26.5.06

Sul "nuovo imperialismo" di David Harvey

il manifesto, 25 Maggio 2006

Le nuove regole del dominio messe a profitto
I marines e i corpi speciali che hanno invaso l'Iraq sono le avanscoperte del nuovo governo mondiale immaginato dagli Stati Uniti
«Guerra perpetua», il provocatorio saggio di David Harvey. Dal mercato mondiale alla crisi del capitalismo, appunti di lettura sul «nuovo imperialismo»

Benedetto Vecchi

E' un saggio che analizza un tema impegnativo, il cosiddetto «nuovo imperialismo», con un bersaglio polemico mai del tutto dichiarato. Le tesi che l'autore, il geografo David Harvey, vuole confutare ne La guerra perpetua (Il Saggiatore, pp. 223, euro 17,50) è quella proposta da Toni Negri e Michael Hardt nel fortunato Impero (Rizzoli). Ne apprezza il carattere innovativo ma al contempo ne critica alcune articolazioni considerate apodittiche, quali l'annuncio che Negri e Hardt fanno della fine dello stato-nazione e la conseguente formazione di una sovranità appunto imperiale che sussume quella esercitata finora dagli stati nazionali.
Va subito ricordato che David Harvey non è nuovo a esplorazioni in territori lontani dalla sua disciplina. Dalla Crisi della modernità, come recita il titolo dell'affascinante saggio sull'affermazione di un nuovo regime di accumulazione capitalistico definito «flessibile», all'esercizio del governo della metropoli (L'esperienza urbana, entrambi pubblicati negli anni scorsi dal Saggiatore), ha infatti puntato a definire la centralità dello «spazio» nel capitalismo. D'altronde anche il «nuovo imperialismo» è analizzato anche dal punto di vista dei «fix spazio-temporali», cioè degli sforzi del capitalismo tesi a coordinare un processo lavorativo su base planetaria al fine di annullare le distanze geografiche tra un nodo e l'altro della rete produttiva e dunque sincronizzando il flusso lavorativo. Tuttavia, per comprendere meglio le critiche di Harvey alla nozione di «impero», è indispensabile partire dalla griglia analitica proposta in questo libro.
Per David Harvey, la guerra permanente contro il terrorismo avviata dopo l'attacco alle Torri Gemelle non ha nulla a che fare con l'obiettivo dicharato da George W. Bush di sbaragliare i gruppi armati del fondamentalismo islamico. La vera posta in gioco dietro l'intervento in Afghanistan e l'invasione dell'Iraq è la costituzione di un governo mondiale che veda gli Stati Uniti come guida indiscussa. In altri termini, Washington vuole rimettere in riga i paesi che mal digeriscono l'ordine neoliberista e, allo stesso tempo, prevenire la formazione di forti economie nazionali che possano minacciare la sua leadership. I nemici da combattere non vanno dunque cercati nel network terrorista di bin Laden, quanto sulle coste della popolosa Cina e nell'altrettanto prolifica - di talenti, ingegneri, imprese - India. E se la crisi del 1997 ha spuntato irreversibilmente gli artigli delle tigri asiatiche, Pechino e New Delhi sono gli attuali e futuri antagonisti da battere.
I marines e i corpi speciali americani e inglesi sono perciò niente altro che le truppe mandate in avanscoperta da chi ha in mente la definizione di avanguardie di grandi progetti politici per definire le nuove «geometrie dell'imperialismo». Per fare ciò Harvey fa leva su punti di vista eterogenei e tuttavia accomunati dalla convinzione che l'imperialismo abbia costituito uno spartiacque nello sviluppo capitalistico. E se Hannah Arendt aveva colto nel segno quando affermava che l'imperialismo è un atto prima di tutto politico teso a garantire un ordine sociale interno e un'espansione del mercato all'esterno dei confini nazionali, la sociologia dell'imperialismo di Joseph A. Shumpeter serve tutt'ora a focalizzare il circolo virtuoso tra espansione geopolitica e innovazione, come attestano le creative strutture organizzative della world factory.

