1.5.06
Hobsbawm, Gente che lavora
La storia senza la maiuscola
di Eliana Como
Gente che lavora. Storie di operai e contadini
di Eric J. Hobsbawm
Milano, Rizzoli, 2001
pp. 374, euro 19,63
C’era una volta la classe operaia (…) sapeva dove voleva arrivare (…) e cosa gli serviva per arrivarci. C’era, e non c’è più”. Eric J. Hobsbawm torna in libreria con un’insolita storia del movimento operaio, narrata dal punto di vista della maggioranza dei lavoratori, la gente comune, la gente di tutti i giorni.
“Gente che lavora”, appena uscito per Rizzoli, è una raccolta di saggi scritti tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80. L’autore ripercorre, attraverso un copioso susseguirsi di riferimenti bibliografici, la formazione, l’evoluzione e – in parte – il declino delle classi lavoratrici dalla fine del Settecento alla seconda metà del Novecento. Le organizzazioni sindacali e i partiti socialisti, i leader e le ideologie cedono il ruolo di protagonisti alla vita quotidiana, nei gesti e nelle consuetudini dei lavoratori, nelle loro idee e nella loro cultura, nelle basi materiali della loro esistenza. Hobsbawm dà corpo e anima a un passato suggestivo e quasi leggendario, raccontando la storia di persone comuni, uomini “piccoli e scuri, grinzosi e olivastri in volto appena passati i trent’anni” e donne che a sedici anni escono con i ragazzi, a diciotto si fidanzano e il giorno del matrimonio raggiungono il culmine di una vita destinata poi al sacrificio.
È la storia della “plebe” e dei “lavoratori poveri” che diventano “proletariato”, della coscienza di classe e della quotidiana esperienza del lavoro in fabbrica, che dimostra che si deve “agire collettivamente o non agire affatto”. È la storia del lunedì festivo e delle feste tradizionali, imposte al calendario borghese con l’assenteismo di massa, del calcio come sport proletario e del concorso pronostici come “unica forma di studio per uomini che non leggono libri”. È la storia delle vacanze al mare, delle friggitorie fish-and-chips, dei pub e della convinzione etica che tutti hanno diritto a un trattamento più onesto. È la storia del laicismo militante del movimento operaio e socialista che si professa libero da ogni religione, pur provenendo da un mondo contadino in cui la dimensione del sacro è inseparabile dalla gente comune. È la storia dei tavernieri in concorrenza con i preti per gli stessi clienti, dei viticultori votati al libero pensiero, degli artigiani sedentari che filosofeggiano mentre svolgono il loro consueto lavoro. È la storia delle donne che rifiutano di mandare i loro figli al catechismo, dei neonati con nomi di militanti operai e dei funerali dei sovversivi che diventano riti collettivi di una nuova religiosità laica e profana.
È la storia dei rituali operai e delle abitudini che diventano cerimonie nonostante l’accusa marxista di irrazionalismo e autoritarismo superstizioso. È la storia dei minatori del Galles che discutono di politica in fondo al pozzo mentre aspettano che la vista si sia abituata all’oscurità. È la storia di stendardi e rosette, di nastri e fusciacche, di ciondoli per le catene degli orologi e del Primo Maggio, occasione familiare e festa popolare che afferma la nascita di una nuova classe, che ostenta con orgoglio la propria organizzazione e il proprio autocontrollo. È la storia della bandiera rossa e del pugno chiuso che nascono così per caso, quasi improvvisati.
È la storia del mercato del lavoro di Londra, dei suoi quartieri e delle sue strade, della sua manodopera frammentata, dei tram e dei treni, novità rivoluzionarie che cambiano la vita del lavoratore comune, permettendogli di uscire dal cerchio ristretto delle distanze percorribili a piedi.
È la storia della coscienza nazionale all’interno dei movimenti operai e degli irlandesi che si sentono più nazionalisti cattolici o unionisti protestanti che sfruttati. È la storia delle piccole patrie del proletariato, delle identità nazionali che si sovrappongono alla struttura di classe e del patriottismo che minaccia la coscienza operaia. È la storia dei diritti civili e universali dell’uomo, rivendicati da un movimento operaio fatto per lo più di uomini benpensanti, antisemiti e maschilisti. È la storia delle convinzioni e delle speranze del sindacalismo rivoluzionario e dello sciopero generale, del lavoro quotidiano di mobilitazione nelle fabbriche, della militanza spontanea e delle iniziative dirette sul posto di lavoro.
È la storia dell’higher working class, l’aristocrazia del lavoro, che rispetto alla massa dei lavoratori non specializzati ha più rispettabilità ma la stessa insicurezza, le stesse preoccupazioni, lo stesso pericolo della miseria. È la storia dei figli degli artisans che non sposano i figli dei labourers e di un muratore che nonostante la grave disoccupazione non accetta un posto dequalificato in un gasometro, per non sentirsi dire che “è un tuttofare, non ha mestiere”. È la storia dei pianoforti acquistati a rate che distinguono la minoranza operaia che può permetterseli da quella che non può.
È la storia sociale, una storia che non parla solo del capitalismo monopolistico ma del caporeparto e della busta paga, non solo delle politiche assistenziali dei governi ma delle file di attesa per il sussidio di disoccupazione. È la storia dal basso, che trascende i nomi noti, le lotte e le conquiste sindacali e riscopre lo spessore concreto della quotidianità e degli individui.
