17.6.03

Mercato mondiale e nuovo ordine economico

di John Bellamy Foster

L'ERNESTO 3/2002 del 01/05/2002*

Le contraddizioni capitalistiche di fase

Poco più di un mese prima che scrivessimo queste pagine, prima dell’11 Settembre, la ribellione di massa contro la globalizzazione capitalistica cominciata a Seattle nel Novembre 1999, e che aveva recentemente guadagnato nuove forze a Genova nel Luglio 2001, stava denunciando le contraddizioni del sistema come da anni non si vedeva. Tuttavia, la particolare natura di questa ribellione era tale che il concetto di imperialismo veniva del tutto rimosso, anche all’interno della sinistra, a favore del concetto di globalizzazione, indicando implicitamente che alcune delle peggiori forme di sfruttamento e di rivalità stavano in qualche modo riducendosi.
Una moda crescente nella sinistra nel modo di trattare la globalizzazione —ma altrettanto allettante per i circoli dominanti, a giudicare dall’attenzione rivoltagli dai mass media— è esemplificata dal nuovo libro di Michael Hardt e Antonio Negri intitolato Impero. Pubblicato nel 2000 dalla Harvard University Press, questo libro ha ricevuto grandi elogi dal New York Times, dalla rivista Time e dal London Observer, e ha pure dato luogo alla partecipazione di Hardt alla trasmissione di Charlie Rose e a un pezzo Op-Ed1 sul New York Times. La sua tesi è che il mercato mondiale, sotto l’influenza della rivoluzione informatica, si sta globalizzando al di là delle capacità di controllo degli stati nazionali. La sovranità degli stati-nazione starebbe subendo un progressivo declino, e starebbe per essere sostituita dalla nuova sovranità globale emergente, l’“Impero”, che sta emergendo dalla progressiva integrazione di “una serie di organismi nazionali e sovranazionali... unita da un’unica logica di potere” (p.14)2, senza una chiara gerarchia internazionale.
I limiti questo articolo non consentono di trattare tutti gli aspetti di questa tesi. Ne commenterò solo un aspetto, quello della supposta scomparsa dell’imperialismo.
Nell’analisi di Hardt e Negri il termine “Impero” non si riferisce al dominio imperialista del centro sulla periferia, ma a un’entità omnicomprensiva che non riconosce limiti territoriali o confini fuori di sé. Nel suo momento aureo, “l’imperialismo —affermano gli autori— costituiva una vera e propria proiezione della sovranità degli stati-nazione europei al di là dei loro confini” (p.14). In questo senso, l’imperialismo e il colonialismo sarebbero ora morti. Inoltre Hardt e Negri pronunciano pure la sentenza di morte del neocolonialismo in quanto forma di sfruttamento e di dominio economico senza controllo politico diretto da parte delle potenze industriali. Essi insistono sul fatto che tutte le forme di imperialismo, in quanto rappresentano un limite per la forza omogeneizzante del mercato mondiale, sono condannate a morte dal mercato stesso. L’Impero è dunque “tanto postcoloniale quanto postimperialista” (p. 26). “L’imperialismo —ci viene detto— è una macchina per la striatura globale, per canalizzare, codificare e territorializzare i flussi di capitale e, in particolare, per fissarne alcuni e liberarne altri. Il mercato mondiale, al contrario, esige uno spazio liscio su cui possano correre i flussi non codificati e territorializzati... se non fosse stato superato, l’imperialismo avrebbe provocato il collasso del capitalismo. Il compimento del mercato mondiale segna necessariamente la fine dell’imperialismo” (pp. 309-310)3. Concetti come quelli di centro e di periferia, secondo gli autori, sono ormai quasi completamente obsoleti. “Con la decentralizzazione della produzione e il consolidamento del mercato mondiale, le divisioni internazionali e i flussi della forza lavoro e del capitale sono stati frammentati e moltiplicati, di modo che non è più possibile delimitare grandi aree geografiche e classificarle come centri e periferie, Nord e Sud”. Non ci sono “differenze essenziali” tra gli Stati Uniti e il Brasile, la Gran Bretagna e l’India, ma “soltanto differenze di grado” (pp. 311-312).
