10.7.07

Crescita: un concetto ormai da slot machine

di Joseph Halevi

(il manifesto, 08/07/2007)

I primi sei mesi dell'anno si sono chiusi all'insegna di una accresciuta instabilità finanziaria, con fenomeni curiosi come le fortissime rivalutazioni del dollaro australiano o neozelandese. Ambedue le economie sono altamente indebitate verso l'estero e se per l'Australia, serbatoio di minerali, potrebbero valere le aspettative circa i prezzi delle materie indotte dal risucchio cinese o indiano, per la Nuova Zelanda - con suoi pesci e montagne - di quali aspettative si dovrebbe parlare? Solo del fatto che - proprio per via dell'indebitamento e quindi per evitare un circolo vizioso di svalutazione ed inflazione - il governo laburista continuerà ad attuare una politica di alti tassi di interesse sui propri buoni del Tesoro. Qui scatta il carry trade dello yen, praticato alla grande proprio da banche e società finanziarie nipponiche. Dal Giappone i soldi «partono» elettronicamente per comprare buoni pubblici neozelandesi.
Il ragionamento si applica anche all'Australia e le aspettative circa i prezzi dei minerali contano fino ad un certo punto. Infatti il dollaro neozelandese ha subito una rivalutazione maggiore di quello australiano. Per i due paesi gli alti tassi di interesse e l'afflusso di soldi esteri per l'acquisto di titoli pubblici non sono un ostacolo alla crescita economica; anzi, ne permettono la continuazione.
Il sistema bancario infatti è diventato estremamente elastico: fa soldi a tonnellate grazie all'accresciuta liquidità, ricicla e aumenta il debito delle famiglie; le quali, pur vedendo il rapporto debito/reddito aumentare, cercano di non cadere nella delinquenza finanziaria. Ci si butta perciò ulteriormente sul mercato del lavoro, ormai liberalizzato, con occupazioni precarie, flessibilissime nei tempi di lavoro (verso l'alto) e nei salari (stagnanti o verso il basso). Ne consegue che la disoccupazione si situa ben al disotto del 5%, sebbene una crescente proporzione delle famiglie si trovi a rischio di insolvibilità (soprattutto rispetto ai mutui).
Questi due casi esprimono in maniera sintetica la nuova dinamica capitalistica. L'accumulazione finanziaria viene in qualche modo contabilizzata nel pil che quindi «cresce», la precarizzazione riduce la disoccupazione senza dover ricorrere a politiche keynesiane, visto che i due paesi - contrariamente agli Usa ed al Giappone - hanno conti pubblici in attivo o vicini al pareggio. Come gli Usa - che però abbisognano del sistema militar-industriale - Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda hanno internalizzato la disoccupazione da esercito di riserva in una maniera che nemmeno Marx avrebbe immaginato. Infatti l'esercito di riserva si situa dentro l'occupazione stessa: per questo la disoccupazione può calare al 4,5%. In questo contesto. margini per politiche keynesiane non ne esistono.
Anche negli Usa la spesa pubblica militar-industriale non ha effetti keynesiani. Ne aveva durante la rimpianta Guerra nel Vietnam, quando aumentavano i salari e l'inserimento nei contratti di buone clausole sanitarie e pensionistiche, oggi in via di cancellazione anche per chi è già in pensione. Ora la spesa pubblica serve a far fare soldi alle corporations; come dimostra l'imperiosa richiesta della Boeing, poche settimane fa, di aumentare la spesa militare.
Alto indebitamento estero ed alti tassi di interesse permettono alla girandola di continuare, ma sono effetti derivati di processi il cui epicentro è il circuito Usa-Giappone-Cina-Usa, su cui si fonda la capacità degli Stati uniti di gestire il debito estero ed interno, sia pubblico che privato. I tre paesi emettori di liquidità mondiale sono Usa, Giappone e Cina. Poco prima del recente incontro dei G8 il Fmi - puro portavoce del Tesoro di Washington - emise una nota che consigliava al Giappone di non precipitarsi ad aumentare i saggi di interesse. Un gioco delle parti pirandelliano, perchè Tokyo ha semmai l'intenzione opposta. La svalutazione dello yen rispetto al dollaro, connessa al tasso dello 0,50% garantisce il riciclaggio del surplus nipponico, non solo di quello realizzato nei confronti degli Usa, verso il settore finanziario statunintense.
L'effetto viene ampliato dalle operazioni nel carry trade soprattutto quando intervengono i prodotti derivati ed i capitali equity, cose che il Financial Times ha definito «fabbriche di liquidità». Ne consegue che gli Usa non sono interessati ad eventuali rialzi del tasso nipponico nè, quindi, ad una rivalutazione dello yen. Anche in Cina i tassi di interesse sui depositi bancari sono bassi, addirittura negativi se rapportati all'inflazione. E' con questa politica che, ad esempio, Pechino è riuscita a creare la rete di miriadi di imprese private che lavorano in subappalto per le multinazionali della distribuzione. Ad una politica monetaria estremamente elastica, si cumula l'effetto della trasformazione di una buona fetta del surplus estero in moneta locale. Il tutto porta ad uno tsunami di liquidità che, in parte, trova sbocco nel mercato azionario di Shanghai, i cui valori sono aumentati di oltre il 40% dallo scorso anno.
In questo contesto di bolla generalizzata, la cui fonte sono i poteri pubblici dei tre paesi in questione, i «mercati» vengono ogni tanto attraversati dal timore che il denaro facile possa prosciugarsi e si mettono in fuga verso i buoni pubblici di paesi ad alto rendimento, come Australia e Nuova Zelanda. La reazione alla prima caduta della borsa di Shanghai, all'inizio di marzo, venne rapidamente circoscritta per via del fatto che i controlli sui movimenti di capitale da parte di Pechino impediscono la fungibilità completa del mercato cinese con i mercati esteri, che è altamente imperfetta anche tra Shanghai e Hong Kong. Vi è stato un certo ruolo cinese nelle turbolenze della prima metà di questo mese, ma l'impulso principale proveniva dagli Usa. La crisi dei mutui sub prime sta avendo un impatto minore di quello paventato, mentre il governo - come chiesto da Boeing - rilancerà la spesa militare. Pertanto si ipotizza un rallentamento dell'economia Usa meno severo del previsto e un'inflazione maggiore (con tassi di interessi più elevati).
Per il mondo finanziario speculativo - ormai dominante - si profilano due fenomeni. Il rendimento futuro dei buoni del Tesoro Usa (ma anche dei paesi summenzionati) è destinato ad aumentare rispetto ad azioni e obbligazioni, per cui i soldi delle finanziarie si rifugeranno nel settore dei buoni pubblici. Il peso delle operazioni note come leveraged buyout - la componente principale degli investimenti societari al di fuori della Cina - aumenterà inoltre notevolmente. Il leveraged buyout consiste nell'acquisire, tramite mega-indebitamenti, il controllo di società per ristrutturarle in senso speculativo. Infatti il peso del debito viene scaricato sulla società da ristrutturare (quindi: salari da tagliare, pensioni da decurtare o perdere del tutto, dipendenti da licenziare e neoassunti da precarizzare), la quale per essere rivenduta con lucro dovrà esibire profitti al netto del debito. Se lo tsunami di liquidità pubblica si spegne, la ferocia delle ristrutturazioni aumenterà considerevolmente. Tutte queste vicende mostrano come il concetto di «crescita», cui si aggrappano politici di ogni colore, non ha alcuna valenza sociale positiva.

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