8.11.07

Perchè a distanza di novant'anni quanto accadde fa ancora paura?

La Rivoluzione che provò a sovvertire l'ordine delle cose
Novant'anni dopo, carichi di sconfitte e di tragedie, non ci rassegniamo a gettare alle ortiche la storia. colma
di contraddizioni laceranti, di mille idee giuste e di tante idee sbagliate. Da non cancellare ne idolatrare

Rina Gagliardi
Liberazione, 7/11/2007

Una domanda "semplice": come mai, a novant'anni di distanza, la Rivoluzione d'Ottobre continua ad essere rappresentata, a destra e a sinistra, come un misfatto della storia ? In fondo, l'Unione Sovietica non esiste più, da quasi vent'anni e il movimento comunista, nel mondo, non si aggira certo con la forza dello "spettro" di cui parlavano Marx ed Engels nel "Manifesto". In fondo, il revisionismo noltiano è a sua volta invecchiato, e ha comunque dispiegato da un pezzo i suoi effetti perversi nella cultura e perfino nel senso comune. Eppure, nei servizi del Tg2 o nell'ultimo libro di Vittorio Strada (o anche nelle polemiche di giornata, come quella che arriva a fare di Pol Pot un discendente del comunismo), i toni sono tutto fuorché distaccati - si va dalla denigrazione propagandistica, se non dalla demonizzazione, a falsità del tutto grossolane, quasi fossimo a ridosso del '17, o nel pieno di una battaglia politica e culturale del tutto attuale. Appunto: perché? Perché in fondo è vero quel che paventano i nostri avversari: la Rivoluzione d'Ottobre - non l'Urss, non il "socialismo reale", non il così detto comunismo fattosi Stato - è un evento di tale straordinarietà storica, e forza politica, che il suo valore simbolico, il suo fascino, i suoi effetti "sotterranei" non sono esauriti, a dispetto di tutte le sconfitte e le tragedie che l'hanno seguito. Perché, come avrebbe detto Cesare Luporini, essa "ci sta addosso" e resta fondativa della nostra coscienza politica moderna, e anche postmoderna. Perché è stata la prima grande scalata al cielo delle larghe masse, un'accelerazione colossale della storia, in cui si è provato - quasi contro l'evidenza, contro l'"immaturità delle condizioni oggettive" (la "rivoluzione contro il Capitale" di gramsciana memoria), contro l'apparenza dei rapporti di forza, a costruire l'aldilà sulla terra. Nemmeno la Rivoluzione francese, l'altra tappa costitutiva della modernità - aveva osato tanto, aveva potuto spingersi a immaginare una società davvero retta, nelle sue strutture portanti, sulle parole d'ordine della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità. L'Ottobre osò. E una nuova grande soggettività - il moderno proletariato organizzato - uscì dai sotterranei, come nella metropoli "metafisica" di Fritz Lang, occupò la scena, cambiò la faccia del XXesimo secolo. Tutto quello che accadde dopo, anche un attimo dopo la presa del palazzo d'inverno, non può cancellare questo dato gigantesco: la Rivoluzione degli ultimi , di coloro che "avevano da perdere solo le loro catene e un mondo da guadagnare" , era possibile, non più solo pensabile o desiderabile. Verum ipsum factum .
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Storicamente parlando, certo, l'Ottobre è inseparabile dal contesto in cui nacque, dalla tragedia della prima guerra mondiale ("la madre di tutte le guerre moderne"), che stava distruggendo milioni di vite - la "migliore gioventù d'Europa", ragazzi nel fiore degli anni, morivano sui campi di Verdun a centinaia di migliaia, in uno scontro fratricida, in uno scannatoio totale di cui si era perduta perfino la ragione formale. In questa autentica carneficina, che aveva spinto papa Benedetto XVesimo a lanciare il grido sulla "inutile strage" che si andava consumando, crollavano gli imperi centrali - e crollava la sinistra, quasi tutti i partiti dell'Internazionale socialista, che si erano di colpo scoperti patriottici, nazionalisti, bellicisti. Fu un'apocalissi, delle cose e delle coscienze, nella quale - a Lenin, ai bolscevichi ma non solo - il capitalismo e l'imperialismo sembrarono logicamente ad un passo dalla loro fase finale. Ma fu anche, allo stesso tempo, la necessità imperiosa di salvare l'umanità dal crollo che la stava travolgendo - la guerra che non finiva, la fame che attanagliava milioni di persone, la miseria morale e materiale che avvolgeva la società. In questo quadro, nella Russia degli Zar, poteva bastare la cacciata dei Romanov, la "rivoluzione borghese" e "liberale" di febbraio?
