7.11.07

L'Ottobre operaio, rimosso dalla Russia


La Rivoluzione ha 90 anni/1 Quel che ha significato e quel che continua a significare oggi
il manifesto, 6 Novembre 2007

Una difficile lezione di storia con gli studenti di San Pietroburgo, testimonianza vivente della vittoria della borghesia e del fallimento del sovietismo nel costruire l'«uomo nuovo»
Rita Di Leo

Al ritorno da un viaggio a Pietroburgo mi trovo a rispondere alla solita domanda: ma com'è veramente? In quel «veramente», ripetuto in epoche diverse, c'è un interesse tutto speciale: come se lo stato delle cose prima nella Russia sovietica e poi postsovietica avesse, abbia riflessi su chi fa la domanda. Sul disagio di oggi, sulle illusioni di ieri.
Questa volta ho risposto che i giovani stanno alla grande. E mi riferivo a quelli con cui avevo avuto a che fare, studenti dell'università, uguali ai nostri e persino migliori. Con gli stessi iPod, You Tube e sabati sera, epperò più informati e attenti a quel che accade nel mondo. E poi, a differenza dei loro padri, ti guardano dritto negli occhi, alla pari. Senza più quel misto di invidia, subalternità, venerazione verso chi arrivava dal favoloso modo «oltrecortina». Adesso anche per loro c'è quel che c'è oltrecortina e così possono confrontare, criticare, apprezzare.
E' con i giovani che ho discusso del 1917, del passato sovietico, il tempo dei loro nonni, da cui sono presi molto meno che dalla guerra in Iraq o dal conflitto arabo-palestinese. Per discuterne, il pretesto è stata la mia visita allo Smolny, oggi sede del Governatore della città, all'epoca quartiere generale della rivoluzione, il posto dove Lenin visse dal novembre 1917 al marzo del 1918. Per tre quarti del Novecento, la sala dove si era svolto il Congresso dei Soviet che aveva proclamato la vittoria e lo spartano appartamento di Lenin sono rimasti come icone dell'evento. Andare a vedere il «Proclama sulla pace e sulla terra» di Lenin sulla scrivania dove forse era stato scritto non era proprio una bizzarria, eppure tale è apparsa ai miei giovani interlocutori. Passi il museo Puskin e la casa di Dostojevski, ma lo Smolny...
La discussione sul passato del loro paese è cominciata così. Come mai tanto interesse da parte di un professore europeo? Per loro l'esperimento sovietico era una fase storica da saltare, per tornare agli inizi del Novecento, a Witte e Stolypin, i due ministri dello zar fautori per la Russia di una via europea, con imprenditori, banchieri e intellettuali ai posti di comando. I 74 anni dell'Urss e il caos degli anni di Eltsin, con gli oligarchi, il degrado e la subalternità agli Usa, erano tutti imputabili all'incapacità politica di chi li aveva sostituiti nel 1917.
I giovani, si sa, sono radicali e contraddittori. Infatti è unanime la riconoscenza per Putin, l'uomo che ha ridato loro il rispetto per il proprio paese. I contrasti con i paesi ex sovietici sono valutati con spirito granderusso: mai i governanti attuali di quei territori avrebbero osato, se non fossero sobillati dagli americani, preoccupati per una Russia tornata a contare sulla scena internazionale. Per merito di Putin.
Sincero è stato il loro sconcerto quando ho ricordato che Putin è un prodotto di quel passato che ripudiano, figlio un operaio comunista, premiato per il suo lavoro con un appartamento e un'automobile, privilegi distintivi del clima sociale dell'epoca. Allora il percorso ottimale di un bravo figlio di un bravo operaio portava a farlo diventare ingegnere e a spianargli la carriera professionale e politica. Per Putin la scelta di lavorare per i servizi segreti è stata un'affermazione di diversità, l'aspirazione a conoscere il mondo grazie agli incarichi nei servizi segreti. Quando i mass media e i cremlinologi lo raffigurano come uomo-spia, ancora una volta mostrano di non essere in grado di capire né l'uomo né l'ambiente in cui è cresciuto. Quanto ai miei giovani russi, è difficile far loro accettare che proprio con il loro presidente è stata rispettata - forse per l'ultima volta - la prassi sovietica per cui i leader politici dovevano avere una estrazione operaia e contadina. Nel loro orizzonte, infatti, di operai e contadini non c'è più traccia.
