10.7.07

Giuseppe Garibaldi, sei un mito di sinistra

di Tonino Bucci

(tratto da Liberazione della Domenica, 8 luglio 2007)

Chiacchierati, bistrattati, trascinati nei talk show televisivi, additati a eroi o banditi a seconda delle mode del tempo e poi, ancora, gettati in pasto a editorialisti e opinionisti di giornali di grido. E' toccato a ogni grande personaggio storico che si rispetti. Attenzione però allo snobismo intellettuale, attenzione a non trascurare centenari, ricorrenze e celebrazioni. Perché la memoria si scrive - e si riscrive - anche in queste occasioni. E a volte funziona.
Vale anche per Garibaldi. A duecento anni dalla sua nascita ne ha scritto qualche giornale e sugli scaffali delle librerie figurano alcuni titoli appena usciti a firma di storici. Poco. Specie se raffrontato con la popolarità del personaggio. Ancora in vita Garibaldi è stato celebrato, venerato, trasformato in figura di culto, circondato di un alone mitologico. A ogni entrata e uscita dalla scena pubblica del suo tempo, ogni volta che appariva per mettere su, tra gli entusiasmi, un corpo di volontari in armi, per poi ritirarsi nella sua isola di Caprera, l'Italia era attraversata da un vociferare isterico. Garibaldi a Roma per difendere la Repubblica, Garibaldi con i Mille per abbattere l'odiato regno borbonico, Garibaldi sull'Aspromonte sull'orlo d'una guerra civile con i Savoia. E poi a Mentana e nella terza guerra d'indipendenza. Ogni impresa è preceduta dall'attesa spasmodica dell'eroe, ne parlano tutti, le voci si rincorrono, si rintuzzano e si amplificano e alla fine l'effetto è assicurato. Sulle ali dell'entusiasmo accorrono i volontari, tanti per quei tempi. Lasciano casa, famiglia, lavoro, si armano alla meglio per seguire il condottiero. Tra loro ci sono borghesi, ma non solo, ci sono anche i popolani delle città.
Mobilita le passioni, Garibaldi, anche quelle dei nemici. E' personaggio estremo anche nell'accendere gli odi di moderati, conservatori, monarchici, aristocratici, regnanti stranieri, difensori dell'assolutismo e, last but not least , del nemico per antonomasia, la chiesa e i preti. Per i politici che dopo l'unità d'Italia si affrettano a difendere l'ordine sotto l'egida della monarchia dei Savoia, Garibaldi diventa un pericoloso sovversivo, un bandito dell'illegalismo. Per la Chiesa, invece, il capopolo anticlericale conterà meno di un cane morto. Dal clero parte la condanna più dura, la damnatio memoriae che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, genera il silenzio degli intellettuali sull'eredità garibaldina. Insomma, Garibaldi è finito nel dimenticatoio della storia, dicono tutti male di lui. Chi lo accusa d'essere un anticlericale demodé e chi un prototipo di quell'illegalismo di cui l'Italia moderata non vuol sentire parlare. Punto.
E allora? Approfittiamo del bicentenario e ricominciamo a parlarne. «E' venuto il momento di dir bene di Garibaldi», scrive fuor di finzione Mario Isnenghi in Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato (Donzelli, pp. 216, euro 14). Per lungo tempo sono circolate tante memorie che si sono contese l'eredità del personaggio. C'è stata la memoria di conservatori e filomonarchici che ne ha fatto sì un eroe risorgimentale celebrato, ma da addomesticare, un uomo d'azione disciplinato pronto a rientrare ogni volta nei ranghi dell'ordine. C'è stata persino, absit iniuria verbis , una versione fascista del mito garibaldino, promossa dal nipote Ezio in piena epoca mussoliniana. E naturalmente c'è stato un culto di Garibaldi a sinistra, sia agli albori del movimento socialista sia più tardi da parte delle brigate internazionali in Spagna e dei partigiani nella Resistenza italiana vicini al Pci.

