1.6.07
I "Quaderni" sono attuali ma non rendiamoli un'icona alla moda
di Alberto Burgio
Continua il dibattito su Gramsci in occasione dei settanta anni dalla morte. Nei suoi testi ci sono indicazioni utili anche per capire il nostro tempo. Ma attenzione alle letture stravolgenti. Il contesto materiale è ancora lo stesso
C'è una dialettica degli anniversari. Richiamare alla memoria un personaggio o un testo significa affermarne l'attualità ma spesso induce a forzature che quella asserita attualità di per se stesse negano. Gramsci ne è un esempio illustre. La storia delle discussioni sulla sua figura e sul suo lascito teorico - la storia di quelle che Guido Liguori chiama «contese» - è costellata da forzature e distorsioni. Non è necessario dolersene. Non siamo vocati alla pietas e il fatto che un testo funga da pretesto non è ragione di rammarico né, tanto meno, di scandalo. Soprattutto per un testo politico. E poi Gramsci - come Marx o Lenin, per dire di due sue massime autorità - sarebbe sgomento per una sua imbalsamazione in un empireo di classici tanto sommi quanto inerti. In questo senso un po' di «sollecitazione dei testi» non è solo inevitabile, è anche benefica.
Tutto bene, dunque? Tutto bene purché ci si astenga dalle strumentalizzazioni più smaccate (e comiche) volte a fare di Gramsci un nemico giurato dell'Urss e della Terza Internazionale o l'ispiratore di linee politiche in continuo mutamento, com'è accaduto sovente lungo la storia del Pci e di formazioni politiche sorte dalle sue ceneri, dove i Quaderni sono stati via via usati per fondare la concezione del partito nuovo e la teoria delle riforme di struttura, per argomentare la necessità dell'alleanza con i ceti medi e conferire nobiltà al compromesso storico, e financo per certificare l'ineluttabilità della Bolognina e dei suoi ultimi contraccolpi? Tutto bene finché si evita il grottesco di un Gramsci anticomunista, convertito a forza alla socialdemocrazia o al neoliberalismo?
Forse no. Anche in assenza di simili eccessi, ci sono modi discutibili che in questi anni imperversano. E di cui si farebbe volentieri a meno. E' noto che in altri continenti Gramsci è letto e studiato con maggior fervore che da noi. In India o in Brasile e in generale nel mondo anglosassone non è un classico da monumentalizzare. E' una miniera di idee, di spunti, di suggerimenti vitali per aggiornare analisi, costruire modelli interpretativi, articolare nuove tesi storiografiche. Si pensi - per citare alcune tra le espressioni più feconde di questa esotica Gramsci-renaissance - agli studi «postcoloniali» di Ranajit Guha e Parta Chatterjee sulla società indiana, la soggettività delle classi subalterne, le contraddizioni dei nazionalismi post-imperiali. Qui Gramsci è usato senza reverenza, e messo a valore. I Quaderni fruttano categorie, intuizioni, potenza costruttiva. Le note diventano mattoni per nuove case che Gramsci non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Ma c'è un ma. I Guha, i Chatterjee (o i Said, i West, i Cafruny e i Ryner, lo stesso Stuart Hall) parlano d'altro e lo dicono . Nessuno di loro indossa i panni dell'esegeta, tanto meno quelli del filologo. Il loro Gramsci è il loro Gramsci, e nessuno ha motivo di lamentare alcunché, dal momento che i contesti reali di riferimento sono dichiaratamente altri - e radicalmente diversi - da quello, complesso e articolato, dei Quaderni .
Qui da noi càpita, talvolta, l'opposto. O meglio: càpita, a prima vista, proprio lo stesso. Anche da noi vanno per la maggiore immagini di Gramsci non ricavabili dalle sue pagine, se non a prezzo di creativi straniamenti o di letture metaforizzanti fondate su una sorta di postmoderna mistica del frammento. Ma la situazione è del tutto diversa perché il nostro mondo è quello di Gramsci. Certo, molte cose sono cambiate, anche profondamente. E proprio la distanza è un dono, perché riconoscerla e circostanziarla implica comprendere differenze, mutamenti, processi di trasformazione. Ma l'Italia e l'Europa che i Quaderni dicono «moderne», il sistema dei rapporti tra Stato e sfera sociale, le logiche di impregnazione ideologica delle classi popolari; e ancora: le dinamiche di formazione delle leadership, il problema dell'autonomia culturale e politica della classe operaia, la patologia autoritaria propria della crisi organica: tutto ciò riguarda ancora in larga misura il nostro mondo. Di qui l'effetto-paradosso di talune letture per così dire immaginifiche. Proprio il riferimento agli stessi contesti materiali impedisce di riconoscere il gesto straniante che decostruisce il testo sovrapponendogli altri intenti e altri significati. Le metafore si presentano come interpretazioni autentiche, la suggestione si sostituisce all'analisi, l'analogia soppianta la cosa stessa. E' il trionfo di quella dialettica degli anniversari di cui si diceva all'inizio.