La fabbrica mondiale
Un marxista come Harvey, però, non può non sottolineare il legame tra le crisi generate dallo sviluppo capitalistico e le misure politiche volte a superarle, sia che siano crisi da sovrapproduzione di capitale che di sottoconsumo. In entrambi i casi, l'imperialismo è la risposta al tempo stesso politica e economica. Perché consente di accedere manu militari a mercati esterni, a materie prime, a bacini di forza-lavoro a basso costo, consentendo di investire le «eccedenze» di capitale inutilizzate. Ma se questo è lo schema che ha tenuto banco nel movimento operaio per oltre un secolo, la globalizzazione economica ora lo mette in scacco.
Ma, a differenza di quanto sostiene Harvey, la novità del «nuovo imperialismo» non risiede nella costituzione di un mercato globale, né in quella «accumulazione per espropriazione» che porta a uno sviluppo capitalistico di realtà nazionali e continentali che hanno visto prevalere finora economie non capitalistiche. Il terzo incomodo è semmai rappresentato da quella difficoltà nella «riproduzione allargata» che ha avuto come prolegomeni l'insubordinazione della forza-lavoro nei gloriosi anni d'oro del fordismo a cui il capitale ha risposto con il decentramento produttivo, la privatizzazione dei servizi sociali e del sapere tecnico-scientifico e della conoscenza sans phrase, diventati quest'ultimi la pregiata materia prima di cui le imprese capitalistiche si nutrono per fronteggiare la crisi oramai endemica dello sviluppo economico.
La globalizzazione neoliberista è dunque il risultato di strategie volte a fronteggiare questa endemica crisi. Da questo punto di vista lo stato nazionale non è certo scomparso, ma ha cambiato funzione, come attestano, ad esempio, le diverse legislazioni sulla proprietà intellettuale, dispositivi giuridici volti alla sussunzione del sapere en general. Il protagonista «locale» di queste enclosures della conoscenza è certo lo stato-nazionale, ma inserito però in un network politico istituzionale che vede all'opera organismi internazionali, factory law e appunto stati nazionali. Allo stesso tempo il confine tra zone economiche capitalistiche e zone economiche non capitalistiche è una frontiera «virtuale» perché è smantellata e ricostruita a seconda della necessità.
David Harvey scrive spesso di biopirateria, che è espropriazione di una materia prima - il sapere tacito accumulato nei secolo dai popoli indigeni - e al tempo stesso processo di valorizzazione capitalistico della conoscenza. E viene proprio dalla possibilità di brevettare il vivente e l'«organico» l'esempio più cogente che attesta come il confine tra dentro e fuori del mercato mondiale sia una convenzione socialmente necessaria. Viene cancellato quando le popolazioni convolte diventano nodi di un processo produttivo reticolare che ha come protagonisti le multinazionali farmaceutiche o colossi agro-alimentari; riprodotto quando quei popoli e quelle realtà locali vengono classificati come «patrimonio dell'umanità» da salvaguardare dal potere predatorio dell'occidentalizzazione. A differenza di quanto sostiene Harvey il capitalismo più che governare i «fix spazio-temporali» ha necessità di mettere in riga le forme di vita.

In cerca di governance
La guerra perpetua si apre con l'intervento in Iraq e si conclude con alcune considerazioni sulle conseguenze che questa operazione militare ha avuto sulla società, la politica e l'economia statunitense. Per Harvey il fallimento americano è la prova tangibile che l'«Impero» è solo una boutade giornalistica. Quel fallimento pone semmai il problema di come la costituzione di una sovranità imperiale non sia un processo lineare, come invece il libro di Negri e Hardt tendeva a descrivere, e che la multilevel governance in cui essa spesso si esprime ha come limite e contraltare i conflitti sociali che deve dirimere. Ciò che è problematico nella tesi di Negri e Hardt non è dunque l'obiettivo che i due autori perseguono - la costituzione di un nuovo tipo di sovranità -, come invece afferma Harvey, quanto l'inadeguatezza delle forme politiche a cui tale sovranità dà vita per fronteggiare le pratiche di resitenza, cioè di conflitto, che incontra. Nelle settimane successive al luglio 2001, molti commentatori scrissero che la guerra e la rinuncia all'esercizio della mediazione era la risposta che i «potenti della terra» avevano scelto per contrastare l'opposizione al Washington consensus. Anni dopo quella forma specifica della politica ha mostrato il carattere distruttivo, perché il capitalismo più che di una guerra ha bisogno di una pace perpetua.


