5.4.06

Lenin e Gandhi: un incontro mancato


di Etienne Balibar

Liberazione 26 ottobre 2004

Un contributo al Congrès Marx International

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento di Etienne Balibar (prima stesura non definitiva) pronunciato al Congrès Marx International, Parigi 29 settembre-2 ottobre. L'intero convegno, organizzato dalla rivista parigina "Actuel Marx" con la cooperazione di una rete internazionale di riviste di sinistra - tra le quali l'italiana "Alternative" - era dedicato al tema della guerra. Nella seduta finale alla quale hanno partecipato Alex Callinicos, Monique Chemilier-Gendreau, Christine Delphy e come moderatore Domenico Jervolino - Balibar ha affrontato il tema del rapporto fra Lenin e Gandhi. Nel testo che pubblichiamo Balibar prosegue il discorso aperto nell'ampio saggio sul concetto di Gewalt (che significa tanto violenza che potere) pubblicato nel grande Dizionario storico-critico del marxismo edito in Germania. Una traduzione di questo saggio è disponibile in italiano nel n°6, in libreria a novembre, della rivista "Alternative"

Il confronto fra le figure di Lenin e di Gandhi non è una novità, anzi rinasce continuamente come una specie di banco di prova dei rapporti tra la politica e la storia contemporanea, dall'indomani della prima Guerra mondiale. Ha svolto un ruolo particolarmente determinante ed è stato particolarmente preciso, chiaramente, in India durante e dopo la guerra per l'indipendenza, dove ha dato luogo a ogni sorta di varianti, fra cui è possibile rilevare gli interessanti tentativi di interpretazione gramsciana, in termini di "guerra di posizione", della strategia gandhiana, che possono d'altra parte basarsi su alcune sorprendenti indicazioni dello stesso Gramsci, in cui accosta quella che crede sia stata l'ultima intuizione di Lenin per quanto riguarda lo spostamento del centro gravitazionale dalla lotte rivoluzionarie per la conquista del potere statuale alla costruzione dell'egemonia nella società civile, a quello che costituirebbe attraverso la storia il punto in comune del gandhismo e dei grandi movimenti di riforma religiosa.

Il confronto conosce oggi una sua ritrovata attualità, connessa sia al rigoglio dei movimenti sociali e culturali nel quadro della mondializzazione, sia alla loro insicurezza teorica e strategica, ma anche al fatto che, rispetto alla situazione del XX secolo, la politica del XXI secolo, in cui l'idea di rivoluzione si aggira a mo' di "spettro" senza collegarsi a strategie o a forme organizzative precise, si contraddistingue per la cancellazione o la totale ridistribuzione delle "frontiere" che strutturavano lo spazio politico (Carlo Galli: Spazi politici): frontiere politico-culturali tra "Occidente" ed "Oriente", frontiere economiche e geopolitiche tra "centro" dominante e "periferia" dominata, frontiere istituzionali fra sfera pubblica statuale e sfera sociale privata, tanto per ciò che riguarda la localizzazione dei poteri, quanto per ciò che riguarda la cristallizzazione della coscienza collettiva. Soprattutto, però, ciò che determina questo ritorno di attualità, o che perlomeno lo suggerisce, è il fatto che la politica si trovi immersa, a quanto pare stabilmente se non irreversibilmente, in un ambiente o in un'economia di violenza generalizzata e di circolarità tra le forme di questa violenza che sembra strutturale. Questa violenza comporta chiaramente tratti oggettivi di "contro-rivoluzione preventiva", o di neutralizzazione, di repressione e all'occorrenza di perversione dei movimenti sociali, che pongono problemi particolarmente ardui per l'idea stessa di politica di massa, e semplicemente di politica democratica. Così stando le cose, non stupisce che qua e là riaffiorino dibattiti in cui i nomi di Lenin e di Gandhi figurano come reperti, indicatori di alternative strategiche che oggi occorre affrontare, "facendo i conti" al contempo con l'immagine passata della politica rivoluzionaria.

