel ci permette di fare una analisi della contrattazione territoriale.
Tra il 1996 e il 2003 gli accordi territoriali sottoscritti sono stati 571.
Il rapporto evidenzia uno scarto tra Nord, Centro e Sud del Paese: più della metà dei contratti territoriali (il 55%) è concentrata al Nord, mentre al Centro sono stati stipulati il 23% dei contratti e al Sud il 22%.
La contrattazione territoriale è diffusa nei settori dell'edilizia (38%) e nell'agricoltura (31%).
Nel comparto dell'artigianato i contratti siglati corrispondono al 18% e nell'area del commercio e del turismo all'8%.
Nell'industria la contrattazione territoriale è pressoché inesistente.
I dati (571 accordi in 7 anni) ci dicono che quello della contrattazione territoriale è un fenomeno non generalizzato.
LE PROPOSTE DI RIFONDAZIONE
Il 23 luglio del 1993 venne siglato il protocollo sulla politica dei redditi che, dopo la liquidazione della scala mobile, inaugurava una nuova stagione di relazioni tra le parti caratterizzata dalla "concertazione".
Di quell'intesa, tuttora in vigore, - che aveva tra i suoi obiettivi la crescita dei salari legata anche alla produttività e alla ricchezza prodotta - oggi è possibile fare un bilancio. Un bilancio assolutamente negativo: le retribuzioni da lavoro dipendente hanno perso oltre dieci punti percentuali a favore dei profitti e delle rendite, che hanno subito un'impennata senza precedenti.
Negli ultimi anni, lo spostamento dai salari alle rendite della ricchezza prodotta ha introdotto nel nostro paese una nuova "categoria": la lavoratrice e il lavoratore poveri.
Contemporaneamente, secondo la Banca d'Italia, nel nostro paese, il 10% delle famiglie detiene circa il 50% della ricchezza nazionale e i guadagni dei dirigenti e dei manager sono 120 volte quelli medi.
La questione salariale del lavoro dipendente si fa dirompente perché alla miseria delle retribuzioni va sommata l'impennata vertiginosa dei prezzi e delle tariffe, lo scandaloso aumento degli affitti e dei mutui, la riduzione dello stato sociale che costringe le lavoratrici e i lavoratori ad "acquistare" dal privato beni e servizi (a partire da quelli sanitari).
In questo quadro in Italia si sta discutendo di riforma del modello contrattuale, in un contesto anche "geografico" assai diverso rispetto al luglio del 1993: l'Europa unita che emana leggi e direttive che i governi nazionali hanno l'obbligo di recepire.
Senza nulla togliere alla necessità di mantenere e rafforzare i contratti nazionali di lavoro e la contrattazione di secondo livello, a nostro avviso è indispensabile ragionare su scala europea.
Per questo suggeriamo alle parti sociali di attivare le rispettive organizzazioni a livello europeo (che a nostro avviso vanno fortemente sburocratizzate) per la definizione di un "contratto europeo".
Per noi il contratto europeo:
deve stabilire sul salario soglie minime sotto le quali non è possibile andare e sull'orario tetti massimi, in modo da impedire la concorrenza al ribasso tra lavoratori, aziende, aree geografiche.
Individuiamo nella semplificazione del numero dei contratti un'altra esigenza, quindi, proponiamo di avviare un percorso che porti alla ricomposizione delle centinaia di contratti nazionali oggi esistenti.
Per noi i contratti nazionali:
possono essere tre, uno per ogni grande area: industria, servizi, pubblica amministrazione.
A una rinnovata e più efficace contrattazione va affiancata una politica fiscale più equa.
Per noi il contratto nazionale di lavoro:
può avere durata triennale;
deve rafforzare il suo carattere solidale e universale, definendo minimi salariali e di diritti non derogabili da altri livelli contrattuali e da applicare su tutto il territorio nazionale;
deve avere l'obiettivo di incrementare il valore reale delle retribuzioni e di ridistribuire parte della ricchezza prodotta;
deve contenere un meccanismo automatico annuale per il recupero del potere d'acquisto dei salari in relazione all'inflazione reale (l'indice Istat sui prodotti ad altra frequenza d'acquisto, dagli alimentari agli affitti, segna per il 2008 il 5.4% )
deve essere rinnovato alla scadenza prevista e deve contenere come clausola che gli aumenti definiti devono essere erogati tenendo come data di riferimento quella della scadenza e non del rinnovo.
