28.8.06
I tanti punti controversi della missione Onu in Libano
(tratto da www.erre.info del 24/08/2006)
di Salvatore Cannavò
Non credo che nelle riserve espresse a proposito della missione Onu in Libano via sia “errore o distrazione”. Al contrario, credo che la decisione che il governo si appresta a prendere sia eccessivamente frettolosa e poco incline, almeno a livello di dibattito pubblico, a valutare la complessità della situazione e la pericolosità “politica”, non tanto operativa, in cui l’Italia si andrà a collocare.
Ribadiamo alcune considerazioni preliminari: il fatto che si sia prodotto il “cessate il fuoco” è un fatto di grande positività vista la situazione penosa in cui si trova il popolo libanese; il fatto che l’Onu abbia preso in mano l’iniziativa è anch’esso un fatto positivo che, va però sottolineato, mette in discussione lo schema utilizzato per l’Afghanistan fondato sull’intervento Nato; il fatto che l’Italia sia protagonista di una pacificazione e di un rapporto positivo con il mondo arabo-musulmano, dopo un quinquennio di “guerra di civiltà”, è anch’esso un fatto importante e da questo punto di vista bene ha fatto il ministro D’Alema a recarsi a Beirut e a incontrare i dirigenti di Hezbollah. Che, non dimentichiamolo, sono esponenti di un partito integralista e conservatore ma rappresentano pure una fetta ampia di quella popolazione, così come Hamas a Gaza e nei Territori occupati, costituendo, di fatto, un contenimento al reclutamento di Al Qaeda o delle sue costellazioni.
Detto questo, credo che non si possano banalizzare o sottovalutare i punti controversi. Innanzitutto il contesto internazionale e il luogo in cui si colloca questa missione cioè nell’epicentro della guerra globale permanente. Lo ha descritto con molta chiarezza qualche giorno fa su la Repubblica Lucio Caracciolo: la tregua siglata in Libano assomiglia all’intervallo tra il primo e il secondo tempo di una guerra che ha come protagonisti principali Israele e Iran e dietro di loro, ovviamente, gli Stati Uniti e i loro alleati e gran parte del mondo arabo-musulmano. Che non si tratti di una suggestione lo dice il dibattito che a tale proposito si sta svolgendo negli Usa ma anche in Israele. Lo scenario di fondo è quello di uno scontro aperto che ora è “solo” sospeso in virtù di due elementi: l’impasse in cui si trova la strategia unilateralista, cioè imperialista, degli Stati Uniti e l’attesa per le elezioni di “medio termine” in Usa nel prossimo ottobre. Più che parlare di “svolta” della politica internazionale, quindi, parlerei di attesa e di fase transitoria in cui quasi tutti i protagonisti cercano una riorganizzazione. Lo fanno gli Usa che devono tirare il bilancio di cinque anni di guerra globale che non ha prodotto uno straccio di risultato - è bastato un sapiente lavoro di intelligence per permettere alla Gran Bretagna quello che gli Usa non si sono nemmeno sognati in termini di contrasto al terrorismo; è in attesa l’Europa dove si aspetta di vedere l’esito della Grande Coalizione in Germania, il destino di Blair in Gran Bretagna, il futuro del governo Prodi in Italia, le prospettive dell’unificazione bloccate dai referendum contro la Costituzione; è in attesa il Medio Oriente dove Israele deve leccarsi le ferite di una guerra persa a tavolino, dove Hamas cerca di uscire dall’angolo internazionale, dove la Siria sta tenendo un profilo basso per non creare alibi ma cerca di ricavare il vantaggio maggiore della situazione, e così via. Gli unici a non aver giocato in attesa ma ad aver guadagnato punti dalla vicenda attuale sono gli sciiti di Hezbollah che divengono ancora di più gli arbitri della situazione libanese e che possono sbandierare all’intero mondo musulmano la loro “vittoria” su Israele.
E’ in questa transizione che si colloca la missione Onu. I suoi fautori potrebbero sostenere che proprio perché la situazione è indefinita è ora di intervenire con l’unico strumento esistente in grado di lavorare per la pace. Tesi più che legittima ma che non fa i conti con due aspetti del problema. Il primo è che l’Onu è ampiamente screditata, che troppo spesso ha coperto i progetti di dominio degli Stati Uniti, come in Iraq, Afghanistan e Kosovo e che la maggior parte delle sue risoluzioni in Medioriente sono disattese. Ma quello che rende fragile questa affermazione è che per giocare davvero un ruolo in controtendenza rispetto a quello impresso dagli Usa alla politica internazionale, l’Onu avrebbe dovuto licenziare una risoluzione molto più chiara e definita della 1701. Che, invece, assegna a Hezbollah la responsabilità dell’inizio della guerra, non fa i conti con il massacro di civili perpetrato da Israele in Libano, non addebita alcunché a Tel Aviv in termini di risarcimento o di responsabilità e, in ultima istanza, stabilisce che un paese sovrano come il Libano debba ora vivere con una forza di polizia internazionale in una porzione molto ampia del proprio territorio e che una componente fondamentale dello stesso governo libanese debba essere disarmata esponendo il paese al rischio di una nuova guerra civile.
Che questo sia il problema è ormai chiaro nelle reazioni “preoccupate” e non più entusiastiche che provengono dal governo e da ampi settori della politica italiana tra cui quei dirigenti della ex Dc, come Andreotti, Colombo ma anche Dini e Formigoni, molto avveduti di questioni mediorientali e non tacciabili di simpatie estremiste.
Il punto che mi interessa è che le ambiguità dell’Onu non sono rischiose solo per la sicurezza dei nostri soldati ma rappresentano il frutto di quella situazione transitoria che ho descritto poco sopra. Situazione in cui pesano rapporti di forza globali ancora a favore degli Usa, sia pure incrinati dall’avventura irachena, da quella afgana e dal risultato della guerra di Israele in Libano e che non vengono contrastati a sufficienza da mediazioni come quella raggiunta sulla 1701, il cui esito può divenire una nuova delegittimazione delle Nazioni Unite, il rilancio della guerra globale, con l’Italia, e l’Europa, in mezzo fra due fuochi.
Per questo credo che la discussione realizzata finora sia insufficiente e nasconda una certa frenesia nel partecipare al contingente senza fare i conti con la doverosa precisazione delle condizioni politiche di base. La prima delle quali si chiama “questione palestinese”. Non deve sfuggire il fatto che l’iniziativa israeliana ha permesso di derubricarla ancora una volta a pratica da archiviare, come dimostra il dibattito avvenuto alla Knesset subito dopo il “cessate il fuoco”. Così come non può essere dimenticato che quella è la causa principale da risolvere e che senza la sua soluzione, corrispondendo alle legittime aspirazioni del popolo palestinese, non ci sarà nessun progetto di pace ma solo soluzioni a corto raggio e di breve respiro. Il nostro partito ha sempre dichiarato che una missione Onu in Medioriente sarebbe stata possibile a partire dal dispiegamento di truppe a Gaza e in Cisgiordania a garanzia della sicurezza di Israele ma soprattutto a favore della creazione dello Stato palestinese. Se non si mette questo obiettivo innanzi a tutto si corre dietro l’emergenza creata da Israele - oggi in Libano, domani in Siria? - e si alimenta una tensione crescente. L’Italia dovrebbe quindi farsi promotrice di una vera Conferenza di pace, con tutte le parti interessate, in grado di trovare un accordo complessivo per poi quindi stabilire una presenza internazionale a garanzia di quell’accordo. La presenza in Libano va in questa direzione? Con quali mezzi, quali prospettive, quali ulteriori passaggi politici e diplomatici? Al momento non se ne vede alcuno. Se si risolve questo aspetto di prospettiva gli altri nodi sono più semplici. E’ chiaro che in un contesto simile la missione Onu non potrebbe essere realizzata per disarmare Hezbollah e che le sue regole di ingaggio sarebbero di pura interposizione pacifica tra due contendenti in armi. E, se questa fosse la prospettiva, è chiaro, almeno a me, che il ritiro delle truppe dall’Afghanistan renderebbe tutto più credibile e davvero darebbe il segnale di un’effettiva controtendenza su scala internazionale.
Ecco, il governo, la sua maggioranza, sono chiamati a questa discussione che non può avvenire che in un parlamento in seduta plenaria - non certo nell’emergenzialità di queste ore - e con la discussione di un documento politico ad hoc che faccia la dovuta chiarezza ovviamente sulle regole di ingaggio ma soprattutto sul contesto internazionale - ad esempio biasimando la politica aggressiva di Israele - e sulla prospettiva in cui l’Italia decide di collocarsi. Questa sì, sarebbe una svolta.
di Salvatore Cannavò
Non credo che nelle riserve espresse a proposito della missione Onu in Libano via sia “errore o distrazione”. Al contrario, credo che la decisione che il governo si appresta a prendere sia eccessivamente frettolosa e poco incline, almeno a livello di dibattito pubblico, a valutare la complessità della situazione e la pericolosità “politica”, non tanto operativa, in cui l’Italia si andrà a collocare.
Ribadiamo alcune considerazioni preliminari: il fatto che si sia prodotto il “cessate il fuoco” è un fatto di grande positività vista la situazione penosa in cui si trova il popolo libanese; il fatto che l’Onu abbia preso in mano l’iniziativa è anch’esso un fatto positivo che, va però sottolineato, mette in discussione lo schema utilizzato per l’Afghanistan fondato sull’intervento Nato; il fatto che l’Italia sia protagonista di una pacificazione e di un rapporto positivo con il mondo arabo-musulmano, dopo un quinquennio di “guerra di civiltà”, è anch’esso un fatto importante e da questo punto di vista bene ha fatto il ministro D’Alema a recarsi a Beirut e a incontrare i dirigenti di Hezbollah. Che, non dimentichiamolo, sono esponenti di un partito integralista e conservatore ma rappresentano pure una fetta ampia di quella popolazione, così come Hamas a Gaza e nei Territori occupati, costituendo, di fatto, un contenimento al reclutamento di Al Qaeda o delle sue costellazioni.
Detto questo, credo che non si possano banalizzare o sottovalutare i punti controversi. Innanzitutto il contesto internazionale e il luogo in cui si colloca questa missione cioè nell’epicentro della guerra globale permanente. Lo ha descritto con molta chiarezza qualche giorno fa su la Repubblica Lucio Caracciolo: la tregua siglata in Libano assomiglia all’intervallo tra il primo e il secondo tempo di una guerra che ha come protagonisti principali Israele e Iran e dietro di loro, ovviamente, gli Stati Uniti e i loro alleati e gran parte del mondo arabo-musulmano. Che non si tratti di una suggestione lo dice il dibattito che a tale proposito si sta svolgendo negli Usa ma anche in Israele. Lo scenario di fondo è quello di uno scontro aperto che ora è “solo” sospeso in virtù di due elementi: l’impasse in cui si trova la strategia unilateralista, cioè imperialista, degli Stati Uniti e l’attesa per le elezioni di “medio termine” in Usa nel prossimo ottobre. Più che parlare di “svolta” della politica internazionale, quindi, parlerei di attesa e di fase transitoria in cui quasi tutti i protagonisti cercano una riorganizzazione. Lo fanno gli Usa che devono tirare il bilancio di cinque anni di guerra globale che non ha prodotto uno straccio di risultato - è bastato un sapiente lavoro di intelligence per permettere alla Gran Bretagna quello che gli Usa non si sono nemmeno sognati in termini di contrasto al terrorismo; è in attesa l’Europa dove si aspetta di vedere l’esito della Grande Coalizione in Germania, il destino di Blair in Gran Bretagna, il futuro del governo Prodi in Italia, le prospettive dell’unificazione bloccate dai referendum contro la Costituzione; è in attesa il Medio Oriente dove Israele deve leccarsi le ferite di una guerra persa a tavolino, dove Hamas cerca di uscire dall’angolo internazionale, dove la Siria sta tenendo un profilo basso per non creare alibi ma cerca di ricavare il vantaggio maggiore della situazione, e così via. Gli unici a non aver giocato in attesa ma ad aver guadagnato punti dalla vicenda attuale sono gli sciiti di Hezbollah che divengono ancora di più gli arbitri della situazione libanese e che possono sbandierare all’intero mondo musulmano la loro “vittoria” su Israele.
E’ in questa transizione che si colloca la missione Onu. I suoi fautori potrebbero sostenere che proprio perché la situazione è indefinita è ora di intervenire con l’unico strumento esistente in grado di lavorare per la pace. Tesi più che legittima ma che non fa i conti con due aspetti del problema. Il primo è che l’Onu è ampiamente screditata, che troppo spesso ha coperto i progetti di dominio degli Stati Uniti, come in Iraq, Afghanistan e Kosovo e che la maggior parte delle sue risoluzioni in Medioriente sono disattese. Ma quello che rende fragile questa affermazione è che per giocare davvero un ruolo in controtendenza rispetto a quello impresso dagli Usa alla politica internazionale, l’Onu avrebbe dovuto licenziare una risoluzione molto più chiara e definita della 1701. Che, invece, assegna a Hezbollah la responsabilità dell’inizio della guerra, non fa i conti con il massacro di civili perpetrato da Israele in Libano, non addebita alcunché a Tel Aviv in termini di risarcimento o di responsabilità e, in ultima istanza, stabilisce che un paese sovrano come il Libano debba ora vivere con una forza di polizia internazionale in una porzione molto ampia del proprio territorio e che una componente fondamentale dello stesso governo libanese debba essere disarmata esponendo il paese al rischio di una nuova guerra civile.
Che questo sia il problema è ormai chiaro nelle reazioni “preoccupate” e non più entusiastiche che provengono dal governo e da ampi settori della politica italiana tra cui quei dirigenti della ex Dc, come Andreotti, Colombo ma anche Dini e Formigoni, molto avveduti di questioni mediorientali e non tacciabili di simpatie estremiste.
Il punto che mi interessa è che le ambiguità dell’Onu non sono rischiose solo per la sicurezza dei nostri soldati ma rappresentano il frutto di quella situazione transitoria che ho descritto poco sopra. Situazione in cui pesano rapporti di forza globali ancora a favore degli Usa, sia pure incrinati dall’avventura irachena, da quella afgana e dal risultato della guerra di Israele in Libano e che non vengono contrastati a sufficienza da mediazioni come quella raggiunta sulla 1701, il cui esito può divenire una nuova delegittimazione delle Nazioni Unite, il rilancio della guerra globale, con l’Italia, e l’Europa, in mezzo fra due fuochi.
Per questo credo che la discussione realizzata finora sia insufficiente e nasconda una certa frenesia nel partecipare al contingente senza fare i conti con la doverosa precisazione delle condizioni politiche di base. La prima delle quali si chiama “questione palestinese”. Non deve sfuggire il fatto che l’iniziativa israeliana ha permesso di derubricarla ancora una volta a pratica da archiviare, come dimostra il dibattito avvenuto alla Knesset subito dopo il “cessate il fuoco”. Così come non può essere dimenticato che quella è la causa principale da risolvere e che senza la sua soluzione, corrispondendo alle legittime aspirazioni del popolo palestinese, non ci sarà nessun progetto di pace ma solo soluzioni a corto raggio e di breve respiro. Il nostro partito ha sempre dichiarato che una missione Onu in Medioriente sarebbe stata possibile a partire dal dispiegamento di truppe a Gaza e in Cisgiordania a garanzia della sicurezza di Israele ma soprattutto a favore della creazione dello Stato palestinese. Se non si mette questo obiettivo innanzi a tutto si corre dietro l’emergenza creata da Israele - oggi in Libano, domani in Siria? - e si alimenta una tensione crescente. L’Italia dovrebbe quindi farsi promotrice di una vera Conferenza di pace, con tutte le parti interessate, in grado di trovare un accordo complessivo per poi quindi stabilire una presenza internazionale a garanzia di quell’accordo. La presenza in Libano va in questa direzione? Con quali mezzi, quali prospettive, quali ulteriori passaggi politici e diplomatici? Al momento non se ne vede alcuno. Se si risolve questo aspetto di prospettiva gli altri nodi sono più semplici. E’ chiaro che in un contesto simile la missione Onu non potrebbe essere realizzata per disarmare Hezbollah e che le sue regole di ingaggio sarebbero di pura interposizione pacifica tra due contendenti in armi. E, se questa fosse la prospettiva, è chiaro, almeno a me, che il ritiro delle truppe dall’Afghanistan renderebbe tutto più credibile e davvero darebbe il segnale di un’effettiva controtendenza su scala internazionale.
Ecco, il governo, la sua maggioranza, sono chiamati a questa discussione che non può avvenire che in un parlamento in seduta plenaria - non certo nell’emergenzialità di queste ore - e con la discussione di un documento politico ad hoc che faccia la dovuta chiarezza ovviamente sulle regole di ingaggio ma soprattutto sul contesto internazionale - ad esempio biasimando la politica aggressiva di Israele - e sulla prospettiva in cui l’Italia decide di collocarsi. Questa sì, sarebbe una svolta.
La guerra dei 33 giorni e la risoluzione 1701 dell'Onu
(tratto da www.erre.info del 24/08/2006)
di Gilbert Achcar*
La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU in data 11 agosto 2006 non soddisfa interamente né Israele, né Washington, né Hezbollah. Questo non significa che sia «equa e bilanciata», ma solo che è la dimostrazione temporanea di uno stallo militare.
Hezbollah non ha potuto infliggere una sconfitta militare importante ad Israele, possibilità questa che è stata sempre esclusa dall'assoluta sproporzione delle forze, proprio come era stato impossibile alla resistenza vietnamita infliggere una sconfitta militare importante agli Stati Uniti; neppure Israele, però, ha potuto infliggere una sconfitta militare importante – o in effetti una qualunque sconfitta al mondo – a Hezbollah. In questo senso, è quest'ultimo, senza alcun dubbio, il vero vincitore politico, come Israele è il vero perdente, della guerra dei 33 giorni scoppiata il 12 luglio; nessun discorso di Ehud Olmert o di George W. Bush può alterare questa ovvia verità[1].
Per comprendere la posta in gioco, è necessario riassumere gli scopi perseguiti nell'offensiva israeliana e sostenuti dagli Stati Uniti. Lo scopo principale dell'attacco israeliano era, naturalmente, distruggere Hezbollah; Israele ha cercato di raggiungere l'obiettivo con una combinazione di tre mezzi principali.
Il primo consisteva nell'infliggere a Hezbollah un colpo fatale tramite una campagna di bombardamenti «post-eroica», vale a dire vigliacca, sfruttando il «vantaggio schiacciante ed asimmetrico» di Israele nella forza di fuoco. Questo mirava ad interrompere le vie di rifornimento di Hezbollah, a distruggere gran parte della sua infrastruttura militare (riserve di missili, lanciarazzi, ecc.), ad eliminare un numero importante di militanti e a decapitarlo, con l'assassinio di Hassan Nasrallah e di altri leader chiave del partito.
