9.9.07

Dialogo intorno al concetto di egemonia

Ferruccio Capelli, Enrico Livraghi


A SETTANT’ANNI DALLA MORTE DI ANTONIO GRAMSCI
Casa della Cultura, Milano



L. Malgrado certi suoi limiti ormai ben chiari, soprattutto di ordine teorico-filosofico (crocianesimo, storicismo, eccetera), ci devono pur essere nell’opera di Gramsci degli strati tematici tuttora ben vivi se il suo pensiero continua a essere studiato in campo internazionale. C’è da chiedersi perchè in Italia Gramsci è quasi stato abbandonato. Il dibattito su Gramsci da noi è progressivamente sparito, e curiosamente proprio a partire dalla metà degli anni Settanta, dopo l’arrivo dell’edizione dei Quaderni curata da Valentino Gerratana, che mi pare risalga al 1975. Gramsci, invece, è letto, studiato, utilizzato e considerato un punto di riferimento imprescindibile in molte aree del mondo, dall’America latina, al Medio Oriente, e particolarmente in India....



C Comincio col dirti questo: quando Mustafà Barghouthi è venuto in Casa della Cultura per un incontro con Massimo Cacciari, sono rimasto grandemente sorpreso quando ha cominciato a parlarmi di Gramsci e dell'importanza del suo pensiero. Loro, i palestinesi, stanno riflettendo sul ruolo degli intellettuali, perchè hanno bisogno di un sistema di valori diffusi capaci di accompagnare la lotta politica, e lo fanno anche attraverso Gramsci.

Un’altra grossa sorpresa l’ho avuta circa un anno fa quando ho ricevuto una mail con la quale alcuni ragazzi, che si firmavano collettivamente, mi dicevano di essersi imbattuti in un autore per loro completamente sconosciuto, Antonio Gramsci appunto. Questo autore li aveva così affascinanti che avevano deciso di allestire su di lui una pièce teatrale, che poi, come sai, è stata rappresentata alla Casa della Cultura in maggio. Scoprire che dei giovani tra i venticinque e i trent’anni, impegnati nell’ambiente culturale milanese, alcuni di essi laureati in filosofia, squadernino senza remore l’aggettivo “sconosciuto” lo considero emblematico: infatti mi ha fatto pensare che in italia Gramsci è stato rimosso proprio alla fine degli anni Settanta, dopo la pubblicazione dell’edizione Gerratana dei “Quaderni”.

Bisogna essere precisi, però: quando dico anni Settanta mi riferisco all’affondo che portarono i craxiani all’inizio del ’77 contro il concetto gramsciano di egemonia, che sarebbe stato, secondo loro, un camuffamento della dittatura del proletariato. Il concetto di egemonia doveva essere eliminato per far spazio a un terreno di lotta politica fondato su una concezione liberale.



L Mi stai dicendo che si trattava di un attacco al concetto di egemonia. Su questa cosa dovremmo ritornarci parlando degli intellettuali.



C Nella seconda metà degli anni Settanta parte il tentativo di smontaggio dell’opera di Gramsci che non riguarda tanto una facile critica delle categorie “datate” del suo pensiero, tipo quella di “nazional-popolare” o altre inadeguate a cogliere l’avanzamento della società italiana, ma piuttosto mira a smantellare alcune impalcature della cultura di sinistra. Quest’ultima, invece di porre al centro della riflessione il problema del rinnovamento delle sue categorie, comincia a sbandare e a vacillare vistosamente.



L Fammi tenere il punto. Quell’offensiva non puntava certo a categorie quali, appunto, il nazional-popolare, o magari a certe figure fuori tempo come quella dell’intellettuale “organico”, ma piuttosto alla centralità del concetto di egemonia, quando ancora un’egemonia autentica della cultura del movimento operaio sembrava sussistere, supportata da una grande forza politica. In realtà, forse oggi si può dire che, più in profondità, la vera offensiva era contro il pensiero di Marx e contro ogni sua possibile influenza residua rispetto al cambiamento di paradigma già in atto, per quanto non ancora visibilissimo. In Italia questa offensiva ha assunto non solo forme laceranti, come nel caso di Lucio Colletti, ma anche un qualche aspetto comico: basta pensare al “fondamentale” saggio di Craxi su Proudhon, apparso sull’ Espresso....



C Per la precisione si trattava di un affondo su Marx e la concezione dello Stato La battaglia contro Gramsci comincia pochi mesi dopo. Il fendente portato contro il concetto di egemonia riguardava in sostanza il PCI, accusato di essere ancora incapsulato nell’idea di dittatura del proletariato. L’attacco riguardava non solo il rapporto del PCI con i paesi dell’Est, ma anche la proposta berlingueriana di compromesso storico. Insomma: un insieme di operazioni tutte sintetizzate nell’offensiva antigramsciana.