Se ne sarebbe andata anche la nozione di imperialismo USA in quanto la forza centrale del mondo contemporaneo: “Né gli Stati Uniti —scrivono Hardt e Negri— né alcuno stato costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. L’imperialismo è finito. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni europee moderne.” (p. 15). “La guerra del Vietnam —notano— può essere giudicata come l’atto finale della tendenza imperialista e il punto di passaggio a un nuovo regime costituzionale” (p. 170). Questo passaggio a un nuovo regime costituzionale globale sarebbe mostrato dalla Guerra del Golfo, durante la quale gli Stati Uniti sono emersi “come l’unica potenza in grado di dirigere la giustizia internazionale, non in relazione a motivi d’ordine nazionale, ma in nome del diritto globale... la polizia mondiale americana agisce nell’interesse dell’Impero non dell’imperialismo. In tal senso, come ha affermato George Bush, la guerra del Golfo ha annunciato la nascita di un nuovo ordine mondiale.” (p. 172).
Impero, il nome dato dagli autori a questo nuovo ordine, è il prodotto della lotta per la sovranità e il costituzionalismo su scala globale, in un’epoca in cui un nuovo jeffersonianismo globale —l’espansione della forma costituzionale USA in ambito globale— è diventata possibile. Gli autori contestano le lotte locali contro l’Impero poiché essi ritengono che la lotta ormai sia semplicemente sulla forma che la globalizzazione assumerà, e sull’amiezza con cui l’Impero manterrà la promessa di portare a maturazione “l’espansione su scala globale del progetto interno alla Costituzione americana” (p. 174). Le loro argomentazioni sono a favore degli sforzi di una “moltitudine contro l’Impero” —cioè della lotta della moltitudine per divenire soggetto politico autonomo—, poiché questo processo può prendere forma solo all’interno delle “condizioni ontologiche determinate dall’impero” (p. 376).
Questo è quanto riguarda le idee attualmente più alla moda. Voglio ora passare a discutere di ciò che è decisamente fuori moda.
Al contrario di Impero, il nuovo libro di István Mészáros Socialism or Barbarism, rappresenta per molti versi l’apice di ciò che è fuori moda, anche a sinistra. Anziché incoraggiare un nuovo universalismo dalle potenzialità che nascono dal processo di globalizzazione capitalistica, purché quest’ultima imbocchi la strada giusta, Mészáros sostiene che il perpetuarsi di un sistema dominato dal capitale garantirebbe esattamente l’opposto: “malgrado la sua ‘globalizzazione’ imposta, il sistema incurabilmente iniquo del capitale è strutturalmente incompatibile con l’universalità in qualsiasi vero senso della parola... non può esserci universalità nel mondo sociale senza uguaglianza sostanziale” (pp. 10-11)4.
Per Mészáros, il modo migliore di intendere il capitale è di considerarlo come un processo metabolico simile a quello di un organismo vivente. Quindi il capitale deve essere trattato tenendo conto che incorpora un sistema di relazioni complesso. Qualsiasi risultato ottenuto dal capitalismo sul piano della liberazione “orizzontale” è negato dall’ordinamento “verticale” dominante, che costituisce sempre il suo momento decisivo. Questo soverchiante antagonismo significa che il sistema del capitale si articola come una rete di contraddizioni simile a una giungla, che può essere solo gestita per qualche tempo, ma mai definitivamente superata.
Tra le principali contraddizioni insormontabili all’interno del capitalismo vi sono quelle tra: (1) la produzione e il suo controllo; (2) la produzione e il consumo; (3) la concorrenza e il monopolio; (4) lo sviluppo e il sottosviluppo (centro e periferia); (5) l’espansione economica mondiale e le rivalità intercapitalistiche; (6) l’accumulazione e la crisi, (7) la produzione e la distruzione, (8) il potere sul lavoro e la dipendenza sul lavoro; (9) l’occupazione e la disoccupazione; (10) la crescita della produzione a tutti i costi e la distruzione ambientale. “È del tutto inconcepibile il superamento anche di una sola di queste contraddizioni — osserva Mészáros — e a maggior ragione delle loro inestricabili interrelazioni, senza istituire un’alternativa radicale al controllo metabolico sociale capitalistico” (pp. 13-14).