Il secondo consisteva nel volgere la base di massa di Hezbollah fra gli sciiti libanesi contro il partito: Israele lo avrebbe indicato come responsabile della loro tragedia tramite una frenetica campagna di operazioni psicologiche (PSYOP). Questo richiedeva, naturalmente, l'infliggere agli sciiti libanesi un disastro massiccio, con una campagna di bombardamenti criminale ed estesa, tale da radere deliberatamente al suolo interi villaggi e quartieri e da uccidere centinaia e centinaia di civili. Non era la prima volta in cui Israele ricorreva a questo tipo di stratagemma – uno standard, fra i crimini di guerra. Quando l'OLP era attivo nel sud del Libano, in quella che, precedentemente alla prima invasione israeliana, nel 1978, era chiamata «terra di Fatah», Israele era solita martellare pesantemente l'area abitata, tutto intorno al punto da cui era stato lanciato un missile contro il proprio territorio, benché i razzi fossero stati sparati da zone disabitate. A quel tempo, lo stratagemma era riuscito ad alienare dall'OLP una parte significativa della popolazione del Libano del sud, ciò che era favorito dal fatto che lì i leader reazionari erano ancora una forza importante, e che i guerriglieri palestinesi potevano essere facilmente ripudiati come estranei, per il loro comportamento, in genere disastroso. Questa volta, dato il prestigio incomparabilmente superiore di Hezbollah fra gli sciiti libanesi, Israele pensava di poter ottenere lo stesso effetto semplicemente incrementando la portata e la brutalità della punizione collettiva.
Il terzo consisteva nel distruggere in modo massiccio ed in profondità la vita dei libanesi nel loro insieme, prendendoli in ostaggio con un assedio dal cielo, dal mare e dalla terra, in modo da incitare la popolazione, ed in particolare le comunità diverse da quelle sciite, contro Hezbollah, creando così un clima politico favorevole ad un'azione militare dell'esercito libanese contro l'organizzazione sciita. Questo è il motivo per cui, all'inizio dell'offensiva, gli ufficiali israeliani dichiaravano di non voler alcuna altra forza, nel sud del Libano, che non fosse l'esercito libanese, rifiutando specificamente una forza internazionale e sputando sull'UNIFIL, che già c'era. Questo è stato in effetti il progetto a cui miravano Washington e Parigi nel periodo in cui lavoravano insieme per produrre la risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nel settembre 2004, che richiedeva il ritiro delle truppe siriane dal Libano e «lo scioglimento ed il disarmo di tutte le milizie, libanesi e non libanesi», vale a dire di Hezbollah e delle organizzazioni dei palestinesi nei campi profughi.
Washington aveva creduto che, una volta allontanate le forze siriane dal Libano, l'esercito libanese, che aveva ricevuto l'equipaggiamento ed era stato addestrato in primo luogo dal Pentagono, sarebbe stato in grado di «sciogliere e disarmare» Hezbollah. L'esercito siriano, in effetti, si era ritirato dal Libano nell'aprile del 2005, non per la pressione di Washington e Parigi, ma per il tumulto politico e la mobilitazione di massa determinata dall'assassinio, nel febbraio di quell'anno, dell'ex primo ministro Rafik Hariri, amico molto stretto della classe dirigente saudita. L'equilibrio di forze nel Paese, alla luce delle dimostrazioni e delle contro-dimostrazioni di massa che erano avvenute, non aveva reso possibile immaginare, alla coalizione alleata degli Stati Uniti, di risolvere la questione Hezbollah con la forza. Erano stati persino costretti a fare le successive elezioni legislative, a maggio, in un'ampia coalizione con Hezbollah, e a reggere quindi il Paese con un'intesa di governo che comprendeva due ministri di questo partito. Il risultato deludente aveva indotto Washington a dare il via libera ad Israele per l'intervento militare: era solo necessario un pretesto adeguato, fornito il 12 luglio dall'operazione di Hezbollah attraverso la frontiera.
Valutata in base allo scopo primario e ai tre mezzi sopra descritti, l'offensiva israeliana è stata un chiaro e totale fallimento. È chiarissimo che Hezbollah non è stato distrutto – ben lungi da ciò. Ha mantenuto il grosso e della struttura politica, e della forza militare, concedendosi il lusso di bombardare il nord di Israele fino all'ultimissimo minuto prima del cessate il fuoco, la mattina del 14 agosto. Non è stato isolato dalla sua base di massa, che si è anzi considerevolmente ampliata in Libano, non solo fra gli sciiti, ma anche in altre comunità religiose; questo senza accennare al grande prestigio che questa guerra gli ha apportato, soprattutto nella regione araba e nel resto del mondo musulmano. Ricordo per ultimo un fatto di non minore importanza: tutto ciò ha spostato il bilancio generale delle forze in Libano in una direzione che è l'esatto opposto di quanto atteso da Washington e da Israele: Hezbollah ne è riemerso molto più forte e più temuto dai suoi oppositori, dichiarati o meno, e cioè gli amici degli USA e del regno saudita. Il governo libanese si è sostanzialmente schierato con detto partito, mettendo al vertice delle priorità la protesta contro l'aggressione israeliana[2].
Non vi è alcun bisogno di soffermarci ancora sull'insuccesso più evidente di Israele: leggere la valanga di commenti critici dalle fonti israeliane è più che sufficiente, e quanto mai rivelatore. Uno dei commenti più taglienti è stato quello espresso da Moshe Arens, per tre volte ministro della «difesa», indiscutibilmente un esperto. Ecco cosa scrive su Haaretz, in un breve articolo che vale un libro:
«[Ehud Olmert, Amir Peretz e Tzipi Livni] hanno avuto alcuni giorni di gloria quando ancora credevano che con il bombardamento del Libano da parte dell'IAF [Forze Aeree Israeliane] si sarebbero liberati di Hezbollah, portandoci la vittoria senza fatica. Ma, man mano che procedeva la guerra, da loro gestita in modo tanto incompetente..., hanno perso gradualmente sicurezza. Qui e là hanno ancora rilasciato alcune dichiarazioni bellicose, ma cominciando a cercare una via d'uscita – un modo per districarsi da una serie di situazioni di cui non erano chiaramente in grado di farsi carico. Hanno cercato una pagliuzza a cui aggrapparsi – e quale pagliuzza migliore del Consiglio di Sicurezza dell'ONU? Non è necessario battere militarmente Hezbollah: lasciamo che l'ONU dichiari un cessate il fuoco, e Olmert, Peretz e la Livni possono semplicemente dichiarare vittoria, che lo crediate o no.... La guerra, che secondo i nostri leader avrebbe dovuto restaurare il potere deterrente israeliano, in un mese è riuscita a distruggerlo»[3].
Arens dice il vero: via via che Israele si dimostrava sempre più incapace di raggiungere uno qualunque degli obiettivi che si era proposto all'inizio della nuova guerra, ha iniziato a cercare una via d'uscita. Mentre compensava il fallimento con un'escalation della furia distruttiva e colma di vendetta che scatenava sul Libano, all'ONU i suoi sponsor statunitensi hanno cambiato atteggiamento. Dopo aver dato ad Israele più di tre settimane di tempo, bloccando ogni tentativo di discutere al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che richiedesse il cessate il fuoco – uno dei casi più drammatici di paralisi, nella storia di questa ultrasessantenne istituzione intergovernativa – Washington ha deciso di avocare a sé il tutto, continuando la guerra di Israele per vie diplomatiche.
Con il cambio di atteggiamento, sulla questione del Libano Washington si trovava nuovamente d'accordo con Parigi. Questa, dedita quanto gli USA, anzi loro rivale, nel trarre il massimo dalle ricchezze saudite, soprattutto vendendo ai governanti del luogo tecnologia militare[4], sta regolarmente ed in modo opportunistico dalla parte giusta dei sauditi, ogni volta che insorge una qualche tensione fra il piano di Washington e le preoccupazioni dei suoi più vecchi clienti, e pupilli, medio-orientali. La nuova guerra di Israele in Libano era una di tali opportunità: appena l'aggressione omicida israeliana si è dimostrata controproducente, dal punto di vista della famiglia regnante saudita, terrorizzata da un aumento della destabilizzazione in Medio Oriente, che potrebbe dimostrarsi disastrosa per i propri interessi, hanno richiesto che la guerra cessasse, sostituita da vie alternative.
Parigi si è immediatamente espressa a favore di questa prospettiva, e Washington ha finito per fare lo stesso, ma solo dopo aver dato all'aggressione israeliana alcuni giorni in più, perché tentasse di ottenere qualche risultato militare, salvando la faccia. La prima bozza di risoluzione, preparata dalle due capitali e fatta circolare all'ONU il 5 agosto, era un palese tentativo di ottenere per via diplomatica quello che Israele non era riuscito ad ottenere militarmente: mentre dichiarava un «forte sostegno» per la sovranità libanese, richiedeva tuttavia la riapertura di aeroporti e porti solo «per scopi verificabilmente, e puramente, civili», prevedendo inoltre un «embargo internazionale sulla vendita o la fornitura al Libano di armamenti e materiale correlato, fatta eccezione per quanto autorizzato dal suo governo» - in altre parole, un embargo per Hezbollah.
Confermava la risoluzione 1559, richiedendone una supplementare che autorizzasse, «in base al Capitolo VII della Carta, il dispiegamento di una forza internazionale con il mandato dell'ONU, per sostenere le forze armate ed il governo del Libano nell'assicurare una regione sicura e contribuire a mettere in atto un cessate il fuoco permanente ed una soluzione a lungo termine». Questa formula è così vaga che poteva solo significare, in realtà, una forza internazionale autorizzata a compiere azioni militari (Capitolo VII della Carta dell'ONU), in modo da attuare la risoluzione 1559 con la forza, alleandosi con l'esercito libanese. Oltre a ciò, nessuna condizione limitava detta forza al sud del fiume Litani, l'area che, secondo la bozza di risoluzione, avrebbe dovuto essere libera di armamenti di Hezbollah, ed il limite alla zona che Israele aveva richiesto che fosse resa sicura, non essendo riuscita a liberarsi del gruppo medesimo nel resto del Libano. Questo significava che si sarebbe potuto richiedere alla forza dell'ONU di agire contro Hezbollah nel resto del Libano.
Dato tuttavia che questo progetto era totalmente ingiustificato dai risultati israeliani sul terreno, la bozza è stata sconfitta. Hezbollah vi si è opposto energicamente, rendendo chiaro che non avrebbe accettato alcuna forza internazionale che non fosse la già esistente UNIFIL, la forza dell'ONU dispiegata sin dal 1978 lungo il confine del Libano con Israele (la «Linea Blu»). Il governo libanese, sostenuto dal coro di stati arabi, compresi tutti i clienti degli USA, ha comunicato l'opposizione di Hezbollah e la richiesta di modifiche; Washington quindi non ha avuto alcuna altra scelta che rivedere la bozza, stante che non avrebbe comunque superato un voto al Consiglio di Sicurezza. Oltre a ciò, l'alleato di Washington, il presidente francese Jacques Chirac – dal cui Paese ci si attende che fornisca la componente principale della forza internazionale, guidandola – aveva dichiarato pubblicamente di persona, dopo due settimane di guerra, che non era possibile alcun dispiegamento senza un accordo preventivo con Hezbollah[5].
Il progetto è stato quindi rivisto e rinegoziato, mentre Washington chiedeva ad Israele di brandire la minaccia di una grande offensiva via terra e di iniziare effettivamente, come mezzo di pressione, a metterla in atto, in modo da permettere agli USA di ottenere, dal proprio punto di vista, il massimo. Per facilitare un accordo che conducesse ad un cessate il fuoco, che diveniva sempre più urgente per ragioni umanitarie, Hezbollah ha accettato il dispiegamento di 15.000 soldati libanesi a sud del fiume Litani, ammorbidendo nel complesso la sua posizione. È così che, l'11 agosto, la Risoluzione 1701 ha potuto farsi strada fino al Consiglio di Sicurezza.
La concessione principale da parte di Washington e di Parigi è consistita nell’abbandono del progetto di creare una forza multinazionale ad hoc, regolata dal Capitolo VII. Al suo posto, la risoluzione autorizza «il rafforzare la forza dell’UNIFIL fino a un massimo di 15.000 uomini», riorganizzando ed accrescendo nettamente la forza ONU già presente. Il trucco principale, allo stesso tempo, era di ridefinirne il mandato, in modo che essa potesse ora «assistere le forze armate libanesi, prendendo misure» rivolte a «creare, tra la Linea Blu e il fiume Litani, una zona libera da ogni personale armato, equipaggiamento o armi diverse da quelle del governo libanese o dell’UNIFIL». L’UNIFIL può ora inoltre «prendere tutte le misure necessarie, nelle zone di dispiegamento delle sue forze, ed in base a quanto ritiene rientrare nelle proprie capacità, per assicurare che questa zona di operazioni non sia utilizzata per attività ostili di qualsiasi genere».
Combinate, le due precedenti formulazioni si avvicinano abbastanza al mandato del Capitolo VII, o potrebbero comunque essere facilmente interpretate in questo modo. Di più, il mandato dell'UNIFIL è effettivamente ampliato dalla Risoluzione 1701 al di là delle sue «aree di dispiegamento», dal momento che ora può «aiutare il governo libanese, su sua richiesta», negli sforzi per «rendere sicure le frontiere e altri punti d’ingresso, per prevenire che entrino in Libano, senza il suo consenso, armi o materiale correlato» - frase questa che non si riferisce assolutamente al confine del Libano con Israele, ma a quello con la Siria, che si estende dal nord al sud del Paese. Queste sono le trappole principali della Risoluzione 1701, e non come vi si formula il ritiro dell’esercito di occupazione israeliano, come molti hanno detto, poiché il ritiro israeliano è stato imposto proprio dalla forza deterrente di Hezbollah, non da alcuna risoluzione dell’ONU.
Hezbollah ha deciso di dare il via libera all’approvazione da parte del governo libanese alla Risoluzione 1701. Hassan Nasrallah ha preso la parola il 12 agosto, spiegando la decisione del partito di dare il suo assenso al dispiegamento su mandato delle Nazioni Unite; ha espresso un giudizio sulla situazione molto più sobrio, rispetto ad altri suoi discorsi precedenti, e una notevole saggezza politica. «Oggi», ha dichiarato, «abbiamo davanti i risultati naturali, ragionevoli e possibili, della grande risolutezza espressa dai libanesi, a partire dalle loro varie posizioni.» Questa sobrietà era necessaria: ogni vantare una vittoria - come avevano fatto con faciloneria i sostenitori di Hezbollah a Damasco e a Teheran - avrebbe obbligato Nasrallah ad aggiungere, come il re Pirro dell’antica Grecia, «Ancora una simile vittoria e sarò perduto!». Il leader di Hezbollah ha prudentemente ed in modo esplicito espresso il rifiuto di entrare in polemica valutando i risultati della guerra: ha insistito che «nostra vera priorità» è fermare l’aggressione, recuperare il territorio occupato, «ottenere sicurezza e stabilità nel nostro Paese, con il ritorno dei rifugiati e dei profughi».
Nasrallah ha così definito la posizione pratica del suo movimento: conformarsi al cessate il fuoco e cooperare in pieno con «tutto ciò che può facilitare il ritorno dei profughi e dei rifugiati alle loro abitazione e alle loro case, e tutto ciò che può rendere più semplici le operazioni umanitarie e di soccorso». L’ha detto mentre dichiarava che il suo movimento era pronto a proseguire la lotta legittima contro l’esercito israeliano fino a che esso restasse in territorio libanese; si è tuttavia offerto di rispettare l'accordo del 1996, secondo il quale le operazioni dei due campi sarebbero state limitate agli obiettivi militari, risparmiando i civili. A questo proposito, ha sottolineato che il suo movimento aveva cominciato a bombardare Israele solo in reazione ai bombardamenti israeliani in Libano dopo l’operazione del 12 luglio, e che, dato che Israele per primo aveva esteso la guerra alla popolazione civile, è su questo che ha da ricadere il biasimo.
La dichiarazione di Nasrallah circa come vede la Risoluzione 1701 potrebbe essere al meglio considerata come un’adesione con molte riserve, in attesa delle verifiche nell'attuarla in pratica. Ha espresso la sua protesta contro l’ingiustizia della risoluzione, che nei preamboli si astiene da ogni condanna dell'aggredire e dei crimini di guerra di Israele; ha aggiunto tuttavia che poteva essere ben peggiore, manifestando apprezzamento per gli sforzi diplomatici che avevano permesso di evitare che questo avvenisse. Il punto cruciale era di insistere sul fatto che Hezbollah considera alcuni dei problemi sollevati dalla risoluzione come affari interni del Libano, da dover essere discussi e risolti fra i libanesi stessi; ha sottolineato inoltre la salvaguardia dell’unità e della solidarietà nazionale.
Date le circostanze, la posizione di Nasrallah era la più corretta possibile. Hezbollah doveva fare delle concessioni per facilitare la fine della guerra: dato che tutta la popolazione del Libano era tenuta da Israele in ostaggio, ogni atteggiamento intransigente avrebbe avuto conseguenze umanitarie disastrose, da sommare ai già terrificanti risultati della furia israeliana, distruttrice ed omicida. Hezbollah sa perfettamente che il vero problema è rappresentato molto meno dai termini adoperati in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dalla sua interpretazione ed applicazione nei fatti, e che, a questo riguardo, ad essere determinanti sono la situazione e l’equilibrio delle forze sul campo. A George W. Bush ed Ehud Olmert, che cantano presuntuosamente una vittoria a cui dà apparentemente forma concreta la risoluzione 1701, occorre solo ricordare la risposta preventiva di Moshe Arens, nell’articolo già citato:
«La retorica del caso ha già iniziato a prendere quota. Che importa se il mondo intero vede questo accordo diplomatico - al quale Israele ha aderito mentre riceveva ancora la sua dose giornaliera di missili - come la sconfitta israeliana per mano di qualche migliaio di guerriglieri di Hezbollah? Cosa importa se nessuno crede che un UNIFIL 'rafforzato' disarmi Hezbollah, e che quest'ultimo, avendo in arsenale ancora migliaia di missili, e reso veramente più forte dal mese di riuscita contro le possenti Forze di Difesa Israeliane, diventi ora qualcuno con cui cooperare per la pace?».