Quel New Deal oltre il patto luciferino tra guerra e liberismo

Enzo Modugno

Le ragioni non dette della guerra sono diventate a tal punto gli insopportabili arcana imperii di questi anni, che anche gli antropologi si sono impegnati ad indagare il New Imperialism, titolo originale del libro di David Harvey tradotto dal Saggiatore come Guerra perpetua. Il suo è un tentativo ampio e documentato di approfondire l'argomento che va considerato, perché nelle interpretazioni dell'imperialismo sono frequenti invece le semplificazioni delle visioni troppo specialistiche. I politologi hanno fornito analisi parziali solo politiche. Perfino Schumpeter - uno dei maggiori economisti del '900 - volle credere che l'imperialismo fosse un residuo feudale e non un fenomeno capitalistico. Gli economisti ufficiali poi, o non hanno visto il saccheggio, o erano pagati per giustificarlo.
Per questo il movimento operaio resta l'interprete insuperato di questa fase del capitalismo. Nel giro di pochi anni, all'inizio del '900, Rosa Luxemburg, Hilferding e Lenin, hanno detto tutto ciò che c'era da dire su questo argomento.
I punti fermi del libro pertanto sono numerosi.
Prima di tutto, e a maggior ragione a distanza di un secolo, si pone la questione che affrontarono sia Luxemburg che Lenin, se cioè sia l'imperialismo ad assicurare la sopravvivenza del capitalismo, continuamente sconvolto da crisi economiche e considerato dalle previsioni di destra e di sinistra sempre a rischio di crollo imminente.
La teoria marxiana della crisi ne vede l'origine nella contraddizione tra produzione da un lato e mercato, circolazione, realizzazione del plusvalore dall'altro: si tratterebbe quindi di crisi di sovrapproduzione. A partire da questa formulazione però si è aperto un ventaglio di interpretazioni. Prima di tutto tra riformisti e rivoluzionari, cioè tra chi ritiene possibile ovviare alla crisi e chi postula invece il superamento del capitalismo. Tra questi ultimi si è svolto il dibattito principale: Rosa Luxemburg da una parte, con la sua teoria del sottoconsumo e l'importanza data alle spese militari che ha influenzato i «neomarxisti» come Kaleski e Sweezy, e dall'altra parte le posizioni di Lenin e dei marxisti «ortodossi». Questo contrasto però, almeno per ciò che concerne le spese militari, è più apparente che reale, perché se Luxemburg sostiene che queste spese consentono al capitale di realizzare il plusvalore, gli «ortodossi» rispondono che questo non è vero per la totalità del mercato mondiale capitalistico, ma è vero solo per la nazione dominante che se ne avvantaggia a spese di quelle dominate. E questo potrebbe essere un buon compromesso, almeno ai fini del nostro discorso.
Questa premessa per segnalare che il testo di Harvey, che è del 2003, contiene un'ipotesi che non si è verificata: le spese militari - ormai sappiamo da Joseph Stiglitz che le spese per le ultime guerre sono dieci volte superiori alle previsioni - non solo non hanno provocato, come Harvey sostiene, una più profonda recessione, almeno finora, ma hanno invece contribuito a sospingere il Pil degli Stati uniti oltre il 4,5%. Né si è verificata la sua previsione di petrolio a buon mercato.
Ma tornando alle interpretazioni dell'imperialismo, Harvey procede saggiamente giudicandole non per la loro purezza teorica, ma al vaglio di oltre un secolo di storia. E aggiunge il suo punto di vista. Riformulando la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, rileva una cronica tendenza verso crisi di sovraccumulazione, di eccesso di capitale. Per assorbire tali eccedenze si imporrebbe quindi l'«espansione geografica» e l'«accumulazione per espropriazione», per ritardare, se non risolvere, la tendenza alle crisi.
Il dominio sul territorio esercitato dal potere politico insomma - la logica «territorialista» secondo la definizione di Arrighi - svolge un ruolo influente nell'allestire la scena dell'accumulazione capitalistica. Stati o imperi dunque operano, «quasi sempre», coerentemente con le motivazioni capitalistiche. Per questo Harvey considera l'interferenza degli Usa nel «permanente stato di insicurezza», non come la soluzione ma come il cuore del problema: perché il capitalismo, se non ha a portata di mano gli sbocchi per i capitali eccedenti, «deve in qualche modo produrli».
Harvey tuttavia pensa che valga la pena di battersi per un nuovo New Deal. Sa bene che esistono soluzioni più radicali «in agguato tra le quinte» ma ritiene che, almeno nella presente congiuntura, non siano praticabili. Piacerà dunque alle sinistre che rimpiangono il welfare. Volendo sondare soluzioni più radicali invece, proprio a partire dalle sue lucide conclusioni, dovremmo considerare il processo storico che ha portato alla ormai irreversibile combinazione di neoliberismo e militarismo, strutturalmente complementari, prodotti dalla logica dell'accumulazione. Le trasformazioni produttive hanno reso possibile l'emergere del neoliberismo perché le nuove macchine informatiche non hanno più bisogno di tenere insieme le competenze del team di operai e tecnici necessario alla fabbrica fordista. Questo rende inutile il keynesismo civile perché le nuove macchine incorporano nuove competenze e possono perciò essere servite da nuovi lavoratori precari, flessibili, delocalizzati e senza diritti.
Per questo possono essere spogliati di quel sistema di garanzie che era la loro unica difesa contro le vicissitudini dell'economia di mercato, e ridotti a trovare l'unica fonte di guadagno nella vendita non garantita della propria forza-lavoro, costretti a lavorare alle nuove condizioni poste dalle nuove forme di capitale. Cambia non solo la fabbrica ma tutta la società, in un processo storico contro il quale potranno ben poco i nostri in Parlamento.
Il necessario controllo della domanda globale invece, nonostante l'iconoclastia antikeynesiana del neoliberismo, viene affidato sempre di più al solo keynesismo militare, «keynesismo in un paese solo» come ha scritto Halevi su questo giornale. Il militarismo Usa dunque, con il riarmo illimitato per sostenere la domanda da un lato, e dall'altro con la conseguente capacità di dominio sui mercati, i campi di investimento e le risorse, costituisce l' indispensabile sostegno per la sopravvivenza stessa del capitalismo: chi lo intralcia diventa «un nemico dell'Occidente». Per questo le lotte del precariato e le lotte antimilitariste non possono tendere al lato buono perduto del capitalismo, ma ormai soltanto al suo superamento.

Comments: Posta un commento

<< Home

This page is powered by Blogger. Isn't yours?

Locations of visitors to this page