Garibaldi non va di moda. Non sarà perché siamo diventati incapaci di avere miti e non possiamo fare altro che distruggere gli ideali?
Oggi - ce lo raccomandano tutti - non c'è spazio per i miti. O meglio: per i miti di sinistra. Quelli di centro hanno ottima stampa. La politica è diventata solo ricerca di marchingegni istituzionali. Si discute di quale legge elettorale possa garantire maggiore governabilità. E abbiamo invece tralasciato la partecipazione. Non è una brutta parola. Magari non riusciamo più a realizzarla. Anche la militanza abbiamo dimenticato, non va di moda, ma non tutti l'hanno abbandonata. Si tratta di definirne i contenuti. A parole mi pare che anche il nascituro Pd parli di cittadinanza e di mobilitazione della società civile. Ma cos'è la società civile se non quella che nell'800 dava luogo al volontariato? Era la società civile che andava al fronte volontariamente e non perché si fosse di leva o per mestiere.

Nel pantheon del Pd non trova posto la figura di Garibaldi...
No e sarebbe curioso se ci fosse spazio per lui. Però altre formazioni politiche potrebbero farci un pensierino. Anche se i pantheon sono una cosa più seria se si sedimentano storicamente. D'altra parte, se andiamo a studiare come si formano le memorie possiamo recuperare il momento in cui qualcuno ha costruito una politica della memoria. Quando le politiche della memoria riescono e diventano memorie, ci appaiono a posteriori istintive. Quindi bisogna stare attenti a giudicare artificiosa ogni idea di pantheon. Tutto sommato piuttosto che la negligenza rispetto alla memoria, personalmente mi adatto più volentieri all'idea di costruire un pantheon e discutere cosa recuperare del passato e cosa no. L'azzeramento del passato mi sembra il peggior male.

Chissà che oggi non si possa ricostruire una memoria garibaldina "antagonista" proprio a partire dall'anticlericalismo. Perché lasciarla nelle mani ostili dei leghisti o in pasto, come lei scrive, al revisionismo colto di Galli della Loggia che considera Garibaldi il padre di un "brigatismo senza fine"?
Lo cito proprio nell'incipit. Galli della Loggia ha scritto sul Corriere il 27 aprile un editoriale che ha fatto discutere. Per criticare certi slogan del 25 aprile a Milano l'ha presa alla lontana dando la colpa alla violenza del risorgimento dietro la quale s'intravede, anche se non nominato, l'illegalismo di Garibaldi. Lo aveva già fatto Vittorio Emanuele Orlando a vent'anni nel 1880 quando ammoniva a tagliar via le radici con l'illegalismo. Le posizioni politiche sono legittime. L'importante, però, è non confonderle con la storiografia.

Il movimento operaio che è sempre stato internazionalista, a un certo punto ha scoperto Garibaldi che era un patriota nazionale. Però difendeva gli oppressi di tutti i paesi e appoggiò in età avanzata la Comune parigina. L'"eroe dei due mondi" era un internazionalista ante litteram?
Mi sembra opportuno soffermarsi su questa coppia nazionale-internazionale se si vuole approntare una lettura "da sinistra" di Garibaldi. Non possiamo farne un intellettuale lucidamente cosciente delle proprie scelte anche su un piano teorico. Anche se non dobbiamo neanche cadere nell'errore contrario, nella contrapposizione astuta dei moderati - e di Cavour - che ne facevano un uomo d'azione tutto braccio e niente mente. Sarebbe eccessivo. In realtà è un uomo che pensa, che legge, che scrive a partire dalla cultura di un marinaio autodidatta. Ha tanto tempo a disposizione, specie nei periodi di ritiro a Caprera, per tenersi informato. E' un prosatore, un narratore, addirittura un poeta. Non molti se lo aspetterebbero. Andiamo nello specifico. Una serie di espressioni e anche di gesti, come quello della Comune, consentono al socialismo delle origini di guardare a Garibaldi come a un uomo che sta dalla stessa parte di un'ideale barricata. Non racchiudibile da quell'altra parte dove sta un principio di nazione ormai superata dal principio della Internazionale - tra l'altro nella Prima internazionale c'è posto quasi per tutti e, quindi, anche per elaborazioni libertarie dell'idea di nazione. L'idea di nazione nel risorgimento italiano è un'idea libertaria. Non per niente i nazionalisti di inizio Novecento dovranno liberarsi di Mazzini per andare oltre, verso quel nazionalismo che poi caratterizzerà già in parte la Prima guerra mondiale e poi, del tutto, la cultura nazional-fascista.