Secondo questa analisi, il periodo dell’ascesa storica del capitalismo è ormai terminato. Il capitalismo si è esteso in tutto il globo, ma nella maggior parte del mondo ha prodotto solo enclavi di capitale. Non c’è più alcuna promessa di recupero economico rispetto ai paesi capitalistici avanzati da parte del mondo sottosviluppato, e nemmeno di avanzamento economico e sociale sostenuto nella maggior parte della periferia. Le condizioni di vita della maggioranza dei lavoratori stanno globalmente declinando. La lunga crisi strutturale del sistema, a partire dagli anni ‘70, impedisce al capitale di comporre le proprie contraddizioni, anche temporaneamente. L’appoggio esterno offerto dallo Stato non è più sufficiente a sostenere il sistema. Quindi, l’“incontrollabilità distruttiva” del capitale — la sua tendenza a distruggere i rapporti sociali precedenti e la sua incapacità a sostituirli con qualcosa di sostenibile — sta emergendo sempre di più (pp. 19, 61).
Al centro dell’argomentazione di Mészáros vi è la tesi che noi stiamo ora vivendo in quella che “potenzialmente è la fase più letale del capitalismo” (il titolo del secondo capitolo del libro). L’imperialismo, secondo l’autore, può dividersi in tre fasi storiche distinte: (1) il primo colonialismo moderno, (2) la fase classica dell’imperialismo descritta da Lenin, e (3) il capitalismo egemonico globale, con gli USA come forza dominante. La terza fase si è consolidata dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma è diventata “assai pronunciata” con l’inizio della crisi strutturale del capitale negli anni ‘70 (p. 51).
A differenza di molti analisti, Mészáros sostiene che l’egemonia americana non è terminata negli anni ‘70, anche se in quegli anni gli USA hanno subito una flessione della propria posizione economica relativamente agli altri grandi stati capitalistici rispetto agli anni ‘50. Inoltre, gli anni ‘70, a partire dall’abbandono da parte di Nixon della parità dollaro-oro, hanno segnano l’inizio di uno sforzo assai determinato da parte degli USA di stabilire la propria preminenza globale in termini politici, economici e militari, per costituirsi come sostituto di un governo globale.
Allo stadio attuale dello sviluppo globale del capitale, insiste Mészáros, “non è più possibile evitare di confrontarsi con una contraddizione fondamentale e un limite strutturale del sistema. Questo limite è costituito dalla sua incapacità di costituirsi come stato del sistema del capitale, come complemento delle sue aspirazioni e articolazioni transnazionali”. È qui quindi che “la tendenza degli USA ad assumere pericolosamente il ruolo di stato del capitale in quanto tale, sussumendo in sé con tutti i mezzi a disposizione tutte le potenze rivali” diventa qualcosa di molto simile a uno “stato del sistema capitalistico” (pp. 28-29).
Ma gli Stati Uniti, pur essendo stati in grado di arrestare il declino nella loro posizione relativa nella gerarchia capitalistica mondiale, non riescono a raggiungere un livello di dominio economico sufficiente da consentir loro di governare da soli il sistema mondiale, che resta, quindi, ingovernabile. Di conseguenza, gli USA cercano di utilizzare il loro immenso potere militare per stabilire il loro primato globale. "Quel che è oggi in gioco, scrive Mészáros, non è il controllo di una qualche parte del pianeta, di qualsivoglia dimensione, mettendo in difficoltà i rivali pur continuando a tollerarne l’azione indipendente, ma il controllo di tutto il globo da parte di una superpotenza economica e militare egemonica che utilizza tutti i mezzi a sua disposizione, anche i più autoritari e, se necessario, i più militarmente violenti.