L Non si può negare che il PCI sembrava far di tutto per dargli ragione. Non c’era più niente nel PCI di tutto quello di cui veniva accusato: non la dittatura del proletariato, non la concezione dello Stato, non - soprattutto - l’antica capacità di egemonia. Solo che il PCI sembrava non saperlo. Secondo me aveva mal digerito, e non aveva per nulla metabolizzato culturalmente i cambiamenti che si erano prodotti nel sociale, soprattutto perchè il vecchio apparato storicistico si era arrugginito da un pezzo e non era mai stato messo in campo un vero progetto di rinnovamento teorico. Così Craxi ha potuto giocare un’operazione egemonica vincente per tutti gli anni Ottanta, con il PCI politicamente paralizzato...



C Quello che conta però e questo: che trent’anni dopo, sia pur in un quadro di complessità e di profondi mutamenti su scala internazionale, l’unico pensiero che sembra avere cittadinanza sul piano globale è quello liberal-conservatore...



L Lì comincia l’egemonia del pensiero unico...



C Appunto. Anche se nessuno immaginava lo sbocco successivo, perchè sussisteva un equivoco: sembrava che l’attacco fosse condotto nel nome del liberal-socialismo, o comunque nel nome di una società aperta. Quell’attacco invece si saldava con un mutamento del quadro internazionale, con la trasformazione del paradigma produttivo, e soprattutto con la profonda crisi della sinistra in Italia. In un quadro del genere, lo smantellamento di Gramsci assumeva un’importanza centrale nella stabilizzazione dell’operazione egemonica craxiana.



L Sarebbe bene, però, non sottovalutare la responsabilità del PCI nel corso di quel passaggio



C Procediamo con ordine. Fino a un certo punto le singole scelte, anche quelle che si rivelarono sbagliate, erano attraversate da una ricerca che non perdeva mai di vista il problema, quasi l’assillo di rappresentare una parte di società, e quindi un pezzo di cultura politica...



L Però non si può non rilevare che Berlinguer purtroppo capì in ritardo il vero obiettivo di quell’operazione che allora era in atto.



C E comunque bisogna anche dire che Berlinguer e tanti con lui si sono poi disposti in una linea di ricerca accanita per ritrovare una rappresentanza, ricostruire e intercettare i nuovi soggetti, vale a dire riprendere l’egemonia. Voglio tornare però al Gramsci “sconosciuto”, secondo la dizione di quei ragazzi. E’ appunto dagli anni Settanta che in Italia si cancellano le tracce del pensiero gramsciano: un'operazione che non si è più riusciti a contrastare. Siamo approdati oggi in una temperie in cui l’unico pensiero in circolazione, che ha una vera legittimazione, è quello liberal-conservatore.



L Dici: pensiero liberal-conservatore. Sei convinto di questa definizione?



C Sì. Non si tratta del vecchio liberalismo. Si tratta di un liberalismo i cui valori sono riconducibili nell’orizzonte del neo-conservatorismo. Non a caso qualcuno parla di rivoluzione conservatrice.



L All’opposto, cosa diciamo della parola “innovazione”, oggi largamente inflazionata?



C Intanto, attenzione all’equivocità di questa definizione. Quale innovazione? Innovazione di che cosa? Il termine “innovazione” è dilagato perché sospinto dalle nuove logiche produttive: competizione sempre più spinta e quindi continua innovazione di prodotto. Si tratta di un’idea che viene spinta ossessivamente dal mercato: la politica non conta per nulla. Così la cosiddetta innovazione, impropriamente estrapolata dalla produzione e importata nella politica, finisce per coincidere con la conservazione dell’esistente, cioè proprio con lo spirito liberal-conservatore di cui parlavamo.



L Ora stiamo un po’ divagando, quindi è meglio tornare al concetto gramsciano di egemonia che abbiamo messo a fuoco all’inizio.



C Bene, a proposito di egemonia, se alziamo lo sguardo e guardiamo quello che accade in giro per il mondo, scopriamo una cosa ancora più interessante: che proprio le componenti più aggressive del pensiero conservatore hanno utilizzato Gramsci per costruire la loro egemonia. Basti pensare ai neocon americani. Costoro hanno messo in piedi potenti fondazioni culturali (che non avevano), intrecciato sistemi di possesso o quanto meno di controllo dei media, sostenuto - per quanto possa sembrare incredibile - un’intera schiera di propri intellettuali organici, ovvero hanno strutturato delle vere e proprie casematte. Alcuni di questi intellettuali neocon - americani e non - hanno citato esplicitamente Gramsci, indicandolo come punto di riferimento nella costruzione di un sistema di egemonia conservatrice contro il movimento operaio progressista. E’ questo che è accaduto nel grande scenario globale. Il concetto di egemonia può essere utilizzato da tutte le forze in campo per costruire strumenti del consenso e un sistema di valori fondati su un blocco sociale di riferimento.