Per noi la contrattazione di secondo livello:
può essere aziendale, di sito, di filiera o territoriale (fermo restando i due livelli);
deve essere estesa, generalizzata, esigibile;
deve poter intervenire su tutti gli elementi che compongono la prestazione lavorativa (organizzazione del lavoro, ritmi, orari) e sul salario i cui aumenti non devono avere carattere totalmente variabile;
non può in alcuna materia derogare a quanto previsto dal contratto nazionale;
deve avere una validità che copra l'arco di vigenza del contratto nazionale.
Per noi la politica fiscale:
deve prevedere la riduzione della pressione fiscale utilizzando anche le risorse provenienti dalla lotta all'evasione che - secondo dati apparsi sul Sole24Ore, sulla base dei nuovi valori Istat sull'economia sommersa - nel 2007 corrisponde da un minimo di 89 e un massimo di 100 miliardi. Sono dati che ripropongono le dimensioni minime e massime dell'economia sommersa, che stanno secondo l'Istat tra il 15,3% e il 16,9% del Pil. L'imposta più aggirata è l'Irpef che si attesta tra un minimo di 24,5 e un massimo di 27,6 miliardi non versati. Per ridurre di circa 100 euro al mese le tasse sul lavoro per 16 milioni di lavoratori dipendenti servono circa 15-16 miliardi di euro;
deve reintrodurre il fiscal drag;
deve detassare gli aumenti contrattuali;
deve prevedere la riduzione delle aliquote fiscali sul lavoro dipendente e sulle pensioni basse;
deve prevedere l'aumento al 20% (in Europa è al 23%) della tassazione delle grandi rendite finanziare e delle stock option, salvaguardando i piccoli patrimoni familiari;
devono introdurre il controllo dei prezzi, delle tariffe e delle addizionali locali.
Per noi servono nuove relazioni tra le parti
I problemi strutturali che rendono debole il sistema delle imprese sono legati:
alla dimensione delle aziende (il 95% delle quali ha meno di 9 dipendenti);
alla sottocapitolazione delle aziende;
alla pressoché totale assenza di investimenti in ricerca e innovazione sia di prodotto che di processo;
all'assenza di strutture finanziarie e istituzionali in grado di favorire l'esportazione dei prodotti del made in italy;
A questi elementi, sommati a una ripresa dell'inflazione di circa il 4% e ai clamorosi aumenti del prezzo del petrolio (che porteranno a rincari di prezzi e tariffe che decurteranno ulteriormente il potere d'acquisto dei salari), il Ministro del Lavoro risponde con misure che danneggiano sia i lavoratori che il sistema delle imprese.
La scelta di "rilanciare" la precarietà (ad esempio cancellando il tetto massimo di 36 mesi oltre al quale i lavoratori devono essere assunti a tempo indeterminato e reintroducendo il lavoro a chiamata) oltre a vanificare le poche azioni positive del precedente Governo, non risponde al principio secondo il quale una impresa per essere competitiva nei segmenti a medio e altro valore aggiunto ha bisogno di lavoratori stabili, formati, professionalizzati, motivati.
Dal punto di vista delle relazioni sindacali quello che propone il Ministro è il ritorno al passato: la cancellazione dell'autonomia dei lavoratori e delle loro organizzazioni e un modello di impresa sempre più piccola e frammentata, ossia l'esatto opposto di ciò che servirebbe oggi.
Per competere nelle fasce alte del mercato proponiamo:
la sburocratizzazione delle procedure;
un diverso accesso al credito;
incentivi alla crescita dimensionale e qualitativa delle aziende, alla ricerca e all'innovazione;
rapporti a tempo indeterminato e formazione continua per i lavoratori.
Per nuove relazioni tra le parti:
serve una legge sulla rappresentanza e sulla democrazia sindacale che consenta anche ai delegati dei lavoratori di intervenire nei luoghi dove si discutono e decidono i piani industriali e le strategie delle imprese, permettendo un confronto preventivo basato sulla conoscenza dei processi di trasformazione. E' necessario tanto più oggi, di fronte alle grandi ristrutturazioni che si preparano (da Alitalia a Telecom, all'intero settore degli elettrodomestici).
CONCLUSIONI
I dati sull'evoluzione dei salari e dei profitti dal 1993 al 2007, le cifre relative alla paga mensile netta dei lavoratori dipendenti dei quattro grandi comparti che abbiamo utilizzato come esempio, la comparazione dei salari italiani rispetto al resto d'Europa, le grandi differenze tra Nord e Sud del paese, quelle tra uomini e donne e tra giovani e meno giovani, l'analisi sui rinnovi dei contratti nazionali di lavoro e sulla contrattazione di secondo livello, ci portano ad una serie di considerazioni finali.
