8.7.06
Mastropaolo: Il tormentone delle riforme costituzionali

Riflessioni. C'è da interrogarsi sulle finalità dei politici di centrosinistra. La democrazia italiana ha bisogno di essere risanata
Alfio Mastropaolo*
Implacabile, dopo che una robusta maggioranza di no aveva seppellito lo sgorbio berlusconiano, è ripreso il tormentone della riforma costituzionale. In pochi sembrano rendersi conto del pericolo scampato. Non tanto la questione federalista, perché già il danno l’aveva fatto l’improvvida riforma varata di prepotenza dal centrosinistra al termine della XII legislatura, bensì quello che Leopoldo Elia ha efficacemente battezzato il "premierato assoluto".
Scampato questo scenario da film dell'orrore, il tormentone è ripreso e c’è da interrogarsi quanto meno sulle finalità dei politici (di centrosinistra). Le ipotesi da fare sono almeno tre. Scartiamo quella di mettere Prodi in difficoltà, perché è un lusso che nessuno può concedersi.
Un primo fine è culturale: Qualcuno nel centrosinistra crede davvero che le società avanzate non siano più governabili con il lento valzer dei regimi parlamentari e che abbisognino di tecniche ben più stringenti. Basta vedere cosa capita in Francia quando il governo vuol mostrarsi determinate per mettere in dubbio una cosiffatta teoria.
Il secondo fine è quello aprire un dialogo almeno con qualche settore del centrodestra per consolidare una maggioranza tanto ristretta (al Senato), quanto composita, nell’intento di alleggerire un’atmosfera politica troppo avvelenata.
C’è poi un terzo obiettivo molto pratico e piuttosto serio. Il sistema partitico è disgregato come non mai, sul centrosinistra più che sul centrodestra. E questo consegna a partiti di dimensioni assai modeste, ma anche a mediocrissime fazioni, un consistente potenziale di ricatto. Razionalizzare insomma il sistema dei partiti. Non è un fine ignobile e il problema è reale. La strada più logica sarebbe che i partiti provvedessero essi stessi, riaggregandosi attorno a qualche ambizioso progetto politico. Ma troppi personalismi e particolarismi fanno da ostacolo. L’unico disegno in campo è il cosiddetto partito democratico, i cui obiettivi tutto sono però fuorché ambiziosi. Per i soi disant riformisti si tratta solo di affogare in un’insalata blairista ogni residuo riformatore d’antan. Per altri si tratta d’ingabbiare il grosso dello schieramento prodiano consolidando la posizione del governo. Nulla ovviamente che possa eccitare chicchessia. Il popolo delle primarie, statene certi, lo guarderà con disprezzo.
Se tuttavia il vero obiettivo è la semplificazione del sistema dei partiti, lo si potrebbe in realtà incoraggiare con una buona riforma elettorale. Per la quale però mancano le condizioni. Quale gruppuscolo politico accetterà mai di far passare in parlamento una riforma che lo condanni all’estinzione? Ecco dunque l’idea di razionalizzare il sistema dall’altro capo. Ovvero sottraendo il governo a ogni ipoteca parlamentare. Era il progetto di Berlusconi e lo era anche quello della famigerata "bozza Amato".
La cosa più saggia sarebbe accontentarsi dei cambiamenti realizzati in questi anni, concedendosi magari quella pausa di riflessione che suggerisce il presidente della Camera. La democrazia italiana è oggi una democrazia saldamente bipolare, dove i poteri del governo sono stati rafforzati non poco. Tra riforme dei regolamenti parlamentari, riforma della presidenza del consiglio, possibilità di ricorrere allo strumento della delega al governo e largo uso del potere regolamentare, il governo non è affatto impotente. Aggiungiamoci le autorità indipendenti. Servirebbe semmai aggiustare, correggere, ripensare, rendere più incisivo il controllo parlamentare e magari l’intero sistema dei controlli, che è stato improvvisamente smantellato. Per il resto, siamo seri, cosa si vuole di più?
A ben pensarci assai prima delle riforme si pone il problema del risanamento della democrazia italiana. Che la situazione sia rischiosa l’ha capito perfino il centrosinistra allorché propone di blindare l’art. 138 e di precludere per il futuro la possibilità di riforme istituzionali non condivise. L’esperienza recente insegna tuttavia che anche a costituzione vigente si possono perpetrare danni gravissimi al regime democratico. Per fare un esempio: può un regime democratico davvero sopportare norme come quelle previste dalla legge Gasparri i materia di sistema radiotelevisivo? Oppure una riscrittura delle leggi elettorali corrispondente agli interessi della maggioranza di turno? Per non parlare della disinvolta commistione tra affari privati (anche i più squallidi) e funzioni pubbliche!