L Insomma, il tema dell’egemonia risulta il nucleo profondo, ed anche il più vivo e attuale, del pensiero di Gramsci. Come hai ben detto, in questi ultimi trent’anni la rimozione del pensiero di Gramsci da parte di larghi strati della sinistra - per la verità soprattutto quella cosiddetta riformista - è andata avanti quasi di pari passo con il montare, e poi progressivamente consolidarsi, dell’egemonia liberal-conservatrice. Sorge ora una domanda: come può riprendere in mano il tema cruciale dell’egemonia questa nostra sinistra - riformista o radicale, qui non importa - che non ha mai avuto la forza, e forse neppure l’intenzione, di mettere in gioco uno scontro frontale con il senso comune crescente, e infine dilagante, che in verità rappresenta l’humus profondo dello spirito conservatore? Questo senso comune rappresenta il supporto ideale dell’antipolitica, anzi, direi che è l’elemento essenziale di quella che viene chiamata la crisi della politica. Dunque, perchè la sinistra non ha mai praticato questa battaglia decisiva: scontrarsi con il senso comune?



C Beh, qui non ho nessuna comoda risposta da darti. Intanto cerchiamo di mettere a fuoco il problema di questo pensiero a senso unico che domina oggi: si tratta del vero luogo originario della crisi della politica. Se rimettiamo a fuoco questo nodo, possiamo capire che la crisi della politica deve essere affrontata ricostruendo un punto di vista di sinistra e strumenti culturali adeguati a una possibile ripresa dell’egemonia.



L Ma, in questo emergere dell’antipolitica, non c’è anche un altro aspetto da mettere a fuoco, vale a dire la mancanza di un baricentro per la sinistra, di un punto di riferimento centrato nel sociale? Quel baricentro che storicamente, nel ‘900, è stato rappresentato dalla classe operaia, e che sembra abbia visto il suo tramonto con la fine del fordismo-taylorismo? O meglio: quello che mi sembra tramontato è il momento fortemente soggettivo, e quindi antagonista, di quella classe operaia, e semmai, è il movimento operaio come l’abbiamo conosciuto che è “al tramonto”. Voglio dire: perduto questo baricentro, anche in seguito all’iniziativa del grande capitale mondiale che ha messo in scena una sparizione della classe operaia (finzione pienamente riuscita, bisogna dirlo); perso questo punto di riferimento anche teorico-culturale del proprio essere e agire, dove risiede oggi l’ancoraggio della sinistra, dove sono quelle coordinate sociali che possono permettere di resistere alla bufera dell’antipolitica e magari sconfiggerla?



C Farei un ragionamento più complessivo. E’ vero che quel baricentro sociale è in crisi. Però esiste oggi molta gente - sia permesso l’uso di questa categoria: gente - che sta verificando, da punti di vista diversi e da posizioni sociali diverse, alcune nuove linee di frattura sociale. E questo su due punti essenziali. Primo: il rapporto con l’ambiente; secondo: la crescita delle disuguaglianze sociali. Rispetto a questi due processi noi possiamo ipotizzare una sensibilità “riflessiva” che sorregga la ricostruzione di un pensiero critico diffuso.

Al proposito, mi concedo ora una riflessione sulla crisi del dibattito pubblico. Oggi assistiamo a una divaricazione: da un lato, l’iper-specialismo degli intellettuali, l’accademia, ecc., rinchiusi in nicchie sempre più ristrette e incapaci di coinvolgere chi sta all’esterno; dall’altro, la dilatazione enorme della chiacchiera mediatica, che alletta gli intellettuali, li spinge ad occupare la scena, svilendoli e facendoli così sparire in quanto intellettuali. Vedo questi due fenomeni in corso (o forse due lati dello stesso fenomeno), e faccio questa ipotesi: forse una rinnovata riflessione sul pensiero gramsciano aiuterebbe i cosiddetti intellettuali a uscire da questo ambito angusto, e magari ad affrontare la scena pubblica e a ricostruire il dibattito pubblico stesso.



L Però Gramsci, al contrario di questi nostri intellettuali, spesso transfughi, era profondamente convinto di quello che sosteneva. Intendeva l’attività intellettuale come arricchimento di una cultura che egli non considerava affatto superata o obsoleta. Gramsci resta all’interno dell’orizzonte comunista, e non ne esce neppure quando rompe con il modello sovietico. A partire dal 1926, al tempo del congresso di Lione, Gramsci era consapevole che quell’esperienza già si trovava in una fase fallimentare: in una degenerazione politica e in un’impasse teorica .



C Su questo sarei più prudente. Nel 1926 Gramsci scrive le famose lettere in cui sostiene che quei metodi non sono accettabili. E nei dieci anni che vanno dal ’26 al ’37 - gli anni della prigione - va oltre e smonta il modello politico del monopartito e preconizza una costituente democratica.



L Beh, il concetto stesso di egemonia smonta il modello del monopartito...



C Infatti Gramsci mette in discussione la vulgata dominante della cultura comunista, mantenendo però fermo il baricentro critico del suo pensiero. Comunque, quello che mi sembra il caso di mettere in rilievo alla fine, è appunto la necessità di una ripresa del problema dell’egemonia. Essa permetterebbe di mettere a fuoco lo slittamento e il passaggio d’egemonia che si è realizzato in questo di secolo, di scavare nelle radici e nelle ragioni del pensiero unico, liberal-conservatore, oggi dominante, e forse renderebbe possibile ricostruire un discorso pubblico nel quale si misurino posizioni ideali e culturali realmente diverse.

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