Essi stessi sono del resto la prova del cambiamento del paese, quasi del tutto assimilato al resto dell'Europa. Certo ci sono ancora molte turbolenze nell'economia e nella politica, ma il dato certo è che il potere è tornato in mani borghesi. Il rovesciamento sociale, base dell'esperimento sovietico, risale ormai al passato ripudiato. E' rientrata la pretesa di considerare il lavoro manuale al primo posto della scala sociale: un primato che aveva una ricaduta politica ben precisa nel reclutamento di chi aveva la responsabilità di governo. Un governo che, nel più breve tempo possibile, avrebbe mostrato di creare un'economia migliore di quella capitalistica, e una società alternativa. Il tutto grazie alla classe operaia che, con il 1917, aveva conquistato la possibilità di farsi valere nei confronti di chi l'aveva tenuta socialmente e politicamente subalterna. Con la vittoria del 1917 era appunto possibile fare meglio degli sconfitti, obbligandoli a prestare i propri specialismi, la propria cultura, al nuovo potere: l'ingegnere come vicedirettore e l'operaio promosso direttore della fabbrica espropriata.
Per i miei giovani russi stavo narrando una storia fantapolitica, mai sentita perché in famiglia e a scuola nessuno aveva raccontato della fase del «comunismo di guerra». Essendo di estrazione borghese e intellettuale, avevano succhiato con il latte materno l'avversione per il Partito comunista, il disprezzo per come governava il paese. Ma si trovavano sprovveduti di fronte all'ipotesi che alla base di tanto disprezzo vi fosse un rovesciamento sociale; che in famiglia potessero avercela con i dirigenti del Partito per l'esclusione sociale subita; per le conseguenze personali che potevano essere derivate dall'emarginazione sociale del lavoro intellettuale; per non essere diventati loro, tecnici e intellettuali, i dirigenti del partito al posto di Khrusciov e di Brezhnev, ex operai.
In mio soccorso parlò una fanciulla ebrea il cui nonno - «un grande scienziato» - era andato in galera accusato di sabotaggio mentre la famiglia aveva perso la casa e tutti erano stati cacciati dal lavoro e dalle scuole. Ma dopo un po' lo avevano rimandato al suo laboratorio di ricerca, ma sulla targhetta del direttore c'era il nome di un operaio della manutenzione, segretario della cellula di partito del laboratorio. L'esempio era così pertinente da sembrare inventato, solo che (per mia fortuna) la voce della studentessa vibrava di derisione per l'affronto subito dal nonno. Un operaio a capo di un laboratorio!
Subito i miei giovani interlocutori quasi gridarono che l'esperimento sovietico non poteva riuscire proprio a causa di quel ribaltamento sociale. Se i comunisti non avessero perseguitato e umiliato «il grande scienziato», egli avrebbe lavorato al meglio per il proprio paese. E così gli altri esperti, gli specialisti borghesi dell'economia e dell'amministrazione, i professori, gli intellettuali. I giovani davano insomma per scontata la cooperazione da parte dello strato sociale sconfitto, e non avevano la minima cognizione della guerra civile, dapprima combattuta col sangue e poi vissuta tragicamente per decenni tra le pareti di casa, negli ambienti di lavoro, nei tribunali, nelle carceri, nei campi.
Non erano in grado di capire la sfida lanciata dai rukovoditel'y, i capi d'estrazione popolare contro gli intelligenty, gli intellettuali che a vario titolo facevano valere la propria funzione. Una funzione che prevedeva ruoli di comando nei luoghi dove si produceva, si amministrava, si studiava. Aspro e continuo era stato il conflitto tra il Partito comunista, al governo in nome dello strato sociale del lavoro esecutivo, e coloro che quel lavoro dovevano renderlo effettivamente esecutivo e cioè far funzionare fabbriche, uffici, scuole. Si trattava di chiedere, a chi si considerava al potere, di lavorare come prima del 1917, quando c'erano i padroni. E chiederlo in una situazione paradossale, essendo i dirigenti tecnici, intellettuali borghesi, messi su un gradino sociale e politico inferiore.