Gramsci, crediamo, merita di più. E noi pure, a dire il vero, proprio perché il suo lascito non è invecchiato ed è ancora in grado di parlarci senza voli pindarici. Si pensi all'analisi della questione meridionale, sul cui sfondo è possibile leggere non solo la vicenda italiana, ma anche i processi europei di unificazione polarizzante. Si pensi all'idea di rivoluzione passiva, idealtipo cruciale nello studio delle dinamiche di governance proprie delle democrazie oligarchiche. Si pensi all'intreccio tra populismo e bonapartismo, malattia endemica delle nostre democrazie. E si pensi al tema dell'egemonia, preziosa sonda (ha ragione Eleonora Forenza a sottolinearlo) della «centralità dell'elemento cognitivo nei processi di accumulazione». Proprio sull'egemonia ci sarebbe ancora tanto da dire, al di là delle trite banalità disseminate dalle letture sovrastrutturali e culturalistiche di Gramsci.
L'idea, sempre di nuovo ribadita, che «egemonia» rimandi al campo delle sovrastrutture come al proprio luogo esclusivo è semplicistica e riduttiva. In realtà Gramsci pensa che nella società contemporanea tutte le funzioni sociali (compreso il processo di produzione immediato) siano di per sé capaci di generare «direzione intellettuale e morale» (appunto egemonia) nell'interesse del dominante. Peraltro, proprio l'ubiquità dell'egemonia aiuta a comprendere la questione dell'egemonia dei subalterni . Poiché comporta dinamiche di scambio «intellettuale e morale», ogni articolazione della relazione sociale è permeabile da istanze critiche e potenzialmente sovversive. Restituita alla sua organica complessità, la questione dell'egemonia incontra così il tema della rottura rivoluzionaria, documentando l'ispirazione radicalmente antideterministica della teoria gramsciana della trasformazione.
Di questo passo si potrebbe continuare ancora a lungo, mostrando come il discorso gramsciano sull'egemonia contenga elementi rilevanti di una tassonomia del potere e preziose indicazioni in vista di una teoria generale delle crisi. Non è questa la sede. Qui basta un esempio della sua intatta fecondità. A dire che Gramsci va usato, non certo monumentalizzato. Ma anche che non per questo è necessario sradicarlo dal solco della sua riflessione. Per dimostrare la sua attualità non occorre trasformarlo in una icona à la page . Basta, come lui stesso raccomandava, avere passione per l'oggettività e molta pazienza.
(tratto da Liberazione, 1 giugno 2007)
Continua il dibattito su Gramsci in occasione dei settanta anni dalla morte. Nei suoi testi ci sono indicazioni utili anche per capire il nostro tempo. Ma attenzione alle letture stravolgenti. Il contesto materiale è ancora lo stesso
C'è una dialettica degli anniversari. Richiamare alla memoria un personaggio o un testo significa affermarne l'attualità ma spesso induce a forzature che quella asserita attualità di per se stesse negano. Gramsci ne è un esempio illustre. La storia delle discussioni sulla sua figura e sul suo lascito teorico - la storia di quelle che Guido Liguori chiama «contese» - è costellata da forzature e distorsioni. Non è necessario dolersene. Non siamo vocati alla pietas e il fatto che un testo funga da pretesto non è ragione di rammarico né, tanto meno, di scandalo. Soprattutto per un testo politico. E poi Gramsci - come Marx o Lenin, per dire di due sue massime autorità - sarebbe sgomento per una sua imbalsamazione in un empireo di classici tanto sommi quanto inerti. In questo senso un po' di «sollecitazione dei testi» non è solo inevitabile, è anche benefica.
Tutto bene, dunque? Tutto bene purché ci si astenga dalle strumentalizzazioni più smaccate (e comiche) volte a fare di Gramsci un nemico giurato dell'Urss e della Terza Internazionale o l'ispiratore di linee politiche in continuo mutamento, com'è accaduto sovente lungo la storia del Pci e di formazioni politiche sorte dalle sue ceneri, dove i Quaderni sono stati via via usati per fondare la concezione del partito nuovo e la teoria delle riforme di struttura, per argomentare la necessità dell'alleanza con i ceti medi e conferire nobiltà al compromesso storico, e financo per certificare l'ineluttabilità della Bolognina e dei suoi ultimi contraccolpi? Tutto bene finché si evita il grottesco di un Gramsci anticomunista, convertito a forza alla socialdemocrazia o al neoliberalismo?