Prima di mettere a fuoco in maniera schematica ciò che mi sembra oggi rappresentare, retrospettivamente, il punto nevralgico del confronto tra i nostri due modelli, vorrei cominciare richiamando ciò che, perlomeno formalmente, legittima il fatto di raccoglierli sotto la stessa denominazione di "movimenti rivoluzionari". Ritengo che questo abbia a che vedere, molto semplicemente, con due caratteristiche di cui oggi vediamo bene, a posteriori, in che senso, ereditate dal XIX secolo e soprattutto da "rivoluzioni" per l'indipendenza nazionale e l'emancipazione sociale del mondo occidentale, siano state perfezionate dalla drammatica storia del XX secolo, tanto da cristallizzare ciò che, da parti diverse, la teoria politica ha percepito come l'irriducibile divaricazione tra il concetto di politica e la sua formalizzazione statuale, specie rispetto alla modalità di una definizione giuridica e costituzionale.

La prima di queste due caratteristiche è data dalla collocazione dei movimenti di massa, che passa da fasi "attive" a fasi "passive" e viceversa, ma mantenendosi sul lungo periodo, non solo quantitativamente ma anche nel senso qualitativo dell'intervento autonomo sulla scena pubblica, sfuggendo al controllo e alla disciplina delle istituzioni. Questo tratto è comune al leninismo (che su questo spinge all'estremo la tradizione ereditata dal movimento operaio e dalla socialdemocrazia) e al gandhismo (che su questo innova rispetto alle lotte anti-coloniali, in India e non solo). Essa implica chiaramente una grande varietà di formule che combinano spontaneità e organizzazione, che dipendono a un tempo dalle tradizioni culturali e dalle condizioni di esistenza delle masse nelle società date, dalle molle ideologiche della mobilitazione, dai suoi obiettivi strategici e dalla natura del potere costituito che le si contrappone.

«Due trasgressori della legalità»

Non è affatto esclusivamente limitata alla "rappresentanza", anzi essa la rende per molti aspetti possibile, o la rifonda laddove il regime politico esistente le assegna una definizione restrittiva o fittizia, ma comunque gli appare irriducibile, mettendo così in risalto come l'essenza della democrazia non stia nella rappresentanza, o come questa non rappresenti se non un aspetto parziale.

Questo ci porta immediatamente al secondo tratto comune al leninismo e al gandhismo, che è il loro essere antinomici, nell'accezione tradizionale, etimologica del termine: rapporto conflittuale e fondamentalmente contraddittorio con la legalità e quindi con il potere di Stato, la cui norma di diritto costituisce al tempo stesso la fonte di legittimità e lo strumento di controllo sugli individui e i gruppi sociali. In entrambi i casi, quindi, si tratti della "dittatura del proletariato" come rovesciamento della "dittatura della borghesia" - di cui Lenin ha potuto scrivere, recuperando le più classiche definizioni della sovranità, che trova la sua essenza nel fatto di porre "al di sopra delle leggi", da parte di una classe sociale, le proprie esigenze di trasformazione sociale - o si tratti della "disobbedienza civile" - la cui concezione, derivante da Thoreau e prima ancora dal "diritto alla resistenza", è stata sistematizzata da Gandhi così da potervi includere tutto un insieme graduale di tattiche di lotta tendenti ad indurre lo Stato al punto in cui entrare apertamente in contrasto con i suoi stessi principi costituzionali, per costringerlo a riformarli - in entrambi i casi, dunque, si "trasgredisce" la legalità, il che non significa che la si ignori; questa verrebbe piuttosto ricondotta sul terreno dei rapporti di forza che pretendeva di trascendere.

Sarò costretto a questo punto, per mancanza di tempo, ad essere assolutamente telegrafico sugli ultimi due punti che vorrei richiamare. Cominciamo da quello che riguarda ciò che per ipotesi ho definito il "problema centrale", o nevralgico, di ognuno dei due modelli rivoluzionari, così come possiamo percepirli oggi.