Il vero «proseguimento della guerra con altri mezzi» è già iniziato in pieno, in Libano. In gioco vi sono quattro questioni principali, qui elencate in ordine inverso di priorità. La prima, su un piano interno libanese, è il destino del governo. L’attuale maggioranza parlamentare, in Libano, è il risultato di elezioni viziate da una legge elettorale difettosa e causa di distorsioni, applicata da un regime dominato dai siriani. Una delle sue conseguenze principali è stata di distorcere la rappresentanza dell'elettorato cristiano: è molto sotto rappresentato il movimento che guida l'ex generale Michel Aoun, alleatosi, dopo le elezioni, a Hezbollah. Di più, la recente guerra ha incrinato fortemente il morale politico della popolazione libanese; la legittimità dell'attuale maggioranza parlamentare è quindi altamente discutibile. È chiaro che ogni cambiamento del governo a favore di Hezbollah e dei suoi alleati altererebbe radicalmente il senso della risoluzione 1701, dal momento che l'interpretarla dipende moltissimo dall’atteggiamento del governo libanese. A questo riguardo, tuttavia, una delle preoccupazioni più importanti consiste nell'evitare ogni slittamento verso una nuova guerra civile in Libano: questo è quanto aveva in mente Nasrallah, quando evocava l’importanza della «unità nazionale».
Il secondo punto, pure questo sul piano interno libanese, è lo sforzo per ricostruire. Hariri ed i suoi sostenitori sauditi avevano accumulato influenza politica in Libano controllando i lavori di ricostruzione, dopo i 15 anni di guerra civile, terminati nel 1990. Questa volta avranno di fronte un'intensa competizione da parte di Hezbollah, che ha dietro l’Iran ed il vantaggio degli stretti legami con la popolazione libanese sciita, il principale bersaglio della guerra vendicativa di Israele. Come ha scritto su Haaretz Ze'ev Schiff, analista militare israeliano di alto livello: «Molto dipende da chi aiuterà a ricostruire il sud del Libano. Se lo farà Hezbollah, la popolazione sciita del Sud-Libano sarà in debito con Teheran: lo si dovrebbe impedire»[6]. Questo messaggio è stato chiaramente recepito da Washington, Riyad e Beirut: oggi, rilevanti articoli su gran parte della stampa importante negli USA suonano l’allarme a questo proposito.
La terza questione, naturalmente, è quella del “disarmo” di Hezbollah nella zona delimitata nel sud del Libano, per il dispiegarsi congiunto dell’esercito libanese e della UNIFIL rinnovata. Il più che Hezbollah possa concedere è di «nascondere» le sua armi a sud del fiume Litani per non esporle e stoccarle in luoghi segreti. Ogni passo che vada al di là, senza parlare di un disarmo di Hezbollah in tutto il Libano, è da quest’ultimo legata a una serie di condizioni che vanno dal recupero da parte del Libano delle fattorie di Sheeba occupate dopo il 1967 alla nascita di un governo e di un esercito capaci di a difendere la sovranità del Paese contro Israele e determinati a farlo. Questo punto rappresenta il primo maggior problema nel quale potrebbe inciampare l’applicazione della risoluzione 1701, poiché nessun Paese al mondo è nella posizione di disarmare Hezbollah con la forza, compito nel quale il più formidabile esercito moderno di tutto il Medio Oriente e una delle più grandi potenze militari del mondo, hanno completamente fallito. Ciò significa che ogni forza dispiegata a sud del fiume Litani, che sia inviata dall’Onu o dal Libano, dovrà accettare l’offerta di Hezbollah in modo esplicito.
La quarta questione, indubbiamente, è quella della composizione e della missione dei nuovi contingenti dell’UNIFIL. Il piano iniziale di Washington e Parigi era di rifare in Libano ciò che viene fatto in Afghanistan dove una forza ausiliaria della NATO, con la foglia di fico dell’ONU, fa la guerra di Washington. La resistenza militare oltre che politica di Hezbollah ha fatto fallire questo piano. Washington e Parigi credevano comunque di poterlo mettere in atto, anche se in modo graduale e camuffato, finché in Libano le condizioni non fossero tali da permettere una grande prova di forza della NATO e dei suoi alleati contro gli Hezbollah. Sicuramente i Paesi che presumibilmente invieranno la maggior parte delle forze sono tutti membri della NATO, con la Francia, l’Italia e la Turchia che sono in attesa e la Germania e la Spagna che sono sollecitate a seguirle urgentemente. Ma Hezbollah non si lascia ingannare. Già è all’opera per dissuadere la Francia dall’attuare il suo progetto di inviare truppe di combattimento appoggiate dalla sua portaerei ancorate vicino alle rive libanesi nel Mediterraneo.
Per ciò che riguarda l’ultimo punto, il movimento anti-guerra nei Paesi della NATO potrebbe aiutare fortemente la lotta della resistenza nazionale libanese e la causa della pace in Libano mobilitandosi contro l’invio di ogni tipo di truppe NATO, ciò dissuaderebbe i governi di questi Paesi dall’aiutare Washington e Israele nel loro lavoro sporco. Ciò di cui ha bisogno il Libano è della presenza di una vera forza neutra di mantenimento della pace alle sue frontiere sud e, soprattutto, che al suo popolo sia permesso di gestire i suoi problemi interni con mezzi politici pacifici. Qualunque altra strada condurrebbe al ritorno della guerra civile libanese nel momento in cui il Medio Oriente e il mondo intero hanno già difficoltà a far fronte alle conseguenze della guerra civile in Iraq cui Washington ha messo fuoco e che continua ad alimentare.
Gilbert Achcar* di origini libanesi, insegna Scienze Politiche all’Università Paris-VIII. Il suo libro più noto Scontro tra barbarie è stato pubblicato in più di 12 lingue. E’ stato edito in Italiano con aggiornamenti nel 2006 presso le Edizioni Alegre. Un suo libro di dialoghi con Noam Chomsky sul Medio Oriente, Perilous Power, sarà pubblicato dall’editore Stephen R. Shalom.
Traduzione dalla versione inglese e francese di Paola Canarutto e Cinzia Nachira
[1] Sulle implicazioni globali e regionali di questi eventi, vedere l'articolo “The Sinking Ship of U.S. Imperial Designs,”[La nave dei disegni imperiali statunitensi in difficoltà], inviato a ZNet il 7 agosto 2006.
[2] Così si è espresso un osservatore israeliano in un articolo intitolato in modo alquanto rivelatore: “È stato un errore credere che la pressione militare avrebbe potuto avviare un processo di disarmo di Hezbollah da parte del governo libanese”. Efraim Inbar, “Prepare for the next round” [Preparatevi per il prossimo round], Jerusalem Post, 15 agosto 2006.
[3] Moshe Arens, “Let the devil take tomorrow” [Il domani, il diavolo se lo porti], Haaretz, agosto 13, 2006.
[4] USA e Francia hanno ambedue concluso con i sauditi, a luglio, importanti affari per quanto riguarda le armi.
[5] Intervista a Le Monde, 27 luglio 2006.
[6] Ze’ev Schiff, “Delayed ground offensive clashes with diplomatic timetable” [Un ritardo dell’offensiva di terra si scontra con i tempi della diplomazia], Haaretz, 13 agosto 2006.
di Gilbert Achcar*
La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU in data 11 agosto 2006 non soddisfa interamente né Israele, né Washington, né Hezbollah. Questo non significa che sia «equa e bilanciata», ma solo che è la dimostrazione temporanea di uno stallo militare.
Hezbollah non ha potuto infliggere una sconfitta militare importante ad Israele, possibilità questa che è stata sempre esclusa dall'assoluta sproporzione delle forze, proprio come era stato impossibile alla resistenza vietnamita infliggere una sconfitta militare importante agli Stati Uniti; neppure Israele, però, ha potuto infliggere una sconfitta militare importante – o in effetti una qualunque sconfitta al mondo – a Hezbollah. In questo senso, è quest'ultimo, senza alcun dubbio, il vero vincitore politico, come Israele è il vero perdente, della guerra dei 33 giorni scoppiata il 12 luglio; nessun discorso di Ehud Olmert o di George W. Bush può alterare questa ovvia verità[1].
Per comprendere la posta in gioco, è necessario riassumere gli scopi perseguiti nell'offensiva israeliana e sostenuti dagli Stati Uniti. Lo scopo principale dell'attacco israeliano era, naturalmente, distruggere Hezbollah; Israele ha cercato di raggiungere l'obiettivo con una combinazione di tre mezzi principali.
Il primo consisteva nell'infliggere a Hezbollah un colpo fatale tramite una campagna di bombardamenti «post-eroica», vale a dire vigliacca, sfruttando il «vantaggio schiacciante ed asimmetrico» di Israele nella forza di fuoco. Questo mirava ad interrompere le vie di rifornimento di Hezbollah, a distruggere gran parte della sua infrastruttura militare (riserve di missili, lanciarazzi, ecc.), ad eliminare un numero importante di militanti e a decapitarlo, con l'assassinio di Hassan Nasrallah e di altri leader chiave del partito.
Il secondo consisteva nel volgere la base di massa di Hezbollah fra gli sciiti libanesi contro il partito: Israele lo avrebbe indicato come responsabile della loro tragedia tramite una frenetica campagna di operazioni psicologiche (PSYOP). Questo richiedeva, naturalmente, l'infliggere agli sciiti libanesi un disastro massiccio, con una campagna di bombardamenti criminale ed estesa, tale da radere deliberatamente al suolo interi villaggi e quartieri e da uccidere centinaia e centinaia di civili. Non era la prima volta in cui Israele ricorreva a questo tipo di stratagemma – uno standard, fra i crimini di guerra. Quando l'OLP era attivo nel sud del Libano, in quella che, precedentemente alla prima invasione israeliana, nel 1978, era chiamata «terra di Fatah», Israele era solita martellare pesantemente l'area abitata, tutto intorno al punto da cui era stato lanciato un missile contro il proprio territorio, benché i razzi fossero stati sparati da zone disabitate. A quel tempo, lo stratagemma era riuscito ad alienare dall'OLP una parte significativa della popolazione del Libano del sud, ciò che era favorito dal fatto che lì i leader reazionari erano ancora una forza importante, e che i guerriglieri palestinesi potevano essere facilmente ripudiati come estranei, per il loro comportamento, in genere disastroso. Questa volta, dato il prestigio incomparabilmente superiore di Hezbollah fra gli sciiti libanesi, Israele pensava di poter ottenere lo stesso effetto semplicemente incrementando la portata e la brutalità della punizione collettiva.
Il terzo consisteva nel distruggere in modo massiccio ed in profondità la vita dei libanesi nel loro insieme, prendendoli in ostaggio con un assedio dal cielo, dal mare e dalla terra, in modo da incitare la popolazione, ed in particolare le comunità diverse da quelle sciite, contro Hezbollah, creando così un clima politico favorevole ad un'azione militare dell'esercito libanese contro l'organizzazione sciita. Questo è il motivo per cui, all'inizio dell'offensiva, gli ufficiali israeliani dichiaravano di non voler alcuna altra forza, nel sud del Libano, che non fosse l'esercito libanese, rifiutando specificamente una forza internazionale e sputando sull'UNIFIL, che già c'era. Questo è stato in effetti il progetto a cui miravano Washington e Parigi nel periodo in cui lavoravano insieme per produrre la risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nel settembre 2004, che richiedeva il ritiro delle truppe siriane dal Libano e «lo scioglimento ed il disarmo di tutte le milizie, libanesi e non libanesi», vale a dire di Hezbollah e delle organizzazioni dei palestinesi nei campi profughi.
Washington aveva creduto che, una volta allontanate le forze siriane dal Libano, l'esercito libanese, che aveva ricevuto l'equipaggiamento ed era stato addestrato in primo luogo dal Pentagono, sarebbe stato in grado di «sciogliere e disarmare» Hezbollah. L'esercito siriano, in effetti, si era ritirato dal Libano nell'aprile del 2005, non per la pressione di Washington e Parigi, ma per il tumulto politico e la mobilitazione di massa determinata dall'assassinio, nel febbraio di quell'anno, dell'ex primo ministro Rafik Hariri, amico molto stretto della classe dirigente saudita. L'equilibrio di forze nel Paese, alla luce delle dimostrazioni e delle contro-dimostrazioni di massa che erano avvenute, non aveva reso possibile immaginare, alla coalizione alleata degli Stati Uniti, di risolvere la questione Hezbollah con la forza. Erano stati persino costretti a fare le successive elezioni legislative, a maggio, in un'ampia coalizione con Hezbollah, e a reggere quindi il Paese con un'intesa di governo che comprendeva due ministri di questo partito. Il risultato deludente aveva indotto Washington a dare il via libera ad Israele per l'intervento militare: era solo necessario un pretesto adeguato, fornito il 12 luglio dall'operazione di Hezbollah attraverso la frontiera.
Valutata in base allo scopo primario e ai tre mezzi sopra descritti, l'offensiva israeliana è stata un chiaro e totale fallimento. È chiarissimo che Hezbollah non è stato distrutto – ben lungi da ciò. Ha mantenuto il grosso e della struttura politica, e della forza militare, concedendosi il lusso di bombardare il nord di Israele fino all'ultimissimo minuto prima del cessate il fuoco, la mattina del 14 agosto. Non è stato isolato dalla sua base di massa, che si è anzi considerevolmente ampliata in Libano, non solo fra gli sciiti, ma anche in altre comunità religiose; questo senza accennare al grande prestigio che questa guerra gli ha apportato, soprattutto nella regione araba e nel resto del mondo musulmano. Ricordo per ultimo un fatto di non minore importanza: tutto ciò ha spostato il bilancio generale delle forze in Libano in una direzione che è l'esatto opposto di quanto atteso da Washington e da Israele: Hezbollah ne è riemerso molto più forte e più temuto dai suoi oppositori, dichiarati o meno, e cioè gli amici degli USA e del regno saudita. Il governo libanese si è sostanzialmente schierato con detto partito, mettendo al vertice delle priorità la protesta contro l'aggressione israeliana[2].
Non vi è alcun bisogno di soffermarci ancora sull'insuccesso più evidente di Israele: leggere la valanga di commenti critici dalle fonti israeliane è più che sufficiente, e quanto mai rivelatore. Uno dei commenti più taglienti è stato quello espresso da Moshe Arens, per tre volte ministro della «difesa», indiscutibilmente un esperto. Ecco cosa scrive su Haaretz, in un breve articolo che vale un libro:
«[Ehud Olmert, Amir Peretz e Tzipi Livni] hanno avuto alcuni giorni di gloria quando ancora credevano che con il bombardamento del Libano da parte dell'IAF [Forze Aeree Israeliane] si sarebbero liberati di Hezbollah, portandoci la vittoria senza fatica. Ma, man mano che procedeva la guerra, da loro gestita in modo tanto incompetente..., hanno perso gradualmente sicurezza. Qui e là hanno ancora rilasciato alcune dichiarazioni bellicose, ma cominciando a cercare una via d'uscita – un modo per districarsi da una serie di situazioni di cui non erano chiaramente in grado di farsi carico. Hanno cercato una pagliuzza a cui aggrapparsi – e quale pagliuzza migliore del Consiglio di Sicurezza dell'ONU? Non è necessario battere militarmente Hezbollah: lasciamo che l'ONU dichiari un cessate il fuoco, e Olmert, Peretz e la Livni possono semplicemente dichiarare vittoria, che lo crediate o no.... La guerra, che secondo i nostri leader avrebbe dovuto restaurare il potere deterrente israeliano, in un mese è riuscita a distruggerlo»[3].
Arens dice il vero: via via che Israele si dimostrava sempre più incapace di raggiungere uno qualunque degli obiettivi che si era proposto all'inizio della nuova guerra, ha iniziato a cercare una via d'uscita. Mentre compensava il fallimento con un'escalation della furia distruttiva e colma di vendetta che scatenava sul Libano, all'ONU i suoi sponsor statunitensi hanno cambiato atteggiamento. Dopo aver dato ad Israele più di tre settimane di tempo, bloccando ogni tentativo di discutere al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che richiedesse il cessate il fuoco – uno dei casi più drammatici di paralisi, nella storia di questa ultrasessantenne istituzione intergovernativa – Washington ha deciso di avocare a sé il tutto, continuando la guerra di Israele per vie diplomatiche.
Con il cambio di atteggiamento, sulla questione del Libano Washington si trovava nuovamente d'accordo con Parigi. Questa, dedita quanto gli USA, anzi loro rivale, nel trarre il massimo dalle ricchezze saudite, soprattutto vendendo ai governanti del luogo tecnologia militare[4], sta regolarmente ed in modo opportunistico dalla parte giusta dei sauditi, ogni volta che insorge una qualche tensione fra il piano di Washington e le preoccupazioni dei suoi più vecchi clienti, e pupilli, medio-orientali. La nuova guerra di Israele in Libano era una di tali opportunità: appena l'aggressione omicida israeliana si è dimostrata controproducente, dal punto di vista della famiglia regnante saudita, terrorizzata da un aumento della destabilizzazione in Medio Oriente, che potrebbe dimostrarsi disastrosa per i propri interessi, hanno richiesto che la guerra cessasse, sostituita da vie alternative.
Parigi si è immediatamente espressa a favore di questa prospettiva, e Washington ha finito per fare lo stesso, ma solo dopo aver dato all'aggressione israeliana alcuni giorni in più, perché tentasse di ottenere qualche risultato militare, salvando la faccia. La prima bozza di risoluzione, preparata dalle due capitali e fatta circolare all'ONU il 5 agosto, era un palese tentativo di ottenere per via diplomatica quello che Israele non era riuscito ad ottenere militarmente: mentre dichiarava un «forte sostegno» per la sovranità libanese, richiedeva tuttavia la riapertura di aeroporti e porti solo «per scopi verificabilmente, e puramente, civili», prevedendo inoltre un «embargo internazionale sulla vendita o la fornitura al Libano di armamenti e materiale correlato, fatta eccezione per quanto autorizzato dal suo governo» - in altre parole, un embargo per Hezbollah.
Confermava la risoluzione 1559, richiedendone una supplementare che autorizzasse, «in base al Capitolo VII della Carta, il dispiegamento di una forza internazionale con il mandato dell'ONU, per sostenere le forze armate ed il governo del Libano nell'assicurare una regione sicura e contribuire a mettere in atto un cessate il fuoco permanente ed una soluzione a lungo termine». Questa formula è così vaga che poteva solo significare, in realtà, una forza internazionale autorizzata a compiere azioni militari (Capitolo VII della Carta dell'ONU), in modo da attuare la risoluzione 1559 con la forza, alleandosi con l'esercito libanese. Oltre a ciò, nessuna condizione limitava detta forza al sud del fiume Litani, l'area che, secondo la bozza di risoluzione, avrebbe dovuto essere libera di armamenti di Hezbollah, ed il limite alla zona che Israele aveva richiesto che fosse resa sicura, non essendo riuscita a liberarsi del gruppo medesimo nel resto del Libano. Questo significava che si sarebbe potuto richiedere alla forza dell'ONU di agire contro Hezbollah nel resto del Libano.
