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Melchionda: Gramsci e il partito

di Enrico Melchionda

Il grande fascino di Gramsci - che, malgrado i tentativi degli anni cinquanta e sessanta, non lo ha mai ridotto a un mito politico alla Che Guevara - sta nella complessita', nelle ambiguita', nell'apertura della sua ricerca. E va attribuita in gran parte alla temperie storica (oltre che personale, di "un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata") in cui si svolge la sua riflessione. Il drammatico passaggio degli anni venti-trenta incide profondamente su entrambe le personalita' intellettuali di Gramsci, sullo scienziato politico e sul dirigente comunista (come per Machiavelli, anche per lui "bisogna distinguere... tra scienziato della politica e politico in atto"), risparmiandolo dalla schizofrenia e rendendo ardua una netta separazione. Il tema su cui questa commistione si segnala con piu' acutezza e' quello del partito politico. Un tema, ovviamente, centrale in tutte le fasi della sua esperienza: nella militanza socialista, nell'Ordine Nuovo, nella formazione del Pcd'I e nell'ultimo doloroso decennio. E forse ancora piu' centrale nell'uso e nella ricezione successiva del pensiero gramsciano: non solo nell'edificazione del paradigma togliattista, di cui il "partito nuovo" e' stato un architrave, ma anche nelle sue interpretazioni critiche. Naturalmente, non e' questa la sede per una ricostruzione accurata. Ne' possiamo rincorrere le innumerevoli suggestioni presenti nei Quaderni. Limitiamoci a considerare invece alcune parti, forse tra le piu' mature, della teoria gramsciana del partito e l'impiego e la lettura che se ne puo' fare oggi (che beninteso, per definizione, non e' l'unica possibile).
Innanzitutto, e' bene precisare che nel caso del partito politico, del "moderno principe", cosi' come in altri momenti della riflessione di Gramsci, il naufragio dell'accezione prescrittiva (e di discussioni obsolete sul suo rapporto con le impostazioni leniniste, luxemburghiane o bordighiste) non trascina con se' anche l'accezione descrittiva. Non offusca cioe' il notevole valore scientifico del suo contributo, che e' messo bene in risalto dal confronto con la scienza politica della sua epoca, la quale peraltro muoveva allora i suoi primi passi "come scienza autonoma" (e quindi dovrebbe legittimamente collocare il pensatore sardo nell'albo dei suoi fondatori). Misurandosi con le omissioni e le "deficienze" di Mosca, con le classificazioni "superficiali e sommarie" di Michels e con le robuste intuizioni di Weber, Gramsci aveva raggiunto la piena consapevolezza del ruolo e del carattere che stava assumendo l'istituzione-partito nel passaggio alla politica di massa dei primi decenni del Novecento. Qui - in un parallelismo con l'autore di Economia e societa' che non finisce mai di sorprendere - il fenomeno della trasformazione dei partiti di e'lite in partiti di massa e' collegato non solo con la storia politico-istituzionale (la crisi del parlamentarismo) delle societa' europee ma anche con la razionalizzazione capitalistica (la "rivoluzione fordiana") anticipata dagli Stati Uniti. Dei partiti si intravede insomma anche la nuova funzione democratica, nel contesto di una "fase storica legata alla standardizzazione di grandi masse". Da questo punto di vista, la metafora del moderno principe sta per "regime dei partiti" (oggi diremmo partitocrazia), laddove l'attore partito "a differenza che nel diritto costituzionale tradizionale ne' regna ne' governa giuridicamente" ma ha "il potere di fatto". Ecco che cosa vuol dire per Gramsci che i partiti, a meno che non siano espressione di un blocco storico anticapitalistico, sono apparati egemonici, organi di creazione e diffusione del consenso, parte importante di quel "complesso formidabile di trincee e fortificazioni" che servono a preservare l'ordine esistente.
Alla luce di questa straordinaria scoperta scientifica, risultano assai devianti certe banalizzazioni ed estrapolazioni della teoria gramsciana, tra cui quella che vorrebbe ridurre economicisticamente i partiti a "nomenclatura delle classi". In realta', l'espressione e' usata nei Quaderni proprio per rettificarla (linguisticamente, come controgiunzione). Il fatto e' che Gramsci sa benissimo che i partiti, quando sono espressioni di determinate classi, rappresentano piuttosto gli interessi deboli e i comportamenti devianti. Normalmente, le classi dominanti non hanno un partito proprio, ma "si servono a volta a volta di tutti i partiti esistenti", e le stesse classi subalterne lasciate a se stesse tendono a rimanere su un terreno puramente "economico-corporativo", mentre avrebbero piu' che mai bisogno di un partito disciplinato e di massa per trascendere la propria spontaneita'. Non solo.
