4.7.05

Sulla questione delle primarie


Sulla questione delle primarie
E. Melchionda

Dopo il successo di Nichi Vendola alle primarie in Puglia sara' ancora piu' difficile contrastare la fatale irruzione di questo presunto strumento di democrazia diretta nella politica italiana. Non c'e' dubbio, infatti, che l'esito della vicenda pugliese sembra dar ragione a chi ritiene che le primarie possano essere, in determinate condizioni, un metodo adatto a valorizzare la partecipazione politica e a scombinare i giochi di potere delle oligarchie partitiche. Del resto, non si tratta di una novita'. Quando furono introdotte per la prima volta negli Stati Uniti, le primarie erano pensate esattamente in questa maniera: dovevano restituire ai cittadini quella sovranita' di cui erano stati "espropriati" dalla machine politics. E anche qui da noi, cosi' come in altre democrazie mature, l'arma delle primarie incombe come uno spettro da almeno un decennio a questa parte su quel che resta della partitocrazia. Non e' un caso che esse, a meno che non fossero ben controllabili e pilotabili, siano state viste sempre come il fumo negli occhi dagli apparati di partito, i quali non vorrebbero rinunciare alla loro prerogativa d'ultima istanza, che e' quella di selezione dei candidati. Mentre, al contrario, sono evocate a ogni pie' sospinto da tutti quelli che mostrano qualche insoddisfazione verso i meccanismi della rappresentanza.
Ma allora che cosa sta succedendo? Che gli ha preso ai partiti? Da dove nasce quest'invaghimento della sinistra per le primarie? Come mai perfino un partito come Rifondazione le accetta volentieri come terreno di lotta politica, fino a considerarle uno strumento democratico non solo efficace ma anche avanzato? Vediamo di capirci qualcosa. Ma con il mio ragionamento vorrei evitare di entrare nel merito della contingenza politica, delle valutazioni e delle schermaglie che caratterizzano in questi giorni il dibattito nei partiti del centro-sinistra. Mi limitero' a fare, in base alle esperienze conosciute e alle conoscenze acquisite dalla scienza politica in materia, qualche considerazione piu' generale sul significato che va attribuito alle primarie nell'ambito del processo politico democratico.

Direttismo vs. democrazia diretta
Prima di tutto sarebbe bene liberarsi di un equivoco tutt'altro che innocente: le elezioni primarie non sono affatto una procedura di democrazia diretta. A rigore, dirette sono solo quelle procedure democratiche che consentono effettivamente al popolo di autogovernarsi, cioe' di prendere da se' le decisioni politiche, senza bisogno di governanti e classi politiche. Anzi, se prendessimo a modello la democrazia classica (letterale) dei greci, da cui ha tratto ispirazione il movimento comunista moderno, scopriremmo che essa e' incompatibile con la stessa procedura elettorale, di qualsiasi genere essa sia (Manin 1992). Se esiste oggi una procedura che si avvicina alla vera e propria democrazia diretta, essa e' il referendum. Ma si tratta pur sempre di una procedura plasmata secondo il modello elettorale, secondo una logica semplificatrice (si'/no); percio', ed anche per altre ragioni che non e' possibile approfondire in questa sede, esso non costituisce certo una alternativa valida alla democrazia rappresentativa (Fedele 1994).
L'unico tentativo moderno di costruire istituzioni stabili di democrazia diretta e' quello che fu fatto in Russia dai bolscevichi: "tutto il potere ai soviet". Pur essendo basati sulle regole del mandato imperativo e della revocabilita' delle cariche nonche' su una partecipazione politica strutturata nell'ambito della vita quotidiana, a cominciare dal luogo di lavoro, i soviet in verita' non eliminavano il legame rappresentativo, pero' cercavano di ridurre al minimo la distanza tra governanti e governati (Lenin 1967). Sappiamo che, come aveva gia' previsto Rosa Luxemburg, purtroppo l'esperimento della democrazia soviettista e' fallito presto, e malamente. Tant'e' vero che, invece dell'autogoverno, esso ha prodotto una classe politica incontrollata e, invece della democrazia diretta, un regime dispotico. Ora, lasciamo stare il perche'. Probabilmente e' vero che per dar luogo a una democrazia socialista, anzi al socialismo tout-court, non si puo' fare a meno delle istituzioni rappresentative "democratico-borghesi" (Poulantzas 1979). Rimane pero' l'esigenza di intrecciare queste ultime con altre istituzioni che accorcino la distanza tra rappresentanti e rappresentati.
Non e' certo in questa direzione che vanno le democrazie liberali contemporanee, che - com'e' noto - versano in una crisi senza precedenti. Tale crisi colpisce la rappresentanza tradizionale, e' vero, ma non per questo spinge verso una democrazia piu' diretta. Infatti, sono ben altri il senso e gli effetti di quei fenomeni che oggi, indicati sotto il nome di "direttismo", sfidano le strutture di rappresentanza in nome di un rapporto piu' immediato tra cittadini e governo, anzi tra cittadini e capo (del governo)(Ferraioli 2003). Mi riferisco alle varie forme di presidenzialismo, all'influenza dei sondaggi nell'agenda-setting, a un certo uso dei referendum ecc. E, in quanto rientrano nella medesima logica, mi riferisco anche alle elezioni primarie. Dovrebbe essere chiaro a questo punto che esse sono tutt'altro che un meccanismo di democrazia diretta. Se mai, appartengono allo strumentario di quella che Max Weber chiamava "democrazia plebiscitaria". Infatti le primarie, ben lungi dal recidere il legame rappresentativo, tendono a sopprimere in nome di un'investitura diretta qualsiasi istanza di controllo e di mediazione tra governanti e cittadini, anzi tra capo e cittadini (Zagrebelsky 1995).