Dato tuttavia che questo progetto era totalmente ingiustificato dai risultati israeliani sul terreno, la bozza è stata sconfitta. Hezbollah vi si è opposto energicamente, rendendo chiaro che non avrebbe accettato alcuna forza internazionale che non fosse la già esistente UNIFIL, la forza dell'ONU dispiegata sin dal 1978 lungo il confine del Libano con Israele (la «Linea Blu»). Il governo libanese, sostenuto dal coro di stati arabi, compresi tutti i clienti degli USA, ha comunicato l'opposizione di Hezbollah e la richiesta di modifiche; Washington quindi non ha avuto alcuna altra scelta che rivedere la bozza, stante che non avrebbe comunque superato un voto al Consiglio di Sicurezza. Oltre a ciò, l'alleato di Washington, il presidente francese Jacques Chirac – dal cui Paese ci si attende che fornisca la componente principale della forza internazionale, guidandola – aveva dichiarato pubblicamente di persona, dopo due settimane di guerra, che non era possibile alcun dispiegamento senza un accordo preventivo con Hezbollah[5].
Il progetto è stato quindi rivisto e rinegoziato, mentre Washington chiedeva ad Israele di brandire la minaccia di una grande offensiva via terra e di iniziare effettivamente, come mezzo di pressione, a metterla in atto, in modo da permettere agli USA di ottenere, dal proprio punto di vista, il massimo. Per facilitare un accordo che conducesse ad un cessate il fuoco, che diveniva sempre più urgente per ragioni umanitarie, Hezbollah ha accettato il dispiegamento di 15.000 soldati libanesi a sud del fiume Litani, ammorbidendo nel complesso la sua posizione. È così che, l'11 agosto, la Risoluzione 1701 ha potuto farsi strada fino al Consiglio di Sicurezza.
La concessione principale da parte di Washington e di Parigi è consistita nell’abbandono del progetto di creare una forza multinazionale ad hoc, regolata dal Capitolo VII. Al suo posto, la risoluzione autorizza «il rafforzare la forza dell’UNIFIL fino a un massimo di 15.000 uomini», riorganizzando ed accrescendo nettamente la forza ONU già presente. Il trucco principale, allo stesso tempo, era di ridefinirne il mandato, in modo che essa potesse ora «assistere le forze armate libanesi, prendendo misure» rivolte a «creare, tra la Linea Blu e il fiume Litani, una zona libera da ogni personale armato, equipaggiamento o armi diverse da quelle del governo libanese o dell’UNIFIL». L’UNIFIL può ora inoltre «prendere tutte le misure necessarie, nelle zone di dispiegamento delle sue forze, ed in base a quanto ritiene rientrare nelle proprie capacità, per assicurare che questa zona di operazioni non sia utilizzata per attività ostili di qualsiasi genere».
Combinate, le due precedenti formulazioni si avvicinano abbastanza al mandato del Capitolo VII, o potrebbero comunque essere facilmente interpretate in questo modo. Di più, il mandato dell'UNIFIL è effettivamente ampliato dalla Risoluzione 1701 al di là delle sue «aree di dispiegamento», dal momento che ora può «aiutare il governo libanese, su sua richiesta», negli sforzi per «rendere sicure le frontiere e altri punti d’ingresso, per prevenire che entrino in Libano, senza il suo consenso, armi o materiale correlato» - frase questa che non si riferisce assolutamente al confine del Libano con Israele, ma a quello con la Siria, che si estende dal nord al sud del Paese. Queste sono le trappole principali della Risoluzione 1701, e non come vi si formula il ritiro dell’esercito di occupazione israeliano, come molti hanno detto, poiché il ritiro israeliano è stato imposto proprio dalla forza deterrente di Hezbollah, non da alcuna risoluzione dell’ONU.
Hezbollah ha deciso di dare il via libera all’approvazione da parte del governo libanese alla Risoluzione 1701. Hassan Nasrallah ha preso la parola il 12 agosto, spiegando la decisione del partito di dare il suo assenso al dispiegamento su mandato delle Nazioni Unite; ha espresso un giudizio sulla situazione molto più sobrio, rispetto ad altri suoi discorsi precedenti, e una notevole saggezza politica. «Oggi», ha dichiarato, «abbiamo davanti i risultati naturali, ragionevoli e possibili, della grande risolutezza espressa dai libanesi, a partire dalle loro varie posizioni.» Questa sobrietà era necessaria: ogni vantare una vittoria - come avevano fatto con faciloneria i sostenitori di Hezbollah a Damasco e a Teheran - avrebbe obbligato Nasrallah ad aggiungere, come il re Pirro dell’antica Grecia, «Ancora una simile vittoria e sarò perduto!». Il leader di Hezbollah ha prudentemente ed in modo esplicito espresso il rifiuto di entrare in polemica valutando i risultati della guerra: ha insistito che «nostra vera priorità» è fermare l’aggressione, recuperare il territorio occupato, «ottenere sicurezza e stabilità nel nostro Paese, con il ritorno dei rifugiati e dei profughi».
Nasrallah ha così definito la posizione pratica del suo movimento: conformarsi al cessate il fuoco e cooperare in pieno con «tutto ciò che può facilitare il ritorno dei profughi e dei rifugiati alle loro abitazione e alle loro case, e tutto ciò che può rendere più semplici le operazioni umanitarie e di soccorso». L’ha detto mentre dichiarava che il suo movimento era pronto a proseguire la lotta legittima contro l’esercito israeliano fino a che esso restasse in territorio libanese; si è tuttavia offerto di rispettare l'accordo del 1996, secondo il quale le operazioni dei due campi sarebbero state limitate agli obiettivi militari, risparmiando i civili. A questo proposito, ha sottolineato che il suo movimento aveva cominciato a bombardare Israele solo in reazione ai bombardamenti israeliani in Libano dopo l’operazione del 12 luglio, e che, dato che Israele per primo aveva esteso la guerra alla popolazione civile, è su questo che ha da ricadere il biasimo.
La dichiarazione di Nasrallah circa come vede la Risoluzione 1701 potrebbe essere al meglio considerata come un’adesione con molte riserve, in attesa delle verifiche nell'attuarla in pratica. Ha espresso la sua protesta contro l’ingiustizia della risoluzione, che nei preamboli si astiene da ogni condanna dell'aggredire e dei crimini di guerra di Israele; ha aggiunto tuttavia che poteva essere ben peggiore, manifestando apprezzamento per gli sforzi diplomatici che avevano permesso di evitare che questo avvenisse. Il punto cruciale era di insistere sul fatto che Hezbollah considera alcuni dei problemi sollevati dalla risoluzione come affari interni del Libano, da dover essere discussi e risolti fra i libanesi stessi; ha sottolineato inoltre la salvaguardia dell’unità e della solidarietà nazionale.
Date le circostanze, la posizione di Nasrallah era la più corretta possibile. Hezbollah doveva fare delle concessioni per facilitare la fine della guerra: dato che tutta la popolazione del Libano era tenuta da Israele in ostaggio, ogni atteggiamento intransigente avrebbe avuto conseguenze umanitarie disastrose, da sommare ai già terrificanti risultati della furia israeliana, distruttrice ed omicida. Hezbollah sa perfettamente che il vero problema è rappresentato molto meno dai termini adoperati in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dalla sua interpretazione ed applicazione nei fatti, e che, a questo riguardo, ad essere determinanti sono la situazione e l’equilibrio delle forze sul campo. A George W. Bush ed Ehud Olmert, che cantano presuntuosamente una vittoria a cui dà apparentemente forma concreta la risoluzione 1701, occorre solo ricordare la risposta preventiva di Moshe Arens, nell’articolo già citato:
«La retorica del caso ha già iniziato a prendere quota. Che importa se il mondo intero vede questo accordo diplomatico - al quale Israele ha aderito mentre riceveva ancora la sua dose giornaliera di missili - come la sconfitta israeliana per mano di qualche migliaio di guerriglieri di Hezbollah? Cosa importa se nessuno crede che un UNIFIL 'rafforzato' disarmi Hezbollah, e che quest'ultimo, avendo in arsenale ancora migliaia di missili, e reso veramente più forte dal mese di riuscita contro le possenti Forze di Difesa Israeliane, diventi ora qualcuno con cui cooperare per la pace?».
Il vero «proseguimento della guerra con altri mezzi» è già iniziato in pieno, in Libano. In gioco vi sono quattro questioni principali, qui elencate in ordine inverso di priorità. La prima, su un piano interno libanese, è il destino del governo. L’attuale maggioranza parlamentare, in Libano, è il risultato di elezioni viziate da una legge elettorale difettosa e causa di distorsioni, applicata da un regime dominato dai siriani. Una delle sue conseguenze principali è stata di distorcere la rappresentanza dell'elettorato cristiano: è molto sotto rappresentato il movimento che guida l'ex generale Michel Aoun, alleatosi, dopo le elezioni, a Hezbollah. Di più, la recente guerra ha incrinato fortemente il morale politico della popolazione libanese; la legittimità dell'attuale maggioranza parlamentare è quindi altamente discutibile. È chiaro che ogni cambiamento del governo a favore di Hezbollah e dei suoi alleati altererebbe radicalmente il senso della risoluzione 1701, dal momento che l'interpretarla dipende moltissimo dall’atteggiamento del governo libanese. A questo riguardo, tuttavia, una delle preoccupazioni più importanti consiste nell'evitare ogni slittamento verso una nuova guerra civile in Libano: questo è quanto aveva in mente Nasrallah, quando evocava l’importanza della «unità nazionale».
Il secondo punto, pure questo sul piano interno libanese, è lo sforzo per ricostruire. Hariri ed i suoi sostenitori sauditi avevano accumulato influenza politica in Libano controllando i lavori di ricostruzione, dopo i 15 anni di guerra civile, terminati nel 1990. Questa volta avranno di fronte un'intensa competizione da parte di Hezbollah, che ha dietro l’Iran ed il vantaggio degli stretti legami con la popolazione libanese sciita, il principale bersaglio della guerra vendicativa di Israele. Come ha scritto su Haaretz Ze'ev Schiff, analista militare israeliano di alto livello: «Molto dipende da chi aiuterà a ricostruire il sud del Libano. Se lo farà Hezbollah, la popolazione sciita del Sud-Libano sarà in debito con Teheran: lo si dovrebbe impedire»[6]. Questo messaggio è stato chiaramente recepito da Washington, Riyad e Beirut: oggi, rilevanti articoli su gran parte della stampa importante negli USA suonano l’allarme a questo proposito.
La terza questione, naturalmente, è quella del “disarmo” di Hezbollah nella zona delimitata nel sud del Libano, per il dispiegarsi congiunto dell’esercito libanese e della UNIFIL rinnovata. Il più che Hezbollah possa concedere è di «nascondere» le sua armi a sud del fiume Litani per non esporle e stoccarle in luoghi segreti. Ogni passo che vada al di là, senza parlare di un disarmo di Hezbollah in tutto il Libano, è da quest’ultimo legata a una serie di condizioni che vanno dal recupero da parte del Libano delle fattorie di Sheeba occupate dopo il 1967 alla nascita di un governo e di un esercito capaci di a difendere la sovranità del Paese contro Israele e determinati a farlo. Questo punto rappresenta il primo maggior problema nel quale potrebbe inciampare l’applicazione della risoluzione 1701, poiché nessun Paese al mondo è nella posizione di disarmare Hezbollah con la forza, compito nel quale il più formidabile esercito moderno di tutto il Medio Oriente e una delle più grandi potenze militari del mondo, hanno completamente fallito. Ciò significa che ogni forza dispiegata a sud del fiume Litani, che sia inviata dall’Onu o dal Libano, dovrà accettare l’offerta di Hezbollah in modo esplicito.
La quarta questione, indubbiamente, è quella della composizione e della missione dei nuovi contingenti dell’UNIFIL. Il piano iniziale di Washington e Parigi era di rifare in Libano ciò che viene fatto in Afghanistan dove una forza ausiliaria della NATO, con la foglia di fico dell’ONU, fa la guerra di Washington. La resistenza militare oltre che politica di Hezbollah ha fatto fallire questo piano. Washington e Parigi credevano comunque di poterlo mettere in atto, anche se in modo graduale e camuffato, finché in Libano le condizioni non fossero tali da permettere una grande prova di forza della NATO e dei suoi alleati contro gli Hezbollah. Sicuramente i Paesi che presumibilmente invieranno la maggior parte delle forze sono tutti membri della NATO, con la Francia, l’Italia e la Turchia che sono in attesa e la Germania e la Spagna che sono sollecitate a seguirle urgentemente. Ma Hezbollah non si lascia ingannare. Già è all’opera per dissuadere la Francia dall’attuare il suo progetto di inviare truppe di combattimento appoggiate dalla sua portaerei ancorate vicino alle rive libanesi nel Mediterraneo.
Per ciò che riguarda l’ultimo punto, il movimento anti-guerra nei Paesi della NATO potrebbe aiutare fortemente la lotta della resistenza nazionale libanese e la causa della pace in Libano mobilitandosi contro l’invio di ogni tipo di truppe NATO, ciò dissuaderebbe i governi di questi Paesi dall’aiutare Washington e Israele nel loro lavoro sporco. Ciò di cui ha bisogno il Libano è della presenza di una vera forza neutra di mantenimento della pace alle sue frontiere sud e, soprattutto, che al suo popolo sia permesso di gestire i suoi problemi interni con mezzi politici pacifici. Qualunque altra strada condurrebbe al ritorno della guerra civile libanese nel momento in cui il Medio Oriente e il mondo intero hanno già difficoltà a far fronte alle conseguenze della guerra civile in Iraq cui Washington ha messo fuoco e che continua ad alimentare.
Gilbert Achcar* di origini libanesi, insegna Scienze Politiche all’Università Paris-VIII. Il suo libro più noto Scontro tra barbarie è stato pubblicato in più di 12 lingue. E’ stato edito in Italiano con aggiornamenti nel 2006 presso le Edizioni Alegre. Un suo libro di dialoghi con Noam Chomsky sul Medio Oriente, Perilous Power, sarà pubblicato dall’editore Stephen R. Shalom.
Traduzione dalla versione inglese e francese di Paola Canarutto e Cinzia Nachira
[1] Sulle implicazioni globali e regionali di questi eventi, vedere l'articolo “The Sinking Ship of U.S. Imperial Designs,”[La nave dei disegni imperiali statunitensi in difficoltà], inviato a ZNet il 7 agosto 2006.
[2] Così si è espresso un osservatore israeliano in un articolo intitolato in modo alquanto rivelatore: “È stato un errore credere che la pressione militare avrebbe potuto avviare un processo di disarmo di Hezbollah da parte del governo libanese”. Efraim Inbar, “Prepare for the next round” [Preparatevi per il prossimo round], Jerusalem Post, 15 agosto 2006.
[3] Moshe Arens, “Let the devil take tomorrow” [Il domani, il diavolo se lo porti], Haaretz, agosto 13, 2006.
[4] USA e Francia hanno ambedue concluso con i sauditi, a luglio, importanti affari per quanto riguarda le armi.
[5] Intervista a Le Monde, 27 luglio 2006.
[6] Ze’ev Schiff, “Delayed ground offensive clashes with diplomatic timetable” [Un ritardo dell’offensiva di terra si scontra con i tempi della diplomazia], Haaretz, 13 agosto 2006.
Louisiana senator wants to 'punch' Bush
AlterNet
Posted by David DeGraw at 12:06 PM on August 27, 2006.
One year ago, Louisiana Senator Mary Landrieu was so frustrated by Bush's inept response to Hurricane Katrina that she went on national television and threatened to 'literally punch him.' Now, a year later, Landrieu is still disgusted by the administration's "lack of follow through."
In this video clip from ABC's This Week, she explains that only 12% of the $110 billion Katrina relief package has actually reached the people who need it most.
David DeGraw is AlterNet's video blogger.
Schieffer on Katrina: Hezbollah more efficient than Bush admin
AlterNet
Posted by David DeGraw at 1:07 PM on August 27, 2006.
On Face the Nation, Bob Schieffer rips the Bush administration by suggesting that Hezbollah's effort to help war victims is more effective than Bush's ability to help Katrina victims.
Transcript:
"Arrogance is galling enough, but it was the next story by [CBS news correspondent] Allen Pizzey that really set me off. He reported that Hezbollah agents are on the streets of Southern Lebanon handing out U.S. dollars to people whose homes were bombed out.
One year after Katrina and we can't figure out how to get money to people who lost their homes in New Orleans, we're still not sure if it can survive another hurricane but a terrorist group has figured out how to get American money to the homeless in Lebanon?
Talk about threats to national security – how about government so big, so complicated and so unmanageable, it can't get out of its own way?
That's what scares me."
David DeGraw is AlterNet's video blogger.
Hurricane Katrina’s aftermath: from natural disaster to national humiliation
Statement of the World Socialist Web Site Editorial Board
28 August 2006
On the eve of the first anniversary of Hurricane Katrina, which devastated New Orleans and portions of the Gulf Coast in the US, we are reposting for the benefit of our readers a statement that appeared on the World Socialist Web Site September 2, 2005. Its indictment of the American ruling elite has been more than borne out by subsequent events, as we will examine in further postings this week. (See also: “One year since Hurricane Katrina: the rebuilding of Mississippi’s Gulf Coast”)
The catastrophe that is unfolding in New Orleans and on the Gulf Coast of Mississippi has been transformed into a national humiliation without parallel in the history of the United States.
The scenes of intense human suffering, hopelessness, squalor, and neglect amidst the wreckage of what was once New Orleans have exposed the rotten core of American capitalist society before the eyes of the entire world—and, most significantly, before those of its own stunned people.
The reactionary mythology of America as the “Greatest Country in the World” has suffered a shattering blow.
Hurricane Katrina has laid bare the awful truths of contemporary America—a country torn by the most intense class divisions, ruled by a corrupt plutocracy that possesses no sense either of social reality or public responsibility, in which millions of its citizens are deemed expendable and cannot depend on any social safety net or public assistance if disaster, in whatever form, strikes.
Washington’s response to this human tragedy has been one of gross incompetence and criminal indifference. People have been left to literally die in the streets of a major American city without any assistance for four days. Images of suffering and degradation that resemble the conditions in the most impoverished Third World countries are broadcast daily with virtually no visible response from the government of a country that concentrates the greatest share of wealth in the world.
The storm that breached the levees of New Orleans has also revealed all of the horrific implications of 25 years’ worth of uninterrupted social and political reaction. The real results of the destruction of essential social services, the dismantling of government agencies entrusted with alleviating poverty and coping with disasters, and the ceaseless nostrums about the “free market” magically resolving the problems of modern society have been exposed before millions.
With at least 100,000 people trapped in a city without power, water or food and threatened with the spread of disease and death, the government has proven incapable of establishing the most elementary framework of logistical organization. It has failed to even evacuate the critically ill from public hospitals, much less provide basic medical assistance to the many thousands placed in harm’s way by the disaster.
