8.11.07

L'Ottobre sovietico, quando la pratica incontrò la teoria

90° anniversario della rivoluzione d'ottobre :: essere comunisti

di Claudio Grassi* e Simone Oggionni**,
Liberazione, 7/11/2007

La notte tra il 6 e il 7 novembre del 1917 i bolsevichi occuparono le centrali del potere zarista: i ministeri, le banche, le stazioni ferroviarie, i telegrafi. La mattina seguente, mentre Kerensky era in fuga verso il fronte a bordo di un’automobile dell’ambasciata statunitense, le guardie rosse entrarono vittoriosamente nel Palazzo d’Inverno.
Sono passati, da quel giorno, esattamente novant’anni. E, come sempre accade negli anniversari dei grandi eventi, la politica è chiamata ad esprimere giudizi e compilare bilanci. Il più delle volte si tratta di giudizi e bilanci sommari, come se la complessità della materia storica potesse essere ridotta a lineari fatterelli ai quali far corrispondere sentenze definitive. Quando ad essere chiamata in causa, poi, è l’esperienza del comunismo novecentesco, la condanna è quasi sempre senza appello. Si tratta di un cumulo di tragedie ed orrori. Di una colossale macchinazione criminale che, come ed insieme al nazismo, ha precipitato l’umanità sull’orlo della barbarie. Il corollario di questo assunto è noto: chi lo contraddice è sovversivo e anti-democratico e, perciò, giuridicamente da perseguire.
 
Come è accaduto di recente in Repubblica Ceca, come l’on. Luca Volontè ha proposto che accada nel nostro Paese, rendendo anti-costituzionale “l’apologia di comunismo”.
Oltre che rigettare questo odioso revisionismo, vorremmo però sottrarci – in questo conciso ricordo della Rivoluzione d’ottobre - alle semplificazioni dei bilanci storici rispetto a cui prima si metteva in guardia.
Il primo elemento che ci pare, della Rivoluzione, di straordinario interesse è la sua piena internità alla storia moderna dell’emancipazione dell’essere umano. È lo stesso Lenin ad individuare la continuità essenziale tra la Rivoluzione francese (il luogo cioè della rivolta anti-assolutista del Terzo Stato), la Comune di Parigi (nella misura in cui essa è espressione del primo tentativo di auto-governo del proletariato urbano) e la Rivoluzione bolscevica. 1789, 1871 e 1917 sono tappe essenziali nel processo di emancipazione dell’uomo dalla schiavitù. Tanto sul piano del loro significato teorico-ideologico (in quanto cioè momenti decisivi della presa di coscienza delle prerogative inviolabili degli individui e delle masse), quanto sul terreno materiale dei diritti conquistati. Diritti sociali, come è ovvio, ma anche diritti civili. Pochi ricordano che due dei primissimi decreti della Russia sovietica riconobbero alla donna «il completo diritto all’indipendenza economica e sessuale» (nello spirito del «dissolvimento del modello autoritario della famiglia», per dirla con Wilhelm Reich) e, di conseguenza, il diritto al divorzio, all’aborto, nonché a fruire di una rete di assistenza sociale (dalle mense comunali alle lavanderie collettive ai nidi d’infanzia) indispensabile per trasferire concretamente alla società le funzioni di cura dei figli e della famiglia storicamente ad esclusivo carico delle donne.
Ed è proprio sul terreno materiale della ricerca e della conquista dei diritti e, prima ancora, della libertà che si colloca la seconda ragione di fecondità dell’esperienza rivoluzionaria sovietica: il suo essere stata causa scatenante della effettiva liberazione dalla servitù e dal dolore della guerra di sconfinate masse di popolo. Basti pensare ai circa cento milioni di oppressi che vivevano nel 1917 nella Russia zarista, oppure alle centinaia di milioni di poveri che, in America Latina come in Africa e in Asia, ricevettero dall’Unione Sovietica, dopo la fine della seconda guerra mondiale, un aiuto decisivo nel combattere e vincere le rispettive lotte di liberazione dalle forze coloniali. Oppure, ancora, al contributo indispensabile che l’Unione Sovietica diede affinché si concludesse nel più breve tempo possibile il primo conflitto mondiale («pane e pace» invocava Lenin nel dicembre 1917) e affinché, nel secondo, venisse sconfitto (al prezzo di 20 milioni di russi caduti) il nazi-fascismo.
E si pensi infine – anche se questa è invero una influenza indiretta – al sostegno che la realtà statuale che nacque dalla rottura rivoluzionaria del 1917 assicurò al movimento operaio di tutto l’Occidente, imponendo al capitalismo, laddove esso era modo di produzione dominante, di farsi garante dello sviluppo del sistema di welfare e dei diritti sociali.
Ma c’è dell’altro a rendere interessante e per certi versi attuale l’Ottobre sovietico, ed è il fatto che, in esso, il progetto di conquista del potere da parte del proletariato prese corpo, per la prima volta nella storia, nella forma dell’alleanza organica tra classe operaia e classe contadina. Forzando il termine, e quindi sottacendo l’embrionalità della società civile russa, lontana dalle forme ramificate e pervasive dell’Occidente capitalistico, possiamo dire che la Rivoluzione d’ottobre tentò di far nascere un “blocco storico” e quindi, intorno ad esso, un consenso egemonico diffuso. In altre parole, la Rivoluzione mise in connessione dialettica il programma rivoluzionario (teorico) e la trasformazione delle condizioni materiali di vita delle masse (pratica) proprio nella misura in cui trascese la pur necessaria fase della violenza rivoluzionaria nel momento alto dell’adesione del popolo al governo del Paese.
La concreta forma storica di questo consenso fu il Soviet e cioè, in nuce (come in Curiel e Gramsci il consiglio di fabbrica), l’autogoverno del proletariato. In questo andare della classe incontro ai propri bisogni attraverso strutture di governo “organiche” alla classe stessa sta l’ennesimo elemento di validità e vitalità dell’esperienza rivoluzionaria del 1917.
Perché, allora, la parabola del socialismo reale si è interrotta? Per molte ragioni, esterne ed interne. Per l’immaturità oggettiva delle condizioni date, in una Rivoluzione fatta – come scrisse Antonio Gramsci nell’editoriale dell’Avanti! del 24 novembre 1917 - «contro il Capitale di Karl Marx» e per la sproporzione delle forze nello scontro bellico ed ideologico contro il nemico (i bisogni indotti di una società in espansione e la più devastante potenza militare del mondo). Per le degenerazioni burocratiche di un apparato statale, dagli anni Trenta in poi, sempre più sclerotizzato e sempre meno democratico, e per errori, anche gravissimi, dei gruppi dirigenti che si sono susseguiti alla guida dell’Unione Sovietica.
A novant’anni da quel 7 novembre l’analisi dei meriti della Rivoluzione, così come dei meriti e anche degli errori di ciò che le è seguito, è necessaria. Ci aiuta a contrastare il revisionismo e la banalizzazione delle ricorrenze, certo. Ma – il che è ancor più stringente – ci impone di fare i conti con la nostra storia, di ragionare sugli errori per evitare di ripeterli e quindi di riflettere, sin dalle radici, sulla nostra identità culturale e politica. In fondo, accettare la sfida di rilanciare un pensiero ed una pratica comunista all’altezza dei tempi come noi vogliamo fare passa anche da qui, senza buttare, con l'acqua sporca, anche il bambino.

* Coordinatore nazionale di Essere comunisti
** Coordinatore nazionale dei Giovani E Comunisti

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