La lezione americana
Le vittime predestinate di questa democrazia plebiscitaria, di cui le primarie costituiscono uno strumento privilegiato, sono innanzitutto i partiti (ma, per altri versi, anche il parlamento). A dimostrarlo c'e' l'esperienza ormai secolare del paese che ha inventato e sviluppato al massimo grado le primary elections: gli Stati Uniti d'America. La storia di questa grande democrazia (la prima democrazia di massa) e' poco o male conosciuta dai nostri politici. Forse e' un destino che debba sempre anticipare (di un secolo!) il futuro dell'Europa, come si diceva una volta, ma e' un peccato che non si tragga insegnamento dalla sua esperienza per cercare di evitarne le degenerazioni di cui gli americani stessi sono ben coscienti, e a cui ormai non sanno piu' come rimediare. Ora, la svolta che qui da noi si sta producendo in quest'ultimo ventennio e' molto simile a quella che avvenne in America tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, quando il movimento progressista-populista riusci' a stravolgere il sistema politico fondato da Andrew Jackson e Martin Van Buren. A dispetto di un'immagine distorta (anzi falsificata) che per lungo tempo ha imperversato nella storiografia, questo era un sistema imperniato su grandi partiti di massa, con forte impronta ideologica, partecipativa e di classe, i quali furono il veicolo della democratizzazione dello stato (Testi 2000).
La rottura che fu operata nell'eta' progressista (la data simbolo sono le elezioni presidenziali del 1896) aveva di mira precisamente queste organizzazioni di massa, accusate di alimentare un sistema di corruzione e di clientele, di aspirare solo alle poltrone e al potere, di dividere artificialmente una societa' omogenea, di limitare la liberta' e il potere dei cittadini. In realta', i progressisti, che erano un gruppo abbastanza omogeneo di giornalisti, intellettuali e aristocratici indipendenti devoti agli ideali liberali, esprimevano "un elitarismo urbano-borghese, in parte conservatore e ispirato dalle grandi corporations, in parte riformatore e progressista" (Burnham 1982, p. 72). Ma, al di la' della loro ambiguita' costitutiva, quel che e' certo e' che essi furono lo strumento delle "classi dirigenti del paese per superare l'ostacolo che una societa' mobilitata e partecipante poneva alla costruzione del consenso all'accumulazione capitalistica" (Testi 1994, p. 21). In ogni caso, le riforme ispirate dai progressisti segnarono il passaggio a un nuovo sistema politico, in cui i partiti furono in breve tempo smantellati, ovvero ridotti a etichette prive di contenuto, la partecipazione fu drasticamente abbattuta, riducendosi in meno di un decennio di almeno 15 punti percentuali, e la presidenza potette svilupparsi come un'istituzione plebiscitaria, a spese del Congresso che aveva avuto la supremazia fino a quel momento.
Le riforme in grado di avere effetti cosi' micidiali furono essenzialmente tre: una riforma della pubblica amministrazione che contrastava l'appartenenza partitica dei funzionari (il Pendleton Act), l'introduzione del sistema della registrazione per l'esercizio del diritto di voto e la diffusione delle primarie dirette per la selezione dei candidati di partito. Quest'ultima riforma fu ideata da un governatore del Wisconsin, Robert La Follette, che propugnava un programma populista assai radicale e riusci' ad imporsi come il vero leader politico nazionale dei progressisti. Anche se non riusci' a dare la scalata alla presidenza, lascio' il segno nella politica americana. Dal 1903 in poi le primarie infatti si diffusero rapidamente quasi in tutti gli stati. I partiti tentarono di resistere all'ondata populista ma, anche laddove erano piu' forti e soprattutto quando erano in gioco le cariche con piu' visibilita' (sindaco, governatore, senatore), videro sempre piu' spesso i propri uomini sfidati e sconfitti da candidati e cricche indipendenti, che potevano contare su una maggiore quantita' di risorse e popolarita'.