L'idea di nazione ci è arrivata piena delle incrostazioni nazionalistiche del '900...
La storiografia inglese attuale che continua positivamente a occuparsi del risorgimento usa non distinguere il nazionalismo dall'Ottocento italiano. E' equivoco. Non è così. La nazione di Mazzini e di tutti i mazziniani - chi non lo è stato, Garibaldi compreso? - non è una nazione sopraffattrice e potenzialmente imperialista. Questo consente al protosocialismo di guardare ai democratici risorgimentali - Pisacane e Garibaldi in prima fila - come a dei padri della generazione precedente. Nella banda internazionalista del Matese nel 1877 alla quale partecipa il giovane Malatesta, ci sono garibaldini che non sono rifluiti a destra ma anzi si radicalizzano. Provano a fare una rivoluzione sociale invece che soltanto politica e nazionale. Garibaldi è ancora vivo, ha notizia di questi ventenni. Sono anarco-socialisti e internazionalisti e pensano che gli sviluppi della rivoluzione vadano ormai oltre la nazione. Veniamo al '900. La nazione tiene. E si svolge in senso militarista e imperialista con la cultura del neonazionalismo di Alfredo Rocco e di Enrico Corradini. E, naturalmente, tiene ancor più quando la cultura nazionalfascista ispira il movimento e poi il regime fascista. Ma intanto cosa succede a sinistra? Il partito comunista nasce nel '21 come sezione dell'Internazionale. Nel primo dopoguerra sembra che le sinistre si muovano in orizzonti che vanno oltre la nazione, se non contro la nazione. La Terza internazionale non è così variegata e, diciamolo pure, così confusa, come la Prima. Ed è profondamente diversa dalla Seconda che era socialdemocratica. Dovranno passare anni, bisognerà assistere al fascismo che procede lungo la strada del nazionalismo armato negatore della nazionalità oltre che delle classi altrui, perché a sinistra, tra i prigionieri delle carceri, nei partiti, al confino e nei fuoriusciti dell'esilio, emerga la politica dei fronti popolari e dell'unità politico-militare nella differenza. Con la guerra di Spagna risorge Garibaldi come esempio di una dialettica possibile tra nazione e internazionale. Qui si tratta di difendere lo svolgimento autonomo della nazionalità spagnola in un quadro, però, di lotta dell'antifascismo contro il fascismo, quindi di guerra internazionale. Carlo Rosselli lancia da Radio Barcellona il famoso grido "Oggi in Spagna, domani in Italia". I giellisti, poi azionisti, sono interni a questo recupero della nazione in senso mazziniano, salveminiano e democratico. Però sono anche europeisti. Anche questi antifascisti borghesi tendono a una sintesi tra nazione e internazionale. Naturalmente la loro idea di internazionale non è la stessa dei comunisti. Mentre i socialisti di Nenni e di Pertini oscillano e cercano la loro posizione. Vediamo quindi dialettiche complesse tra nazione e qualcosa che va oltre anche se è coniugabile con essa - sia l'internazionalismo democratico o quello socialista e comunista. Infine, la Resistenza italiana. Il Pcd'I diventa Partito comunista italiano e sceglie Garibaldi come simbolo delle brigate partigiane e, poi, insieme ai socialisti, del Fronte popolare del '48 come insegna di un secondo risorgimento, distinto da quello degli azionisti. Garibaldi è simbolo della sinistra risorgimentale, il capopopolo di sinistra che non si è mai lasciato andare alla soluzione istituzionale moderata e monarchica.