Se si cerca di "valutare" il rapporto tra la teorizzazione di Lenin della rivoluzione (essa stessa evolutasi nel tempo), la strategia politica attuata dal partito bolscevico sotto la sua direzione (direzione collegiale, ma di cui Lenin ha determinato gli orientamenti quasi fino alla fine) e, infine, le circostanze storiche (che comprendono una trasformazione epocale vera e propria), credo si possa dire in modo assolutamente classico che le difficoltà si concentrano intorno a tre momenti progressivamente concatenati fra loro. Il primo è legato alla concezione del potere statuale come dittatura di classe "autonomizzata" rispetto alla società, che si tratta di conquistare prima di trasformarne gli apparati, cosa che implica una concezione del partito di classe come soggetto della rivoluzione, o strumento per il passaggio dalla lotta sociale a quella politica. Il secondo è connesso alla situazione in cui Lenin, per dir così, si insedia nella storia trasformando una situazione disperata in occasione di rottura con il sistema dominante: è il momento della guerra del 1914, in cui Lenin formula la parola d'ordine di "trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria", che la sconfitta russa e la sollevazione dei consigli dei soldati in rivolta contro la guerra e il loro fondersi con il movimento sociale degli operai e dei contadini gli consentono di metter in pratica. Il terzo, infine, è legato alle stesse vicende della "dittatura del proletariato", nelle condizioni della guerra civile e dell'intervento straniero, fino al tentativo mancato di riforma tramite la "Nuova politica economica" (Nep).

La forza e il potere

Ciascuno di questi momenti assegna un ruolo centrale, in effetti, alla questione della violenza rivoluzionaria organizzata, o più esattamente alla dialettica di ciò che la lingua tedesca indica con un solo termine, Gewalt, e che noi scindiamo in "potere" e "violenza", aspetto istituzionale e anti-istituzionale. Nella situazione e per le esigenze di oggi, tuttavia, mi sembra sia il secondo momento a dovere soprattutto attirare la nostra attenzione. E' in quel momento che Lenin si trova di fronte, e con lui l'intero movimento socialista, all'esercizio di una dominazione radicalmente distruttiva, o se si vuole a forme di violenza estrema (un punto che molti storiografi tendono a sottovalutare). Dall'impossibile bisogna ricostruire il possibile…

E' noto che la parola d'ordine "trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria" è il bersaglio privilegiato delle critiche al totalitarismo, che ne fanno la matrice del "terrorismo" tipico della rivoluzione russa e quindi, quanto meno, della possibilità che circolino pratiche di soppressione in massa degli oppositori politici e quindi di annientamento della democrazia (che finirà per approdare alla distruzione dello stesso proletariato rivoluzionario), di cui ormai non si può negare la realtà. Ma questa lettura basata sul potere terrorizzante di una parola ("guerra civile") non coglie abbastanza da vicino il punto nevralgico in cui si avvicinano la maggiore forza, la maggiore capacità di liberazione e il maggiore rischio di perversione, vale a dire l'errore principale.

Va prestata altrettanta attenzione sia alla prima sia alla seconda parte della frase: Lenin è infatti l'unico (e facciamo notare che su questo punto una strategia rivoluzionaria gandhiana è invece radicalmente inoperante, per ammissione dello stesso Gandhi) a porre il problema della trasformazione di una situazione di estrema violenza e di annientamento delle forme democratiche della società civile mediante un'azione collettiva, un intervento delle masse organizzate. In altri termini, è l'unico a non inserire la violenza nel registro della fatalità e a ricercare, a partire dall'esperienza stessa, le strade per intervenire sulle cause e sui centri decisionali della violenza estrema.