Forse no. Anche in assenza di simili eccessi, ci sono modi discutibili che in questi anni imperversano. E di cui si farebbe volentieri a meno. E' noto che in altri continenti Gramsci è letto e studiato con maggior fervore che da noi. In India o in Brasile e in generale nel mondo anglosassone non è un classico da monumentalizzare. E' una miniera di idee, di spunti, di suggerimenti vitali per aggiornare analisi, costruire modelli interpretativi, articolare nuove tesi storiografiche. Si pensi - per citare alcune tra le espressioni più feconde di questa esotica Gramsci-renaissance - agli studi «postcoloniali» di Ranajit Guha e Parta Chatterjee sulla società indiana, la soggettività delle classi subalterne, le contraddizioni dei nazionalismi post-imperiali. Qui Gramsci è usato senza reverenza, e messo a valore. I Quaderni fruttano categorie, intuizioni, potenza costruttiva. Le note diventano mattoni per nuove case che Gramsci non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Ma c'è un ma. I Guha, i Chatterjee (o i Said, i West, i Cafruny e i Ryner, lo stesso Stuart Hall) parlano d'altro e lo dicono . Nessuno di loro indossa i panni dell'esegeta, tanto meno quelli del filologo. Il loro Gramsci è il loro Gramsci, e nessuno ha motivo di lamentare alcunché, dal momento che i contesti reali di riferimento sono dichiaratamente altri - e radicalmente diversi - da quello, complesso e articolato, dei Quaderni .
Qui da noi càpita, talvolta, l'opposto. O meglio: càpita, a prima vista, proprio lo stesso. Anche da noi vanno per la maggiore immagini di Gramsci non ricavabili dalle sue pagine, se non a prezzo di creativi straniamenti o di letture metaforizzanti fondate su una sorta di postmoderna mistica del frammento. Ma la situazione è del tutto diversa perché il nostro mondo è quello di Gramsci. Certo, molte cose sono cambiate, anche profondamente. E proprio la distanza è un dono, perché riconoscerla e circostanziarla implica comprendere differenze, mutamenti, processi di trasformazione. Ma l'Italia e l'Europa che i Quaderni dicono «moderne», il sistema dei rapporti tra Stato e sfera sociale, le logiche di impregnazione ideologica delle classi popolari; e ancora: le dinamiche di formazione delle leadership, il problema dell'autonomia culturale e politica della classe operaia, la patologia autoritaria propria della crisi organica: tutto ciò riguarda ancora in larga misura il nostro mondo. Di qui l'effetto-paradosso di talune letture per così dire immaginifiche. Proprio il riferimento agli stessi contesti materiali impedisce di riconoscere il gesto straniante che decostruisce il testo sovrapponendogli altri intenti e altri significati. Le metafore si presentano come interpretazioni autentiche, la suggestione si sostituisce all'analisi, l'analogia soppianta la cosa stessa. E' il trionfo di quella dialettica degli anniversari di cui si diceva all'inizio.
Gramsci, crediamo, merita di più. E noi pure, a dire il vero, proprio perché il suo lascito non è invecchiato ed è ancora in grado di parlarci senza voli pindarici. Si pensi all'analisi della questione meridionale, sul cui sfondo è possibile leggere non solo la vicenda italiana, ma anche i processi europei di unificazione polarizzante. Si pensi all'idea di rivoluzione passiva, idealtipo cruciale nello studio delle dinamiche di governance proprie delle democrazie oligarchiche. Si pensi all'intreccio tra populismo e bonapartismo, malattia endemica delle nostre democrazie. E si pensi al tema dell'egemonia, preziosa sonda (ha ragione Eleonora Forenza a sottolinearlo) della «centralità dell'elemento cognitivo nei processi di accumulazione». Proprio sull'egemonia ci sarebbe ancora tanto da dire, al di là delle trite banalità disseminate dalle letture sovrastrutturali e culturalistiche di Gramsci.
L'idea, sempre di nuovo ribadita, che «egemonia» rimandi al campo delle sovrastrutture come al proprio luogo esclusivo è semplicistica e riduttiva. In realtà Gramsci pensa che nella società contemporanea tutte le funzioni sociali (compreso il processo di produzione immediato) siano di per sé capaci di generare «direzione intellettuale e morale» (appunto egemonia) nell'interesse del dominante. Peraltro, proprio l'ubiquità dell'egemonia aiuta a comprendere la questione dell'egemonia dei subalterni . Poiché comporta dinamiche di scambio «intellettuale e morale», ogni articolazione della relazione sociale è permeabile da istanze critiche e potenzialmente sovversive. Restituita alla sua organica complessità, la questione dell'egemonia incontra così il tema della rottura rivoluzionaria, documentando l'ispirazione radicalmente antideterministica della teoria gramsciana della trasformazione.
Di questo passo si potrebbe continuare ancora a lungo, mostrando come il discorso gramsciano sull'egemonia contenga elementi rilevanti di una tassonomia del potere e preziose indicazioni in vista di una teoria generale delle crisi. Non è questa la sede. Qui basta un esempio della sua intatta fecondità. A dire che Gramsci va usato, non certo monumentalizzato. Ma anche che non per questo è necessario sradicarlo dal solco della sua riflessione. Per dimostrare la sua attualità non occorre trasformarlo in una icona à la page . Basta, come lui stesso raccomandava, avere passione per l'oggettività e molta pazienza.
(tratto da Liberazione, 1 giugno 2007)