Questo è, in definitiva, ciò di cui necessita l’estrema razionalità del capitale globalmente sviluppato nel vano tentativo di controllare il suo irriducibile antagonismo. Tuttavia il problema è che tale razionalità —che può essere scritta senza virgolette poiché corrisponde realmente alla logica del capitale nella fase attuale del suo sviluppo globale— è al tempo stesso la più estrema irrazionalità storica, includendo in sé il concetto nazista di dominio mondiale, per quanto riguarda le condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità (pp. 37-38).
Affermare che l’imperialismo contemporaneo, rappresentato innanzitutto dagli USA, è in qualche modo venuto meno per il fatto che vi è poco controllo politico diretto di territori stranieri, significa semplicemente non capire i problemi che ci stanno di fronte. Come osserva Mészáros, il colonialismo europeo ha in realtà occupato solo una piccola parte dei territori della periferia. Ora gli strumenti sono diversi, ma la dimensione globale dell’imperialismo è sempre più grande. Gli Stati Uniti occupano attualmente territorii stranieri, nella forma di basi militari, in sessantanove paesi, e il numero continua a crescere. Inoltre, “la moltiplicazione della potenza distruttiva degli arsenali militari —e specialmente quello delle catastrofiche armi aeree— ha modificato in un certo senso il modo di imporre i diktat imperialistici a un paese da sottomettere (truppe terrestri e occupazione diretta sono meno necessari), ma non la sostanza.” (p. 40).
Con il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, l’imperialismo ha bisogno di un nuovo vestito. Le vecchie giustificazioni interventiste della guerra fredda non funzionano più. Saddam Hussein, osserva Mészáros, ha in tal senso fornito una giustificazione, ma solo temporaneamente. Perfino gli USA sono stati costretti a presentare la loro guerra sotto le vesti di una alleanza universale nell’interesse del diritto globale, anche se con gli Stati Uniti che si presentavano sia nelle vesti del giudice che in quelle del pubblico accusatore.
Tra gli sconcertanti sviluppi segnalati da Socialism or Barbarism vi sono: le enormi perdite civili irachene causate dalla guerra e la morte di più di mezzo milione di bambini a causa delle successive sanzioni; l’offensiva militare e l’occupazione dei Balcani; l’espansione ad Est della NATO; la nuova politica americana che utilizza la NATO come forza militare offensiva in sostituzione delle Nazioni Unite; i tentativi USA volti ad ingannare e scalzare l’ONU; il bombardamento dell’Ambasciata cinese a Belgrado; la firma del trattato di sicurezza nippo-americano in funzione anticinese; e la crescente aggressività del militarismo USA contro la Cina, vista sempre di più come superpotenza rivale emergente.
Nel lungo periodo, anche l’attuale apparente armonia nei rapporti tra USA e Unione Europea non può essere data per scontata, in quanto gli USA continuano a perseguire i loro scopi di dominio globale. La risposta non può essere trovata all’interno del sistema in questa fase dello sviluppo del capitale. La globalizzazione, secondo Mészáros, ha fatto della condizione globale un imperativo per il capitale, ma il carattere intrinseco del processo sociale metabolico del capitale, che richiede una pluralità di capitali, lo rende impossibile. “La fase potenzialmente più letale del capitalismo” ha quindi a che vedere con la circolarità di barbarie e distruzione che queste condizioni sono condannate a produrre.
Come ci appaiono oggi, dopo l’11 settembre e la fase iniziale afgana della guerra globale al terrorismo, questi due punti di vista sulla globalizzazione/imperialismo, quella sempre più alla moda basata sull’emergere di una sovranità globale (detta "Impero") e quella decisamente fuori moda che segnala “la fase potenzialmente più letale del capitalismo”?