La prima rende paradossale l'idea proposta da alcuni per cui ad un ridimensionamento del contratto nazionale corrisponderebbe un aumento della contrattazione di secondo livello.
I dati dicono il contrario: ad un contratto nazionale sempre più debole nel recupero del potere d'acquisto ha corrisposto, nei quindici anni trascorsi, una riduzione quantitativa (in relazione sia al numero di aziende che al numero dei lavoratori coinvolti) della contrattazione di secondo livello.
La seconda. Il fallimento dei propositi redistributivi dell'accordo del luglio 1993 attraverso una contrattazione aziendale con salario variabile.
La terza. La debolezza dei contratti nazionali di lavoro, che hanno a riferimento un indice di inflazione diverso da quello reale, a colmare la perdita di potere d'acquisto delle retribuzioni.
La quarta. La contrattazione aziendale di secondo livello, date anche le ridotte dimensioni della stragrande maggioranza delle imprese italiane, deve essere esigibile.
Di fronte a questi dati di realtà appare evidente la necessità di innovare il modello contrattuale scaturito dall'accordo del luglio 1993 rafforzando la funzione del contratto nazionale. L'idea di indebolirlo ulteriormente e di demandare al secondo livello la contrattazione di diritti universali e del salario, proprio per la difficoltà ad esercitare questa pratica appare strumentale all' impostazione che ha già prodotto molti danni: rispondere all'incapacità innovativa delle imprese italiane facendo leva su un unico, ormai incomprimibile elemento, il salario.
Per queste ragioni riteniamo che a una questione dirompente come quella salariale vada data risposta già dai prossimi mesi.
13.7.08
Il congresso di Rifondazione e l'esigenza di discontinuità
"Ma chi te lo ha fatto fare?" E' questa la domanda che mi sento rivolgere da tanti amici a proposito della mia recente scelta, per i più incomprensibile, di aderire al Prc dopo la disfatta elettorale di aprile. Certo, quel che sta avvenendo nei circoli, con i brogli sul tesseramento, le truppe cammellate e i veleni che scuotono la più elementare solidarietà tra compagni, non è per nulla entusiasmante. Ma non ha senso meravigliarsene, né serve a molto scandalizzarsi: bisogna capire.
Il fatto è che la sconfitta elettorale ha scoperchiato una pentola già da tempo in ebollizione. L'ha scoperchiata perché ha messo allo scoperto i difetti e gli errori da lungo tempo imposti al partito da un gruppo dirigente irresponsabile. E adesso questo gruppo dirigente non vuole in alcun modo prendere atto del suo fallimento, anzi è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo e a imporre qualsiasi prezzo pur di non farsi da parte e di non lasciarsi sfuggire il controllo di un partito che considera una sua proprietà privata e un suo strumento di convenienza.
La logica è nota, avendocela descritta nei dettagli già un secolo fa il sociologo tedesco Michels. E' la logica delle oligarchie (oggi diremmo dei ceti politici), cioè di quelle leadership di professionisti della politica che, nate da una necessaria funzione di rappresentanza, a un certo punto finiscono per anteporre i propri interessi di casta a quelli della propria base sociale di riferimento, abbandonando l'ideologia alternativa originaria in favore di politiche sempre più moderate e istituzionalizzate. Ma quel che è peggio e che costituisce una novità relativamente recente è che le diverse oligarchie di partito tendono ormai a entrare in rapporti di collusione tra loro, avendo sviluppato uno spirito di categoria ben più forte del mandato rappresentativo. Di qui le ondate antipolitiche che aggrediscono tutti i ceti politici, senza distinzione, anche e a maggior ragione quelli della sinistra alternativa.
E' inutile girarci intorno: sta qui la causa determinante di quel crollo di consensi le cui dimensioni non a caso nessuno aveva previsto. Infatti, è vero, come emerge dal dibattito congressuale, che la sconfitta ha a che vedere con le scelte politiche e le strategie che il partito ha adottato in questi ultimi anni (dall'alleanza di centrosinistra alla coalizione dell'Arcobaleno), così come affonda indubbiamente le sue radici in trasformazioni sociali e politiche di più ampio respiro. Ma queste ragioni non possono spiegare, né da sole né sommate tra loro, e nemmeno se associate con fattori sistemici come la legge elettorale e la bipolarizzazione della competizione, un tracollo senza precedenti nella storia dei comportamenti elettorali. Per spiegarlo, bisogna avere il coraggio di fare i conti con la degenerazione oligarchica da cui il partito è stato investito, contribuendo a indebolire la sua capacità rappresentativa e la sua vita democratica ed esponendolo così all'urto dell'antipolitica.
