4.10.07

Opa di Pd e Montez sul governo e sulla Cgil per archiviare il lavoro

Il "piuttosto di niente" e i lavoratori

di Dino Greco

Liberazione, 04/10/2007

E' necessario prendere coscienza che è in atto una vera e propria offensiva di portata strategica del capitale contro il lavoro, una fase che, gramscianamente, possiamo definire come "guerra di movimento". C'è un'Opa sul governo da parte del costituendo Partito democratico (cui Veltroni ha infuso, per dirla con una felice espressione di Paolo Ciofi, il soffio della vita), il cui obiettivo è quello di perseguire una modernizzazione senza trasformazione sociale, funzionale alla conservazione dei rapporti di classe esistente, dentro un tragitto di fuori uscita dalla Costituzione "fondata sul lavoro". Perché questo disegno si affermi occorrerà, presto o tardi, che la tremebonda Unione si liberi della sua riottosa parte mancina, disorganica rispetto a una competizione politica fra schieramenti che si contendono il consenso del medesimo blocco sociale e che si ispirano a un non troppo dissimile paradigma economico. Parallelamente c'è una seconda Opa ostile, scatenata invece da Confindustria sulla Cgil, affinché essa si liberi di ogni retaggio antagonistico per divenire, niente più niente meno, che un sindacato di mercato, totalmente sussunto in una logica compatibilista che pretende - nello stesso tempo - bassi salari e uso discrezionale della forza lavoro, senza neppure la compensazione di un solido sistema di protezione sociale a valle.
L'accordo di luglio non contraddice affatto questo progetto e non è affatto casuale, benché singolarmente grottesco, l'entusiasmo con il quale Montezemolo se ne è reso sponsor ufficiale. Come sempre, i padroni guardano alla sostanza, che è questa: la Cgil viene cooptata fra i sostenitori della flessibilità del lavoro nelle sue forme estreme o, in ogni caso, è spinta a tollerarne sia pur recalcitrando la legittimazione negoziale; gli incrementi salariali, attraverso una parziale detassazione, divengono una funzione della redditività aziendale, mentre il contratto nazionale subisce un oggettivo depotenziamento; la decontribuzione delle prestazioni straordinarie, poi, manda a dire ai lavoratori che il valore della loro fatica, il loro salario, non può aumentare ma essere unicamente il frutto del prolungamento della giornata lavorativa (notoriamente causa fra le principali degli infortuni sul lavoro). Intanto l'aumento dell'età pensionabile è cosa fatta, malgrado sia dimostrata l'inesistenza di allarmi sui conti previdenziali e sia già chiaro che la generazione falcidiata dal contemporaneo varo del sistema contributivo e dall'irruzione dei rapporti di lavoro parasubordinati è persa per sempre (a meno di interventi massicci e retroattivi, oggi impensabili, della fiscalità generale per compensare un buco di sottocontribuzione altrimenti incolmabile).
Fanno male, molto male, quanti spacciano la contestazione che sale dai luoghi dove più tenace è l'insediamento operaio per un conato estremistico o per una pulsione corporativa ignara delle scarse risorse disponibili e dai precari equilibri politici. Nessuno, da quelle parti, si attendeva palingenesi sociali, ma il segno percepibile di un cambiamento di rotta, quello sì. Era lecito e possibile praticare una strada che facesse valere, attraverso il conflitto, il peso di 16 milioni di lavoratori e di altrettanti pensionati le cui condizioni con l'interesse generale del paese hanno pure qualcosa a che vedere. Anche di questo ci si chiede conto. A maggior ragione di fronte a un progetto di finanziaria per l'anno venturo che trasferisce nuovamente vagoni di denari alle imprese (Ires e Irap) e declina l'impegno di tassare dignitosamente i capital gains , ma non trova il modo di restituire ai lavoratori il fiscal drag, non finanzia adeguatamente il rinnovo dei contratti pubblici e lascia a secco il fondo per la non autosufficienza. Questi sono i fatti con i quali occorrerebbe misurarsi, rammentando che quel sindacato che solo un anno e mezzo fa intitolava le sue tesi congressuali con un magniloquente "rimettere al centro il lavoro, riprogettare il paese", ora non può rivolgersi ai lavoratori dicendo loro che «piuttosto di niente è meglio piuttosto».

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