Si potrebbe forse sostenere che l’analisi di Impero viene confermata, visto che non è stato uno stato-nazione a sfidare l’emergente sistema di sovranità globale bensì terroristi internazionali esterni all’Impero. In quest’ottica si potrebbe ritenere che gli Stati Uniti conducano in Afghanistan un’azione di “polizia mondiale” “non in relazione a motivi d’ordine nazionale, ma in nome del diritto globale” —come Hardt e Negri hanno definito le azioni USA nella Guerra del Golfo. Questo è più o meno il modo in cui Washington descrive le proprie azioni.
Socialism or Barbarism, invece, sembra suggerire un’interpretazione ben diversa, che vede l’imperialismo USA al centro dell’attuale crisi del terrore. In quest’ottica, i terroristi che hanno attaccato il World Trade Center e il Pentagono non hanno attaccato la sovranità o la civiltà globali (infatti, non hanno attaccato le Nazioni Unite a New York), e tantomeno i valori di democrazia e libertà come sostenuto dagli Stati Uniti, ma hanno deliberatamente puntando ai simboli del potere finanziario e militare USA, e quindi il potere globale degli USA. Pur essendo ingiustificabili sotto qualsiasi profilo, tuttavia questi atti terroristici sono parte della più amplia storia dell’imperialismo USA e del loro tentativo di stabilire la propria egemonia globale, in particolare della storia dell’interventismo USA in Medio Oriente. Inoltre, gli USA non hanno risposto con un processo di costituzionalismo globale, e nemmeno nella forma di una mera azione di polizia, ma imperialisticamente, dichiarando una guerra unilaterale contro il terrorismo internazionale e lanciando la loro macchina da guerra contro il governo Taliban in Afghanistan.
In Afghanistan l’esercito USA cerca di distruggere le forze terroristiche che non molto tempo fa aveva esso stesso contribuito a creare. Lungi dall’aderire ai suoi propri principi costituzionali in ambito internazionale, gli USA hanno sempre sostenuto gruppi terroristici ogniqualvolta ciò risultasse funzionale ai loro disegni imperialistici, e hanno essi stessi esercitato il terrorismo di stato in prima persona, massacrando popolazioni civili. La sua nuova guerra al terrorismo, ha dichiarato Washington, potrà rendere necessari interventi militari USA in numerosi paesi oltre all’Afghanistan, in paesi come l’Iraq, la Siria, il Sudan, la Libia, l’Indonesia, la Malesia e le Filippine, che vengono già segnalati come possibili teatri per gli interventi futuri.
Tutto ciò sembrerebbe suggerire, in una fase caratterizzata da un rallentamento economico mondiale e da una crescente repressione nei maggiori stati capitalistici, che l’“incontrollabilità distruttiva” del capitale sta venendo in primo piano. L’imperialismo, nel suo intento di bloccare ogni tipo di sviluppo autocentrato nella periferia —in altre parole, la perpetuazione del sottosviluppo—, ha allevato il terrorismo, che a sua volta si è rivoltato contro il maggiore stato imperialista stesso, determinando una spirale di distruzione di cui non si vede la fine.
Poiché un governo globale è impossibile nel quadro del capitalismo ma necessario nella sempre più globalizzata realtà contemporanea, il sistema, insiste Mészáros, è sempre più orientato verso un governo fondato sul “comando violento sul mondo intero, su base permanente, da parte del paese imperialista egemonico: un modo... assurdo e insostenibile di governare l’ordine globale” (p. 73).
Dieci anni fa, poco dopo la Guerra del Golfo, i direttori di Monthy Review Harry Magdoff e Paul Sweezy osservavano: “Gli USA sembrano essersi messi su una strada che comporta gravissime implicazioni per tutto il mondo. Il mutamento è l’unica legge certa dell’universo. Non può essere fermato. Se alle società (della periferia del mondo capitalistico) si impedisce di risolvere i loro problemi a modo loro, non li risolveranno certo nei modi dettati da altri. E se non possono andare avanti, andranno inevitabilmente indietro. Questo è quanto sta accadendo attualmente in gran parte del mondo, e gli Stati Uniti, la più potente nazione del mondo con mezzi illimitati di coercizione a sua disposizione, sembra dire agli altri che questo è un fato che va accettato, pena la distruzione violenta.