What was the government’s response to the natural catastrophe that threatened New Orleans? It amounted to betting that the storm would go the other way, followed by a policy of “every man for himself.” Residents of the city were told to evacuate, while the tens of thousands without transportation or too poor to travel were left to their fate.
Now crowds of thousands of hungry and homeless people have been reduced to chanting “we need help” as bodies accumulate in the streets. Washington’s inability to mount and coordinate basic rescue operations will unquestionably add to a death toll that is already estimated in the thousands.
The government’s callous disregard for the human suffering, its negligence in failing to prepare for this disaster and, above all, its utter incompetence have staggered even the compliant American media.
Patriotic blather about the country coming together to deal with the crisis combined with efforts to poison public opinion by vilifying those without food or water for “looting” have fallen flat in face of the undeniable and monumental debacle that constitutes the official response to the disaster.
Reporters sent into the devastated region have been reduced to tears by the masses of people crying out for help with no response. Television announcers cannot help but wonder aloud why the authorities have failed so miserably to alleviate such massive human suffering.
The presidency, the Congress and both the Republican and Democratic parties—all have displayed an astounding lack of concern for the hundreds of thousands of people whose lives have been shattered and who face the most daunting and uncertain future, not to mention the tens of millions more who will be hard hit by the economic aftershocks of Katrina.
In the figure of the president, George W. Bush, the incompetence, stupidity, and sheer inhumanity that characterize so much of America’s money-mad corporate elite find their quintessentially repulsive expression.
As the hurricane developed over two weeks in the Caribbean and slowly approached the coast of New Orleans and Mississippi, Bush amused himself at his ranch retreat in Crawford, Texas. It is now clear that his administration made no serious preparations to deal with the dangers posed by the approaching storm.
In an interview Thursday on the “Good Morning America” television program, Bush reprised his miserable performance of the previous day, adding to Wednesday’s banalities the declaration that there would be “zero tolerance” for looters.
The president blanched when ABC interviewer Dianne Sawyer asked about a suggestion that the major oil companies be forced to cede a share of the immense windfall profits they have reaped from rising prices over the past six months to fund disaster relief. He responded by counseling the American people to “send cash” to charitable organizations.
In other words, there will be no serious financial commitment from the government to save lives, care for the sick and needy, and help the displaced and bereft restore their lives. Nor will there be any national, centrally financed and organized program to rebuild one of the country’s most important cities—a city that is uniquely associated with some of the most critical cultural achievements in music and the arts of the American people.
Above all, the suffering of millions will not be allowed to impinge on the profit interests of a tiny elite of multimillionaires whose interests the government defends.
Later in the day, Bush described the aftermath of the flood as a “temporary disturbance.”
The ruthless attitude of those in power toward the average poor and working class residents of New Orleans was summed up Thursday by Republican House Speaker Dennis Hastert, who declared “it doesn’t make sense” to spend tax dollars to rebuild New Orleans. “It looks like a lot of that place could be bulldozed,” he said.
While Hastert was forced to backtrack from these chilling remarks, they have a definite political logic. To rebuild the lives that have been ravaged by Hurricane Katrina would require mounting a massive government effort that would run counter to the entire thrust of a national policy based upon privatization and the transfer of wealth to the rich that has for decades been pursued by both major parties.
Can anyone truly believe that the current administration and its Democratic accomplices in Congress are going to launch a serious program to construct low-cost housing, rebuild schools and provide jobs for the hundreds of thousands left unemployed by the destruction?
Congress has been virtually silent on the catastrophe in the south. It has nothing to say, having voted to support Bush’s extreme right-wing agenda of massive tax cuts for the rich, huge outlays for war in Iraq and Afghanistan and an ever-expanding Pentagon budget, and billions to finance the Homeland Security Department.
The millionaires club in the Capitol is well aware that it voted to slash funding for elementary infrastructure needs—including urgently recommended improvements in outmoded and inadequate Gulf Coast anti-hurricane and anti-flood systems.
The Democratic Party has, as always, offered no opposition. Indeed, the president was gratified to be able to announce that former Democratic president Bill Clinton would resume his road show with the president’s father, the former Republican president, touring the stricken regions and drumming up support for charitable donations. In this way the Democratic Party has signaled its solidarity with the White House and the Republican policy against any serious federal financial commitment to help the victims and rebuild the devastated regions.
The decisive components of the present tragedy are social and political, not natural. The American ruling elite has for the past three decades been dismantling whatever forms of government regulation and social welfare had been instituted in the preceding period. The present catastrophe is the terrible product of this social and political retrogression.
The lessons derived from past natural and economic calamities—from the deadly floods of the nineteenth and early twentieth centuries, to the dust bowl and Depression of the 1930s—have been repudiated and derided by a ruling elite driven by the crisis of its profit system to subordinate ever more ruthlessly all social concerns to the extraction of profit and accumulation of personal wealth.
Franklin Roosevelt—an astute and relatively far-sighted representative of his class—had to drag the American ruling elite as a whole kicking and screaming behind a program of social reforms whose basic purpose was to save the capitalist system from the threat of social revolution. Even during his presidency, the large-scale projects in government-funded and controlled social development, such as the Tennessee Valley Authority, never became a model for broader measures to alleviate poverty and social inequality. The contradictions and requirements of an economic system based on private ownership of the means of production and production for profit resulted in any further projects being shelved.
From the 1970s onward, as the crisis of American capitalism has deepened, the US ruling elite has attacked the entire concept of social reform and dismantled the previously established restrictions on corporate activities.
The result has been a non-stop process of social plunder, producing an unprecedented concentration of wealth at the apex of society and a level of social inequality exceeding that which prevailed in the days of the Robber Barons.
Fraud, the worst forms of speculation and criminality have become pervasive within the upper echelons of American society. This is the underlying reality that has suddenly revealed itself, precipitated by a hurricane, in the form of a collapse of the most elementary forms of social life.
The political establishment and the corporate elite have been exposed as bankrupt, together with their ceaseless insistence that the unfettered development of capitalism is the solution to all of society’s problems.
The catastrophe unleashed by Katrina has unmistakably revealed that America is two countries, one for the wealthy and privileged and another in which the vast majority of working people stand on the edge of a social precipice.
All of the claims that the war on Iraq, the “global war on terrorism” and the supposed concern for “homeland security” are aimed at protecting the American people stand revealed as lies. The utter failure to protect the residents of New Orleans exposes all of these claims as propaganda designed to mask the criminality of the American ruling elite and the diversion of resources away from the most essential needs of the people.
The central lesson of New Orleans is that the elementary requirements of mass society are incompatible with a system that subordinates everything to the enrichment of a financial oligarchy.
This lesson must become the new point of departure in the political orientation of the struggles of American working people. Only the development of a new independent political movement, fighting for the reorganization of economic life on the basis of a socialist program, can provide a way out of the chaos of which the events in New Orleans are a terrible omen.
Copyright 1998-2006
World Socialist Web Site
28 August 2006
On the eve of the first anniversary of Hurricane Katrina, which devastated New Orleans and portions of the Gulf Coast in the US, we are reposting for the benefit of our readers a statement that appeared on the World Socialist Web Site September 2, 2005. Its indictment of the American ruling elite has been more than borne out by subsequent events, as we will examine in further postings this week. (See also: “One year since Hurricane Katrina: the rebuilding of Mississippi’s Gulf Coast”)
The catastrophe that is unfolding in New Orleans and on the Gulf Coast of Mississippi has been transformed into a national humiliation without parallel in the history of the United States.
The scenes of intense human suffering, hopelessness, squalor, and neglect amidst the wreckage of what was once New Orleans have exposed the rotten core of American capitalist society before the eyes of the entire world—and, most significantly, before those of its own stunned people.
The reactionary mythology of America as the “Greatest Country in the World” has suffered a shattering blow.
Hurricane Katrina has laid bare the awful truths of contemporary America—a country torn by the most intense class divisions, ruled by a corrupt plutocracy that possesses no sense either of social reality or public responsibility, in which millions of its citizens are deemed expendable and cannot depend on any social safety net or public assistance if disaster, in whatever form, strikes.
Washington’s response to this human tragedy has been one of gross incompetence and criminal indifference. People have been left to literally die in the streets of a major American city without any assistance for four days. Images of suffering and degradation that resemble the conditions in the most impoverished Third World countries are broadcast daily with virtually no visible response from the government of a country that concentrates the greatest share of wealth in the world.
The storm that breached the levees of New Orleans has also revealed all of the horrific implications of 25 years’ worth of uninterrupted social and political reaction. The real results of the destruction of essential social services, the dismantling of government agencies entrusted with alleviating poverty and coping with disasters, and the ceaseless nostrums about the “free market” magically resolving the problems of modern society have been exposed before millions.
With at least 100,000 people trapped in a city without power, water or food and threatened with the spread of disease and death, the government has proven incapable of establishing the most elementary framework of logistical organization. It has failed to even evacuate the critically ill from public hospitals, much less provide basic medical assistance to the many thousands placed in harm’s way by the disaster.
What was the government’s response to the natural catastrophe that threatened New Orleans? It amounted to betting that the storm would go the other way, followed by a policy of “every man for himself.” Residents of the city were told to evacuate, while the tens of thousands without transportation or too poor to travel were left to their fate.
Now crowds of thousands of hungry and homeless people have been reduced to chanting “we need help” as bodies accumulate in the streets. Washington’s inability to mount and coordinate basic rescue operations will unquestionably add to a death toll that is already estimated in the thousands.
The government’s callous disregard for the human suffering, its negligence in failing to prepare for this disaster and, above all, its utter incompetence have staggered even the compliant American media.
Patriotic blather about the country coming together to deal with the crisis combined with efforts to poison public opinion by vilifying those without food or water for “looting” have fallen flat in face of the undeniable and monumental debacle that constitutes the official response to the disaster.
Reporters sent into the devastated region have been reduced to tears by the masses of people crying out for help with no response. Television announcers cannot help but wonder aloud why the authorities have failed so miserably to alleviate such massive human suffering.
The presidency, the Congress and both the Republican and Democratic parties—all have displayed an astounding lack of concern for the hundreds of thousands of people whose lives have been shattered and who face the most daunting and uncertain future, not to mention the tens of millions more who will be hard hit by the economic aftershocks of Katrina.
In the figure of the president, George W. Bush, the incompetence, stupidity, and sheer inhumanity that characterize so much of America’s money-mad corporate elite find their quintessentially repulsive expression.
As the hurricane developed over two weeks in the Caribbean and slowly approached the coast of New Orleans and Mississippi, Bush amused himself at his ranch retreat in Crawford, Texas. It is now clear that his administration made no serious preparations to deal with the dangers posed by the approaching storm.
In an interview Thursday on the “Good Morning America” television program, Bush reprised his miserable performance of the previous day, adding to Wednesday’s banalities the declaration that there would be “zero tolerance” for looters.
The president blanched when ABC interviewer Dianne Sawyer asked about a suggestion that the major oil companies be forced to cede a share of the immense windfall profits they have reaped from rising prices over the past six months to fund disaster relief. He responded by counseling the American people to “send cash” to charitable organizations.
In other words, there will be no serious financial commitment from the government to save lives, care for the sick and needy, and help the displaced and bereft restore their lives. Nor will there be any national, centrally financed and organized program to rebuild one of the country’s most important cities—a city that is uniquely associated with some of the most critical cultural achievements in music and the arts of the American people.
Above all, the suffering of millions will not be allowed to impinge on the profit interests of a tiny elite of multimillionaires whose interests the government defends.
Later in the day, Bush described the aftermath of the flood as a “temporary disturbance.”
The ruthless attitude of those in power toward the average poor and working class residents of New Orleans was summed up Thursday by Republican House Speaker Dennis Hastert, who declared “it doesn’t make sense” to spend tax dollars to rebuild New Orleans. “It looks like a lot of that place could be bulldozed,” he said.
While Hastert was forced to backtrack from these chilling remarks, they have a definite political logic. To rebuild the lives that have been ravaged by Hurricane Katrina would require mounting a massive government effort that would run counter to the entire thrust of a national policy based upon privatization and the transfer of wealth to the rich that has for decades been pursued by both major parties.
Can anyone truly believe that the current administration and its Democratic accomplices in Congress are going to launch a serious program to construct low-cost housing, rebuild schools and provide jobs for the hundreds of thousands left unemployed by the destruction?
Congress has been virtually silent on the catastrophe in the south. It has nothing to say, having voted to support Bush’s extreme right-wing agenda of massive tax cuts for the rich, huge outlays for war in Iraq and Afghanistan and an ever-expanding Pentagon budget, and billions to finance the Homeland Security Department.
The millionaires club in the Capitol is well aware that it voted to slash funding for elementary infrastructure needs—including urgently recommended improvements in outmoded and inadequate Gulf Coast anti-hurricane and anti-flood systems.
The Democratic Party has, as always, offered no opposition. Indeed, the president was gratified to be able to announce that former Democratic president Bill Clinton would resume his road show with the president’s father, the former Republican president, touring the stricken regions and drumming up support for charitable donations. In this way the Democratic Party has signaled its solidarity with the White House and the Republican policy against any serious federal financial commitment to help the victims and rebuild the devastated regions.
The decisive components of the present tragedy are social and political, not natural. The American ruling elite has for the past three decades been dismantling whatever forms of government regulation and social welfare had been instituted in the preceding period. The present catastrophe is the terrible product of this social and political retrogression.
The lessons derived from past natural and economic calamities—from the deadly floods of the nineteenth and early twentieth centuries, to the dust bowl and Depression of the 1930s—have been repudiated and derided by a ruling elite driven by the crisis of its profit system to subordinate ever more ruthlessly all social concerns to the extraction of profit and accumulation of personal wealth.
Franklin Roosevelt—an astute and relatively far-sighted representative of his class—had to drag the American ruling elite as a whole kicking and screaming behind a program of social reforms whose basic purpose was to save the capitalist system from the threat of social revolution. Even during his presidency, the large-scale projects in government-funded and controlled social development, such as the Tennessee Valley Authority, never became a model for broader measures to alleviate poverty and social inequality. The contradictions and requirements of an economic system based on private ownership of the means of production and production for profit resulted in any further projects being shelved.
From the 1970s onward, as the crisis of American capitalism has deepened, the US ruling elite has attacked the entire concept of social reform and dismantled the previously established restrictions on corporate activities.
The result has been a non-stop process of social plunder, producing an unprecedented concentration of wealth at the apex of society and a level of social inequality exceeding that which prevailed in the days of the Robber Barons.
Fraud, the worst forms of speculation and criminality have become pervasive within the upper echelons of American society. This is the underlying reality that has suddenly revealed itself, precipitated by a hurricane, in the form of a collapse of the most elementary forms of social life.
The political establishment and the corporate elite have been exposed as bankrupt, together with their ceaseless insistence that the unfettered development of capitalism is the solution to all of society’s problems.
The catastrophe unleashed by Katrina has unmistakably revealed that America is two countries, one for the wealthy and privileged and another in which the vast majority of working people stand on the edge of a social precipice.
All of the claims that the war on Iraq, the “global war on terrorism” and the supposed concern for “homeland security” are aimed at protecting the American people stand revealed as lies. The utter failure to protect the residents of New Orleans exposes all of these claims as propaganda designed to mask the criminality of the American ruling elite and the diversion of resources away from the most essential needs of the people.
The central lesson of New Orleans is that the elementary requirements of mass society are incompatible with a system that subordinates everything to the enrichment of a financial oligarchy.
This lesson must become the new point of departure in the political orientation of the struggles of American working people. Only the development of a new independent political movement, fighting for the reorganization of economic life on the basis of a socialist program, can provide a way out of the chaos of which the events in New Orleans are a terrible omen.
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9.8.06
Nuovi "sentieri" per far vivere Gramsci tra noi
di Giorgio Baratta
Nel suo ultimo lavoro Guido Liguori vuole scoprire e valorizzare le "novità" presenti nel pensiero dell'autore de "I Quaderni" affrontando i nodi centrali del nesso continuità-innovazione. Ciò che validamente - sulla base di una padronanza integrale dei testi e di uno sguardo storico ampio - è possibile sostenere riguardo a una linea di continuità tra Marx, Lenin e Gramsci, e tra Gramsci e Togliatti, come tra il "mondo grande e terribile" considerato da Gramsci e quello dei nostri
giorni, tutto questo (e non è certo poco) ritroverete nei sentieri percorsi da Guido Liguori nel suo ultimo lavoro Sentieri gramsciani (Carocci editore, Roma, 2006, pp. 190, euro 16,60). Il cammino è arduo e faticoso - come potrebbe essere diversamente? - ma il passo è sicuro. Giunti alla vetta, si spalanca un paesaggio immenso frastagliato. Continuità non significa restare abbarbicati alla tradizione, al passato. Liguori è tutto teso a scoprire valorizzare descrivere la "novità" del pensiero gramsciano. E' la storia del movimento operaio a venir attraversata da una luce insolita, capace di farne risaltare contorni e rilievi in genere trascurati.
Forte delle acquisizioni disparate, ma legate da un filo unitario, che il "seminario sul lessico di Gramsci" della International Gramsci Society-Italia, animato da Fabio Frosini e da lui stesso, ha prodotto (si vedano Le parole di Gramsci, Carocci editore), Liguori affronta nodi centrali del nesso continuità-innovazione. Nell'ambito del seminario del lessico Giuseppe Cospito ha analizzato magistralmente i lemmi "struttura-sovrastruttura" ed "egemonia". Si tratta, per quanto riguarda il primo, di una coppia categoriale scarsamente presente in Marx ma egemone nella tradizione marxista. Il secondo è la bandiera di ogni gramscismo. Più continuista di Cospito, Liguori sottolinea come, nonostante la rottura che opera (più di ogni altro pensatore marxista) nei confronti dell'ottica statica e gerarchica, determinista o meccanicista che incombe su quell'edificio, Gramsci riesca con successo a "tradurre" il nucleo di verità della coppia struttura-sovrastruttura nella teoria e nel linguaggio dell'egemonia. Per ricostruire questo percorso, Liguori ripensa i due termini della coppia attraverso una griglia categoriale più articolata e un'analisi relazionale agile e penetrante. La struttura si scioglie in "produzione" ed "economia"; le "superstrutture", come le chiama Gramsci, si configurano come "politica", "cultura", "ideologia". Il nesso tra i due livelli dà luogo al concetto centrale di "blocco storico". A questo punto suscita perplessità persino parlare di due livelli. Certe distinzioni, ancorché fondamentali, hanno carattere "metodico", non "organico". Lo stesso si dica per un'altra coppia categoriale propria del lessico gramsciano, e cioè "stato" e "società civile".
