27.1.08

Il ricordo della Shoah riguarda tutti

di David Bidussa
(tratto da Liberazione del 26/01/2008)

La Giornata della memoria non è la giornata dell'identità ebraica

Nel luglio 2000 una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola Shoah (letteralmente annientamento) ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico. A differenza di allora forse oggi è più radicata la percezione di quell'evento. E' apprezzabile che lo sia.
Da molte parti si è detto e spesso si è tornati a ripetere che occorreva fissare la memoria della Shoah proprio per prevenire l'eventualità dell'oblio. Questo richiamo sembra pertinente ogni qualvolta il nome Auschwitz (o alternativamente: forni) viene usato "con leggerezza" (per esempio tra tifoserie avversarie allo stadio).
Sarà banale dirlo, ma vorrei osservare che se qualcuno "invita" qualcun altro ad incamminarsi verso Auschwitz, non è in conseguenza di un vuoto di memoria. Chi esalta allo stadio Auschwitz, lo fa perché di Auschwitz sa quanto meno l'essenziale: che vi furono sterminate milioni di vittime vagheggiate come nemici mortali.
Serve allora la solita lezioncina moralistica sul male? Si può pensare alla memoria come momento non solo celebrativo?
Vorrei osservare quattro cose a proposito di questa questione.
Prima questione. Il Giorno della memoria - il 27 gennaio - non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civico e pubblico. Non c'è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato o corporativo. E' l'evento strutturale in cui noi europei abbiamo conosciuto le nostre "potenzialità". Forse la Shoah ha modellato l'identità ebraica, individuale e collettiva. Ma il 27 gennaio non è il giorno dell'identità ebraica, né la riguarda. Il giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell'Europa con cui l'Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Su questo sarebbe bene tenere dritta la barra. Anche perché intorno a questa questione non c'è nessuno che in Europa possa tirarsi fuori o considerarsi esente.
Seconda questione. La macchina della Shoah mirava a una distruzione totale di individui - meglio di classi di individui classificati come razze inferiori (ebrei, zingari, omosessuali, malati mentali, ma anche politici considerati come una malattia genetica che andava tagliata alla radice, ovvero eliminata) e necessitava di un complesso concorso di strutture e di individui singolari coinvolti passivamente o attivamente, in ogni caso al più "indifferenti". Il che significa che fare i conti con quell'evento implica abbandonare la retorica del bravo cittadino (nella variante nostrana il mito sempre pronto del "bravo italiano"). Il che non riguarda solo il passato. Riguarda soprattutto il presente, ovvero l'abbandono della retorica sull'Italia, sull'autoconsolazione della società civile. Da questo lato il Giorno della Memoria è anche sfida alla nostra retorica nazionale.
Terza questione. Negli anni scorsi nel linguaggio corrente è stata spesso usata la categoria di nazismo in riferimento alla guerra nei Balcani. Per certi aspetti quel confronto è eccessivo; per altri, invece, è fondato e pertinente. In ogni caso dice che la Shoah è un fenomeno comparabile e che è utile che lo sia.
Nell'ambito dei conflitti etnici il sistema di sterminio si colloca dentro una successione premoderna. E' la scena tipica del "giorno dopo" della conquista della città tra Antichità ed Età moderna da parte delle truppe assedianti: si uccidono gli uomini, si stuprano le donne, si usa violenza fisica sui bambini. Auschwitz sancisce un altro meccanismo di distruzione del corpo, in cui è prevalente il dato simbolico, accanto a quello sistematico della distruzione. Lì sta la sua modernità e il fatto che parli a noi, vivi.
Ora invece consideriamo un aspetto per cui quella comparazione non solo è pertinente ma allude significativamente alla nostra quotidianità di oggi.
Perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto, ovvero di una cosa che segni collettivamente uno scarto tra "prima" e "dopo". La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto. Un aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, e nella guerra ai civili e ai laici nell'Algeria degli anni '90. Due casi emblematici in cui, per rimanere al nostro tema, non si è attivata memoria. Né allora, né finora.
Quarta questione. La memoria non è un fatto. E' un atto. Proprio perché la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, ovvero serve per fare qualcosa. La memoria non è la ripetizione di una cosa avvenuta nel passato o che si è deciso di valorizzare del passato. E' un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa. E questo qualcosa non è un fatto, è un atto. Qui vorrei tornare al dato pertinente della guerra dei Balcani degli anni '90.
I libri non sono oggetti, sono simboli di grande significato collettivo. Dicono chi ha vissuto in un luogo e dicono se quella testimonianza e quella traccia parlano per tutti in quel luogo.
A lungo nel secondo millennio la guerra agli uomini e alle donne è stata la guerra ai libri. Potevamo pensare che questa scena riguardasse un passato lontano che non parlava più a noi come spettatori ma continuava a parlare per noi in quanto uomini e donne che hanno la tenacia di credere che un mondo migliore è possibile, o almeno auspicabile. La guerra al libro, ha costituito una delle tante guerre della Seconda guerra mondiale. Una guerra in cui così come si bruciavano uomini e donne si bruciavano libri. Pensavamo appunto che questa guerra specifica, almeno, appartenesse ormai a un passato remoto. Questa guerra è invece ripresa e i libri sono tornati bruciare a Sarajevo nell'agosto 1992.
Proviamo a ripercorrerla quella scena.
I miliziani serbi, appostati sulle colline che circondavano Sarajevo, battevano l'area intorno alla biblioteca con il fuoco delle mitragliatrici, cercando di impedire ai vigili del fuoco di spegnere l'incendio lungo le rive della Miljaka, nella città vecchia.
Quando è stato chiesto a Kenan Slinic, comandante dei vigili del fuoco, perché mai rischiasse la vita, egli ha risposto: "Perché sono nato qui e loro stanno bruciando una parte di me".
Può apparire una risposta ovvia, eppure nasconde un confronto con il significato profondo della guerra al libro che deve far riflettere anche sulla guerra agli uomini. In tutta la Bosnia biblioteche, archivi, musei e altre istituzioni culturali pubbliche e private furono destinate alla distruzione, non perché non avevano valore venale - e dunque se ne poteva fare anche a meno. Al contrario, proprio perché avevano un alto valore simbolico. L'intento, infatti, era quello di cancellare le testimonianze materiali - libri, documenti, opere d'arte - che potessero rammentare alle generazioni future che vi fu un tempo in cui persone di diverse tradizioni etniche e religiose condividevano in Bosnia la vita e un patrimonio comune. Quei documenti, infatti, erano la prova che in quel luogo vivevano anche altri, altri che lì avevano le proprie radici. Questo, preliminarmente, voleva dire Kenan Slinic quando affermava che stavano bruciando una parte di sé. Ma voleva dire anche altro. Si può resistere alla presunzione di chi crede di riscrivere la storia per tutti: per quelli che si candida a rappresentare, per quelli che opprime e per coloro che verranno. Per farlo non è necessario essere eroi, occorre avere memoria. La memoria, ovvero la capacità di agire ora per fare in modo che il futuro non riproduca la violenza del nostro passato. Qui sta il valore civico e prescrittivo del Giorno della memoria.

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