Eppure è passata l'immagine di un rivoluzionario disciplinato che alla fine si sottomette al re. Come mai?
Nel mio libro lavoro proprio sulla dialettica e la tensione tra moderati e democratici fin dalla spedizione dei Mille. E' un'alleanza complessa. Alla fine tiene, ma Garibaldi non sarà mai un governista - semmai è uno statalista. Si fa carico del problema della costruzione dello Stato, certo che sì, e anche del rapporto con la Chiesa - e questo tira in ballo la questione complessa dell'antirisorgimento ecclesiastico. Ma non è un governista. Che qualunque scelta di Torino gli vada bene, beh, questo proprio no! E' un uomo di grande responsabilità, ma non nella luce del famoso "obbedisco" che è stato molto enfatizzato e strumentalizzato. Il fatto che Garibaldi arretri nel momento in cui c'è la possibilità che la guerra civile deflagri - il momento più topico è quello dell'Aspromonte nel '62 - ha a che fare anche con le sue dottrine di grande capo guerrigliero, non con una moralità istituzionale o con il rapporto con i moderati e con Torino. Sa benissimo quali sono i rapporti di forza e che non si ingaggia battaglia quando non ci sono possibilità di vincere. In questi casi il guerrigliero va via, non fa il bel gesto. Garibaldi non è l'uomo dei bei gesti simbolici, ha il senso della realtà e se non ci sono possibilità di vittoria dà l'ordine di non sparare e di ritirarsi. Quando nel '49 lascia Roma dopo la sconfitta della Repubblica romana ha con sé quattromila volontari, mica tanto pochi! Quattro volte i Mille. Un romantico idealista avrebbe potuto dire leopardianamente «procomberò sol io», anzi con tutti i quattromila. E invece no. Il grande leader guerrigliero trova la maniera per sfuggire a tutti gli eserciti che gli corrono dietro e via via lascia partire tutti i volontari perché non è possibile supportarli e non è possibile fare la guerriglia nell'Italia centrale nel 1849.

Il mito garibaldino funziona come un formidabile meccanismo di mobilitazione per migliaia e migliaia di volontari. Numeri non irrilevanti per l'Italia di allora. Minoritario o anche popolare, qual è la verità sul risorgimento?
I Mille diventano 50 mila in poco più di due mesi. Niente male. E anche in Aspromonte Garibaldi mette assieme duemila uomini, il doppio dei Mille. Abbiamo lasciato enfatizzare troppo il carattere minoritario del risorgimento. Dobbiamo ragionare rispetto ai contesti politici in Italia e nell'Europa del 1800. Non dobbiamo ragionare come se allora ci fosse già il suffragio universale e la coscrizione obbligatoria. Sì, certo, sono minoranze, ma minoranze che in certe fasi riescono a diventare in tempi rapidi molto corpose, da poche centinaia a decine di migliaia. Anche nella Terza guerra d'indipendenza Garibaldi riesce a tirarsi dietro 38 mila volontari quando l'esercito regolare di La Marmora ne ha ottantamila. Non c'è bisogno di calcoli originali, basta andare a rileggere il classico di Piero Pieri, Storia militare del risorgimento . La spedizione dei Mille è solo il culmine di un pullulio di lotte per bande, la più riuscita. Le bande e quelli che le componevano sono cresciuti via via, anche se la caratteristica dell'agire per banda è che talvolta il piccolo numero può bastare. Mille erano molto di più dei dodici con cui era partito Pisacane e dei trenta-quaranta dei fratelli Bandiera. Ma non è solo questione di quantità al momento della partenza. Il problema era l'analisi politica: c'era o non c'era la polveriera nel Meridione d'Italia? Bisogna capire il fenomeno qualitativo del volontarismo armato, la continuità sul filo di decenni della capacità della penisola di animare successive bande.

Ma quali sono i miti che spingono questi giovani a lasciare tutto e imbracciare il fucile al fianco di Garibaldi?
Il romanticismo, senza dubbio. La cultura dell'io, della passione di un Noi affiorante e possibile. Ma anche la condivisione del bisogno di un insieme che si chiama Italia da duemila anni e che ora può diventare Stato. Non parla ai contadini questo discorso? Sì, lo sappiamo. Anche se Pieri insegna che magari non parlerà ai contadini - e Garibaldi se ne lamenta nelle sue Memorie - però nelle città parla ai popolani. Molti braccianti vengono reclutati nelle osterie. Che male c'è? I borghesi e gli aristocratici vengono reclutati nei caffé! Si dà anche qualche moneta ai braccianti perché se sospendono di lavorare non saprebbero come mantenere la famiglia. Qualcuno potrebbe obiettare "ma come, li pagavano"?! Che discorsi! La politica non pagata se la possono permettere solo i borghesi e i ricchi. Nel '48 bolognese, per esempio, tornano i nomi di quelli che avevano già partecipato ai moti di qualche anno prima - se non erano già stati fucilati. Segno che non andavano semplicemente in cerca di lavoro. Non erano mercenari.