Due i caposaldi della lettura di Liguori: "l'allargamento del concetto di Stato", con cui il libro si apre, e la "teoria positiva dell'ideologia", la quale "abita lo Stato", "allargato" o "integrale", cioè ricco, intrinsecamente, di tutte le articolazioni della "società civile". Qui si dispiega il marxismo di Gramsci, che Liguori legge in antidoto alle interpretazioni liberal-democratiche oggi in voga, che stravolgono Gramsci come assertore di una società civile contrapposta allo Stato. «Lotta per l'egemonia è lotta di ideologie» osserva Liguori, commentando un passo della Nota 49 del Quaderno 3.
Egemonia-ideologia è, si potrebbe dire riassumendo Liguori, la società civile fatta Stato.
Il libro si divide in tre parti: "Per un lessico gramsciano", "Maestri, compagni, interpreti", "Digressioni".
Se ci fosse spazio, varrebbe la pena diffondersi su quest'ultima, ove compaiono osservazioni pertinenti (Liguori è un grande esperto della materia) sul rapporto tra Gramsci e lo sport, in particolare il calcio, ma soprattutto un'affascinante descrizione delle "immagini" e delle "metafore" fortemente presenti nella scrittura gramsciana.
Il rapporto di Gramsci coi maestri e con gli allievi, nella ricostruzione di Liguori, merita attenzione.
Egli scrive che «mentre Marx pensa il rapporto dialettico di società e Stato a partire dalla società, Gramsci pensa il rapporto dialettico società e Stato a partire dallo Stato» (p. 35). E' un punto qualificante che rinvia - a mio avviso - a una curvatura "politicista" un pò rischiosa nella lettura di Liguori. Giustissima la polemica verso un Gramsci spontaneista, culturalista, sociologo "dal basso".
La dimensione egemonica non è il paradiso della società civile e della sua autonomia. Ma nemmeno essa può venir concepita a partire dalla «introiezione profonda, avvenuta già negli anni Venti, della "lezione leniniana" e del rapporto che tradizionalmente viene detto "avanguardia-masse"» (p. 85).
Non pretendo affatto di distaccare Gramsci da Lenin, ma di sottolineare come sia stato Gramsci a distanziarsi dalle condizioni "orientali" in cui ha operato Lenin, e a tematizzare in modo nuovo la questione della politica e della rivoluzione in "Occidente". Su un altro versante, la ricostruzione appassionante e fondata che Liguori fa della lettura gramsciana di Togliatti si conclude con la valorizzazione (eccessiva!) del Gramsci "diverso", proposto da Togliatti nel 1956-58, quale «teorico della politica, ma soprattutto [...] politico-pratico, cioè un combattente» (p. 136). La distanza, su questo piano davvero abissale, di Gramsci da Togliatti è di essere stato un politico-filosofo e un filosofo-politico, come Marx e (in modo più limitato) Lenin.
Si sente, camminando in compagnia di Liguori, la necessità di aprire, insieme con lui, nuovi "sentieri", soprattutto nella direzione di come far vivere Gramsci "tra noi".
Non volendo scendere a nessun compromesso con la cultura postmoderna, ho l'impressione che Liguori forzi la modernità di Gramsci, accorciando la distanza tra i tempi di Gramsci e i nostri. Sono certo pertinenti le sue osservazioni contro una semplicistica liquidazione dello Stato-nazione e della sua centralità nel contesto della "globalizzazione" o, come egli preferisce, "mondializzazione". Ma lo Stato è oramai relativamente indipendente dalla nazione. La questione dello Stato è oggi più complessa e "allargata" rispetto al popolo-stato-nazione della riflessione di Gramsci!
Il punto più delicato è quello teorico e filosofico. Contro un uso meccanicamente dicotomico (a partire da Bobbio) delle coppie categoriali di cui si parlava all'inizio, Liguori rivendica la "dialettica" di Gramsci. Su di essa Prestipino e Frosini hanno scritto testi innovativi. Ma la dialettica non basta.
Studioso lungimirante di linguistica, attento (come, in controcorrente, hanno mostrato Silvano Tagliagambe e Derek Boothman) alle novità epistemologiche dei suoi tempi, Gramsci è figlio di un secolo che si è aperto con la Interpretazione dei sogni di Freud e le Ricerche logiche di Husserl.
Avanzo a mo' di esempio due interrogativi: è possibile considerare gli aspetti che Liguori definisce "preterintenzionali" nel pensiero di Gramsci, senza comparare la categoria di "rivoluzione passiva" (su cui ha indagato Pasquale Voza) con l'affiorare progressivo di qualità implicite, passive, preconscie o inconscie nella filosofia contemporanea, di cui è testimonianza anche il gramsciano "senso comune"? E' possibile cogliere la differenza, sottolineata da Gramsci, tra distinzioni "metodiche" e "organiche" senza riferirla alla "logica della grammatica", a un approccio cioè logico-linguistico, fortemente presente nei Quaderni, e di cui è difficile ma essenziale studiare l'intreccio con la concezione della dialettica?
(tratto da Liberazione, 8 agosto 2006)
Nel suo ultimo lavoro Guido Liguori vuole scoprire e valorizzare le "novità" presenti nel pensiero dell'autore de "I Quaderni" affrontando i nodi centrali del nesso continuità-innovazione. Ciò che validamente - sulla base di una padronanza integrale dei testi e di uno sguardo storico ampio - è possibile sostenere riguardo a una linea di continuità tra Marx, Lenin e Gramsci, e tra Gramsci e Togliatti, come tra il "mondo grande e terribile" considerato da Gramsci e quello dei nostri
giorni, tutto questo (e non è certo poco) ritroverete nei sentieri percorsi da Guido Liguori nel suo ultimo lavoro Sentieri gramsciani (Carocci editore, Roma, 2006, pp. 190, euro 16,60). Il cammino è arduo e faticoso - come potrebbe essere diversamente? - ma il passo è sicuro. Giunti alla vetta, si spalanca un paesaggio immenso frastagliato. Continuità non significa restare abbarbicati alla tradizione, al passato. Liguori è tutto teso a scoprire valorizzare descrivere la "novità" del pensiero gramsciano. E' la storia del movimento operaio a venir attraversata da una luce insolita, capace di farne risaltare contorni e rilievi in genere trascurati.
Forte delle acquisizioni disparate, ma legate da un filo unitario, che il "seminario sul lessico di Gramsci" della International Gramsci Society-Italia, animato da Fabio Frosini e da lui stesso, ha prodotto (si vedano Le parole di Gramsci, Carocci editore), Liguori affronta nodi centrali del nesso continuità-innovazione. Nell'ambito del seminario del lessico Giuseppe Cospito ha analizzato magistralmente i lemmi "struttura-sovrastruttura" ed "egemonia". Si tratta, per quanto riguarda il primo, di una coppia categoriale scarsamente presente in Marx ma egemone nella tradizione marxista. Il secondo è la bandiera di ogni gramscismo. Più continuista di Cospito, Liguori sottolinea come, nonostante la rottura che opera (più di ogni altro pensatore marxista) nei confronti dell'ottica statica e gerarchica, determinista o meccanicista che incombe su quell'edificio, Gramsci riesca con successo a "tradurre" il nucleo di verità della coppia struttura-sovrastruttura nella teoria e nel linguaggio dell'egemonia. Per ricostruire questo percorso, Liguori ripensa i due termini della coppia attraverso una griglia categoriale più articolata e un'analisi relazionale agile e penetrante. La struttura si scioglie in "produzione" ed "economia"; le "superstrutture", come le chiama Gramsci, si configurano come "politica", "cultura", "ideologia". Il nesso tra i due livelli dà luogo al concetto centrale di "blocco storico". A questo punto suscita perplessità persino parlare di due livelli. Certe distinzioni, ancorché fondamentali, hanno carattere "metodico", non "organico". Lo stesso si dica per un'altra coppia categoriale propria del lessico gramsciano, e cioè "stato" e "società civile".
Due i caposaldi della lettura di Liguori: "l'allargamento del concetto di Stato", con cui il libro si apre, e la "teoria positiva dell'ideologia", la quale "abita lo Stato", "allargato" o "integrale", cioè ricco, intrinsecamente, di tutte le articolazioni della "società civile". Qui si dispiega il marxismo di Gramsci, che Liguori legge in antidoto alle interpretazioni liberal-democratiche oggi in voga, che stravolgono Gramsci come assertore di una società civile contrapposta allo Stato. «Lotta per l'egemonia è lotta di ideologie» osserva Liguori, commentando un passo della Nota 49 del Quaderno 3.
Egemonia-ideologia è, si potrebbe dire riassumendo Liguori, la società civile fatta Stato.
Il libro si divide in tre parti: "Per un lessico gramsciano", "Maestri, compagni, interpreti", "Digressioni".
Se ci fosse spazio, varrebbe la pena diffondersi su quest'ultima, ove compaiono osservazioni pertinenti (Liguori è un grande esperto della materia) sul rapporto tra Gramsci e lo sport, in particolare il calcio, ma soprattutto un'affascinante descrizione delle "immagini" e delle "metafore" fortemente presenti nella scrittura gramsciana.
Il rapporto di Gramsci coi maestri e con gli allievi, nella ricostruzione di Liguori, merita attenzione.
Egli scrive che «mentre Marx pensa il rapporto dialettico di società e Stato a partire dalla società, Gramsci pensa il rapporto dialettico società e Stato a partire dallo Stato» (p. 35). E' un punto qualificante che rinvia - a mio avviso - a una curvatura "politicista" un pò rischiosa nella lettura di Liguori. Giustissima la polemica verso un Gramsci spontaneista, culturalista, sociologo "dal basso".
La dimensione egemonica non è il paradiso della società civile e della sua autonomia. Ma nemmeno essa può venir concepita a partire dalla «introiezione profonda, avvenuta già negli anni Venti, della "lezione leniniana" e del rapporto che tradizionalmente viene detto "avanguardia-masse"» (p. 85).
Non pretendo affatto di distaccare Gramsci da Lenin, ma di sottolineare come sia stato Gramsci a distanziarsi dalle condizioni "orientali" in cui ha operato Lenin, e a tematizzare in modo nuovo la questione della politica e della rivoluzione in "Occidente". Su un altro versante, la ricostruzione appassionante e fondata che Liguori fa della lettura gramsciana di Togliatti si conclude con la valorizzazione (eccessiva!) del Gramsci "diverso", proposto da Togliatti nel 1956-58, quale «teorico della politica, ma soprattutto [...] politico-pratico, cioè un combattente» (p. 136). La distanza, su questo piano davvero abissale, di Gramsci da Togliatti è di essere stato un politico-filosofo e un filosofo-politico, come Marx e (in modo più limitato) Lenin.
Si sente, camminando in compagnia di Liguori, la necessità di aprire, insieme con lui, nuovi "sentieri", soprattutto nella direzione di come far vivere Gramsci "tra noi".
Non volendo scendere a nessun compromesso con la cultura postmoderna, ho l'impressione che Liguori forzi la modernità di Gramsci, accorciando la distanza tra i tempi di Gramsci e i nostri. Sono certo pertinenti le sue osservazioni contro una semplicistica liquidazione dello Stato-nazione e della sua centralità nel contesto della "globalizzazione" o, come egli preferisce, "mondializzazione". Ma lo Stato è oramai relativamente indipendente dalla nazione. La questione dello Stato è oggi più complessa e "allargata" rispetto al popolo-stato-nazione della riflessione di Gramsci!
Il punto più delicato è quello teorico e filosofico. Contro un uso meccanicamente dicotomico (a partire da Bobbio) delle coppie categoriali di cui si parlava all'inizio, Liguori rivendica la "dialettica" di Gramsci. Su di essa Prestipino e Frosini hanno scritto testi innovativi. Ma la dialettica non basta.
Studioso lungimirante di linguistica, attento (come, in controcorrente, hanno mostrato Silvano Tagliagambe e Derek Boothman) alle novità epistemologiche dei suoi tempi, Gramsci è figlio di un secolo che si è aperto con la Interpretazione dei sogni di Freud e le Ricerche logiche di Husserl.
Avanzo a mo' di esempio due interrogativi: è possibile considerare gli aspetti che Liguori definisce "preterintenzionali" nel pensiero di Gramsci, senza comparare la categoria di "rivoluzione passiva" (su cui ha indagato Pasquale Voza) con l'affiorare progressivo di qualità implicite, passive, preconscie o inconscie nella filosofia contemporanea, di cui è testimonianza anche il gramsciano "senso comune"? E' possibile cogliere la differenza, sottolineata da Gramsci, tra distinzioni "metodiche" e "organiche" senza riferirla alla "logica della grammatica", a un approccio cioè logico-linguistico, fortemente presente nei Quaderni, e di cui è difficile ma essenziale studiare l'intreccio con la concezione della dialettica?
(tratto da Liberazione, 8 agosto 2006)
2.8.06
Evidence of Election Fraud Grows in México
By Chuck Collins and Joshua Holland, AlterNet. Posted August 2, 2006.
As the U.S. media distorts the aftermath of the July 2 election, evidence suggests there may be an attempted theft in progress.
A month after more than 41 million Mexicans went to the polls to elect their next president, the country is still awaiting a result. A preliminary count of polling station tally sheets put conservative Felipe Calderón of the National Action Party (PAN) ahead with a slight lead over left-populist Andres Manuel López Obrador of the Democratic Revolution Party (PRD). Both candidates have claimed victory, with López Obrador and his supporters holding vigils and protests across the country and calling for a vote-by-vote recount.
That hasn't kept a consensus from emerging in the commercial media that Calderón won by a small margin in a squeaky-clean election. In a hyperbolic editorial on July 30 -- one that bordered on the ridiculous -- the Washington Post accused López Obrador, known as AMLO to his supporters, of taking "a lesson from Joseph Stalin" and launching an "anti-democracy campaign" by demanding a manual recount and urging his supporters to take to the streets in peaceful protests. Calling the vote "a success story and a model for other nations," the editors concluded that it's "difficult to overstate the irresponsibility of Mr. López Obrador's actions."
Days after the election, the New York Times irresponsibly declared candidate Calderón the winner, even though no victor had been declared under Mexican law, and just this week, in an article about López Obrador's protests, the Times reported that López Obrador had "escalated his campaign to undo official results."
But there are no "official" results and probably won't be until after Sept. 1. Under Mexican law, the Federal Electoral Institute (IFE) is charged with running the elections and counting the vote. But only the country's Election Tribunal, known by its Mexican nickname as the "TRIFE," has the power to declare a victor (See here for background on the TRIFE). They have until Sept. 6 to rule on the election.
It appears that the U.S. media has become so enamored with the construct of the "anti-democratic" left in Latin America -- the ubiquitous "fiery populists" (a term that has described everyone from the centrist Lula da Silva to Hugo Chávez) -- that they are incapable of fulfilling their basic mandate to inform their readers when it comes to the political landscape south of the border. It's nothing short of journalistic malpractice.
But back in the real world, a growing body of credible evidence from mainstream Mexican journalists, independent election observers and respected scholars indicates that an attempt was made to deliver the presidency to Calderón. It includes a pattern of irregularities at the polls, interference by the ruling party and some very suspicious statistical patterns in the "official" results.
The TRIFE is now sifting through 900 pages of formal complaints lodged by López Obrador. Their ruling on those challenges will indicate how well México's electoral process holds up in a closely fought and highly polarized race.
Growing evidence of irregularities and fraud
México has a history of the party in power's using its clout to tip the election in its favor, and strict laws prohibiting ruling party interference were enacted in the 1990s. Election law prevented Vicente Fox, the outgoing PAN president, from making public statements of a partisan or political nature. But he overstepped this line many times in the 2006 campaign, including dozens of speeches reinforcing candidate Felipe Calderón's basic message that López Obrador was a "danger to México." In a well-publicized speech, candidate López Obrador responded, "With all respect, Mr. President, shut up. You sound like a chattering bird." Fox continued with these speeches until election authorities and public commentators warned Fox he was violating election laws.
The Fox administration also ran public service announcements touting government programs and services and promoting the vote. PAN saturated the television airwaves with "swift-boat" style attack ads against López Obrador, comparing him to Venezuela's Hugo Chávez and calling him a "danger to México." Election authorities eventually ordered these commercials off the air on the grounds that they were untrue and maligned the candidate's character, but critics believe they moved too slowly.
Under Mexican law, ruling party interference is a serious charge and grounds for annulling an election. In the last ten years, the same Electoral Tribunal judges that are reviewing AMLO's complaints annulled governors' races in Tabasco and Colima, based on ruling party interference. The Institutional Revolution Party (PRI), which ruled México for seven decades before the system was reformed in the 1990s, made vote buying and voter coercion into a high art form, and there is strong evidence that they were up to their old tricks in the 2006 election. With PRI governors in 17 of México's 31 states, election observers documented a significant number of examples of voters being offered money or receiving food or building materials in exchange for their PRI vote. In a country where half the citizens live in poverty and rely on different forms of government assistance, voters are often told that their public assistance is dependent on voting for the party in power. There are examples of PAN using similar practices, especially a well-documented case of funds diverted from a San Luis Potosi building program into PAN electoral races.
The Mexican electoral system has come a long way in two decades in implementing anti-fraud systems. But there are still several ways that results can be tampered with on election day. López Obrador's campaign and hundreds of independent election observers documented several hundred cases of "old fashioned" election-day fraud in making their case for a recount.
Here's how the system was supposed to work. On July 2, Mexicans voted at over 130,000 different polling stations, casting separate ballots for president, senator and federal deputy. Each political party was encouraged to have registered poll watchers at every polling station to observe the voting process and count at the end of the day. As international and Mexican election observers noted, however, problems emerged when there weren't enough independent and party observers to go around. In regions where one party was dominant, this created opportunities for vote shaving, ballot stuffing, lost ballots and other forms of fraud.
The PRD's strongest case for a recount comes from the fact that ballots in almost one-third of the country were not counted in the presence of independent observers. One analysis of IFE results found that there were 2,366 polling places where only a PAN observer was present. In these districts, Calderón beat López Obrador by a whopping 71-21 margin.
Other elements of PRD's legal challenge include documentation of several ballot boxes found in dumps in the PRD stronghold of México City. They also point to evidence such as the nonpartisan Civic Alliance's report documenting 17 polling sites in PAN-dominated Nuevo León, Michoacan and Querétaro, where the number of votes cast vastly exceeded the number of registered voters at a site.
Reports by international and domestic election observers affiliated with the Civic Alliance and Global Exchange stop short of claiming fraud in the elections. They laud the dedication of most poll workers they monitored and the preparations for the vote in most of the polling places, as well as the orderly and peaceful process overall. But the cumulative evidence is damning in such a closely contested race.
In the weeks after the election, PRD observers again sounded the alarm as sealed ballot packets were being illegally opened at IFE district offices in several PAN-dominated regions. PRD officials accused IFE officials of possibly tampering with ballots or attempting to cover up fraud in the event of a recount. The TRIFE ordered these offices to stop opening vote packets.