Purtroppo, se da una parte questo è il problema più urgente, questo è anche il più arduo da risolvere ed è quello che richiederebbe più riflessione. A cominciare dal come e dal perché dalle viscere della società italiana sono riaffiorati demoni che pensavamo scomparsi per sempre. Quel che è certo è che ci vuole assai più dell’apprezzabile pedagogia democratica condotta dal presidente Napolitano sulla scia di quella del suo predecessore. Come ci vuole di più che far finta che con l’attuale opposizione si possa serenamente colloquiare di intese bipartisan in tema di istituzioni, o di politica estera o quant’altro. Proviamo tuttavia a buttar giù qualche idea.
Serve anzitutto un rovesciamento culturale. La democrazia non è solo decisione. E’ decisione fondata sul consenso, presuppone una convergenza su un punto: il rispetto reciproco. La democrazia è nata storicamente dal conflitto e il conflitto è fondamentale motivo di dinamismo. Ma la democrazia prevede il conflitto regolato. E a regolarlo si comincia dalla parole. L’avversario politico non è un nemico. E un "altro" da rispettare e con cui comunque si parla.
Se si cancellassero quindi dal linguaggio politico termini come spoils-system (che da queste parti evoca appropriazione disinibita del potere da parte dei vincitori) o federalismo (che da principio di unione tra diversi è stato ridotto a principio di divisione: ognuno si arrangia come meglio può) e si rivalutassero di contro i concetti di servizio pubblico, di solidarietà, fiscale e non, di autonomia (che appartiene assai di più alla nostra tradizione), sarebbe già un passo avanti. Le tasse non sono un esproprio. Sono un corrispettivo per servizi resi alla collettività. Il pubblico non è affatto più inefficiente del privato. Lo è tanto quanto. Il profitto privato non è il valore fondamentale, ma lo è la convivenza civile. E il lavoro è un valore da tutelare nient’affatto meno nobile dell’impresa.
La seconda misura immaginabile sarebbe una seria riorganizzazione del sistema della comunicazione. In nessun paese al mondo un privato, che fa per giunta politica, controlla quasi metà del sistema televisivo, possiede giornali e case editrici, e via di seguito. Non si dica che Mediaset è un patrimonio nazionale. La democrazia lo è assai di più. Qui davvero ci vorrebbe un po’ di genuina concorrenza, possibilmente accoppiata a un servizio pubblico radiotelevisivo indipendente e non lottizzato.
Il terzo punto è una legislazione più adeguata sul finanziamento della politica. Il finanziamento pubblico dei partiti è una necessità. E ha il vantaggio di non consegnare la politica esclusivamente ai ricchi. Ma in Italia il finanziamento è divenuto abuso. La politica deve essere anzitutto servizio e non opportunità per soddisfare interessi personali o occasione di arricchimento. Se allora magari circolano meno quattrini e la politica esce dai teleschermi per parlare davvero ai cittadini, una parte di quei ceti popolari che hanno abbandonato la sinistra e si sono consegnati al populismo del centrodestra troverebbero motivo per tornare a casa.
Il quarto punto è un po’ di sana ingegneria sociale. Il torto più grave della Dc (che pure non mancava di meriti) è stato quello di lasciarci in eredità il popolo della partite Iva, il quale storicamente è il più incline all’evasione fiscale e alle suggestioni populiste. Non si tratta di sterminare i kulaki. Si tratta di sanare una peculiarità italiana, che se ha talora offerto qualche pregio, ha prodotto ancor più inconvenienti, ad esempio un livello di evasione insostenibile e incomparabile con i paesi che ci circondano. Oggi, invece, tragicamente si mascherano con la partita Iva forme bell’e buone di lavoro dipendente. Rendendolo solo infinitamente più precario.
Sono solo idee, buttate giù in fretta. Ma è il caso proprio di pensarci.
*Professore di Scienza politica Università di Torino
www.AprileOnLine.Info n.199 del 07/07/2006.
(la versione integrale di questo intervento verrà pubblicata su Aprile, il mensile)