Alfred North Whitehead, uno dei maggiori pensatori del secolo XIX, disse una volta: “Non ho mai cessato di considerare l’idea che l’umanità possa ascendere fino ad un certo punto e poi declinare senza mai più riprendersi. Molte altre forme di vita lo hanno fatto. L’evoluzione potrebbe andare tanto in giù come in su”. Si tratta di un pensiero sconcertante ma tutt’altro che assurdo, considerando che gli agenti forieri di questo declino potrebbero star prendendo forma sotto i nostri occhi.
Non vogliamo naturalmente sostenere che il declino irreversibile è inevitabile, finché non si verifica. Ma vogliamo suggerire che il modo come sono andate le cose nell’ultimo mezzo secolo, e specialmente nell’ultimo anno, racchiude in sé tale potenziale. E vogliamo anche riconoscere che noi, il popolo americano, abbiamo la responsabilità speciale di fare qualcosa in proposito, visto che è il nostro governo che minaccia di fare la parte di Sansone nel tempio dell’umanità (editoriale "Pax Americana", Monthly Review, Luglio-Agosto 1991).
Gli ultimi dieci anni hanno confermato la validità generale di queste analisi. Secondo qualsiasi standard obbiettivo, gli USA sono la nazione più distruttiva della terra.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale hanno ucciso e terrorizzato più popolazioni in tutto il globo di qualsiasi altra nazione. Il loro potere di distruzione sembra illimitato, armato com’è con ogni arma concepibile.
I suoi interessi imperiali, che puntano all’egemonia globale, sono virtualmente senza limiti. In risposta agli attacchi terroristici a New York e a Washington, gli USA hanno dichiarato guerra ai terroristi che, dicono, risiedono in più di sessanta paesi, e hanno minacciato azioni militari contro i governi che danno loro rifugio. In quella che viene presentata come solo la prima fase di una lunga lotta, hanno lanciato la loro macchina militare contro l’Afghanistan, provocando già un numero spaventoso di vittime, includendo quelle morte per mancanza di cibo.
Come interpretare questi sviluppi se non come crescita dell’imperialismo, della barbarie e del terrorismo, che si alimentano mutuamente, in un’epoca in cui il capitalismo sembra aver raggiunto i limiti della sua fase storica ascendente?
In queste circostanze la speranza che rimane all’umanità sta nella ricostruzione del socialismo e, più immediatamente, nell’emergere di una lotta popolare all’interno degli Stati Uniti per impedire a Washington di continuare il suo gioco mortale di Sansone nel tempio dell’umanità. Le parole “socialismo o barbarie", già eloquentemente pronunciate da Rosa Luxemburg, non hanno mai avuto un più forte carattere di urgenza globale.

Note
1 Sui giornali americani i pezzi Op-Ed (letteralmente, editoriali di opinione) appaiono di solito a coppie, sono scritti da esperti esterni, e presentano punti di vista opposti su una determinata questione (per esempio bombardare o non bombardare l’Iraq). A volte vicino ad essi appare anche l’editoriale vero e proprio, che esprime la linea del giornale (N.d.T.).

2 Michael Hardt e Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, 2002.

3 Hardt e Negri fanno riferimento ai lavori di Samir Amin, in particolare a Empire of Chaos (Monthly Review Press, 1992), come alla più autorevole interpretazione dell’imperialismo/ impero alternativa alla propria, e che ne differisce particolarmente sul tema centro/periferia. Vedi Hardt e Negri, Impero (pp. 14, 85, 311, 399, 422-424, 433)

4 Socialism or Barbarisn (2001) e l’importante opera teorica di Mészáros Beyond Capital (1995) sono state
entrambe pubblicate dalla Monthly Review Press.


* L’articolo è basato su una conferenza di presentazione del libro Socialism or Barbarism di István Mészáros tenutasi al Forum Brecht di New York il 14 ottobre 2001.

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