While the López Obrador campaign has not made major charges of "cyber fraud," there is an emerging controversy over the IFE's role in reporting who was ahead in the vote count. For the 2006 election, the IFE had developed a sophisticated system to provide preliminary results called the PREP. Relying on results being phoned in from a sample of precincts, the IFE could compile a credible picture of the vote. If the PREP showed one candidate with a clear majority, the system would have allowed Mexicans to go to sleep on election night knowing who their next president would be. But because of the razor close results, the PREP proved to be an inadequate measure.
Now research is emerging to suggest that the PREP results were cooked to create the appearance of a Calderón victory. Physicist Jorge López at the University of Texas, El Paso, conducted a statistical analysis of the PREP results and found that, as the results came in, the differential between the candidates' totals remained almost constant. One would expect that, as results from each party's geographic strongholds were counted, the gap between their totals would rise and would fall. In such a tight election, one would even expect the lead to change back and forth as the count progressed. None of that happened. The results of a third candidate, Roberto Madrazo of the Institutional Revolutionary Party (PRI), fluctuated as expected.
He also noted that there was very little deviation between the actual results as they came in and the average results; in a normal, natural distribution, one would expect significant differences between the two (it should look something like a squashed bell-shaped curve). Dr. López concluded the pattern was "a clear indication that the data was manufactured by an algorithm and does not stand a chance at passing as data originated at the actual voting."
Luis Mochan, a physicist at the Universidad Nacional Autónoma de México, did similar work. He noted that the PREP data was posted after the first 10,000 reports had been processed, and looked at whether those first 10,000 reports were consistent with the statistical trends for the rest of the day. When he plotted the data backwards, Calderón's vote total originated at zero, as is normal, but López Obrador began the day 126,000 votes in the hole.
Mochan and López both point out that the Calderón began the day building a large percentage lead -- seven points -- that decreased steadily throughout the day. The large early lead would have been handy from a psychological and political perspective, allowing Calderón to claim that he led all day long, but the results had to end in a close result given that polls conducted a week before the tally showed a statistical dead heat.
Mochan also notes gross discrepancies in the number of votes processed late in the evening: "At the end of the plot, we find intervals with more than 1,200 votes per [voting] booth. I understand that no booth was to receive more than 750 votes. Even more worrisome, some data points indicate a negative number of votes per booth."
Mochan notes that these statistical anomalies aren't definitive proof of anything. But economist James Galbraith, reviewing Mochan's data, speculated about a likely scenario that would fit the discrepancies seen that night:
Felipe Calderón started the night with an advantage in total votes, a gift from the authorities.
As the count progressed, this advantage was maintained by misreporting of the actual results. This enabled Calderón to claim that he had led through the entire process -- an argument greatly repeated but spurious in any case because it is only the final count that matters.
Toward the end of the count, further adjustments were made to support the appearance of a victory by Calderón.
Critics suggest that the IFE may have aggressively pushed to swiftly declare Calderón a victor, obviating the need for a poll-by-poll vote recount.
The U.S. media was also confused on the Wednesday after the vote when the IFE ordered all 300 district offices to review the tally sheets. It was widely reported as a "recount," when in fact very few ballots were actually counted. In some cases, such as when a tally sheet was illegible, the sealed ballot packets where opened and recounted. Almost every time that occurred, observers encountered significant errors in the vote count. In the state of México, one tally sheet recorded 88 votes for López Obrador when the recount of ballots found 188 votes. Whether it was human error or intentional vote shaving, in a tight election race, these examples gain heightened significance.
None of these reports in and of themselves constitute a smoking gun. But the questions they raise need to be answered. There is far more evidence pointing to fraud in the Mexican elections in 2006 than was made publicly available about Ukraine's contested vote in 2004. Comparing the media and political establishment's reactions to the two reveals the transparent dishonesty in backing Calderón's claim of victory; in 2004 many of the same voices that are now calling López Obrador "undemocratic" were screaming that the Ukrainian tally had to be annulled and only a new election would assure democracy in the former Soviet satellite. In both instances, the candidate who declared victory was friendly towards a powerful neighboring state; in 2004 that state was Russia, and two years later it's the United States. Forget about threatening México's fragile democratic institutions -- that makes all the difference to the editorial boards of the New York Times and the Washington Post.
According to the Mexican daily La Journada, over two million supporters of López Obrador gathered in México City on Sunday, July 30, the largest public demonstration in México's history. Millions of voices chanted "vote by vote, poll by poll," calling on the Electoral Tribunal to order a recount. A poll released this week found that Mexicans, by a 20-point margin (48-28), want a vote-by-vote count. López Obrador has said he will call off protests when the Tribunal agrees to a recount and will honor its final decision.
As for the charge in the U.S. media that López Obrador is undermining democracy and the rule of law by calling on his supporters to protest, we believe that the rights of peaceful assembly and free speech are important democratic tenets. Public protests have played a historic part in México's three decade-long transition to democracy.
President and PAN leader Vicente Fox called for direct action when he believed he was victimized by electoral fraud in his race for the governorship of Guanajuato in 1991. Fox called on thousands of supporters to take to the streets and block highways, and the results were eventually overturned. Asked before the 2000 presidential election if he would do the same thing if he suspected fraud, he didn't hesitate to say "we will be very alert to any irregularities, and we will submit the appropriate legal accusations that are necessary If there is any instability [as a result of those accusations], it will be due to whatever they have done fraudulently to avoid recognizing our victory."
While Calderón has opposed a ballot-by-ballot recount, even some of his staunchest supporters have argued that the process would assure Mexicans' faith in their electoral authorities and strengthen the country's young democracy. In a race where over 64 percent of Mexicans voted against him, Calderón, if he should prove victorious, will need all the legitimacy he can muster.
As México awaits the rulings of the electoral tribunal, tensions are high. The campaign -- often dirty -- and the close results have polarized the country. Given the context, the U.S. media's water-carrying for Calderón's campaign is anything but helpful. The fact that there have been no "official" results is not open to dispute, and until AMLO's allegations have been investigated, there is no way that anyone can say who will come out ahead.
Chuck Collins is the co-author of "Economic Apartheid in America: A Primer on Economic Inequality and Insecurity" (New Press). He is a senior scholar at the Institute for Policy Studies and lives in Oaxaca, México. Joshua Holland is an AlterNet staff writer.
1.8.06
Bush seeks to extend Guantánamo procedures to American citizens
WSWS : News & Analysis : North America
By Patrick Martin
1 August 2006
In draft legislation prepared in response to last month’s Supreme Court decision against the use of military tribunals for US prisoners at Guantánamo Bay, the Bush administration proposes to extend the practice of indefinite detention and summary trial by military commissions to include American citizens.
According to press accounts Friday, based on leaks from those with access to the draft, the bill would essentially legalize the military tribunals in the form decreed by Bush in 2001, with only minor changes, while for the first time making US citizens as well as foreign nationals subject to such summary proceedings.
The tribunals, commissions of active-duty military personnel under orders of the president as commander-in-chief, would have the power to impose death sentences based on secret evidence and in proceedings from which the defendants could be excluded whenever military judges decided this was “necessary to protect national security.”
The Washington Post reported that the draft legislation had initially reaffirmed the 2001 Bush order that limited the jurisdiction of the military commissions to “alien enemy combatants.” This language was crossed out, the newspaper said, and replaced by language giving the commissions authority to try anyone “engaged in hostilities against the United States or its coalition partners,” regardless of nationality.
When American John Walker Lindh was captured in Afghanistan in 2001, where he served as a member of the Taliban-controlled armed forces, he was not taken to Guantánamo because he was a US citizen. His case was tried in federal court, which provided him greater legal protections, ultimately making it necessary for the Bush administration to accept a plea bargain and a 20-year prison term rather than seek a death sentence. If the proposed draft legislation had been in effect, Lindh could have faced a military tribunal.
Other provisions in the draft legislation would permit the use of hearsay evidence, eliminate the right to a speedy trial (essentially sanctioning indefinite detention without a trial), and permit the use of classified evidence that would be provided to defendants only in summary form. Defendants and their civilian attorneys could be excluded from the proceedings at the discretion of the judge, with the prisoner represented only by a military attorney who, as a serving officer, must obey presidential authority.
Instead of a unanimous jury verdict, a two-thirds majority would suffice for conviction, and unanimity for the death penalty, which would have to be confirmed as well by the president. As in the current system, outlawed by the Supreme Court’s Hamdan decision, prisoners could be detained, even if acquitted, until “the cessation of hostilities.” Given the Bush administration’s expansive definition of the “war on terror,” this means indefinitely.
According to language in the draft legislation quoted by the New York Times, the measure rejects a system based on courts martial as “not practicable in trying enemy combatants,” in part because such proceedings would exclude “hearsay evidence determined to be probative and reliable.”
Evidence obtained through torture would not be admissible, but this prohibition is largely gutted by a provision that military judges may accept testimony obtained through “coercive interrogation,” a label which the Bush administration uses to describe methods, such as water-boarding, that the rest of the world regards as torture.
The bill was drafted without consulting with lawyers from the Judge Advocate-General (JAG) corps, because these career military prosecutors and judges have insisted on using the court martial system as a basis for trying prisoners, and on upholding the applicability of the Geneva Conventions to all prisoners captured by the US military. The JAGs, as well as the military defense lawyers who fought and won the Hamdan case, have warned that by carving out an exception to the Geneva Conventions, the US government would endanger American soldiers captured in current and future wars.
In addition to overturning Bush’s 2001 order for military commissions, the Hamdan decision upheld the applicability of Common Article Three of the Geneva Conventions to all prisoners captured by the US government, whether they are recognized as POWs or treated as “illegal combatants.” Common Article Three bans “outrages upon personal dignity, in particular humiliating and degrading treatment” of detainees, a description that would apply to nearly every prisoner held at Guantánamo Bay, Abu Ghraib, Bagram air base in Afghanistan, and secret CIA-run prisons elsewhere.
The legislation drafted by the White House would effectively override that element of the high court decision, by declaring that the Geneva Conventions “are not a source of judicially enforceable individual rights.” This means that individual prisoners would lose the right to file lawsuits against the violation of their rights, limiting such standing to governments. There are few governments that would risk a conflict with the Bush administration by filing a US court challenge on behalf of prisoners labeled as “terrorists.”
Congressional approval of the bill in the specific form drafted by acting assistant attorney general Steven G. Bradbury is uncertain, but one key senator, Republican Lindsey Graham of South Carolina, called it “a good start.” Graham, himself a member of JAG corps in the reserves, said he supported the use of hearsay evidence and the exclusion of prisoners from their trials, so long as these actions were subject to appeal.
The draft legislation also seeks to forestall another anticipated consequence of the Hamdan decision: that US officials could face legal liability for war crimes charges because they authorized the violation of the Geneva Accords. Under the 1996 War Crimes Act, violations of the Geneva Conventions are crimes against the United States and the perpetrators can be subject to the death penalty if prisoners die as a result of their actions.
The 1996 law was drafted by a right-wing Republican and passed by the Republican-controlled Congress to pander to the POW-MIA (prisoner of war-missing in action) lobby in the US. It initially targeted Vietnamese government officials deemed responsible for the torture and death of American prisoners during the Vietnam War. By an irony of history, this law could now subject high Bush administration officials—Bush himself, Cheney, Rumsfeld, Rice and others—to criminal sanctions for the deaths of prisoners held by the US government in Iraq, Afghanistan and elsewhere.
As the Washington Post summed up the matter in a front-page analysis published July 28, “An obscure law approved by a Republican-controlled Congress a decade ago has made the Bush administration nervous that officials and troops involved in handling detainee matters might be accused of committing war crimes, and prosecuted at some point in US courts.” The newspaper reported that Attorney General Alberto Gonzales has spoken privately to congressional leaders about the need for “protections” against such an eventuality.
The bill seeks to solve the problem by declaring that a law passed last year on humane treatment of US detainees—drafted by Senator John McCain and added to a military appropriations bill over White House opposition—would “fully satisfy” the requirements of Common Article Three.
The bill would also provide that the 1996 War Crimes Act applies only to violations of the Geneva Conventions as interpreted by the US government, not the international community, effectively gutting the conventions as an instrument of international law.
Given that the decision to prosecute rests with the US Department of Justice, headed by Bush crony Gonzales, there is no possibility that any Bush administration official will soon face charges for violation of the War Crimes Act. But the concern over their legal vulnerability is nonetheless real. The war criminals in the White House and Pentagon are well aware of the mass opposition to the war in Iraq, both internationally and increasingly in the United States, and they are looking nervously over their shoulders.
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By Patrick Martin
1 August 2006
In draft legislation prepared in response to last month’s Supreme Court decision against the use of military tribunals for US prisoners at Guantánamo Bay, the Bush administration proposes to extend the practice of indefinite detention and summary trial by military commissions to include American citizens.
According to press accounts Friday, based on leaks from those with access to the draft, the bill would essentially legalize the military tribunals in the form decreed by Bush in 2001, with only minor changes, while for the first time making US citizens as well as foreign nationals subject to such summary proceedings.
The tribunals, commissions of active-duty military personnel under orders of the president as commander-in-chief, would have the power to impose death sentences based on secret evidence and in proceedings from which the defendants could be excluded whenever military judges decided this was “necessary to protect national security.”
The Washington Post reported that the draft legislation had initially reaffirmed the 2001 Bush order that limited the jurisdiction of the military commissions to “alien enemy combatants.” This language was crossed out, the newspaper said, and replaced by language giving the commissions authority to try anyone “engaged in hostilities against the United States or its coalition partners,” regardless of nationality.
When American John Walker Lindh was captured in Afghanistan in 2001, where he served as a member of the Taliban-controlled armed forces, he was not taken to Guantánamo because he was a US citizen. His case was tried in federal court, which provided him greater legal protections, ultimately making it necessary for the Bush administration to accept a plea bargain and a 20-year prison term rather than seek a death sentence. If the proposed draft legislation had been in effect, Lindh could have faced a military tribunal.
Other provisions in the draft legislation would permit the use of hearsay evidence, eliminate the right to a speedy trial (essentially sanctioning indefinite detention without a trial), and permit the use of classified evidence that would be provided to defendants only in summary form. Defendants and their civilian attorneys could be excluded from the proceedings at the discretion of the judge, with the prisoner represented only by a military attorney who, as a serving officer, must obey presidential authority.
Instead of a unanimous jury verdict, a two-thirds majority would suffice for conviction, and unanimity for the death penalty, which would have to be confirmed as well by the president. As in the current system, outlawed by the Supreme Court’s Hamdan decision, prisoners could be detained, even if acquitted, until “the cessation of hostilities.” Given the Bush administration’s expansive definition of the “war on terror,” this means indefinitely.
According to language in the draft legislation quoted by the New York Times, the measure rejects a system based on courts martial as “not practicable in trying enemy combatants,” in part because such proceedings would exclude “hearsay evidence determined to be probative and reliable.”
Evidence obtained through torture would not be admissible, but this prohibition is largely gutted by a provision that military judges may accept testimony obtained through “coercive interrogation,” a label which the Bush administration uses to describe methods, such as water-boarding, that the rest of the world regards as torture.
The bill was drafted without consulting with lawyers from the Judge Advocate-General (JAG) corps, because these career military prosecutors and judges have insisted on using the court martial system as a basis for trying prisoners, and on upholding the applicability of the Geneva Conventions to all prisoners captured by the US military. The JAGs, as well as the military defense lawyers who fought and won the Hamdan case, have warned that by carving out an exception to the Geneva Conventions, the US government would endanger American soldiers captured in current and future wars.
In addition to overturning Bush’s 2001 order for military commissions, the Hamdan decision upheld the applicability of Common Article Three of the Geneva Conventions to all prisoners captured by the US government, whether they are recognized as POWs or treated as “illegal combatants.” Common Article Three bans “outrages upon personal dignity, in particular humiliating and degrading treatment” of detainees, a description that would apply to nearly every prisoner held at Guantánamo Bay, Abu Ghraib, Bagram air base in Afghanistan, and secret CIA-run prisons elsewhere.
The legislation drafted by the White House would effectively override that element of the high court decision, by declaring that the Geneva Conventions “are not a source of judicially enforceable individual rights.” This means that individual prisoners would lose the right to file lawsuits against the violation of their rights, limiting such standing to governments. There are few governments that would risk a conflict with the Bush administration by filing a US court challenge on behalf of prisoners labeled as “terrorists.”
Congressional approval of the bill in the specific form drafted by acting assistant attorney general Steven G. Bradbury is uncertain, but one key senator, Republican Lindsey Graham of South Carolina, called it “a good start.” Graham, himself a member of JAG corps in the reserves, said he supported the use of hearsay evidence and the exclusion of prisoners from their trials, so long as these actions were subject to appeal.
The draft legislation also seeks to forestall another anticipated consequence of the Hamdan decision: that US officials could face legal liability for war crimes charges because they authorized the violation of the Geneva Accords. Under the 1996 War Crimes Act, violations of the Geneva Conventions are crimes against the United States and the perpetrators can be subject to the death penalty if prisoners die as a result of their actions.
The 1996 law was drafted by a right-wing Republican and passed by the Republican-controlled Congress to pander to the POW-MIA (prisoner of war-missing in action) lobby in the US. It initially targeted Vietnamese government officials deemed responsible for the torture and death of American prisoners during the Vietnam War. By an irony of history, this law could now subject high Bush administration officials—Bush himself, Cheney, Rumsfeld, Rice and others—to criminal sanctions for the deaths of prisoners held by the US government in Iraq, Afghanistan and elsewhere.
As the Washington Post summed up the matter in a front-page analysis published July 28, “An obscure law approved by a Republican-controlled Congress a decade ago has made the Bush administration nervous that officials and troops involved in handling detainee matters might be accused of committing war crimes, and prosecuted at some point in US courts.” The newspaper reported that Attorney General Alberto Gonzales has spoken privately to congressional leaders about the need for “protections” against such an eventuality.
The bill seeks to solve the problem by declaring that a law passed last year on humane treatment of US detainees—drafted by Senator John McCain and added to a military appropriations bill over White House opposition—would “fully satisfy” the requirements of Common Article Three.
The bill would also provide that the 1996 War Crimes Act applies only to violations of the Geneva Conventions as interpreted by the US government, not the international community, effectively gutting the conventions as an instrument of international law.
Given that the decision to prosecute rests with the US Department of Justice, headed by Bush crony Gonzales, there is no possibility that any Bush administration official will soon face charges for violation of the War Crimes Act. But the concern over their legal vulnerability is nonetheless real. The war criminals in the White House and Pentagon are well aware of the mass opposition to the war in Iraq, both internationally and increasingly in the United States, and they are looking nervously over their shoulders.