Forse non sarà un destino inevitabile, come riteneva Michels, ma la storia del movimento operaio è tutta drammaticamente segnata da questo fenomeno. E nessuno ha ancora trovato la ricetta per sottrarvisi. Tutto quel quel che si può fare per contrastarla, cosa che di solito diventa appunto possibile solo nel momento in cui il partito viene trascinato sull'orlo della rovina, è realizzare dei chiari atti di discontinuità. Su tre versanti. Innanzitutto, andrebbe sostituito il gruppo dirigente, almeno nel suo nucleo di vertice maggiormente responsabile della gestione passata. Poi si dovrebbe compiere una svolta netta nella linea politica, non soltanto per quanto riguarda le tattiche, le alleanze e i posizionamenti all'interno del sistema politico ma anche sul terreno delle priorità strategiche e programmatiche, cioè in funzione degli attori e degli interessi (nonché dei valori) sociali da rappresentare. Infine, sono le stesse modalità correnti di funzionamento del partito, tanto nella sua vita interna quanto nella sua prassi verso l'esterno, che andrebbero rimesse in discussione e rinnovate profondamente.
Ecco, sono questi gli atti che avrei auspicato nel momento in cui ho scelto di aderire al partito. Anzi, se mi ero deciso a questo passo, su cui pure avevo indugiato per anni, era proprio perché ritenevo che per la prima volta la sconfitta elettorale, per quanto drammatica e densa di rischi, aprisse l'opportunità per liberarsi finalmente di quegli orientamenti che almeno dal 2004 in poi si erano imposti nel partito. Ma, come spesso avviene in politica, le scelte soggettive e collettive non necessariamente corrispondono ai migliori auspici, per quanto illuminati, e neppure alla logica che ci si aspetterebbe da un organismo vitale. Infatti, quello che sembra profilarsi, piuttosto che la discontinuità, è il trionfo del peggiore gattopardismo. Non solo sul versante del gruppo dirigente, dove il ricorso al suo esponente più credibile in quanto meno compromesso nella gestione recente del partito serve evidentemente da ombrello per tutti gli altri, ma anche sugli altri due versanti. Perché da una vittoria della mozione bertinottiana non c'è da attendersi sostanziali ripensamenti rispetto alla prospettiva già avviata di superamento dell'identità e dell'autonomia del partito e di smantellamento del suo carattere organizzato e democratico. Ma allora è proprio vero che non valeva la pena di impegnarsi in Rifondazione in questo momento e che non ci può importare niente del suo congresso? La risposta l'avremo solo alla conclusione del congresso, o meglio nei mesi successivi, quando i nodi torneranno inevitabilmente al pettine. Spero solo che a quel punto non sia troppo tardi, e che ci sia ancora un partito. Ma fare in modo che ci sia è un compito che spetta alle energie sane e responsabili che in Rifondazione non mancano, e sono quelle che ne fanno l'unica forza politica in grado di tenere aperta l'ipotesi di un'alternativa nella società italiana.
Enrico Melchionda
Il fatto è che la sconfitta elettorale ha scoperchiato una pentola già da tempo in ebollizione. L'ha scoperchiata perché ha messo allo scoperto i difetti e gli errori da lungo tempo imposti al partito da un gruppo dirigente irresponsabile. E adesso questo gruppo dirigente non vuole in alcun modo prendere atto del suo fallimento, anzi è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo e a imporre qualsiasi prezzo pur di non farsi da parte e di non lasciarsi sfuggire il controllo di un partito che considera una sua proprietà privata e un suo strumento di convenienza.