Garibaldi è un simbolo della guerra per bande. Corrado Augias l'ha paragonato a Che Guevara. Il raffronto regge?
Perché no? Quando ragioniamo di miti e della loro presa sul modo di pensare e agire della gente non possiamo tralasciare le analogie. Se dovessimo fare della filologia dovremmo coltivare l'arte dei distinguo, d'accordo. Ma se discutiamo di miti, piuttosto mi chiedo perché il mito di Garibaldi non abbia agito di più e non di meno sulla gioventù novecentesca. O perché ci sia stato bisogno di una tradizione di film western ambientati negli Stati Uniti d'America. Perché non esiste un genere risorgimentista e garibaldino? A me pare che le radici e le condizioni ci sarebbero pur state per una simile rielaborazione. Penso sia colpa della solita esterofilia e snobismo provinciale.

Buona parte della classe dirigente dell'Italia unita è stata garibaldina. Quelli come Crispi che vanno al potere rinnegheranno il proprio passato?
Tratto con rispetto Crispi, a differenza di Depretis. Non è un semplice opportunista trasformista. Naturalmente Crispi fa anche parte di questa storia, dell'elaborazione involutiva di coloro che sono stati giovani mazziniani e giovani garibaldini e che si troveranno nel prosieguo della loro vita a lavorare in altri contesti politici. Crispi accetta pienamente la monarchia e lo Stato che storicamente si è fatto in forme monarchiche. Così, lui che statalista è, smette di sognare la repubblica e, anzi, legge i conati repubblicani come pericolo rosso paragonabile al pericolo nero che viene dai preti e dal clero intransigente. Vede lo Stato degli ultimi trent'anni del secolo come una navicella assediata da destra e da sinistra sul cui ponte di comando si erge lui, Crispi, il depositario della memoria e della storia degli italiani che sono riusciti a costruire questo Stato. E come ogni buon rivoluzionario andato al potere diventa conservatore. Cosa c'è di strano? E' successo in tutte le rivoluzioni della storia. Se succede anche quando semplicemente si vincono le elezioni con 24 mila voti, figuriamoci dopo una rivoluzione vinta! Crispi ritiene di poter fare le riforme di struttura dall'alto con la forza dello Stato. Va in giro a erigere monumenti a Garibaldi e al Re, mica a Cavour. E' l'Italia crispina che individua in questa diarchia simbolica l'essenziale di come sono andate le cose nella costruzione dello Stato nazionale. Questa Sinistra storica, sinistra di governo, non è equivalente, ad esempio, al partito democratico. E' l'espressione di uno statalismo laico e perciò anticlericale. Per quella generazione lì l'anticlericalismo non è una brutta parola, anzi è un motivo fondante. Non si capisce perché oggi sia letta come una bestemmia. Bisogna tornare al vocabolario e alla storia, e restituire al termine "anticlericalismo" la sua dignità di posizione politica: imprescindibile, in Italia, perché l'anomalia italiana è la Chiesa Romana.

Perché la memoria garibaldina si è interrotta nel corso del '900?
Quando i comunisti e i partigiani vicini al Pci scelgono il nome di Brigate Garibaldi confermano la lungimiranza di certe intuizioni di Gramsci che in carcere aveva capito la necessità di studiare la storia nazionale. E ancora nel dopoguerra comunisti e socialisti scelgono Garibaldi come simbolo del Fronte popolare per lanciare un messaggio nell'aspra campagna elettorale del '48: «Noi non siamo contro il paese, ma scegliamo un altro risorgimento, un'altra tradizione democratico-radicale». Negli anni successivi i comunisti diventano il "partito delle istituzioni". E dimenticano Garibaldi, ma del resto non penso che Togliatti potesse infatuarsi del mito garibaldino. Semmai Togliatti propende per Cavour o Giolitti. Nonostante la vocazione istituzionale, nelle celebrazioni rituali della Resistenza non mancheranno mai i fazzoletti rossi alla garibaldina. La figura di Garibaldi verrà invece esplicitamente richiamata più tardi nell'82, nel primo centenario dalla morte, ma non precipuamente dai comunisti. A contendersi la sua memoria saranno i socialisti di Craxi e i repubblicani di Spadolini. All'ombra del primo circolerà addirittura il "socialismo tricolore", illimitatamente aperto a destra.

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