(Rassegna sindacale, n. 6, febbaio 2002)
di Eliana Como
Gente che lavora. Storie di operai e contadini
di Eric J. Hobsbawm
Milano, Rizzoli, 2001
pp. 374, euro 19,63
C’era una volta la classe operaia (…) sapeva dove voleva arrivare (…) e cosa gli serviva per arrivarci. C’era, e non c’è più”. Eric J. Hobsbawm torna in libreria con un’insolita storia del movimento operaio, narrata dal punto di vista della maggioranza dei lavoratori, la gente comune, la gente di tutti i giorni.
“Gente che lavora”, appena uscito per Rizzoli, è una raccolta di saggi scritti tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80. L’autore ripercorre, attraverso un copioso susseguirsi di riferimenti bibliografici, la formazione, l’evoluzione e – in parte – il declino delle classi lavoratrici dalla fine del Settecento alla seconda metà del Novecento. Le organizzazioni sindacali e i partiti socialisti, i leader e le ideologie cedono il ruolo di protagonisti alla vita quotidiana, nei gesti e nelle consuetudini dei lavoratori, nelle loro idee e nella loro cultura, nelle basi materiali della loro esistenza. Hobsbawm dà corpo e anima a un passato suggestivo e quasi leggendario, raccontando la storia di persone comuni, uomini “piccoli e scuri, grinzosi e olivastri in volto appena passati i trent’anni” e donne che a sedici anni escono con i ragazzi, a diciotto si fidanzano e il giorno del matrimonio raggiungono il culmine di una vita destinata poi al sacrificio.
È la storia della “plebe” e dei “lavoratori poveri” che diventano “proletariato”, della coscienza di classe e della quotidiana esperienza del lavoro in fabbrica, che dimostra che si deve “agire collettivamente o non agire affatto”. È la storia del lunedì festivo e delle feste tradizionali, imposte al calendario borghese con l’assenteismo di massa, del calcio come sport proletario e del concorso pronostici come “unica forma di studio per uomini che non leggono libri”. È la storia delle vacanze al mare, delle friggitorie fish-and-chips, dei pub e della convinzione etica che tutti hanno diritto a un trattamento più onesto. È la storia del laicismo militante del movimento operaio e socialista che si professa libero da ogni religione, pur provenendo da un mondo contadino in cui la dimensione del sacro è inseparabile dalla gente comune. È la storia dei tavernieri in concorrenza con i preti per gli stessi clienti, dei viticultori votati al libero pensiero, degli artigiani sedentari che filosofeggiano mentre svolgono il loro consueto lavoro. È la storia delle donne che rifiutano di mandare i loro figli al catechismo, dei neonati con nomi di militanti operai e dei funerali dei sovversivi che diventano riti collettivi di una nuova religiosità laica e profana.
È la storia dei rituali operai e delle abitudini che diventano cerimonie nonostante l’accusa marxista di irrazionalismo e autoritarismo superstizioso. È la storia dei minatori del Galles che discutono di politica in fondo al pozzo mentre aspettano che la vista si sia abituata all’oscurità. È la storia di stendardi e rosette, di nastri e fusciacche, di ciondoli per le catene degli orologi e del Primo Maggio, occasione familiare e festa popolare che afferma la nascita di una nuova classe, che ostenta con orgoglio la propria organizzazione e il proprio autocontrollo. È la storia della bandiera rossa e del pugno chiuso che nascono così per caso, quasi improvvisati.
È la storia del mercato del lavoro di Londra, dei suoi quartieri e delle sue strade, della sua manodopera frammentata, dei tram e dei treni, novità rivoluzionarie che cambiano la vita del lavoratore comune, permettendogli di uscire dal cerchio ristretto delle distanze percorribili a piedi.
È la storia della coscienza nazionale all’interno dei movimenti operai e degli irlandesi che si sentono più nazionalisti cattolici o unionisti protestanti che sfruttati. È la storia delle piccole patrie del proletariato, delle identità nazionali che si sovrappongono alla struttura di classe e del patriottismo che minaccia la coscienza operaia. È la storia dei diritti civili e universali dell’uomo, rivendicati da un movimento operaio fatto per lo più di uomini benpensanti, antisemiti e maschilisti. È la storia delle convinzioni e delle speranze del sindacalismo rivoluzionario e dello sciopero generale, del lavoro quotidiano di mobilitazione nelle fabbriche, della militanza spontanea e delle iniziative dirette sul posto di lavoro.
È la storia dell’higher working class, l’aristocrazia del lavoro, che rispetto alla massa dei lavoratori non specializzati ha più rispettabilità ma la stessa insicurezza, le stesse preoccupazioni, lo stesso pericolo della miseria. È la storia dei figli degli artisans che non sposano i figli dei labourers e di un muratore che nonostante la grave disoccupazione non accetta un posto dequalificato in un gasometro, per non sentirsi dire che “è un tuttofare, non ha mestiere”. È la storia dei pianoforti acquistati a rate che distinguono la minoranza operaia che può permetterseli da quella che non può.
È la storia sociale, una storia che non parla solo del capitalismo monopolistico ma del caporeparto e della busta paga, non solo delle politiche assistenziali dei governi ma delle file di attesa per il sussidio di disoccupazione. È la storia dal basso, che trascende i nomi noti, le lotte e le conquiste sindacali e riscopre lo spessore concreto della quotidianità e degli individui.
(Rassegna sindacale, n. 6, febbaio 2002)