Le "primarie della ricchezza"
Il sistema della primarie ha continuato a svilupparsi senza freno, in estensione e intensita', per tutto il secolo scorso e pare che ancora non sia finita. A quanto pare, e' nella sua stessa natura di essere incontrollabile e di tendere ad autoalimentarsi. Ormai negli Usa si scelgono con le primarie i candidati a tutte le cariche pubbliche (compresa la presidenza), e non solo a quelle monocratiche. Ma la cosa piu' impressionante di questo meccanismo e' la sua tendenziale intensificazione. Com'e' noto, le primarie chiuse, in cui votano solo gli aderenti al partito, sono state ben presto soppiantate da quelle aperte, che consentono a qualsiasi cittadino di partecipare alla scelta del candidato di un partito. Ma da qualche tempo a questa parte si sono andati affermando altri tipi di primarie, che esautorano veramente del tutto il ruolo dei partiti: ad esempio, le blanket e le nonpartisan primary, dove la scelta e' presentata agli elettori su un'unica scheda, addirittura senza l'indicazione dell'affiliazione.
L'altro aspetto che spesso si sottovaluta della natura delle primarie e' la loro tendenza all'istituzionalizzazione. Vale a dire che esse hanno bisogno inevitabilmente di essere regolate dallo stato e dalle leggi. A pensarci bene, non dovrebbe essere cosi' sorprendente: visto che la loro funzione e gli interessi in gioco sono cosi' importanti, solo lo stato puo' garantirne la correttezza, non certo i partiti. Ed e' proprio questo che e' avvenuto negli Stati Uniti, con la conseguenza che gli stessi partiti hanno finito per diventare delle istituzioni semi-pubbliche. Sin dall'epoca progressista, infatti, molti stati hanno varato leggi che regolavano in dettaglio il funzionamento interno dei partiti, oltre che il loro ruolo nel processo di selezione dei candidati, fino ad assegnargli il "dubbio titolo" dei "partiti piu' statalizzati del mondo democratico" (Sabato 1988, p. 203). Naturalmente, alla progressiva statalizzazione dei partiti ha corrisposto un indebolimento della loro funzione rappresentativa e del loro insediamento nella societa' civile. Al punto che e' difficile considerarli ancora dei partiti in senso proprio.
L'irresistibile ascesa delle primarie, pur con alti e bassi, e' stata dunque continua. E' opinione comune, tra gli storici e gli scienziati politici americani, che il fenomeno abbia avuto come suo principale effetto la disintegrazione e lo svuotamento dei partiti (Ranney 1975). Si e' passati dalla party-centered alla candidate-centered politics, nel senso che il declino dei partiti ha portato al centro del processo politico i candidati, con le loro risorse e i loro seguiti personali (Wattenberg 1991). Qui il vero salto di qualita' e' avvenuto negli anni sessanta-settanta, con l'avvento della videopolitica. E' quando si e' visto il ruolo che possono svolgere i media, al posto dei tradizionali attivisti dei partiti, per condurre all'affermazione di un candidato, che le primarie sono sfuggite definitivamente di mano. Non e' un caso che soltanto allora, a cominciare dal trionfo di Kennedy del 1960, esse siano riuscite a dilagare anche nel processo di nomination per la presidenza. Ancora una volta, restringendo il ruolo dei partiti, fu prospettato un rapporto piu' diretto tra cittadini e governo (presidente). Ma, dietro a un processo elettorale imperniato sui candidati e dipendente dai media, quelli che si imposero come attori dominanti furono piuttosto i gruppi di interesse organizzati.
L'influenza del denaro nella politica americana era gia' uscita esaltata dalle riforme progressiste, a dispetto della loro retorica anti-corruzione. Adesso pero' la dipendenza dei candidati dai mezzi di comunicazione e dagli altri strumenti di campagna capital-intensive (sondaggi, banche dati, direct-mail, professionisti e consulenti) ha determinato una crescita esponenziale dei costi del processo elettorale (Melchionda 1998). Si pensi che ultimamente una campagna per la Camera dei Rappresentanti costa in media dai 500 mila ai 900 mila dollari, una per il Senato dai 2,5 ai 5 milioni e quella per la presidenza e' arrivata agli oltre 300 milioni spesi nel 2004 da Bush e da Kerry. Quel che e' piu' interessante e' che le possibilita' di candidatura e di elezione dipendono in gran parte dalle disponibilita' finanziarie, che si misurano gia' nella fase delle primarie. Ecco perche' ormai si puo' dire che le uniche che contano davvero sono le wealth primary (primarie della ricchezza) (Raskin-Bonifaz 1994).
E' evidente a questo punto che per affrontare un'elezione, a cominciare dalle primarie, negli Usa non basta essere ricchi per conto proprio, ma, in assenza di un sistema di finanziamento pubblico, e' necessario fare ricorso alle contribuzioni private. Ora, indubbiamente una buona parte di esse proviene da normali cittadini, ma il grosso ce lo mettono le corporations e i gruppi d'interesse. Anche i sindacati, sebbene in minima parte. In ogni caso, il risultato e' che gli eletti saranno legati a filo doppio alle lobbies che li hanno sponsorizzati. In compenso pero', sommando il sistema di finanziamento con quello delle primarie, che gli assegna un enorme vantaggio di visibilita', essi avranno la quasi certezza di essere rieletti indefinitamente: infatti, il tasso di conferma dei parlamentari americani e' superiore al 90%. Tutto questo senza aver bisogno di partiti che limitino la loro "liberta'".