La logica è nota, avendocela descritta nei dettagli già un secolo fa il sociologo tedesco Michels. E' la logica delle oligarchie (oggi diremmo dei ceti politici), cioè di quelle leadership di professionisti della politica che, nate da una necessaria funzione di rappresentanza, a un certo punto finiscono per anteporre i propri interessi di casta a quelli della propria base sociale di riferimento, abbandonando l'ideologia alternativa originaria in favore di politiche sempre più moderate e istituzionalizzate. Ma quel che è peggio e che costituisce una novità relativamente recente è che le diverse oligarchie di partito tendono ormai a entrare in rapporti di collusione tra loro, avendo sviluppato uno spirito di categoria ben più forte del mandato rappresentativo. Di qui le ondate antipolitiche che aggrediscono tutti i ceti politici, senza distinzione, anche e a maggior ragione quelli della sinistra alternativa.
E' inutile girarci intorno: sta qui la causa determinante di quel crollo di consensi le cui dimensioni non a caso nessuno aveva previsto. Infatti, è vero, come emerge dal dibattito congressuale, che la sconfitta ha a che vedere con le scelte politiche e le strategie che il partito ha adottato in questi ultimi anni (dall'alleanza di centrosinistra alla coalizione dell'Arcobaleno), così come affonda indubbiamente le sue radici in trasformazioni sociali e politiche di più ampio respiro. Ma queste ragioni non possono spiegare, né da sole né sommate tra loro, e nemmeno se associate con fattori sistemici come la legge elettorale e la bipolarizzazione della competizione, un tracollo senza precedenti nella storia dei comportamenti elettorali. Per spiegarlo, bisogna avere il coraggio di fare i conti con la degenerazione oligarchica da cui il partito è stato investito, contribuendo a indebolire la sua capacità rappresentativa e la sua vita democratica ed esponendolo così all'urto dell'antipolitica.
Forse non sarà un destino inevitabile, come riteneva Michels, ma la storia del movimento operaio è tutta drammaticamente segnata da questo fenomeno. E nessuno ha ancora trovato la ricetta per sottrarvisi. Tutto quel quel che si può fare per contrastarla, cosa che di solito diventa appunto possibile solo nel momento in cui il partito viene trascinato sull'orlo della rovina, è realizzare dei chiari atti di discontinuità. Su tre versanti. Innanzitutto, andrebbe sostituito il gruppo dirigente, almeno nel suo nucleo di vertice maggiormente responsabile della gestione passata. Poi si dovrebbe compiere una svolta netta nella linea politica, non soltanto per quanto riguarda le tattiche, le alleanze e i posizionamenti all'interno del sistema politico ma anche sul terreno delle priorità strategiche e programmatiche, cioè in funzione degli attori e degli interessi (nonché dei valori) sociali da rappresentare. Infine, sono le stesse modalità correnti di funzionamento del partito, tanto nella sua vita interna quanto nella sua prassi verso l'esterno, che andrebbero rimesse in discussione e rinnovate profondamente.
Ecco, sono questi gli atti che avrei auspicato nel momento in cui ho scelto di aderire al partito. Anzi, se mi ero deciso a questo passo, su cui pure avevo indugiato per anni, era proprio perché ritenevo che per la prima volta la sconfitta elettorale, per quanto drammatica e densa di rischi, aprisse l'opportunità per liberarsi finalmente di quegli orientamenti che almeno dal 2004 in poi si erano imposti nel partito. Ma, come spesso avviene in politica, le scelte soggettive e collettive non necessariamente corrispondono ai migliori auspici, per quanto illuminati, e neppure alla logica che ci si aspetterebbe da un organismo vitale. Infatti, quello che sembra profilarsi, piuttosto che la discontinuità, è il trionfo del peggiore gattopardismo. Non solo sul versante del gruppo dirigente, dove il ricorso al suo esponente più credibile in quanto meno compromesso nella gestione recente del partito serve evidentemente da ombrello per tutti gli altri, ma anche sugli altri due versanti. Perché da una vittoria della mozione bertinottiana non c'è da attendersi sostanziali ripensamenti rispetto alla prospettiva già avviata di superamento dell'identità e dell'autonomia del partito e di smantellamento del suo carattere organizzato e democratico. Ma allora è proprio vero che non valeva la pena di impegnarsi in Rifondazione in questo momento e che non ci può importare niente del suo congresso? La risposta l'avremo solo alla conclusione del congresso, o meglio nei mesi successivi, quando i nodi torneranno inevitabilmente al pettine. Spero solo che a quel punto non sia troppo tardi, e che ci sia ancora un partito. Ma fare in modo che ci sia è un compito che spetta alle energie sane e responsabili che in Rifondazione non mancano, e sono quelle che ne fanno l'unica forza politica in grado di tenere aperta l'ipotesi di un'alternativa nella società italiana.
Enrico Melchionda