Gramsci coglieva il carattere fluido della rappresentanza partitica: "Per i partiti... e' sempre possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come propria necessita', o esistano invece solo per interesse altrui". A questo tema si puo' ricollegare la nozione gramsciana di trasformismo, inteso come processo di incorporazione-integrazione dei partiti, dei gruppi dirigenti o di singoli leader della sinistra nel campo moderato o comunque sotto l'egemonia della classe dominante (ma c'e' anche un trasformismo degli intellettuali attratti dal socialismo romantico). Ad essa si puo' quindi ricondurre il fenomeno del riformismo e il giudizio di Gramsci sul Psi, visto come un "conglomerato di partiti" e un "facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi" per cui si dovrebbe parlare non di socialismo ma di "sinistra borghese" e di "liberalismo democratico". Il problema della fluidita' della rappresentanza non tocca pero' soltanto la sinistra moderata ma anche un partito antagonista. Infatti Gramsci, al pari di altri dirigenti comunisti eterodossi, era ossessionato dal problema della burocratizzazione. La sua accettazione realistica della divisione dirigenti-diretti all'interno dello stesso partito proletario non gli impediva infatti di intravedere il pericolo della sua degenerazione oligarchica. Insomma, anche in questo caso, come per il partito socialista, affiorava la preoccupazione che i dirigenti potessero cristallizzarsi come classe politica separata. Preoccupazione piu' che legittima, di fronte a quel che si stava gia' profilando in Unione Sovietica. Ma legittima, piu' in generale, di fronte all'evoluzione successiva dei partiti nelle democrazie mature, fino alla loro crisi presente.
Nel prendere in esame la crisi dei partiti, la ricerca politologica contemporanea piu' avvertita - a differenza delle descrizioni correnti, che oscillano tra scenari apocalittici e minimizzanti - ha richiamato l'attenzione su due ordini di fenomeni. Si e' osservato, da una parte, un processo di statalizzazione dei partiti, a cui corrisponde la cristallizzazione di un vero e proprio ceto politico autoreferenziale, e, dall'altra, un processo di mediatizzazione della politica che, accanto a una sua personalizzazione e professionalizzazione, implica per i partiti sostanziose contrazioni di ruolo, profondi adattamenti organizzativi e preoccupanti segnali di distacco dell'opinione pubblica. Alla luce di questi sviluppi, la teoria gramsciana sul partito offre suggerimenti (non solo suggestioni) teorici e analitici preziosi. In particolare, la sua originale prospettiva scientifica, basata sulla nozione di egemonia e sulla concezione degli intellettuali, sembra assai promettente per la comprensione del legame che si e' andato istituendo tra i partiti e l'apparato statale, del declino della loro funzione rappresentativa e della loro capacita' di "elaborare" classi dirigenti, oltre che - naturalmente - per la ricerca in merito alla strategia controegemonica delle classi subalterne. A completare questa impostazione, ci sono poi le osservazioni sul "boom dell'opinione pubblica", laddove Gramsci intravede la funzione cruciale che vanno assumendo i nuovi mezzi di comunicazione di massa e l'industria culturale (la radio e la stampa gialla) nel suo orientamento e nella "possibilita' di suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati, nelle elezioni, per esempio". Ora, questo fenomeno rappresenta - secondo Gramsci - una sfida primaria al "normale governo dell'opinione pubblica da parte dei partiti organizzati e definiti intorno a programmi definiti".
L'impressione e' che, pur non essendo esente da componenti datate, la riflessione gramsciana in alcuni momenti appaia addirittura profetica. Sia in un caso che nell'altro, dipende ovviamente dalle circostanze storiche. Quel che e' sconcertante, quindi, di alcune analisi di Gramsci e' che ci mostrano come a distanza di tanti decenni la politica e i partiti italiani abbiano conservato quasi immutate certe caratteristiche o addirittura abbiano subito una regressione. Non e' nuova, tanto per fare un esempio, la "difficolta' di costruire un indirizzo politico permanente e di vasta portata", laddove "l'analisi non puo' prescindere dall'esame: 1) del perche' si siano moltiplicati i partiti politici; 2) del perche' sia diventato difficile formare una maggioranza parlamentare tra tali partiti parlamentari; 3) quindi, del perche' i grandi partiti tradizionali abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio, ecc. Questo fatto e' puramente parlamentare, o e' il riflesso parlamentare di radicali mutazioni avvenute nella societa' stessa, nella funzione che i gruppi sociali hanno nella vita produttiva, ecc.?" Puo' darsi che i problemi del nostro sistema politico siano altri, ma se i dirigenti politici di oggi si ponessero domande del genere, invece di affidarsi ai tatticismi e agli artifizi elettorali-istituzionali, vorrebbe dire che Gramsci serve ancora a qualcosa.

(tratto da "Gramsci. La novita' dell'Italia", inserto speciale de "La Rinascita della sinistra" curato da Antonio Santucci, 24 marzo 2000)

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