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A questo interrogativo menscevico e kautskyano (che ricompare, con disonesta insistenza, anche nel dibattito contemporaneo), si deve rispondere che no, un governo come quello Kerenskij non poteva bastare neppure ai fini borghesi e liberali : per la sua debolezza di fondo, per la sua cecità progettuale e soprattutto per la sua scelta di guerra, esso non garantiva alla Russia né futuro né stabilità. "Sulle brucianti questioni della pace e della terra" scrisse Rosa Luxemburg ("La rivoluzione russa") non era possibile nessuna soluzione nella cornice della rivoluzione borghese": in concreto, le alternative si ridussero subito a due, o vittoria della controrivoluzione zarista o insurrezione proletaria, "o Kaledin o Lenin". E con Lenin vinse, per qualche anno, non solo la speranza di una nuova Russia, ma di una rivoluzione europea, che aveva in Germania il suo naturale luogo di elezione. Qui, nella sua più avanzata trincea, invece la rivoluzione fu sconfitta - e ne seguirono, logicamente , il fascismo e il nazismo
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Ma si può separare davvero una rivoluzione dai suoi esiti, senza scaricarli addosso alla sua scintilla originaria, alle sue intenzioni, alle sue finalità? Questa, certo, è tutto fuorché una domanda "semplice", è anzi un interrogativo drammatico, che ci pesa addosso quasi come il carattere irreversibile e necessario della rivoluzione stessa. A tutt'oggi, siamo in grado - forse - soltanto di dar conto delle tante singole cause che spensero presto la spinta rivoluzionaria e liberatoria dell'Ottobre e trasformarono l'Unione Sovietica, sotto il lungo regno di Stalin, in un regime oppressivo, sanguinario, fondato sul terrore e la passività di massa. Ma non siamo in grado di spiegare davvero come e perché un'impresa di questa grandezza abbia potuto smarrirsi, nel corso degli anni, fino al punto da convertirsi pressoché nel suo opposto.
Certo, non noi, poveri posteri, ma i contemporanei e anzi i protagonisti dell'Ottobre avvertirono ben presto non solo la difficoltà di un'impresa che si presentava comunque titanica, ma i segni di una sconfitta imminente. In un'intervista ai giornalisti americani Lincoln Steffens e William Bullitt, Lenin disse che "l'esperienza del comunismo è parzialmente riuscita, ma in molti punti è fallita" : era il 1919, e già nel grande rivoluzionario bolscevico, ben prima che si ponesse i dilemmi del celebre "Testamento" o di "Meglio meno, ma meglio", c'era questa acutissima consapevolezza. Certo, Rosa Luxemburg, che pure si schierò risolutamente e con forza con l'Ottobre, vide prestissimo che cosa nell'esperienza sovietica non stava funzionando: la politica agraria, destinata a creare una classe reazionaria di piccoli proprietari; l'ossessione del "diritto di autodecisione delle nazioni"; il soffocamento della democrazia soviettista. E scrisse ahimè già nel 1918, parole profetiche: "Senza elezioni generali, senza libertà illimitata di stampa e di riunione, senza libera lotta di opinioni, la vita muore in ogni istituzione pubblica, diviene vita apparente, dove la burocrazia rimane l'unico elemento attivo. La vita pubblica cade lentamente in letargo; qualche dozzina di capi di partito di energia instancabile e illimitato idealismo dirigono e governano; tra loro guida in realtà una dozzina di menti superiori; e una élite della classe operaia viene convocata di quando in quando a delle riunioni per applaudire i discorsi dei capi e per votare all'unanimità le risoluzioni che le vengono proposte - è dunque in fondo un governo di cricca, una dittatura, certamente, ma non la dittatura del proletariato, bensì la dittatura di un pugno di uomini politici; una dittatura nel significato borghese…Una tale situazione porta necessariamente all'inselvatichimento…attentati, fucilazioni di ostaggio, violenze…" . E ne trasse, Rosa, conseguenze molto precise: non solo che i bolscevichi non potevano proporre la loro esperienza come un modello da realizzare altrove, nel resto d'Europa, ma che "la democrazia socialista non comincia solo nella Terra promessa, dopo