L'apprendista stregone
Il punto e' che i meccanismi del direttismo, che ora vorremmo importare qui da noi, non esaltano affatto la democrazia e la partecipazione. Al contrario, da questo punto di vista essi hanno un effetto contrario. Come abbiamo visto, negli Stati Uniti l'introduzione delle primarie, insieme con altre forme di direttismo, provoco' addirittura un "buco nell'elettorato". Esse segnarono cioe', per una serie di gruppi sociali e di interessi economici, la chiusura di quegli spazi di partecipazione e di rappresentanza che invece gli erano stati aperti per qualche decennio dai partiti di massa. In pratica, le fasce economicamente piu' svantaggiate furono espulse dal processo democratico. Se i partiti avevano ottenuto l'effetto di allargare la partecipazione e la democrazia e' perche' erano stati in grado di dar loro forme stabili di identificazione politica e di mobilitarle, sapendone interpretare interessi, bisogni e culture. Tutte cose che, al di la' della retorica direttista, non potevano (e non volevano) fare le riforme progressiste, che si rivolgevano a ben altri gruppi sociali ed interessi economici.
Ma - domandiamoci - e' proprio inevitabile che le primarie abbiano qui da noi, in un'epoca assai diversa, gli stessi effetti che ebbero nell'America del secolo scorso? Poiche' nessun marchingegno politico ha effetti univoci e predestinati (ce lo dimostrano, tra l'altro, le nostre riforme elettorali maggioritarie), la risposta a questa domanda dipende dal contesto nel quale esso si inserisce. Ebbene, il quadro socio-politico che abbiamo di fronte sin dagli anni ottanta in tutta Europa e' quello di una grande ondata populista la cui manifestazione piu' significativa e' stato il cosiddetto "sentimento anti-partitico" (Poguntke-Scarrow 1996). Quest'ondata, che nasce da una profonda insoddisfazione nei confronti della democrazia tradizionale, ha dato luogo a due tipi di fenomeni, apparentemente contraddittori, che contraddistinguono sempre piu' gli atteggiamenti e le aspettative dei cittadini verso la politica: uno e' il direttismo e l'altro e' l'astensionismo. Non e' detto che essi si presentino simultaneamente, anzi di solito si alternano, ma si tratta comunque di fenomeni collegati, con la stessa origine, che si alimentano a vicenda.
Com'e' noto, in Italia l'ondata populista e anti-partitocratica si e' presentata con caratteri particolarmente virulenti all'inizio degli anni novanta, provocando quella specie di "rivoluzione" del sistema politico che ha destrutturato i partiti di massa ed e' sfociata poi nella cosiddetta seconda repubblica (Calise 1998). Nonostante i piu' diversi tentativi, a cominciare dall'introduzione del sistema maggioritario e della competizione bipolare, il nuovo quadro politico non si e' affatto stabilizzato, e anzi e' rimasto in balia di ricorrenti fiammate populiste. Il fatto e' che i partiti esistenti, piuttosto che sforzarsi di ricostruire le proprie basi identitarie e di massa, hanno ripiegato su mere funzioni procedurali, volte unicamente a tutelare il proprio personale politico, e sulla linea della personalizzazione e della mediatizzazione, se necessario non disdegnando di flirtare con le stesse istanze populiste. In tal modo, pero', hanno finito per alimentare queste stesse istanze, provocando ulteriormente nell'elettorato quelle reazioni di protesta che oscillano tra il direttismo e l'astensionismo (Tarchi 2003).