I ragazzi di Pietroburgo mi hanno subito replicato che era un assurdo: gli operai devono lavorare e quelli che hanno studiato devono comandare. Ho replicato che l'esperimento sovietico era consistito proprio in quell'assurdo, nella scommessa che la scala sociale rovesciata facesse funzionare il loro paese meglio di prima. E anzi che quello che stava accadendo nella Russia sovietica era assurto all'epoca come modello di riferimento per chi nel resto del mondo voleva liberarsi del capitalismo e della borghesia. Ho detto loro che per decenni quell'ipotesi, quel modello erano stati tenuti in considerazione in Europa, in America, nei paesi del terzo mondo. Erano increduli e straniti. E obiettavano: ma gli intellettuali europei, americani e tutti gli altri, come potevano auspicare un sistema sociale che li rendeva subalterni? E subalterni al Partito comunista, fatto di gente del popolo, di burocrati, di opportunisti?
E' allora che mi sono resa conto che non avevamo mai usato il termine «socialismo». E che potevo utilizzarlo senza danni per la mia credibilità spiegando che in passato gli intellettuali erano divisi al loro interno, tra chi in nome del socialismo voleva il cambiamento della società e dell'economia, e chi viceversa si riconosceva nel contesto borghese e capitalistico. In tutto il mondo, il 1917 e l'esperimento sovietico erano stati appunti identificati con il socialismo, erano la prova che il socialismo era possibile e che capitalismo e borghesia erano il passato.
Su una tale scommessa gli intellettuali si erano appunto divisi, tra quelli che per il socialismo accettavano i costi dell'apprendistato operaio e contadino del potere e quelli che ne denunciavano ogni mossa con disprezzo ed odio, covandone il fallimento. Padroni dei media, per 70 anni costoro hanno alimentato una furiosa guerra ideologica. Innanzitutto hanno negato al socialismo il carattere di esperimento, con un suo inizio, un suo svolgimento e fasi diverse e contraddittorie, terribili e tragiche, così come era accaduto al capitalismo nei suoi secoli di crescita, di crisi e di rinnovamento. Gli uomini del capitalismo hanno avuto tutto il tempo per sperimentare il proprio potere sugli uomini del lavoro, per passare dall'uso della forza alla ricerca del consenso.
Gli uomini del socialismo invece dovevano rispettare ogni virgola delle promesse contenute nei testi sacri che lo descrivevano. E fin da subito fu denunciato il distacco tra le belle parole dei libri e tutto ciò che i sovietici facevano, in nome degli operai al potere e del socialismo. Fin da subito da sinistra fu avallata l'ipotesi del tradimento del socialismo e dell'Ottobre nei confronti di chi per decenni rimase immerso e sommerso nella vita quotidiana dell'esperimento. Da destra invece la versione corrente fu che i russi in rivolta dovevano fermarsi al febbraio 1917 e lasciar fare ai Witte e agli Stolypin. Proprio come pensano oggi gli studenti di Pietroburgo.
Non vi sono più intelligenty disposti a rappresentare il punto di vista operaio sull'esperimento sovietico fallito, a indagare sulle ragioni del fallimento, a ripercorrere i 74 anni di vita dell'Urss. Non vi è più alcuna curiosità politica né culturale: né là né qui. Sul primo esperimento di potere operaio, è calato un macigno tale che forse è meglio negare addirittura che vi sia mai stato. Al massimo, gli intellettuali discettano sulla precarietà del lavoro, ma gli operai come attori politici sono usciti dal loro orizzonte. Non c'è più nessuno interessato a comporre i fili che legano le vicende dell'esperimento sovietico alla realtà degli operai di oggi.

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