Nessuna idea di rivoluzione, o di rivoluzione democratica, potrà risparmiarsi questo problema e, come nel caso di Lenin, è probabile che gli si presenterà regolarmente nelle condizioni più sfavorevoli. Ma è anche qui, indubbiamente, che Lenin si trova rinchiuso in una concezione senza sbocco della trasformazione dei rapporti di potere, e questo da un duplice punto di vista: rinchiuso nello spazio nazionale, nella fortezza assediata, per il fallimento dei movimenti rivoluzionari degli altri paesi belligeranti, il che impedisce di estendere a livello internazionale la "guerra civile"; e rinchiuso nello spazio ideologico di un certo marxismo, o del marxismo tout court, che non può che variare all'infinito il paradosso dello "Stato non-Stato", cioè ricercare l'impossibile deperimento dello Stato attraverso le forme del suo rafforzamento…

Lessico della nonviolenza

Tornando allora a Gandhi, possiamo cercare di cogliere le grandi linee di una contraddizione, o di un doppio bind simmetrico. Ciò che nelle lingue occidentali è stato tradotto con "nonviolenza" contiene in realtà, come è noto, due distinte nozioni, forgiata da Gandhi la prima (satyagraha) e ripresa, o riadattata, dalla tradizione ascetica induista ("giainismo") la seconda (ahisma). Tante discussioni sul rapporto tra gli elementi etico, o etico-religioso, e politico nel gandhismo - che vari interpreti, in primo luogo in India, leggono in modo diametralmente opposto, sia come il primato del politico "in veste" di coscienza religiosa, sia come un movimento spirituale che interviene a perturbare il normale corso del politico e a ricondurlo al di qua delle sue forme istituzionali moderne - ruotano intorno al significato di questi due termini, o anche alla possibilità di scinderli o ricomporli diversamente per passare da un contesto culturale ad un altro, soprattutto dall'Oriente all'Occidente. Se però non si tengono insieme i problemi cui rinviano i due termini, pronti al tempo stesso ad indicare la difficoltà della loro associazione, non si riesce a quanto pare a farsi un'idea completa della "dialettica" insita nella stessa concezione gandhiana della politica, né a capire in che senso essa inserisca al centro di questa un elemento "morale" che dipende dalla coscienza ma ne scavalca ampiamente il quadro.

Satyagraha, più o meno ben tradotto alla lettera con "forza della verità" è il termine che Gandhi sostituisce, a partire dalle sue prime esperienze di organizzazione delle lotte per i diritti civili degli indiani in Sud Africa, a quello di "resistenza passiva" e che poi usa, a un tempo, come nome di ogni campagna di disobbedienza civile e come concetto generico di una forma di lotta prolungata, legale e illegale, destinata a soppiantare le rivolte e le azioni terroristiche con una mobilitazione prolungata delle masse popolari contro la dominazione coloniale.

Ahisma, termine tradizionale dell'ascesi, trasposto da Gandhi dalla sfera individuale e quella dei rapporti interpersonali, difficilissimo da "tradurre" nel linguaggio della spiritualità occidentale anche se Gandhi ha creduto di scorgervi talune affinità con l'amore cristiano per il prossimo, sta ad indicare la concentrazione di energia che permette di rinunciare all'"odio" per il nemico, o di inibire la contro-violenza. Se non si fa intervenire questo elemento religioso al centro del politico, non si possono davvero intrecciare fra loro i movimenti contrari cui ho accennato sopra, con i loro aspetti molto concretamente pratici e socialmente condizionati, in particolare il celebre succedersi di fasi di "nonviolenza aggressiva", in cui il movimento di massa si contrappone frontalmente alla dominazione tramite la pratica del non rispetto della legalità, e di fasi di "nonviolenza costruttiva", che sono essenzialmente fasi di trasformazione democratica interna al movimento, in cui in particolare Gandhi si è impegnato a far riconoscere come un aspetto essenziale della lotta per l'indipendenza e una condizione della sua vittoria ciò che il nostro amico Jacques Rancière chiamerebbe "la parte dei senza parte", vale a dire l'uguaglianza di principio dei paria o intoccabili, delle minoranze etniche e delle donne.