Se e' questo il contesto in cui si inseriscono, e' evidente che le primarie non potranno non avere un effetto degenerativo sul nostro sistema democratico. Certo, un tale effetto non lo si vedra' a breve termine. Anzi, in prima battuta, soprattutto se esistono ancora partiti in grado di mobilitare attivisti ed elettori, le primarie possono effettivamente valorizzare la partecipazione. Ma bisogna considerare, se non altro da una prospettiva razionale, che cosa avverra' nel momento in cui gli attivisti di partito cominceranno a rendersi conto che non e' necessario spendere il proprio tempo nell'ambito dell'organizzazione per ottenere una candidatura (per se' o per altri) e gli elettori che esprimersi di tanto in tanto per un candidato piuttosto che per l'altro non serve a molto se poi non c'e' un'organizzazione collettiva che stabilmente rappresenti, traduca in progetti politici e immetta nel processo di governo i propri interessi e valori. Allora e' facile prevedere che da un lato entreranno nel gioco politico attori e interessi che nessuno sara' in grado di contrastare e dall'altro molti cittadini privi di strumenti per farsi valere preferiranno restarsene a casa.
In base a queste considerazioni, si capisce perche' trovo molto preoccupante che l'idea delle primarie proposta da Prodi non abbia incontrato quasi nessuna obiezione nello schieramento del centro-sinistra e neppure da parte di un partito come Rifondazione comunista, che per sua natura dovrebbe essere immune dalle seduzioni populiste e plebiscitarie. So bene che sono intervenute considerazioni di tattica politica che indubbiamente hanno un peso, pena la scomparsa o la marginalita', sulla prassi dei partiti che accettano di muoversi in un sistema competitivo, tanto piu' quando si propongono come forze di governo. Tuttavia, se un gruppo dirigente non e' in grado di guardare alla prospettiva, al di la' delle convenienze del momento, vuol dire che e' avvenuta una degenerazione profonda della sua cultura politica. La nostra sinistra continua a rompere un giorno si' e uno no con lo stalinismo, ma non ha ancora capito che - come diceva il vecchio Lukacs - la vera essenza dello stalinismo sta proprio nella "piccola politica", nel "tirare avanti alla giornata", nel "mettere la tattica davanti alla strategia": in questo senso "siamo ancora tutti stalinisti" (Ferrarotti 1975, p. 23). Eccolo il tanto vituperato politicismo.
Del resto, solo uno stalinismo di questa natura poteva indurre i partiti della sinistra ad accettare un'elezione primaria, come quella proposta da Prodi, che ha del paradossale: e' nello stesso tempo un plebiscito e un sondaggio proporzionalista. Cioe' il contrario di quel che dovrebbero essere delle primarie effettive: competitive e maggioritarie. Quelle pugliesi si' che sono state vere primarie. E non mi soffermo sull'obiezione che e' uscita puntualmente fuori, secondo cui un vincitore (alle primarie) non e' necessariamente un vincente (alle elezioni generali): non perche' sia del tutto infondata, ma perche' sorvola sul fatto che la competizione elettorale non dev'essere per forza centripeta, e se invece e' polarizzata (come e' avvenuto nelle ultime presidenziali americane) un candidato radicale puo' avere piu' chance di uno moderato. Ma, al di la' del risultato, che e' piaciuto a tanti di noi, il rischio e' che successi come quello di Vendola suscitino degli entusiasmi che non ci consentano di ragionare serenamente sulle conseguenze "inattese" che da questa innovazione possono derivare. Insomma, che facciamo la parte degli apprendisti stregoni.


Riferimenti bibliografici
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G. Zagrebelsky (1995), Il "Crucifige!" e la democrazia, Einaudi, Torino.

(l'Ernesto - n. 1/2005)

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