che è stata creata la sovrastruttura economica socialista…comincia insieme all'opera di distruzione del dominio di classe e di costruzione del socialismo" . Mentre elaborava giudizi così duri e così lucidi, tuttavia, la Luxemburg non dubitò mai, neppure per un istante, da che parte si poteva e si doveva stare - in fondo, ebbe ancora a scrivere e a dire, gran parte dei limiti del bolscevismo, fino al terrore, erano da imputare a noi, al "tradimento" del movimento operaio occidentale. E il socialismo, ieri come allora, non si poteva fare "in un solo Paese". In un solo Paese si poteva vincere, nella cruda partita della conquista e del mantenimento del potere centrale. Si poteva dar vita ad uno sviluppo industriale accelerato, fino a diventare una superpotenza mondiale. Si poteva, ancora, costringere l'occidente capitalistico a scelte di compromesso sociale, restando un riferimento simbolico per gli oppressi del mondo. Ma non si poteva vincere la sfida essenziale, quella della liberazione di massa dallo sfruttamento e dall'alienazione - quella della libertà. Quando, nei primissimi anni '20, la rivoluzione tedesca ed europea venne definitivamente sconfitta, insieme al movimento dei consigli, e in Italia si affacciava il fascismo, la Russia sovietica imboccò un'altra strada, quella della sua crescita nazionale, che non poteva che svolgersi sotto il segno dell'autocrazia più spietata. Un tale "rovesciamento" dei fini, e del rapporto tra mezzi e fini, è sempre in agguato - ma non c'è alcuna "legge della storia", a meno di leggere la storia stessa in termini goffi e meccanici, che autorizzi a vedere una coerenza stringente, o inesorabile, tra le origini di un processo e i suoi risultati, tra le intenzioni e gli esiti, tra le ambizioni ideali e la loro effettiva incarnazione. La storia, appunto, non è mai "scritta prima", è fatta di processi aperti a diverse possibilità - e un'altra possibilità si dà, si è data, quasi sempre. Così, il Terrore non nasceva come diretta conseguenza del secolo dei Lumi e della rivolta del Terzo Stato; l'Inquisizione di Torquemada, o la persecuzione degli ebrei, o le crociate, o la corruzione vaticana non erano "consustanziali" al cristianesimo; il genocidio degli indiani, o l'atomica su Hiroshima e Nagasaki, o l'imperialismo, non "svelano" l'essenza dell'ideologia liberale. Così, lo stalinismo, e i settant'anni di storia dell'Unione sovietica, non rappresentano il destino obbligato della Rivoluzione socialista. Perchè, se no, dopo tanti decenni, una nuova generazione avrebbe ricominciato a dire che "un altro mondo è possibile"?
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Noi, novant'anni dopo, carichi di sconfitte e di tragedie, non ci rassegniamo, dunque, a gettare alle ortiche la storia - anche la nostra straordinaria storia fatta di ascese, glorie, sacrifici, atrocità, ingiustizie. Sì, colma di contraddizioni laceranti, di speranze deluse come di vittorie effimere, di battaglie vinte come di guerre perdute, di mille idee giuste e di tante idee sbagliate. Non la cancelliamo e non la idolatriamo: piuttosto, non smettiamo di interrogarla, di indagarla, di "rammemorarla", secondo gli insegnamenti di Walter Benjamin, di impararne le lezioni necessarie. Compreso il bene che ha fatto all'umanità e alla civiltà l'esistenza dell'Urss, retta da una dittatura feroce, quando a Stalingrado fermò la barbarie nazista. Compreso il male che lo stalinismo ha fatto a noi, al movimento operaio e comunista. Compresa la più difficile e la più necessaria delle revisioni, che ci ha portato - ha portato molti di noi - ad aderire alla scelta strategica della nonviolenza, della critica del potere, dell'idea di una Rivoluzione capace, finalmente, di non annientare i suoi nemici e di attraversare intiera la complessità delle contraddizioni umane - di classe, di genere, di ambiente. Se mai ce la faremo, e se ce la faremo senza ripiombare nella maledizione degli stessi errori, degli stessi fratricidi, delle stesse ingiustizie, come in un eterna coazione a ripetere, dovremo ancora volgere uno sguardo commosso a quel pugno di uomini che, in quel giorno d'Ottobre novant'anni fa, mentre il mondo stava crollando, ci provarono. A scrivere un'altra storia.

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