Ma non si può neppure capire la "rivoluzione nella rivoluzione" che costituisce l'idea sistematicamente sviluppata da Gandhi - profondamente estranea alla tradizione marxista, e quindi leninista, indipendentemente da tutto ciò che ha potuto concepire sull'egemonia, le alleanze democratiche, le "contraddizioni in seno al popolo", ecc. - secondo cui la natura dei mezzi impiegati in uno scontro di forze sociali reagisce sulla stessa identità di queste forze e di conseguenza sui fini del movimento, o sui risultati che questo di fatto produce, quali che ne siano le intenzioni o le mire ideologiche. Questo approda direttamente alla famosa "dialogicità" di Gandhi: l'idea che ogni lotta politica deve implicare un momento di apertura all'avversario che ne condiziona il cambiamento del punto di vista, e alle pratiche di autolimitazione dell'iniziativa di massa (difficilissime, si sa, da mettere in atto, perché in genere incomprensibili o inaccettabili da coloro che credono giunto il momento della "battaglia decisiva"), illustrate soprattutto dalle interruzioni del satyagraha, quando questo si trasformava improvvisamente da nonviolenza in violenza collettiva o terrorista.

A questo punto azzarderei un'ipotesi sull'aporia interna al modello gandhiano (aporia non significa assurdità, o inefficacia): è simmetrica a quella leninista, perché anch'essa riguarda l'organizzazione, o più in profondità la natura, il modo di costituire il legame collettivo, transindividuale, che rende possibile l'emergere di un soggetto politico, e in particolare di un soggetto rivoluzionario. Questo legame, che si definisce "religioso", è più precisamente ancorato alla figura del dirigente come oggetto di comune amore e presunto soggetto di un amore quasi materno di cui godrebbero tutti i partecipanti alla lotta e che li aiuta a sopportare i sacrifici che questa comporta: ciò che approssimativamente si chiama santità o profetismo. E' noto che nei momenti cruciali in cui le divergenze politiche si approfondiscono fino a diventare antagonismo, o in cui lo Stato si rifiuta di cedere, o si scatenano i conflitti intercomunitari fino ad arrivare al massacro, Gandhi è riuscito a pervenire all'autoeliminazione della violenza solo con la minaccia della scomparsa, del digiuno pubblico fino alla morte, espressione ultima ma anche profondamente ambivalente della forza spirituale. Fino all'"ultima battaglia" in cui questo metodo fallisce, o provoca in reazione l'assassinio politico. Il legame morale che fa la forza della massa e la sua capacità di resistenza appare allora profondamente ambiguo, basato su un rapporto soggettivo a intenso sfondo sessuale, in cui l'amore e la morte si abbandonano, su un "altro scenario", a uno scontro che determina, almeno per una parte, restando per il resto uguali le condizioni oggettive, le possibilità di influire sulla dominazione e la violenza strutturali della società trasformandole, storicamente.

Siamo ancora nell'era delle masse e dei movimenti di massa, almeno nel senso in cui le hanno mobilitate e portate sulla scena, con risultati contraddittori, i grandi movimenti rivoluzionari del XX secolo? Non posso rispondere a questo interrogativo, non solo perché non ne ho il tempo, ma perché non lo so. Quel che è certo, però, è che sembra che l'idea di azione politica debba restare strettamente connessa a quella di costruzione di un soggetto collettivo, in condizioni che in genere non sono oggetto di una deduzione o di una programmazione, anche se sono, evidentemente, profondamente determinate da condizioni di classe e da modelli culturali. Queste condizioni, insieme all'incalzare di talune congiunture, in particolare

quelle estreme, che fanno emergere l'insopportabile a livello di intere società, se non su scala mondiale, e che rilanciano la richiesta di trasformazioni rivoluzionarie, non offrono però mai una sola possibilità. Collettivi attivi, o prassi collettive, nell'accezione filosofica tradizionale di un'iniziativa che non trasforma soltanto una determinata materia, ma che "plasma" anche gli stessi attori, richiedono forme di organizzazione, e richiedono investimenti affettivi, o processi di identificazione. Mostrando "ma ex post" le contraddizioni insite in ognuno dei due termini apparentemente semplicissimi, le storie simboleggiate dai nomi di Lenin e di Gandhi ci aiutano a non perdere di vista la complessità del politico, in cui la storia ci proietta senza chiedere il nostro parere.

(Traduzione dal francese di Titti Pierini)

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