Copyright 1998-2006
World Socialist Web Site
All rights reserved
‘A travesty of democracy’
WSWS : News & Analysis : North America
SEP campaign in Illinois proceeds to ‘records examination’
By Tom Mackaman
1 August 2006
On Monday, University of Illinois Students for Social Equality sponsored a press conference at the Illini Union for Joe Parnarauskis, Socialist Equality Party candidate for state senate in Illinois’ 52nd District, in Champaign-Urbana.
The press conference was called to draw attention to the upcoming “records examination,” the latest stage in the ongoing effort of the Illinois Democratic Party to bar the SEP from the ballot. This process, which will begin at the election board’s offices in Springfield on Tuesday, will require comparing the signatures and addresses of thousands of voters who signed SEP petitions to place Parnarauskis on the ballot to voter registration data maintained by the Illinois State Board of Elections.
Even though Parnarauskis and his supporters gathered nearly 5,000 signatures—far more than the 2,985 required—hundreds of these signatures were frivolously objected to by Democratic Party functionaries in an effort to remove the SEP from the ballot and force it into a long and costly struggle before the State Board of Elections.
Sarah Redd-Illyes, a retired teacher, whose name was struck from the SEP petitions, issued a statement condemning the attempt to remove her name from the ballot. “I am a legally registered voter in Champaign but my name has been struck from the petition for the Socialist Equality Party candidate Joe Parnarauskis’ nominating petition. There is no valid reason for this and I want it reinstated.
“It is my right as a legally registered voter to sign such a petition. This right should not denied any citizen. The two-party system may be convenient for the Democratic and Republican parties, but these do not always fairly represent the voters. Other options are legal and should not be illegally stopped.”
In his remarks, Parnarauskis indicted the Democratic Party’s actions as symptomatic of a political system that can brook no real opposition.
“This week the names and addresses of thousands of citizens from Champaign and Vermilion counties who signed our petitions will be put under a legal microscope because they dared to say there should be another choice on the ballot besides the Democrats and Republicans. We have already proven that the Democrats objected to the signatures of hundreds of perfectly legitimate voters.
“In the coming days the names and addresses of these citizens will be scrutinized by high-paid Democratic Party attorneys who have all suggested that thousands of signers may have presented false information on legal petitions or even forged their names. In addition to their immediate effort to exclude us from the ballot, such methods are aimed at having a chilling effect on voters to make them think twice before signing a petition for a third party candidate in the future. This is the real state of American democracy in 2006.
“The objection by the Democratic Party has nothing to do with seeking out the truth. It is a politically motivated effort to bar me from the ballot and silence the mass opposition to the war, the attack on democratic rights and the unrelenting assault on the jobs and living standards of working people.
“We are very familiar with the unscrupulous methods used by state Democrats against third party candidates because we defeated a similar attempt to prevent our state legislative candidate, Tom Mackaman, from attaining ballot status in 2004. That same year, the Illinois Democratic Party also conducted a dirty tricks operation against independent presidential candidate Ralph Nader to keep him off the ballot. A month-long legal and political fight forced the Democrats to drop their bad-faith challenge against perfectly legitimate voters who had signed Mackaman’s petitions. Champaign County Clerk Mark Shelden later denounced the 2004 challenge as a ‘purely harassment objection’ and said he would have awarded Mackaman attorney’s fees if there had been a legal provision to do so.
“The Green Party is also being subjected to a Democratic Party effort to exclude its statewide slate of candidates, including its gubernatorial candidate Rich Whitney, from the ballot. Michael Kasper, the general counsel and treasurer of the Illinois Democratic Party, has personally directed the effort to exclude the SEP and the Greens from the ballot. Kasper can only be described as a political thug with a law practice, who has repeatedly demonstrated his contempt for the democratic rights of third party candidates and Illinois voters.
“A partner in a leading Chicago law firm and the former attorney of Illinois House Speaker Michael J. Madigan—one of the most powerful Democratic machine politicians in the state—Kasper has developed an expertise in using the basest means to exclude any third party challenges to the Democrats and Republicans. He led the legal effort to bar independent presidential candidate Ralph Nader from the Illinois ballot in 2004. Notwithstanding such antidemocratic activities, Kasper teaches courses on Voting Rights and on Elections and the Legislative Process at the John Marshall Law School.
“Representing the two Democratic operatives who filed this objection is Courtney Nottage, an attorney from Kasper’s law firm and the former chief of staff of Illinois Senate President Emil Jones, the second most powerful state Democrat.
“These people are involved in a high-level conspiracy to violate the rights of the people of Illinois and deprive them of the right to vote for a candidate of their choice.
“This challenge transcends the 52nd Legislative District because it reveals the real state of democracy in America. While the US claims to be bringing democracy to Iraq and other countries, by any objective standard one cannot say that there is a democracy here.
“The measure of a democracy is the way it treats those who are not in power, not those who control all levels of state authority. With restrictive ballot access laws and a hundred other means of stifling dissenting voices, Democrats and Republicans keep political debate to the lowest possible level and safely within the channels of what is acceptable and beneficial to American’s financial and ruling elite.
“Elections are supposed to be about putting diverse programs before the people and letting them decide which ideas serve them best. In America—a country of 300 million people with the most diverse social, regional and political interests—there are just two political parties that, at best, have the most minor differences. They are both financed by corporate America and both do its bidding. Far from encouraging a discussion on the most pressing needs of working people—peace, economic security, health care and education—both parties single-mindedly pursue policies that serve the narrowest segment of society—the multimillionaires and billionaires that make up the richest one percent of the population.”
Parnarauskis challenged the news media to provide coverage of the flagrant abuse of democratic rights about to take place in Springfield, and promised that the SEP campaign would continue to educate working people on the real state of democracy in America.
“I am here today to call on the people of Illinois to set in motion a political movement against this thoroughly undemocratic structure to disenfranchise tens of millions of working people. These restrictive ballot access laws must be repealed and the political playing field opened up to all parties. I am urging the news media to carry out its responsibility to the people of this state by going down to Springfield to expose this travesty of democracy. No longer should the two parties have the ability to conspire behind close doors against the rights of voters in this state.”
Representing the Green Party was Joe Futrelle, candidate for county board in Champaign County. Futrelle has been involved in the records examination for the statewide slate of the Green Party currently taking place in Springfield, where he has witnessed some of the Democratic Party’s methods first hand.
“When you check all the signatures,” Futrelle said, “you see very quickly how random the Democrats’ objections are. They objected to our candidates’ signatures. They objected to our petitioners’ signatures. They objected to the signatures of sitting city council members.... They didn’t have any real claim that there was something wrong with any of these signatures; they just had a certain percentage they had figured they needed to object to, and they objected to that many—never mind which ones.”
Futrelle himself signed the SEP’s nominating petitions—and the Democrats objected to his signature. “When I signed Joe’s petition I was already running for county board, I’d lived and been registered at my current address since 1998 and I’ve voted in every election that I’ve lived here. But it doesn’t surprise me that the Democrats have challenged my signature on Joe’s petition, because I’m a Green, and the Democrats are doing this to us, too.”
SEP examiners have already uncovered hundreds of cases of blatantly false objections by the Democratic Party. In the records examination, the SEP will fight to defend these voters. SEP supporters have contacted a number of these signers to let them know what is taking place. The response from local voters has been one of outrage.
An SEP supporter read statements from legally registered voters whom the Democratic Party has attempted to disqualify. Jen Guiliano, a University of Illinois graduate student, said, “As a tax-paying citizen and registered voter in Champaign County, I am dismayed by efforts to disqualify my participation in the vital process of democratic elections in the State of Illinois. No matter our political affiliation, it is our right and obligation as citizens to fully participate in open and free democratic elections. This is the cornerstone of American democracy.... I would ask that the Illinois Democratic Party explain to me, and the 2,536 others, exactly why our signatures have been challenged.”
Al Weiss, a university employee, said, “I am appalled that my name has been struck from the petition to place Socialist Equality Party candidate Joe Parnarauskis on the ballot. Having been registered at my current address for more than three years and having been a regular at the polls, there is no excuse for my name to have been removed from the petition. I am more disturbed by the Democratic Party operatives who have contempt for the most basic constitutional freedoms. Without the right to run for office, the right to vote is meaningless. By trying to block third party candidates from running for office, the Democratic Party is attacking the very basis of representative democracy—the right to vote for the candidate of your choice.”
Michele O’Brien, a teacher, wrote, “I spoke with the Illinois state Democratic Party folks and they could give me no concrete answer for the challenge to my signature and my right to participate in the democratic process ... funny, considering the name of the party should remind them of such things. Politics as usual.”
The local media, which has covered previous SEP press conferences well, was represented only by a reporter for the local daily, the News-Gazette. That the local media has joined the major outlets of Chicago and Springfield in the media blackout of the mounting violations against the right to vote demonstrates a dawning awareness that the issue is potentially explosive. By its silence, the media is complicit in the behind-the-scenes attempt to obstruct the 2006 election in Illinois.
Working people will be outraged and radicalized when they discover that their most basic rights—including the right to vote—have been subject to an ongoing attack by the financial oligarchy, operating through its two political parties.
The SEP and the World Socialist Web Site vow to expose these abuses before the widest international audience possible, to draw out the crucial historical lessons for working people, and to mobilize the working class in defense of the Parnarauskis campaign and the right to vote.
The SEP and the World Socialist Web Site call on all supporters and readers to donate to the SEP election fund to defray the costs of this struggle (Make a donation today!), and to continue to write letters of protest to the Illinois State Board of Elections at webmaster@elections.state.il.us. Please send copies of all messages to the WSWS.
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SEP campaign in Illinois proceeds to ‘records examination’
By Tom Mackaman
1 August 2006
On Monday, University of Illinois Students for Social Equality sponsored a press conference at the Illini Union for Joe Parnarauskis, Socialist Equality Party candidate for state senate in Illinois’ 52nd District, in Champaign-Urbana.
The press conference was called to draw attention to the upcoming “records examination,” the latest stage in the ongoing effort of the Illinois Democratic Party to bar the SEP from the ballot. This process, which will begin at the election board’s offices in Springfield on Tuesday, will require comparing the signatures and addresses of thousands of voters who signed SEP petitions to place Parnarauskis on the ballot to voter registration data maintained by the Illinois State Board of Elections.
Even though Parnarauskis and his supporters gathered nearly 5,000 signatures—far more than the 2,985 required—hundreds of these signatures were frivolously objected to by Democratic Party functionaries in an effort to remove the SEP from the ballot and force it into a long and costly struggle before the State Board of Elections.
Sarah Redd-Illyes, a retired teacher, whose name was struck from the SEP petitions, issued a statement condemning the attempt to remove her name from the ballot. “I am a legally registered voter in Champaign but my name has been struck from the petition for the Socialist Equality Party candidate Joe Parnarauskis’ nominating petition. There is no valid reason for this and I want it reinstated.
“It is my right as a legally registered voter to sign such a petition. This right should not denied any citizen. The two-party system may be convenient for the Democratic and Republican parties, but these do not always fairly represent the voters. Other options are legal and should not be illegally stopped.”
In his remarks, Parnarauskis indicted the Democratic Party’s actions as symptomatic of a political system that can brook no real opposition.
“This week the names and addresses of thousands of citizens from Champaign and Vermilion counties who signed our petitions will be put under a legal microscope because they dared to say there should be another choice on the ballot besides the Democrats and Republicans. We have already proven that the Democrats objected to the signatures of hundreds of perfectly legitimate voters.
“In the coming days the names and addresses of these citizens will be scrutinized by high-paid Democratic Party attorneys who have all suggested that thousands of signers may have presented false information on legal petitions or even forged their names. In addition to their immediate effort to exclude us from the ballot, such methods are aimed at having a chilling effect on voters to make them think twice before signing a petition for a third party candidate in the future. This is the real state of American democracy in 2006.
“The objection by the Democratic Party has nothing to do with seeking out the truth. It is a politically motivated effort to bar me from the ballot and silence the mass opposition to the war, the attack on democratic rights and the unrelenting assault on the jobs and living standards of working people.
“We are very familiar with the unscrupulous methods used by state Democrats against third party candidates because we defeated a similar attempt to prevent our state legislative candidate, Tom Mackaman, from attaining ballot status in 2004. That same year, the Illinois Democratic Party also conducted a dirty tricks operation against independent presidential candidate Ralph Nader to keep him off the ballot. A month-long legal and political fight forced the Democrats to drop their bad-faith challenge against perfectly legitimate voters who had signed Mackaman’s petitions. Champaign County Clerk Mark Shelden later denounced the 2004 challenge as a ‘purely harassment objection’ and said he would have awarded Mackaman attorney’s fees if there had been a legal provision to do so.
“The Green Party is also being subjected to a Democratic Party effort to exclude its statewide slate of candidates, including its gubernatorial candidate Rich Whitney, from the ballot. Michael Kasper, the general counsel and treasurer of the Illinois Democratic Party, has personally directed the effort to exclude the SEP and the Greens from the ballot. Kasper can only be described as a political thug with a law practice, who has repeatedly demonstrated his contempt for the democratic rights of third party candidates and Illinois voters.
“A partner in a leading Chicago law firm and the former attorney of Illinois House Speaker Michael J. Madigan—one of the most powerful Democratic machine politicians in the state—Kasper has developed an expertise in using the basest means to exclude any third party challenges to the Democrats and Republicans. He led the legal effort to bar independent presidential candidate Ralph Nader from the Illinois ballot in 2004. Notwithstanding such antidemocratic activities, Kasper teaches courses on Voting Rights and on Elections and the Legislative Process at the John Marshall Law School.
“Representing the two Democratic operatives who filed this objection is Courtney Nottage, an attorney from Kasper’s law firm and the former chief of staff of Illinois Senate President Emil Jones, the second most powerful state Democrat.
“These people are involved in a high-level conspiracy to violate the rights of the people of Illinois and deprive them of the right to vote for a candidate of their choice.
“This challenge transcends the 52nd Legislative District because it reveals the real state of democracy in America. While the US claims to be bringing democracy to Iraq and other countries, by any objective standard one cannot say that there is a democracy here.
“The measure of a democracy is the way it treats those who are not in power, not those who control all levels of state authority. With restrictive ballot access laws and a hundred other means of stifling dissenting voices, Democrats and Republicans keep political debate to the lowest possible level and safely within the channels of what is acceptable and beneficial to American’s financial and ruling elite.
“Elections are supposed to be about putting diverse programs before the people and letting them decide which ideas serve them best. In America—a country of 300 million people with the most diverse social, regional and political interests—there are just two political parties that, at best, have the most minor differences. They are both financed by corporate America and both do its bidding. Far from encouraging a discussion on the most pressing needs of working people—peace, economic security, health care and education—both parties single-mindedly pursue policies that serve the narrowest segment of society—the multimillionaires and billionaires that make up the richest one percent of the population.”
Parnarauskis challenged the news media to provide coverage of the flagrant abuse of democratic rights about to take place in Springfield, and promised that the SEP campaign would continue to educate working people on the real state of democracy in America.
“I am here today to call on the people of Illinois to set in motion a political movement against this thoroughly undemocratic structure to disenfranchise tens of millions of working people. These restrictive ballot access laws must be repealed and the political playing field opened up to all parties. I am urging the news media to carry out its responsibility to the people of this state by going down to Springfield to expose this travesty of democracy. No longer should the two parties have the ability to conspire behind close doors against the rights of voters in this state.”
Representing the Green Party was Joe Futrelle, candidate for county board in Champaign County. Futrelle has been involved in the records examination for the statewide slate of the Green Party currently taking place in Springfield, where he has witnessed some of the Democratic Party’s methods first hand.
“When you check all the signatures,” Futrelle said, “you see very quickly how random the Democrats’ objections are. They objected to our candidates’ signatures. They objected to our petitioners’ signatures. They objected to the signatures of sitting city council members.... They didn’t have any real claim that there was something wrong with any of these signatures; they just had a certain percentage they had figured they needed to object to, and they objected to that many—never mind which ones.”
Futrelle himself signed the SEP’s nominating petitions—and the Democrats objected to his signature. “When I signed Joe’s petition I was already running for county board, I’d lived and been registered at my current address since 1998 and I’ve voted in every election that I’ve lived here. But it doesn’t surprise me that the Democrats have challenged my signature on Joe’s petition, because I’m a Green, and the Democrats are doing this to us, too.”
SEP examiners have already uncovered hundreds of cases of blatantly false objections by the Democratic Party. In the records examination, the SEP will fight to defend these voters. SEP supporters have contacted a number of these signers to let them know what is taking place. The response from local voters has been one of outrage.
An SEP supporter read statements from legally registered voters whom the Democratic Party has attempted to disqualify. Jen Guiliano, a University of Illinois graduate student, said, “As a tax-paying citizen and registered voter in Champaign County, I am dismayed by efforts to disqualify my participation in the vital process of democratic elections in the State of Illinois. No matter our political affiliation, it is our right and obligation as citizens to fully participate in open and free democratic elections. This is the cornerstone of American democracy.... I would ask that the Illinois Democratic Party explain to me, and the 2,536 others, exactly why our signatures have been challenged.”
Al Weiss, a university employee, said, “I am appalled that my name has been struck from the petition to place Socialist Equality Party candidate Joe Parnarauskis on the ballot. Having been registered at my current address for more than three years and having been a regular at the polls, there is no excuse for my name to have been removed from the petition. I am more disturbed by the Democratic Party operatives who have contempt for the most basic constitutional freedoms. Without the right to run for office, the right to vote is meaningless. By trying to block third party candidates from running for office, the Democratic Party is attacking the very basis of representative democracy—the right to vote for the candidate of your choice.”
Michele O’Brien, a teacher, wrote, “I spoke with the Illinois state Democratic Party folks and they could give me no concrete answer for the challenge to my signature and my right to participate in the democratic process ... funny, considering the name of the party should remind them of such things. Politics as usual.”
The local media, which has covered previous SEP press conferences well, was represented only by a reporter for the local daily, the News-Gazette. That the local media has joined the major outlets of Chicago and Springfield in the media blackout of the mounting violations against the right to vote demonstrates a dawning awareness that the issue is potentially explosive. By its silence, the media is complicit in the behind-the-scenes attempt to obstruct the 2006 election in Illinois.
Working people will be outraged and radicalized when they discover that their most basic rights—including the right to vote—have been subject to an ongoing attack by the financial oligarchy, operating through its two political parties.
The SEP and the World Socialist Web Site vow to expose these abuses before the widest international audience possible, to draw out the crucial historical lessons for working people, and to mobilize the working class in defense of the Parnarauskis campaign and the right to vote.
The SEP and the World Socialist Web Site call on all supporters and readers to donate to the SEP election fund to defray the costs of this struggle (Make a donation today!), and to continue to write letters of protest to the Illinois State Board of Elections at webmaster@elections.state.il.us. Please send copies of all messages to the WSWS.
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